Riforma penitenziaria: domani rush finale al Consiglio dei ministri di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 dicembre 2017 Più risorse per l’esecuzione penale esterna. E un sempre più probabile via libera alla sospirata riforma penitenziaria nel Consiglio dei ministri di domani. Il guardasigilli Andrea Orlando l’aveva promesso e tiene fede alla parola data. Riguardo al potenziamento dell’organico del servizio sociale in forza all’esecuzione penale esterna, e a un sensibile aumento degli stanziamenti di bilancio per migliorare l’attività degli uffici, il ministro della Giustizia si era impegnato in occasione di un’interrogazione parlamentare. Da una parte dunque è in corso un rush finale che tiene impegnati gli uffici tecnici di Palazzo Chigi e di via Arenula per avere sul tavolo del Consiglio dei ministri di domani i decreti legislativi sul carcere. Dall’altra, è stato approvato un emendamento della legge di Bilancio 2018, che permette 296 assunzioni di assistenti sociali per il nuovo Dipartimento di Giustizia minorile e di comunità. Arriva un plauso da Gianmario Gazzi, presidente del Consiglio nazionale degli assistenti sociali: “La decisione della Commissione bilancio della Camera di dare il via libera alla proposta di rendere funzionalmente più idonei gli Uffici di servizio sociale del Ministero della Giustizia - preposti alla esecuzione penale esterna dei minori e degli adulti in coerenza con la nuova attenzione del Legislatore verso forme trattamentali diverse dalla detenzione nonché di sospensione del procedimento penale dell’imputato e sua messa alla prova - prevedendo, per il triennio 2017/ 2019, l’assunzione di 296 assistenti sociali, va nella direzione giusta”. Continua ancora Gazzi: “Si tratta di un risultato decisivo tutto finalizzato, nell’importante e delicatissimo campo della esecuzione penale esterna, a migliorare il servizio reso ai cittadini e che si inserisce nell’alveo della recente riforma della organizzazione del Ministero della Giustizia che ha ridisegnato, dopo decenni caratterizzati da tagli agli organici del personale, nessun turnover e tagli lineari alle risorse finanziarie, il nuovo ruolo del Servizio sociale ed in particolare della figura dell’assistente sociale”. E conclude: “Va dato atto al Ministro Orlando di aver mantenuto l’impegno formulato nell’aprile del 2016 nel corso di un incontro con il Consiglio nazionale ed anzi di aver sensibilmente rafforzato la presenza degli assistenti sociali nell’esecuzione penale esterna. Inizialmente, infatti era prevista l’immissione di 60 nuove unità nel biennio 20172018 ora invece salite alle 296 attualmente previste”. L’emendamento approvato, inoltre, risulta essenziale in vista della riforma dell’ordinamento penitenziario che, tra le altre cose, intende valorizzare di più l’esecuzione penale esterna. Ricordiamo che siamo ad un passo dall’approvazione e i decreti attuativi potrebbero, a breve, passare al vaglio del consiglio dei ministri. A premere affinché ciò avvenga è ancora una volta il Partito Radicale attraverso l’azione non violenta. Dalla mezzanotte di martedì scorso, infatti, Rita Bernardini della presidenza del Partito radicale e Deborah Cianfanelli, presidente del comitato Radicale per la Giustizia “Pietro Calamandrei”, hanno intrapreso nuovamente lo sciopero della fame. Iniziativa nonviolenta sostenuta anche dai radicali di Milano Lucio Bertè e Mauro Toffetti. Ma che cos’è l’esecuzione penale esterna e perché è così importante rafforzare l’organico? Si tratta dell’applicazione di misure alternative al carcere e sanzioni di comunità, applicabili, grazie alla nuova legge sulla “messa alla prova”, anche prima della sentenza di condanna. Una misura, non detentiva, che abbassa la recidiva e quindi crea più sicurezza nella società. Fino a 2 anni fa faceva parte del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap). Dal 2015 è passata al Dipartimento della Giustizia Minorile, che ha assunto la dicitura di Dipartimento di Giustizia Minorile e di Comunità. Questa contaminazione con il settore minorile ha lo scopo di valorizzare la pena scontata sul territorio, rispetto all’internamento carcerario, come avviene per i giovani: a fronte di poche centinaia di ragazzi reclusi, molti sono i giovani autori di reato affidati a servizi sociali ed esecuzione esterna. Gli uffici predisposti a tale applicazione sono gli Uepe (Uffici di Esecuzione Penale Esterna) che hanno il compito di gestire l’applicazione delle misure alternative concesse dai Tribunali di Sorveglianza ai condannati che per i loro particolari requisiti possono espiare la pena nell’ambiente esterno, anziché negli Istituti penitenziari. Inoltre gli Uffici svolgono su richiesta dell’Autorità giudiziaria le “inchieste sociali” e le “indagini socio-familiari”, e prestano consulenza negli Istituti Penitenziari per favorire il buon esito del trattamento penitenziario. Nell’attuare i propri compiti istituzionali l’Ufficio si coordina con Istituzioni pubbliche e private e Servizi Sociali presenti nel territorio. La finalità del reinserimento nella società, secondo le ultime ricerche nel settore, viene raggiunta in misura maggiore quando l’esecuzione della pena avviene all’esterno del carcere. Studi di settore hanno evidenziato una percentuale di recidiva del 70% dei condannati che hanno espiato la pena in Istituto penitenziario contro una percentuale di recidiva del 20% tra condannati che hanno beneficiato di una misura alternativa. Tuttora nuovi studi confermano l’efficacia anche in termini economici delle misure alternative per garantire il reinserimento sociale dei condannati. L’emendamento approvato per la legge di bilancio che prevede l’assunzione di nuovi assistenti sociali è di vitale importanza per attuare questo percorso. Natale, dal carcere i regali contro la recidiva di Renato La Cara Il Fatto Quotidiano, 22 dicembre 2017 E gli oggetti raccontano storie di vita di chi vuole il riscatto. Si tratta del progetto “Happy Good Xmas” organizzato e promosso dal Consorzio Vialedeimille di Milano che vede coinvolti direttamente circa duecento persone tra detenuti, ex carcerati e volontari incensurati. I “nuovi” regali di Natale contro la recidiva e a sostegno dell’inclusione di detenuti ed ex carcerati nella società. Bottiglie di vino, barattoli di marmellata, differenti tipi di panettoni, borse, cashmere, corone dell’avvento, cioccolata, grembiuli gourmet ma anche calendari e cartoline colorate, oltre a fiori e piante e molto altro ancora. Tante produzioni, alcune realizzate anche a mano e in maniera artigianale, che raccontano “storie di vite a volte inimmaginabili, ma reali e pronte al cambiamento e al riscatto sociale”. Si tratta del progetto “Happy Good Xmas” organizzato e promosso dal Consorzio Vialedeimille di Milano che vede coinvolti direttamente circa duecento persone tra detenuti, ex carcerati e volontari incensurati. “L’obiettivo del Consorzio - spiegano i cooperatori sociali - è quello di promuovere percorsi concreti di reinserimento sociale delle persone private della libertà e prevenire la recidiva con il lavoro: tutto questo lo si ottiene anche acquistando i regali di Natale realizzati da persone detenute”. “Quest’anno - dicono i promotori del progetto - i regali natalizi si possono acquistare presso Viale Dei Mille 1, angolo piazzale Dateo, nella sede della nostra organizzazione senza scopo di lucro che riunisce cinque cooperative sociali”. Le coop lavorano nelle carceri lombarde di San Vittore, Milano-Opera, Bollate e Monza. L’iniziativa di inserimento professionale di persone detenute o uscite dalle case circondariali è nata “da un’intuizione del Comune di Milano-Assessorato alle politiche del Lavoro. Le cooperative sociali che appartengono al Consorzio (In-Opera, Coop soc. il Gabbiano, Coop soc. Alice, Bee4 Altre Menti, Coop soc. e.s.t.i.a. e Opera in fiore) - spiegano gli organizzatori - impiegano circa 120 detenuti (90 uomini e 30 donne)”. “Il lavoro mi ha salvato. Ho fatto 23 anni di carcere. Ma ora ho un lavoro e non penso più a delinquere. Semplice no? Senza lavoro sei un disperato”. Queste sono le parole di Carlo, classe ‘54, milanese doc, che lavora al Consorzio Vialedeimille con regolare contratto e ogni giorno racconta l’inusuale filiera dei prodotti in vendita con una tale passione che molti clienti ritornano anche solo per salutarlo. Con lui lavora anche Sebastiano, che ogni mattina esce dal carcere di Milano-Opera e viene nel negozio gestito dal Consorzio a lavorare nel nuovo reparto panetteria grazie all’art. 21 (l’art. 21 non è una vera misura alternativa alla detenzione ma un beneficio, concesso dal direttore dell’Istituto di pena, che consiste nella possibilità di uscire dal carcere per svolgere un’attività lavorativa). “L’altro giorno una cliente mentre comperava il pane mi ha detto che suo figlio adolescente sta prendendo una brutta piega. Frequenta sbruffoni e mezzi delinquenti. Le ho detto di portarlo qui, che gli avrei raccontato che cos’è il carcere e chi sono i veri eroi!”. La signora poi è tornata. E suo figlio sembra aver capito, racconta Sebastiano. Rispetto agli altri anni, le novità del Natale 2017 sono stati “i mercoledì al Consorzio con il panettone per tutti”. Nei due mercoledì pomeriggio precedenti il 25 dicembre è stata offerta una fetta di panettone alla cittadinanza, invitando anche anziani del quartiere, disabili, persone svantaggiate e tutti gli amici. “Il senso dell’iniziativa - raccontano i promotori - è stato quello dell’amicizia esprimendo gratitudine alla città che accoglie il lavoro delle persone detenute e il loro impegno verso il cambiamento”, frutto di un “percorso interiore difficilissimo”, agevolato anche da questi progetti solidali. “I nostri panettoni sono buoni e fanno bene - affermano alcuni cooperatori sociali - Buoni perché realizzati con impegno e passione da persone detenute che con il lavoro si stanno guadagnando una vita migliore e un futuro più degno. Fanno bene perché rimettono in moto l’economia carceraria, creando percorsi virtuosi inaspettati ma sostenibili, con nuovo lavoro che previene la delinquenza e la recidiva. Un gesto di responsabilità sociale per aziende e privati, semplice ma di grande impatto”. I motivi per cui la Penitenziaria vuole l’accorpamento nella Polizia di Stato di Simone Micocci money.it, 22 dicembre 2017 Accorpare la Polizia Penitenziaria nella Polizia di Stato per risolvere i problemi del sistema carcerario italiano: lo chiede l’Europa, ecco perché l’Italia dovrebbe adeguarsi. 4 motivi per cui la Penitenziaria vuole l’accorpamento nella Polizia di Stato. Dell’accorpamento della Polizia Penitenziaria nella Polizia di Stato se ne parla da mesi, ma al momento si tratta solamente di indiscrezioni non confermate dagli addetti ai lavori. D’altronde per far luce su questa evenienza bisognerà attendere la prossima legislatura visto che ormai non ci sono i tempi tecnici per procedere con un accorpamento dei due corpi di Polizia. Tutto dipenderà dalle intenzioni del prossimo Governo e dalle forze politiche che ne saranno a capo. Quello che ci interessa in questo momento è l’opinione del personale della Polizia Penitenziaria, coloro che sarebbero direttamente coinvolti nell’accorpamento. A tal proposito ci è d’aiuto un articolo pubblicato qualche giorno fa dal giornale online “Polizia Penitenziaria-Società, Giustizia e Sicurezza” firmato da Matteo Riccardi, al quale è seguita una risposta di un sindacalista del Sappe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria). Entrambi gli interventi sono a favore dell’accorpamento della Polizia Penitenziaria nella Polizia di Stato, soluzione necessaria per risolvere i problemi del sistema carcerario italiano. Nel dettaglio, dall’analisi congiunta di questi due interventi possiamo individuare diverse motivazioni per cui l’accorpamento oggi potrebbe essere una soluzione volta ad una maggiore efficienza delle forme di detenzione presenti sul territorio. Perché l’accorpamento Polizia Penitenziaria-Polizia di Stato è necessario - Mentre l’accorpamento della Guardia Forestale nell’Arma dei Carabinieri ha suscitato non poche polemiche da entrambe le parti, sembra che un’unione tra Polizia Penitenziaria e Polizia di Stato verrebbe accolta in maniera differente. Dalla lettura dei comunicati pubblicati sul periodico “Polizia Penitenziaria” emergono diverse argomentazioni a sostegno di questa tesi. Noi abbiamo individuato 4 motivazioni per cui l’accorpamento oggi è necessario; vediamo quali sono. 1) Perché l’Europa ce lo richiede. Accorpando la Polizia Penitenziaria nella Polizia di Stato, l’Italia si adeguerebbe alle disposizioni dell’Unione Europea. Da tempo infatti l’Italia riceve delle segnalazioni dall’Europa in merito all’eccessiva frammentazione delle Forze di Polizia. 2) Non sono i poliziotti a doversi occupare della gestione dei detenuti. Sempre l’Europa rimprovera l’Italia per una mancanza di cesura tra le Forze di Polizia e i soggetti deputati alla gestione degli Istituti Penitenziari. Non sono i poliziotti infatti a doversi occupare delle gestione dei detenuti, ma dei professionisti in ambito psico-pedagogico con le competenze tali da affrontare le diverse problematiche. I poliziotti dovrebbero occuparsi della sola sicurezza delle carceri, un ruolo solamente di controllo della struttura detentiva e sul territorio delle misure alternative alla detenzione. 3) Per far fronte alla carenza di personale. Nell’intervento pubblicato da Polizia Penitenziaria si lamenta lo sfacelo del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) e del Ministero della Giustizia “concentrato nella ricerca di voti e dunque interessato solo ad aumentare le mercedi ai detenuti ed ad inseguire le chimere del recupero di Personale di Polizia Penitenziaria per i servizi d’istituto tramite una riduzione degli organici delle sedi”. Il taglio degli organici della Polizia Penitenziaria applicato con la Legge Madia è un dato reale e la colpa di ciò è imputabile al Dap colpevole di non essere riuscito in passato a ottenere l’autorizzazione alle assunzioni che invece sono state garantite agli altri corpi delle Forze Armate. L’unica soluzione contro l’inadeguatezza del Dap è quella di convogliare sotto un’altra amministrazione, ossia sotto la gestione del Ministero dell’Interno a capo della Polizia di Stato. 4) Per creare un nuovo sistema di detenzione. Secondo il sindacalista del Sappe, invece, è necessario riformare l’attuale sistema penitenziario: bisogna infatti ricostruire un Corpo di Polizia che abbia il compito di tutelare la sicurezza pubblica come “fattore implicito della pena”. La rieducazione del detenuto è l’obiettivo principale delle misure detentive, poiché come è logico un delinquente rieducato è meno incline a commettere dei reati. Il carcere dovrebbe essere quindi un “deterrente per soggetti estremamente pericolosi e non una discarica sociale dove rinchiudere tutti indistintamente” e per questo motivo bisogna incrementare le forme di detenzione “extra moenia” (fuori dal carcere), con la pena che deve essere comminata alla pericolosità sociale del reo. “Più attenzione sui reati d’odio”, Orlando chiede aiuto alla magistratura di Paolo Berizzi La Repubblica, 22 dicembre 2017 Il Guardasigilli nelle sue linee guida per la scuola superiore di formazione chiede “appositi momenti formativi dedicati all’approfondimento della questione”. I reati d’odio aumentano? I tribunali devono porre un argine. Si moltiplicano - come accaduto negli ultimi mesi - i casi di discriminazione razziale, negazionismo, apologia di nazifascismo? Di fronte a questa “onda nera” occorre che le procure intervengano tempestivamente. Lo sostiene il ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Il quale sul tema, adesso, chiede ai magistrati maggiore attenzione. E un approfondimento specifico, con un corso ad hoc. Tecnicamente si chiamano “linee guida sulla formazione”. Tradotto in pillole, è l’input che il Guardasigilli trasmette ogni anno alla scuola superiore della magistratura. Insomma: su che cosa, in particolare, deve concentrarsi l’azione giudiziaria. Scrive Orlando al comitato direttivo della scuola: “È stata registrata negli ultimi tempi un’intensificazione degli episodi di antisemitismo rispetto ai quali pare cogliersi un calo dell’attenzione tanto nel contesto sociale quanto nelle risposte giudiziarie, oscillanti e non sempre assistite da percorsi motivazionali compiutamente sviluppati. Sembra quindi necessario - continua il ministro - prevedere appositi momenti formativi dedicati all’approfondimento sul punto, da inquadrarsi nel più ampio ambito del contrasto ai crimini d’odio”. Vengono in mente recenti casi di cronaca. Casi sui quali sono state aperti fascicoli di indagine che però poi, talvolta, si sono “spiaggiati” in richieste di archiviazione, o in avvenute archiviazioni. La parata dei mille saluti romani il 29 aprile al cimitero Maggiore di Milano, per esempio (iniziativa dei camerati di Casa Pound e Lealtà Azione). O il caso della spiaggia fascista “Punta Canna” di Chioggia. E poi il manifesto razzista lanciato sui social da Forza Nuova con la donna bianca violentata da un uomo nero (sul modello di una locandina della Rsi). Fino alla vicenda degli adesivi con l’immagine di Anna Frank vestita con la maglia della Roma. Proprio per evitare “cali di attenzione” e “riposte giudiziarie oscillanti”, il ministro della Giustizia ha chiesto l’introduzione di un corso apposito. Si terrà a Scandicci dal 15 al 17 ottobre 2018. Titolo: “Le disposizioni penali in materia di neofascismo, negazionismo e crimini d’odio”. Partendo dalle leggi vigenti - la Scelba del 1952, la Mancino del 1993 - e ovviamente dalla XII disposizione transitoria finale della Costituzione che vieta appunto sotto qualsiasi forma la ricostituzione del disciolto partito fascista, ai responsabili della scuola magistrati verrà chiesto anche uno sforzo ulteriore. “Un focus sulle indagini in materia di reati d’odio on line e sull’interazione tra magistratura, forze dell’ordine e piattaforme informatiche. Interazione - scrive ancora Orlando - finalizzata a ottenere la rimozione di contenuti dannosi dalla rete, ma anche un’efficace collaborazione per individuare gli autori dei reati”. Idee per una giustizia non “a orologeria” di Piergiorgio Morosini* Il Fatto Quotidiano, 22 dicembre 2017 Ormai è una consuetudine. Alla vigilia di importanti scadenze elettorali, c’è chi agita lo spettro della “giustizia a orologeria”. E i più accaniti ci mettono in guardia dai “protagonismi” e dalle “invasioni di campo” dei pubblici ministeri. Così per i prossimi mesi è facile immaginare che su ogni iniziativa giudiziaria politicamente sensibile fiocchino le accuse di interferenza sul voto. Ma la magistratura non può abdicare al suo ruolo sino alle elezioni o sospendere la sua azione solo per alcune categorie di soggetti. Piuttosto deve fare i conti con la realtà dei nostri giorni. In Italia, e non solo, il “centro di gravità” della giustizia penale si è spostato. L’attenzione dei media, e quindi dei cittadini, non si concentra più sul processo, con le tesi di accusa e difesa, o sulle sentenze, ma sulle indagini. Talvolta, basta un avviso di garanzia, una perquisizione o una intercettazione a produrre effetti irreversibili su dinamiche politico-istituzionali o su assetti imprenditoriali. Una pericolosa anomalia. Che ha tante ragioni. Non ultime il dilagare del malaffare e l’assenza di forme efficaci di responsabilità extra penale. Ma è la magistratura che, per prima, non deve farsi strumentalizzare da chi intenda sfruttare elettoralmente vicende processuali. In questi anni, le procure si sono date regole stringenti per la segretezza delle intercettazioni, per filtrare le denunce di privati o di associazioni che chiedono di indagare, per i rapporti con la stampa. E il Consiglio Superiore della Magistratura, di recente, ha promosso la “tracciabilità” della gestione degli uffici requirenti nella individuazione delle priorità e nella distribuzione delle indagini. Con criteri oggettivi e controllabili nelle assegnazioni dei procedimenti, che riducono il potere arbitrario dei capi degli uffici e la concentrazione dei “fascicoli sensibili” nelle mani di pochi pm. All’evidenza, sono misure volte a prevenire la strumentalizzazione dell’azione penale. Tuttavia anche in questi frangenti non possiamo chiedere ai magistrati di derogare ai valori costituzionali della imparzialità e della autonomia della funzione giudiziaria. È obbligo delle procure, in presenza di notizie di reato, “agire”. Scelte discrezionali sarebbero foriere di “opportunismi” e “doppiopesismi” inconciliabili con i doveri di imparzialità. D’altronde, la “discrezionalità” dell’azione penale di solito è speculare al controllo politico del pubblico ministero. Da parte sua il Csm, composto in prevalenza da magistrati eletti da magistrati, è chiamato a presidiare l’autonomia dei giudici e dei pm, ma anche a vigilare sulla serietà del loro operato. Lo fa con le sue competenze su trasferimenti, promozioni e interventi disciplinari. Non a caso quelle competenze, durante il fascismo e con lo Stato liberale, spettavano al ministro della Giustizia, con forti ricadute sull’esercizio della giurisdizione per vicende politicamente sensibili. Pur essendo un modello da imitare per tante democrazie europee, il nostro sistema è ciclicamente messo in discussione. Magari dopo indagini o processi non graditi a notabili delle istituzioni o dell’economia. O per riaffermare il primato della politica. Ora a insidiarlo è un disegno di legge costituzionale dell’Unione Camere Penali, molto simile alla “riforma epocale” del 2011. L’organismo dell’avvocatura vuole “separare le carriere tra giudici e pubblici ministeri”. Ma intende anche attribuire al parlamento il potere di eleggere la metà dei membri dei due nuovi Csm (uno per i giudici, uno per i pm) e di superare l’obbligatorietà dell’azione penale. Certe “ricette”, però, aumenterebbero i rischi di una azione giudiziaria addomesticata dalle maggioranze di turno. In effetti se la presenza nel Csm di membri nominati dal Parlamento (avvocati e professori universitari) vuole impedire che la magistratura si chiuda in una casta autoreferenziale, è indubitabile, secondo la Corte costituzionale, che la prevalenza dei “togati” rispetto ai “laici” sia garanzia di autonomia della giurisdizione. E se l’unicità della carriera di giudici e pm non è un dogma, quella scelta, però, è figlia della nostra storia politico-istituzionale. In passato i pm, “separati “ dai giudici, erano finiti regolarmente nell’orbita del potere esecutivo. Alcuni affermano che l’attuale sistema consente “l’uso politico della giustizia”. Ma certi attacchi alla magistratura talvolta mirano preventivamente a screditare possibili future pronunce sfavorevoli per chi li formula. O comunque a erodere l’indipendenza di giudici e pm. Spetta soprattutto a costoro difenderla nell’impegno quotidiano. Da coltivare con professionalità e senso di responsabilità. Ora più che mai, data la delicata fase di transizione delle istituzioni democratiche. *Componente del Csm Orfani di femminicidio: approvata la legge di Ilaria Muggianu Scano Corriere della Sera, 22 dicembre 2017 È stata approvata da Camera e Senato la legge con la quale verranno introdotte alcune garanzie per gli orfani di crimini domestici. La legge è stata redatta da Anna Maria Busa, consigliera regionale sarda (Centro Democratico), primo firmatario Roberto Capelli. Fino ad oggi la legge italiana consentiva all’ uxoricida di non essere escluso dall’ eredità della vittima. Da poche ore questi sono i 5 punti in cui la legge determina un cambiamento radicale a favore degli orfani per Femminicidio: • Il gratuito patrocinio: i figli con meno di 26 anni delle vittime uccise dall’altro genitore potranno rivolgersi al miglior avvocato senza dover affrontare nessuna spesa. Il gratuito patrocinio è previsto già nella legge che tutela le vittime dello stalking, ma da oggi sarà esteso anche agli orfani di genitori uccisi dall’altro coniuge • È introdotto il sequestro conservativo dei beni dell’omicida, in modo che questo possa risarcire i figli dopo che è stata emessa la sentenza definitiva; 3- Il giudice ha l’obbligo di riconoscere il 50% di risarcimento presunto ai figli già con la sentenza di primo grado • Sospensione del diritto alla pensione di reversibilità del congiunto ucciso a partire dal momento della richiesta a rinvio a giudizio del coniuge indagato • Indegnità a succedere, componente rivoluzionaria della nuova legge. Se fino a oggi i figli e i familiari della vittima erano costretti ad intentare, e a vincere, una causa civile contro il coniuge omicida per escluderlo dall’eredità, adesso con la nuova legge verrà introdotta l’indegnità a succedere e quindi il coniuge omicida verrà automaticamente escluso dall’eredità dei beni dell’altro coniuge. Anna Maria Busia nel redare la legge ha trovato ispirazione dal caso di Vanessa Mele, che a soli sei anni, nel 1998, perse la madre per mano del padre. La legge consentì all’uomo di ottenere la reversibilità della moglie sottraendo di fatto alla bambina l’ unica fonte di sostentamento. Rafforzate le misure di tutela dei testimoni di giustizia di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 22 dicembre 2017 Ultimi giorni della legislatura e via libera definitivo del Senato al disegno di legge da lungo tempo in lista d’attesa sui testimoni di giustizia. Nel dettaglio si introduce una definizione più stringente di testimone di giustizia, con riferimento alla qualità delle sue dichiarazioni e all’effettività e gravità del pericolo. Testimone è così chi rende, nell’ambito di un procedimento penale, dichiarazioni di fondata attendibilità intrinseca, rilevanti per le indagini o per il giudizio. Il testimone però si deve trovare in una situazione di grave, concreto e attuale pericolo, rispetto alla quale risultano del tutto inadeguate le ordinarie misure di tutela. Da valutare la rilevanza e qualità delle dichiarazioni rese, la natura del reato, lo stato e grado del procedimento, e le caratteristiche di reazione dei singoli o dei gruppi criminali oggetto delle dichiarazioni. La protezione per i testimoni di giustizia può consistere in misure di tutela, misure di sostegno economico, misure di reinserimento sociale e lavorativo. La protezione assicurata dalla legge può essere estesa a chi è in pericolo perché convivente o in relazione con il testimone. A chi calunnia per usufruire delle misure di protezione la pena è aumentata da un terzo alla metà. Le misure di protezione vanno individuate caso per caso e, salvo motivi eccezionali di sicurezza personale, non comportano perdita dei diritti. Di norma, fatta salva la valutazione dell’autorità giudiziaria e di pubblica sicurezza, al testimone va garantita la permanenza nel luogo di origine e la prosecuzione delle sue attività. Le misure del trasferimento nella località protetta, dell’uso di documenti di copertura e del cambiamento di generalità sono adottate eccezionalmente, quando le altre forme di tutela sono assolutamente inadeguate rispetto alla gravità e attualità del pericolo, e devono comunque tendere a riprodurre le precedenti condizioni di vita. Al testimone andrà assicurata una condizione economica equivalente a quella precedente. Alle misure già oggi previste (tra cui spese sanitarie e mancato guadagno), sono riconosciute anche assistenza legale, rimborso per spese occasionali dovute alla protezione e indennizzo forfetario per i danni psicologici e biologici subiti. Se costretto a cambiare casa o a trasferirsi in località protetta, è garantito un alloggio e (se il trasferimento è definitivo) l’acquisto da parte dello Stato degli immobili di proprietà. In generale, le misure speciali di protezione potranno durare al massimo 6 anni. Eventuali proroghe sono ammesse solo su richiesta motivata del magistrato che le ha proposte. Per il presidente del Senato Pietro Grasso si tratta di un provvedimento importante che aiuta le persone a fidarsi dello Stato, mentre per la presidente della Commissione antimafia Rosi Bindi l’approvazione è “una bella notizia e un segnale importante al Paese anche perché raggiunto con un voto unanime”. Testimoni di giustizia: indennizzi e posto di lavoro per chi si espone di Francesco Cerisano Italia Oggi, 22 dicembre 2017 Indennizzo forfettario per i danni psicologici o biologici subìti, inserimento lavorativo nella p.a., ma solo come extrema ratio, qualora ogni altra forma di reinserimento occupazionale sia fallito. Assegnazione in uso dei beni confiscati alla mafia. Maggiore ricorso all’incidente probatorio e alla videoconferenza per acquisire nel processo le dichiarazioni del testimone senza esporlo a pericoli. E soprattutto possibilità di avere al proprio fianco un referente dello stato per tutto il periodo della protezione. La legge sui testimoni di giustizia è stata approvata ieri in via definitiva dal senato con 179 voti favorevoli e nessun contrario. Secondo la presidente dell’antimafia Rosy Bindi. “Con questa legge si riconosce lo statuto del testimone di giustizia superando l’impropria sovrapposizione con i collaboratori di giustizia e si rende più garantista, trasparente e personalizzato il sistema di tutela dei testimoni e si riconosce la loro fondamentale funzione”. Per il ministro Orlando la riforma è “un importante riconoscimento per chi decide di stare dalla parte dello stato e della legalità”. Il testo è frutto del lavoro della commissione parlamentare antimafia che sin dall’ottobre 2013 ha individuato tra le priorità d’azione il riconoscimento della piena dignità ai testimoni, il cui status è ancor oggi regolamentato da una legge del 1991 (n. 82), modificata poi nel 2001 (con la legge n. 45) ma con norme pensate per i collaboratori di giustizia (i cosiddetti pentiti) che in realtà poco hanno a che fare con i testimoni, visto che sono persone interne alle organizzazioni criminali che decidono di collaborare per avere uno sconto di pena. La proposta di legge punta innanzitutto a fare chiarezza tra le due fi gure circoscrivendo la fi gura del testimone e specificando che, per essere tale, l’oggetto della testimonianza deve essere “attendibile e rilevante” ai fi ni delle indagini o del giudizio. Il testimone, inoltre, per poter essere ammesso al programma di protezione non dovrà aver riportato condanne per delitti non colposi, né essere stato sottoposto a misure di prevenzione e soprattutto non dovrà aver tratto beneficio dai reati che sta denunciando. Per esempio, l’imprenditore che per anni abbia subito una estorsione da parte di una organizzazione criminale, ma che proprio grazie al rapporto con questa organizzazione sia stato concretamente avvantaggiato nell’accaparrarsi appalti, non potrà essere considerato un testimone di giustizia anche se a un certo punto decidesse di denunciare. Nel merito, il leitmotiv del provvedimento è favorire la protezione in loco del testimone in modo da salvaguardarne il contesto lavorativo e sociale. Vengono inoltre previste nuove misure di sostegno economico e sociale, quali: l’indennizzo forfettario per i danni psicologici o biologici derivanti dalla testimonianza resa; l’inserimento lavorativo nella p.a., ma solo come extrema ratio, qualora ogni altra forma di reinserimento occupazionale sia fallita; la possibilità che al testimone vengano assegnati in uso beni confiscati e gestiti dall’Agenzia nazionale; l’istituzione del referente del testimone di giustizia. Massoneria. La Commissione antimafia: “rilevate infiltrazioni delle cosche nelle logge” di Alessia Candito La Repubblica, 22 dicembre 2017 La relazione dopo le audizioni e i contestati sequestri delle liste di affiliati: quasi 200 ‘fratelli’ sono stati coinvolti in inchieste sulla criminalità organizzata. E non tutti i condannati sono stati espulsi. Quasi 200 “fratelli” toccati o lambiti da indagini di mafia. Sei condannati per associazione mafiosa, di cui due ancora attivi. Più di 130 logge calabresi e siciliane abbattute dal 1990 dalle quattro principali obbedienze massoniche in Italia, il Goi, la Gran Loggia degli Alam, la Gran Loggia regolare d’Italia, la Serenissima Gran Loggia d’Italia-Ordine generale degli Alam. Sebbene l’analisi del fenomeno sia stata solo parziale e nessun nome venga esplicitamente fatto, è un quadro inquietante quello ricomposto dalla Commissione parlamentare antimafia nella relazione appena approvata su “Mafia e massoneria”. “L’esistenza di forme di infiltrazione delle organizzazioni criminali mafiose nelle associazioni a carattere massonico - si legge - è suggerita da una pluralità di risultanze dell’attività istruttoria della Commissione, derivante dalle audizioni svolte, dalle missioni effettuate e dalle acquisizioni documentali”. I rapporti fra mafie e massonerie ci sono. E la Commissione ne ha la prova concreta. Dalle audizioni dei magistrati calabresi e siciliani sono emersi dati allarmanti. Gli inquirenti trapanesi e palermitani hanno infatti evidenziato “un filo conduttore che ipotizza come le logge coperte si annidino ancora all’ombra delle logge ufficiali; come gli uomini, pur risultati iscritti alle logge coperte, abbiano continuato a far carriera sia nel mondo politico, sia nel mondo degli affari, non essendoci mai stata un’efficace reazione delle Istituzioni per isolarli anche dopo che i loro nomi e la loro appartenenza fosse divenuta palese; come vi sia riscontro che già appartenenti a logge segrete e irregolari siano poi trasmigrati in altre logge; di come sia possibile passare da una loggia regolare a una coperta e viceversa”. Una situazione delicata soprattutto nel trapanese, “regno” di Matteo Messina Denaro. Nell’area, in cui si concentra un numero di iscritti, soprattutto provenienti dalla borghesia cittadina, assolutamente sproporzionato rispetto ad altre zone d’Italia - hanno riferito in commissione i magistrati - c’è il rischio che le logge si trasformino in comitati d’affari. Ancor più compromessa, se possibile, sembra la situazione in Calabria, dove - hanno riferito i magistrati - la massoneria, tramite la Santa (la direzione strategica dell’organizzazione, ndc) “si è piegata alle esigenze della ‘ndrangheta, così creando all’interno di quel mondo in cui convivevano mafiosi e società borghese professionale, all’ombra delle logge, un ulteriore livello ancor più riservato formato da quei soggetti che restano occulti alla stessa massoneria. Si tratta di coloro che, dovendo schermare l’organizzazione ed essendo noti soltanto a determinati appartenenti ai vertici più elevati, non si possono esporre a nessuna forma evidente, quali possono essere le organizzazioni massoniche”. Indicazioni importanti, sebbene necessariamente generiche a causa di indagini e accertamenti in corso. Ma la commissione non si è fermata qui. Il lavoro principale è stato fatto sugli elenchi sequestrati alle quattro obbedienze con decreto firmato dalla presidente della commissione Rosy Bindi e affidati allo Scico per i controlli sulla fedina penale degli iscritti. Un’indagine che dimostra come i Gran Maestri, che si sono avvicendati in Commissione per giurare di non avere condannati o indagati per mafia tra i propri ranghi, abbiano mentito. Sono 193 - è emerso dal lavoro dei parlamentari - gli affiliati alle logge massoniche di Sicilia e Calabria coinvolti o lambiti da inchieste di mafia. In molti casi, si tratta di procedimenti conclusi con decreto di archiviazione, proscioglimento o sentenza di proscioglimento per morte del reo, ma si tratta - si sottolinea nella relazione - di “un consistente numero di iscritti che è stato coinvolto in procedimenti per gravi delitti”. Non per tutti però le inchieste si sono concluse con un nulla di fatto. In 6 sono stati condannati per associazione mafiosa piena, mentre altri 8 sono stati puniti per traffici di stupefacenti, ricettazione, falso, bancarotta fraudolenta o sono stati destinatari in via definitiva di misure di prevenzione personali e dunque indicative della pericolosità sociale (semplice o qualificata). E non tutti sono stati espulsi dalle logge a cui appartenevano. Tanto meno sono stati tutti allontanati gli ulteriori 25 massoni che risultano condannati per altri reati gravi o sono tuttora sotto processo per associazione mafiosa o per intestazione fittizia di beni. Al contrario, 12 sarebbero ancora iscritti e attivi, di cui “10 presso logge del Grande oriente d’Italia, uno con una domanda di regolarizzazione presentata presso una loggia calabrese del Goi e membro del consiglio regionale della Calabria dal 2005 al 2010, il che fa desumere che fosse a quei tempi quantomeno pienamente iscritto ad altra obbedienza; uno, imprenditore agricolo, presso una loggia calabrese della Glri”. E fra i fratelli che frequentano regolarmente le logge ci sarebbero anche i due, un commercialista e un pensionato, condannati definitivamente per mafia. “Tale dato - si legge nella relazione - che si riferisce ai soli nominativi compiutamente identificati assume significativi profili di inquietudine considerato che 193 soggetti, così come segnalati dalla Direzione nazionale antimafia, hanno avuto modo di operare nelle obbedienze massoniche e così segnalando una mancata o quanto meno parziale efficacia delle procedure predisposte dalle varie associazioni per la selezione preventiva dei propri membri”. Ma per i parlamentari c’è un altro dato preoccupante. “Al di là delle condanne o dei procedimenti in corso per gravi reati e al di là dell’appartenenza alle singole obbedienze - si legge nella relazione non può sottacersi che nell’ambito dei 193 soggetti segnalati, molti dei quali incensurati, a fronte di 35 pensionati e otto disoccupati, vi sono numerosi dipendenti pubblici. Le categorie professionali prevalenti sono avvocati, commercialisti, medici e ingegneri. Presenti in numero rilevante anche soggetti impiegati nel settore bancario, farmaceutico e sanitario, nonché imprenditori dei più diversi settori, in primis quello edile”. “L’appoggio del boss non basta, serve la contropartita” di Simona Musco Il Dubbio, 22 dicembre 2017 La Cassazione ridefinisce l’accusa di “associazione mafiosa”. Nessuna prova che gli assessori di Marina di Gioiosa si siano prestati al clan, nessuna prova della contropartita di un eventuale patto politico- mafioso, nessuna evidenza di contatti illeciti. Dicono questo le motivazioni della Cassazione, che ha assolto i politici del Comune calabrese - la cui amministrazione, oggi come allora, è stata sciolta per infiltrazioni mafiose, rinviando ad una nuova sezione della corte d’Appello di Reggio Calabria l’ex sindaco Rocco Femia, rimasto in carcere cinque anni. Una sentenza che ha riscritto la storia amministrativa dell’ente, la cui squadra di governo era stata quasi totalmente azzerata dal blitz della Dda “Circolo formato”, e che ora annulla anche l’ipotesi di partecipazione dell’ex sindaco alla cosca Mazzaferro, chiedendo ai giudici di provare, se possibile, un eventuale concorso esterno. Le parole dei sono granitiche: senza prova della conclusione di un patto di scambio o di affiliazione, si legge nelle 40 pagine che motivano la sentenza, “nessuna delle ipotesi criminose riconducibili al delitto di partecipazione ad associazione mafiosa sarà configurabile”. Non basta la sola esistenza di rapporti tra il politico ed esponenti anche di vertice dell’organizzazione criminale, dunque, per certificare la mafiosità di un politico se questi rapporti sono riconducibili a fatti “privi di illiceità”, in quanto altrimenti “l’area della punibilità del delitto citato verrebbe estesa anche al di fuori di condotte realmente partecipative e sintomo di un concreto e reale inserimento organico che sussiste solo in presenza della cosciente adesione al programma criminale indeterminato”. Anche di fronte al sostegno elettorale da parte dell’organizzazione criminale deve essere provata la “controprestazione” del politico, altrimenti si tratterebbe soltanto di una frazione di reato, non sufficiente, da sola, “neppure per la responsabilità di concorso esterno”. La “mera” vicinanza ad gruppo mafioso o ai suoi esponenti, anche di spicco, dunque, non significa nulla per i giudici della suprema corte, così come nulla significa “la semplice accettazione del sostegno elettorale dell’organizzazione criminosa”. La Cassazione parte da un presupposto: la cosca Mazzaferro, rivale della più potente famiglia Aquino, esiste ed è operativa sul territorio. Ma ciò, da solo, non prova nulla. La posizione dei politici coinvolti nell’inchiesta viene vagliata dettagliatamente. A partire da Rocco Agostino, ammanettato quando deteneva la carica di assessore alle politiche sociali, accusato di essere organico alla cosca e condannato per ben due gradi di giudizio. In appello i giudici, “in assenza di prova della rituale affiliazione”, avevano dedotto il suo inserimento nella cosca dal contributo che lo stesso avrebbe assicurato nella scelta dei candidati e nella composizione della lista alle amministrative del 2008. Secondo la Cassazione, i giudici di merito non avrebbero però “con esattezza individuato quegli elementi sulla base dei quali ritenere che, in assenza di formale affiliazione” Agostino possa ritenersi colpevole di fatti che lo renderebbero organico alla cosca. Insomma, una prova della sua affiliazione non ci sarebbe mai stata e non può dipendere, precisano gli ermellini, dall’unica conversazione con il capo cosca, Rocco Mazzaferro, nella quale vengono affrontati “temi di rilievo esclusivamente politico”, dai quali non emerge nessuna fedeltà al clan. Considerazioni che valgono anche per Vincenzo Ieraci, ex assessore all’ambiente, per il quale non ci sono elementi probatori tali da poterlo ritenere partecipe di un clan “al quale non risulta mai avere fornito alcun contributo specifico”. Non basta la sola candidatura e la sua elezione per provare che, in qualche modo, fosse organico ai Mazzaferro. La posizione dell’ex sindaco Femia è invece più articolata: i rapporti e le relazioni col capo clan ci sono, ma “qualificare in termini di partecipazione la condotta del Femia valorizzando quale tratto unico e significativo la vicenda elettorale (...) non costituisce operazione logica corretta”. L’equazione, scrivono i giudici, non tiene conto delle possibili spiegazioni alternative e costituisce “una sorta di scorciatoia probatoria della partecipazione non accoglibile”. Custodia in carcere, il decorso del tempo non attenua le esigenze cautelari di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 22 dicembre 2017 Corte di cassazione - Sentenza 21 dicembre 2017 n. 57132. Nuova doccia fredda per l’immobiliarista Stefano Ricucci che resta in carcere per false fatturazioni. La Cassazione, con la sentenza n. 57132 del 21 dicembre 2017, ha nuovamente bocciato - a distanza di poco più di un anno dalla precedente decisione (n. 54213/2016) - la richiesta di revoca della custodia cautelare intramuraria presentata da Ricucci. Per i giudici, infatti, a seguito della condanna in primo grado, nel frattempo intervenuta, deve ritenersi che le esigenze cautelari non siamo mutate o meglio siano state rafforzate. “Non è comprensibile - si legge nella sentenza - come la sostanziale modifica della situazione di riferimento, possa essere desunta dall’avvenuta affermazione della penale responsabilità dell’imputato in relazione alle condotte che hanno costituito la base fattuale in relazione alla quale è stata emessa la misura cautelare a carico del Ricucci”. “Una siffatta sopravvenienza - prosegue la III sezione -, comportando la focalizzazione e puntualizzazione del quadro indiziario, appare semmai idonea ad aggravare e non certo ad alleviare la posizione cautelare dell’imputato, rendendo più pressanti le ragioni che avevano giustificato la adozione della misura in questione”. Né può ritenersi, argomenta la Cassazione, che in sede cautelare siano ammissibili istanze difensive “volte a porre in discussione l’accertamento contenuto nella sentenza di I grado - sebbene questa sia ancora non definitiva - della esistenza a carico del soggetto che sia stato assoggettato alla applicazione di una misura cautelare, degli elementi idonei alla provvisoria affermazione della sua penale responsabilità, essendo l’unica sede idonea a tale valutazione quella del gravame avverso la sentenza in questione”. Per cui è “del tutto eccentrica” l’“ampia ricostruzione con la quale il ricorrente tenderebbe a dimostrare la esistenza di elementi tali da escluderne la colpevolezza”. Riguardo poi alla contestazione del requisito dell’attualità, la Cassazione ricorda che “in relazione alle misure cautelari personali, l’attenuazione o l’esclusione delle esigenze cautelari non può essere desunta dal solo decorso del tempo di esecuzione della misura, dovendosi valutare ulteriori elementi di sicura valenza sintomatica in ordine al mutamento della situazione apprezzata all’inizio del trattamento cautelare”. E sotto questo profilo, come rilevato nel febbraio scorso dal Tribunale di Roma, in funzione di giudice del Riesame, le esigenze cautelari non si potevano considerare attenuate a seguito della condanna di Ricucci in I grado, “posto che nessun elemento era emerso nel corso del giudizio che potesse far ritenere l’esistenza di segni di ravvedimento in quello o comunque tale da comportare una attenuazione del quadro cautelare”. Quanto poi ai gravi indizi di colpevolezza, “l’esistenza della sentenza, con la quale era stata affermata la penale responsabilità del prevenuto, escludeva la possibilità di una loro considerazione in senso più favorevole per l’imputato”. Non punibilità per particolare tenuità solo se manca l’abitualità di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 22 dicembre 2017 Corte costituzionale - Ordinanza 21 dicembre 2017 n. 179. La Corte costituzionale, ordinanza n. 279 di oggi, ha dichiarato manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Padova in riferimento all’articolo 1, comma 1, lettera m), della legge n. 67 del 2014 e dell’art. 131-bis, primo e terzo comma, cod. pen., laddove condizionano la non punibilità per la particolare tenuità del fatto alla “non abitualità del comportamento penalmente illecito”. Per la Consulta infatti una simile prescrizione “non viola il principio di uguaglianza, dato che anche in presenza di fatti analoghi le ineguali condizioni soggettive giustificano il diverso trattamento penale, e per lo stesso motivo non è irragionevole e non risulta in contrasto con gli artt. 25e 27 Costituzione”. Nel caso specifico, l’imputata era stata citata a giudizio per aver rubato in un negozio uno spolverino del valore di 45,00 euro con l’aggravante di aver commesso il fatto in tre persone e su cose esposte per necessità alla pubblica fede, nonché con l’aggravante della recidiva specifica reiterata e infra-quinquennale. Secondo il tribunale rimettente il fatto “in considerazione del valore del bene sottratto, potrebbe essere ritenuto di particolare tenuità”, tuttavia l’applicazione della causa di non punibilità sarebbe preclusa perché “dovrebbe riconoscersi nei precedenti penali dell’imputata una sorta di abitualità che esclude la concretizzazione dei requisiti previsti dalla norma”. La Corte, nel bocciare il ricorso, ricorda che il fatto particolarmente lieve, cui fa riferimento l’art. 131-bis cod. pen., “è comunque un fatto offensivo, che costituisce reato e che il legislatore preferisce non punire, sia per riaffermare la natura di extrema ratio della pena e agevolare la “rieducazione del condannato”, sia per contenere il gravoso carico di contenzioso penale gravante sulla giurisdizione”; tuttavia “l’avere condizionato la non punibilità anche attraverso un dato soggettivo, costituito dalla non abitualità del comportamento penalmente illecito, non contrasta con il principio di uguaglianza, perché il trattamento diverso è collegato a una situazione giuridica diversa”. Del resto, un requisito analogo, costituito dalla occasionalità del fatto, è previsto anche nelle fattispecie simili del giudizio davanti al giudice di pace e del giudizio davanti al tribunale per i minorenni. In definitiva, “un comportamento penalmente illecito con caratteristiche di abitualità, specie se costituite da una recidiva specifica e reiterata, così come può rilevare per determinare la pena, analogamente può rilevare per determinare la punibilità di un fatto che, seppure di particolare tenuità, costituisce comunque reato”. Se il legale sbaglia addio remissione in termini ma si può pretendere il risarcimento di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 22 dicembre 2017 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 21 dicembre 2017 n. 57130. L’errore del legale nel calcolare i tempi per il ricorso, non può essere considerato caso fortuito o di forza maggiore: è dunque preclusa la possibilità di remissione nei termini. La Cassazione pur consapevole di qualche verdetto più favorevole ad imputati “vittime” della scarsa diligenza del difensore, afferma il no alla “seconda chance”. Ma ricorda al cliente che l’inadempimento dell’incarico professionale non è tale da restare senza conseguenze sul piano giuridico. Per la Suprema corte (sentenza 57130) è giustificata sia la richiesta di risarcimento danni sia la sollecitazione di una “censura” sul piano deontologico. I giudici ribadiscono la linea dura, sottolineando il dovere del cliente di monitorare il corretto operato del legale, anche se citano dei casi in cui l’ignoranza della legge penale da parte del difensore era stata considerata una situazione imprevedibile tale da integrare il caso fortuito (cassazione 35149/2009). Reati edilizi: la tenuità del fatto non blocca la demolizione di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 22 dicembre 2017 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 21 dicembre 2017 n. 57118. In caso di reati edilizi, alla dichiarazione di non punibilità per particolare tenuità del fatto, deve seguire la sanzione amministrativa accessoria dell’ordine di demolizione. La Corte di cassazione, con la sentenza 57118, accoglie il ricorso del pubblico ministero sia per quanto riguarda la possibilità di far ricadere l’abuso contestato all’imputato nel raggio d’azione dell’articolo 131-bis sulla tenuità del fatto, sia per quanto riguarda il mancato passaggio di demandare all’autorità amministrativa competente il compito di applicare la sanzione accessoria della demolizione del manufatto abusivo: nello specifico un bar di 33 metri, sottratto alla valutazione tecnica sulla sicurezza. Per il Pm non un fatto lieve, visto che si trattava di un esercizio frequentato da persone ignare del fatto che la struttura poteva non sopportare il carico. Sul punto il giudice avrebbe avuto l’obbligo di motivare in modo più dettagliato la sua convinzione. Inoltre all’imputato erano state contestate diverse violazioni: dalla realizzazione in assenza di permesso di costruire al mancato avviso al genio civile. Il giudice aveva imboccato la via della non punibilità, partendo dal presupposto che la continuazione di reati non sia assimilabile all’abitualità e dunque non precluda l’applicabilità dell’articolo 131-bis. Il che è vero, ma in presenza di reato continuato il giudice, per applicare il beneficio, deve soppesare diversi elementi, fra i quali la gravità del reato, la capacità di delinquere, i precedenti il numero di disposizioni violate ecc. Nello specifico essendo state violate diverse norma di legge, tra l’altro in relazione alla sicurezza di un luogo pubblico, c’era un obbligo di motivazione “rafforzata”. Sbagliato anche non far conseguire alla non punibilità l’ordine di demolizione, in nome dell’autonomia della sanzione accessoria. L’ordine di demolizione, come sanzione di carattere ripristinatorio e non punitivo, non è, infatti, soggetto ad uno stop a causa della prescrizione e allo stesso modo non può essere ostacolato dalla dichiarazione di non punibilità. La Cassazione annulla il verdetto e rinvia. Per battere la ‘ndrangheta non serve il sospetto: serve la speranza di Demetrio Arena* Il Dubbio, 22 dicembre 2017 Il processo di desertificazione che sta vivendo la Calabria appare inarrestabile tanto da assumere i connotati di un fenomeno epocale. I nostri giovani fuggono da una terra soggiogata dalla ‘ ndrangheta e fustigata da uno Stato che, da sempre, è debole con i forti e autoritario con i deboli; fuggono dalla loro terra abbandonando gli affetti più cari per un bisogno primario: il lavoro. La comunità calabrese costretta a rimanere, per lo più per ragioni anagrafiche, è logorata dall’indifferenza, è assuefatta a sopravvivere in un contesto dove non sono garantiti i servizi essenziali e, quel che è più grave, sono negati i principali diritti civili. Una comunità che subisce tutto, che non reagisce, perché ha perso “il germe della speranza” che, secondo il Sindaco della Rivolta di Reggio, Piero Battaglia, induce una comunità a ribellarsi. Quel germe che solo grandi eventi o grandi uomini possono iniettare, uomini autorevoli e credibili che attraverso il loro esempio, la loro dedizione, il forte legame con la propria terra riescono, nei momenti più bui, ad infondere speranza, a parlare al cuore e alla mente della comunità attraverso un linguaggio semplice e diretto, come le parole di Paolo Borsellino riportate in un grande cartello posto all’ ingresso del nuovo porto turistico di Capo d’Orlando: “questa terra un giorno sarà bellissima”. Un pensiero che manifesta il forte senso di appartenenza, il sentimento di grande amore per la propria terra di un uomo che ha deciso di morire per il bene della Sicilia. Ma il pensiero di Paolo Borsellino è soprattutto un messaggio di speranza rivolto ai siciliani che - grazie all’esempio e, purtroppo, all’estremo sacrificio di rappresentanti delle forze dell’ordine, magistrati, imprenditori, giornalisti e semplici cittadini - si sono ribellati creando quell’imprescindibile connubio Istituzioni. Società civile grazie al quale è stato assestato un duro e, forse, decisivo colpo alla mafia. Un vero e proprio manifesto di amore e di speranza che ben sintetizza l’ esperienza siciliana che, secondo gli addetti ai lavori, non può essere replicata in Calabria a causa delle diversità del fenomeno criminale Non sono un esperto criminologo, ma credo che le differenze non riguardino solo la diversa organizzazione della ‘ ndrangheta rispetto alla mafia, bensì la terapia adottata per contrastare il male assoluto che affligge la nostra terra. Una terapia basata esclusivamente sulla repressione, su un’offensiva che colpisce indiscriminatamente l’intera comunità ingenerando un clima di sfiducia, di paura, che avvilisce e demotiva e che, purtroppo, induce alla fuga. Una comunità che dovrebbe trovare nello Stato un interlocutore, un alleato capace di discernere il bene dal male, il bianco dal nero e, invece, se lo ritrova come un potere autoritario e insensibile, che la giudica e la dipinge a tinte fosche, collocandola sic et simpliciter nella cosiddetta zona grigia. Credo che tutto ciò costituisca la principale diversità rispetto all’ esperienza siciliana, così come sono convinto che per vincere “la madre di tutte battaglie” occorra che scendano in campo lo Stato e la Società civile, l’uno a fianco all’altro, come è avvenuto in Sicilia. Affinché ciò si realizzi non credo siano necessari Eroi disposti a donare la propria vita per la causa, bensì un diverso approccio da parte delle Istituzioni, fondato sulla consapevolezza che, se la ‘ndrangheta è diventata così potente, gran parte della responsabilità è da ricondurre allo Stato, che ha lasciato fare, che ha abbandonato per millenni il territorio e la sua comunità, anch’ essa vittima della criminalità organizzata e non sua alleata. Occorre che lo Stato solennemente dichiari guerra alla ‘ndrangheta e che sia consequenziale impegnando le risorse necessarie, selezionando gli uomini migliori che sappiano trasmettere, se non proprio amore, valori e vicinanza ma, soprattutto, che infondano speranza: speranza di liberazione, speranza di un futuro migliore o, ancor di più, che sappiano riunire la comunità attorno alla certezza che, con l’impegno di tutti, la Calabria “un giorno sarà una terra bellissima”. *Ex Sindaco di Reggio Calabria Campania: il Garante “spazio e libertà, comandamenti per rendere migliori le carceri” di Andrea Aversa vocedinapoli.it, 22 dicembre 2017 I primi 100 giorni del nuovo Garante dei detenuti per la Campania sono stati concentrati su coloro che soffrono di specifiche patologie psichiche. Samuele Ciambriello, intervistato da VocediNapoli.it, è stato nominato Garante dei detenuti per la Campania lo scorso mese di settembre al posto della compianta Adriana Tocco deceduta ad agosto. Il professore e giornalista è un fiume in piena ed ha manifestato forte entusiasmo per la sua attività che è iniziata tempo fa, a partire dall’impegno con l’associazione “La Mansarda”: “Voglio partire dai numeri, solo nel 2017 sono stati 50 i suicidi nelle carceri di tutta Italia, 4 nella nostra regione (1 a Santa Maria di Capua Vetere, 2 a Poggioreale ed 1 ad Avellino); nel 2016, in Campania, abbiamo registrato 770 episodi di autolesionismo e 87 tentati suicidi”. I dati enunciati da Ciambriello sono molto significativi e rappresentano uno scenario sconfortante. Un contesto che vede il sistema carcerario al collasso, con i detenuti, gli agenti penitenziari e tutti coloro che lavorano e vivono nelle patrie galere, vittime di un regime disumano e degradante. Sullo status della giustizia e delle carceri italiane si è spesso soffermata anche la Cedu (Corte Europea dei Diritti dell’Uomo) che più volte ha condannato il nostro paese denunciando questo scempio. Ma il neo Garante ha le idee chiare e la sua attività per questi primi 100 giorni si è focalizzata su una piaga sociale che coinvolge i detenuti affetti da particolari patologie psichiche. “C’è un sommerso delle patologie psichiche nelle carceri campane che bisogna far emergere per porre fine allo stato di disagio e di abbandono in cui versano i detenuti e per creare delle strutture che siano vero e reale superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari”. L’ha ribadito anche ieri all’interno dell’aula del Consiglio Regionale della Campania, dove si è discusso del seguente tema: “La salute mentale nelle carceri campane: fotografia in bianco e nero”. “A quasi 40 anni dell’approvazione della legge Basaglia che dispose la chiusura dei manicomi, la legge 81/2014 ha dato avvio alla definitiva chiusura degli Opg, avviando l’apertura delle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems). In Campania sono stati definitivamente chiusi gli Opg di Napoli e di Aversa e sono state attivate 6 Articolazioni psichiatriche e 4 Rems che, però sono insufficienti, se si pensa che a Napoli non ce n’è ancora nemmeno una. Inoltre, le Rems presenti in Campania sono strutture piccole, che possono ospitare un massimo di 20 persone, distribuite sul territorio, pensate come luoghi di cura e reinserimento sociale, luoghi che dovrebbero accogliere solo autori di reati giudicati infermi o semi-infermi di mente, ma anche socialmente pericolosi e non adatti a soluzioni totalmente restrittive. Nella realtà dei fatti, corriamo il rischio che esse diventino dei nuovi piccoli manicomi”. ha dichiarato Ciambriello. Ma abbiamo avuto modo di parlare anche di altre questioni importanti come quella del sovraffollamento, “una piaga che sta causando gravi conseguenze all’interno delle carceri e non solo ai detenuti ma anche agli agenti penitenziari”, a sua volta fenomeno legato alle gravi responsabilità che hanno Governo e Parlamento, “è conosciuto il numero della percentuale che corrisponde ai detenuti reclusi per reati gravi o di criminalità organizzata? Solo il 6%. Questo vuol dire che le carceri sono piene di persone che potrebbero scontare la pena in modo alternativo. Penso anche ai tanti stranieri, ai tossicodipendenti o ai giovani che finiscono in carcere per due leggi vergognose: la Bossi-Fini sull’immigrazione e la Fini-Giovanardi sulle droghe”. Poi una piccola parentesi sui decreti attuativi relativi alla riforma del sistema penitenziario che sono al momento al palo del Governo. Sulla questione è molto attivo il Partito Radicale che attraverso lo sciopero della fame dell’Onorevole Rita Bernardini ha avviato una lotta non violenta attirando l’attenzione del Ministro della giustizia Andrea Orlando che ha garantito una rapida approvazione. Sulla vicenda Samuele Ciambriello è ottimista: “Sono sicuro, saranno approvati. Anche se dopo anni, li aspettiamo dal 1985, non posso che esserne felice. Questi decreti miglioreranno l’organizzazione penitenziaria e agiranno su alcune questioni di massima importanza per la vita dei detenuti in carcere, come ad esempio quella dello spazio affettivo. I penitenziari saranno alleggeriti e inoltre avrà luogo un duplice processo di responsabilizzazione, sia da parte dei detenuti che degli educatori. E poi vorrei aggiungere una cosa di cui non si è affatto discusso, della validità della ‘messa alla provà anche per gli adulti e non solo per i minori”. In conclusione abbiamo parlato della questione lavoro, un tema di grande importanza che riguarda i detenuti, sia quando sono in carcere che quando ne usciranno, “il lavoro per i detenuti all’interno dei penitenziari è fondamentale perché, oltre a impegnarli gli consente di non finire tra le braccia della criminalità organizzata. Un detenuto che lavora è più responsabile e si prepara meglio alla vita che avrà quando tornerà un uomo libero. Proprio per questo bisogna ampliare le possibilità di lavoro fuori dai penitenziari, che è cosa ben diversa dallo stato di semi libertà. Bisogna favorire progetti di reinserimento, corsi di formazione già dall’interno delle carceri, convenzioni con privati e associazioni di volontariato del terzo settore. In merito mi sto attivando per attivare dei concorsi regionali”. A questo punto non ci resta che augurargli buon lavoro. Sant’Angelo dei Lombardi (Av): lutto per il carcere; addio a Forgione, direttore modello Il Dubbio, 22 dicembre 2017 In lutto il penitenziario campano di Sant’Angelo dei Lombardi per la morte del direttore Massimiliano Forgione. Ieri mattina è stato trasportato d’urgenza all’ospedale per una grave crisi cardiaca e respiratoria. Purtroppo i sanitari non sono riusciti a salvarlo. Con lui il penitenziario era diventato un carcere “modello”. Recentemente era stato visitato dal garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello e aveva potuto apprezzare la struttura. L’aveva definita “a misura d’uomo”, grazie anche a una strategia che si fonda sulla responsabilità dei detenuti. Grazie al loro lavoro, quel carcere fattura 2 milioni di euro l’anno. A Sant’Angelo infatti si produce vino e miele, e sono nate una tipografia e un’officina. L’ultima iniziativa pubblica è stata l’intitolazione della Casa di reclusione di contrada Selvatico a Gennaro Bartolo, Lorenzo Famiglietti e Remo Forgetta: i tre agenti che la sera del 23 novembre 1980 rimasero vittime delle macerie. Il Capo del Dap, Santi Consolo, ha espresso profondo cordoglio per la sua scomparsa: “È stato mio stretto, leale e bravissimo collaboratore. Le sue straordinarie e indiscusse capacità professionali e le eccezionali doti umani gli hanno consentito di realizzare progetti di grande valore che restano patrimonio prezioso e un modello per l’amministrazione”. Busto Arsizio: il Garante “il caso Dell’Utri faccia riflettere sui detenuti malati” di Riccardo Canetta informazioneonline.it, 22 dicembre 2017 Il capogruppo di Busto Grande, garante dei detenuti, porta la vicenda in assise, sottolineando anche i problemi del penitenziario cittadino. La sua dichiarazione è passata quasi inosservata, un po’ perché arrivata subito dopo l’approvazione della “pesante” delibera sulla caserma dei Carabinieri, un po’ perché l’attenzione di molti era ormai proiettata sul brindisi natalizio. Fatto sta che l’ultimo intervento dell’ultimo consiglio comunale dell’anno ha riguardato il caso di Marcello Dell’Utri e, più in generale, la condizione dei detenuti malati. A citare la vicenda in assise è stato Matteo Tosi, capogruppo di Busto Grande nonché garante dei detenuti nella casa circondariale di via per Cassano. “Ho voluto ringraziare il Partito Radicale - osserva - perché è l’unica forza che, per quanto possa essere lontana dal protagonista di questo caso, ha voluto sostenere, organizzando una conferenza, la moglie di Dell’Utri, che chiede che il marito venga ricoverato, peraltro a loro spese, in una struttura sanitaria che possa garantirgli le cure adeguate. Ovviamente ho citato questa vicenda per il clamore che può suscitare, ma il discorso riguarda tutte le persone che in carcere non possono essere curate a dovere”. La situazione è complicata, anche a Busto. “Ci sono persone che dovrebbero seguire una dieta precisa, calibrata sulla propria patologia. E in carcere non è facile che ciò avvenga, così come non è affatto scontato che determinati medicinali vengano somministrati a orari precisi”. Tosi vuole accendere i riflettori su queste problematiche, anche tramite un incontro organizzato proprio con i Radicali. “Avrei voluto si tenesse nel teatro del carcere, ma dalla direzione non mi è arrivata una risposta precisa - spiega - Pertanto lo faremo in una sala comunale. Proietteremo il documentario Spes contra Spem, dedicato alla situazioni delle carceri italiane. Sarà un appuntamento pubblico a cui inviteremo le forze politiche del territorio. L’auspicio è che enti pubblici, e non solo, mettano a disposizione delle borse lavoro per i detenuti, così da alleviare il problema del sovraffollamento delle celle e aumentare i rapporti con l’esterno”. L’intervento sul caso Dell’Utri, insomma, è stato solo un primo passo: “Siamo nel periodo natalizio, pertanto ho voluto portare un messaggio di solidarietà. Sapere che un proprio caro non riceve le cure adeguate comporta un grande dolore per le famiglie. E, diversamente da quanto molti possono pensare, il problema riguarda anche molti detenuti italiani, a volte ancora in attesa di giudizio. Senza contare che condizioni carcerarie migliori potrebbero influire positivamente anche sulla qualità del lavoro molto complicato della Polizia penitenziaria”. Bergamo: Natale in carcere, il giorno più cupo dell’anno di Ettore Ongis bergamopost.it, 22 dicembre 2017 “Natale in carcere è il momento più duro dell’anno. Nelle celle il clima è cupo, teso. Qualsiasi persona sente forte il desiderio di stare con i suoi, c’è chi ha i bambini, chi una moglie, chi i genitori. I più avviliti sono quelli finiti dentro per reati di poco conto. Chiunque vorrebbe essere coi suoi cari e il carcere te lo impedisce”. Attilio ha 28 anni e di Natali dietro le sbarre ne ha passati quattro, in tre penitenziari diversi: San Vittore, Opera e Bergamo. In galera ci è finito per traffico di stupefacenti e rapine in banca, in associazione con altri. Condannato a otto anni, finora ne ha scontati quattro. Ora è in misura di affidamento in prova ai servizi sociali alla comunità don Milani di Sorisole, gestita da don Fausto Resmini. Se non ci saranno intoppi, per lui nel 2020 questo difficile percorso dovrebbe essere concluso. Nel frattempo è libero dalla mattina alla sera. Libero anche di andare a trovare i suoi a Crema, dove è nato e cresciuto prima di andare a studiare a Milano e perdersi. Si siede con gentilezza e sorride: “Metta pure il mio nome vero, non c’è problema”. Stava dicendo che Natale e il mese di agosto sono i momenti più duri per i detenuti. “È così, anche perché è come se si fermasse il mondo intero. I magistrati vanno in vacanza e per chi è dentro ogni speranza di uscire svanisce. Ogni persona attende uno spiraglio di luce. Per fortuna ci sono i cappellani e i volontari che in quei giorni ci stanno ancora più vicini”. Che ricordi ha del suo primo Natale in carcere? “Le notti precedenti non riuscivo a dormire e l’unica consolazione era pensare che magari l’anno dopo l’avrei trascorso a casa. Non erano ancora arrivate le condanne. Poi, anno dopo anno, il Natale è stato sempre più pesante”. Perché? “La mattina della vigilia, il 24, sono consentiti i colloqui con i familiari. I miei sono sempre venuti. Non ho mai pianto davanti a loro perché non volevo che si abbattessero. Ho pianto dopo, da solo. Non auguro a nessuna mamma di vedere il proprio figlio in carcere, soprattutto in quei giorni”. E la sera del 24 come l’avete trascorsa a San Vittore? “Come tutte le altre sere: guardando la tivù, giocando a carte o leggendo. Potevamo però stare in piedi fino a tardi e a mezzanotte si aprivano le celle. Ci scambiavamo gli auguri. A Opera, invece, alle dieci di sera, c’è stato uno spettacolo organizzato dai volontari della Scala di Milano. Siamo usciti tutti dalle celle e fra gli attori e i cantanti c’erano anche i nostri compagni che si erano preparati nei due mesi precedenti”. E il giorno di Natale? “C’è la messa, gli auguri e poi il pranzo tutti insieme. Fra quelli di noi che si conoscono meglio ci si scambia una fetta di panettone col mascarpone preparato coi fornelli nelle celle, che restano aperte fino a sera. Alla messa i miei compagni di cella hanno sempre partecipato tutti”. E a Bergamo? “A San Vittore e a Opera ero a regime chiuso, con due ore di aria al mattino e due al pomeriggio. A Bergamo le celle sono aperte dalle otto del mattino alle otto di sera. Nei giorni che precedono il Natale è sempre venuto il Vescovo, accompagnato dai cappellani, dai magistrati e dal direttore del carcere. L’incontro col vescovo è un momento commovente”. Quale dei tre è il carcere peggiore? “Come vivibilità oggi il peggiore è Bergamo”. Ancona: al Barcaglione un polo professionale per il reinserimento lavorativo dei detenuti di Micol Sara Misiti centropagina.it, 22 dicembre 2017 Nell’istituto penitenziario di Ancona ci saranno aule e laboratori, per attuare azioni educativo-formative, professionali e di reinserimento socio-lavorativo a favore dei detenuti. Un polo professionale nell’istituto penitenziario Barcaglione, dotato di aule e laboratori, per programmare, organizzare e attuare azioni educativo-formative, professionali e di reinserimento socio-lavorativo a favore dei detenuti. In via sperimentale, i settori che saranno prioritariamente oggetto delle azioni di formazione professionale sono quelli della meccanica e della ristorazione, per cui la Regione ha stanziato 108mila euro dal Por Marche Fse 2014/2020. È l’obiettivo del Protocollo di intesa e di collaborazione sottoscritto a Palazzo Raffaello tra la Regione Marche rappresentata dall’assessore al Lavoro e alla formazione Loretta Bravi, il Provveditorato Regionale dell’amministrazione penitenziaria di Emilia Romagna e Marche nella persona del Provveditore reggente Dott. Enrico Sbriglia e il Garante dei diritti di adulti e bambini e Ombudsman delle Marche Andrea Nobili. “La formazione - dichiara l’assessore Bravi - si configura come elemento fondamentale di risocializzazione ed è inserita assieme al lavoro, alle attività culturali, ricreative e sportive, fra gli interventi attraverso i quali principalmente si attua il trattamento rieducativo di queste persone che hanno sbagliato e stanno pagando. Il polo professionale rappresenta la risposta organica, funzionale e articolata delle politiche regionali ai complessi fabbisogni formativi, professionali e di occupazione dei detenuti utile a favorire il trattamento rieducativo ed a agevolare il loro reinserimento socio-lavorativo”. “Sottoscrivo il progetto più qualificante da quando svolgo questa attività - sottolinea il Garante Nobili. Un progetto che riguarda il presente, ma anche il futuro. Senza formazione non può esserci il recupero della persona e la sua risocializzazione. Grazie alla fattiva collaborazione istituzionale e alla sensibilità dell’assessore stiamo lanciando un segnale positivo e questo è il migliore dei modi per chiudere l’anno”. “Questo non è solo un atto convenzionale - evidenzia il Provveditore Sbriglia - ma rappresenta una strategia per il governo delle carceri. Parliamo di una azione di sicurezza sofisticata ed efficace: è infatti statisticamente provato che di fronte ad una opportunità concreta di lavoro la recidiva crolla. Per esperienza posso dire che ogni volta che diamo ad un detenuto l’opportunità di rigiocarsi la propria vita questa opportunità, nella maggior parte dei casi, viene colta e l’esperimento funziona”. Per la realizzazione delle attività potranno essere utilizzate sia risorse istituzionali proprie di ciascun soggetto che risorse derivanti dal Por Marche Fse 2014/2020, dalla partecipazione a bandi pubblici europei, nazionali o da altri contributi pubblici e privati. Con il Protocollo d’intesa, gli enti firmatari si impegnano a costituire una sede per la formazione professionale, con l’obiettivo prioritario di assicurare un’offerta formativa, ai detenuti presenti negli istituti penitenziari marchigiani e in possesso dei requisiti giuridici per l’assegnazione presso la sede di Ancona Barcaglione, al fine di contribuire alla rieducazione, all’acquisizione di competenze professionali spendibili nel mondo del lavoro al termine della pena, di favorire il reinserimento socio-lavorativo e, conseguentemente, abbassare il rischio di recidiva. La scelta della sede è ricaduta sull’istituto Barcaglione, in quanto ritenuto il più idoneo ad ospitare il Polo Professionale. Si tratta infatti di una struttura a custodia attenuata destinata ad ospitare detenuti prossimi alle dimissioni e, comunque, con un fine pena non superiore ad anni 8. Treviso: assistenza sanitaria per i giovani detenuti del carcere minorile oggitreviso.it, 22 dicembre 2017 L’equipe di sanità penitenziaria messa a disposizione dall’Usl 2 è costituita da uno staff medico e infermieristico, psicologi e operatori sociosanitari. Protocollo di intesa tra l’Usl2 della Marca e l’Istituto Penale per Minorenni di Treviso. Firmato ieri tra il direttore generale Francesco Benazzi e Carla Sorice, direttrice dell’istituto penale per minorenni di Treviso, il documento per l’erogazione dell’assistenza sanitaria a favore della ventina di giovani, tra detenuti e arrestati in prima accoglienza. L’Usl metterà a disposizione professionisti con il compito di seguire i detenuti minorenni. L’istituto penale minorile di Treviso è l’unico del triveneto e accoglie i minorenni e adulti giovani di sesso maschile, dai 14 ai 18 anni, sottoposti a provvedimento penale. Ad esso è annesso il centro di prima accoglienza per minorenni di entrambi i sessi in stato di arresto e a disposizione dell’autorità giudiziaria per l’udienza di convalida. L’equipe di sanità penitenziaria è costituita da uno staff medico e infermieristico, da psicologi, specialisti nella cura delle dipendenze, operatori sociosanitari ed educatori. Si occupa del colloquio clinico di primo ingresso in istituto, di garantire la normale assistenza sanitaria, di attività di educazione alla salute, con particolare riferimento ai danni da uso ed abuso di alcol, fumo, sostanze, e all’igiene personale. Nell’istituto, inoltre, è costituita una equipe multi professionale e multidisciplinare che si riunisce periodicamente per la discussione dei casi e un focus sulla gestione operativa di quelli più complessi. Reggio Calabria: il Sindaco visita i penitenziari reggini con il Garante per i detenuti di Ilaria Calabrò strettoweb.com, 22 dicembre 2017 Il sindaco di Reggio Calabria Giuseppe Falcomatà ha fatto visita agli istituti penitenziari cittadini. Il primo Cittadino, accompagnato dal Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Reggio Calabria Agostino Siviglia e dalla Direttrice Maria Carmela Longo, si è recato presso la Casa Circondariale di Arghillà e “Giuseppe Panzera” di San Pietro. L’incontro, allietato da una simpatica rappresentazione del cabarettista reggino Pasquale Caprì, è stata l’occasione per il primo Cittadino di rivolgere un augurio, in occasione delle festività natalizie, ai detenuti e alle loro famiglie. “È stata una due giorni gravida di intensità quella trascorsa nelle carceri reggine di S. Pietro e Arghillà - ha commentato il Garante Agostino Siviglia - ho concordato con la Direttrice dei due istituti penitenziari, Maria Carmela Longo, il consueto spettacolo natalizio, quest’anno affidato al cabarettista Pasquale Caprì, accompagnato dal presentatore Benvenuto Marra, la cantante Adele Laface ed il barzellettiere Mario. Uno spettacolo “leggero”, quindi, volto a donare gratuitamente un momento di condivisione a quanti si trovano a trascorrere le festività natalizie privati della libertà personale e della presenza dei propri cari”. carceri 2”Certo - ha aggiunto Siviglia - non sfugge la primaria attenzione che va riservata alle vittime di reato. Ed è in quest’ottica che si innesta l’attivazione del primo Ufficio di Giustizia Riparativa che quale Garante ho promosso e che nel nuovo anno sarà aperto a Reggio Calabria, all’interno di un bene confiscato alla criminalità organizzata. Eppure, la legalità e la Giustizia non possono smettere di profondere i propri effetti anche e non marginalmente nei confronti di chi sta scontando la propria pena, così come prescrive la Costituzione Repubblicana. Per questo, evidentemente, quel luogo di afflizione, privazione, sofferenza, qual è il carcere, non lascia indifferenti quanti interagiscono, per ruolo istituzionale, lavorativo o volontario, con le complesse problematiche della detenzione. E la sofferenza dei detenuti e delle detenute trasuda, assai spesso, da uno sguardo come “perso nel vuoto”, assente, spento, incastonato in un volto provato dalla restrizione o forse dal rimorso del delitto commesso o dalla innocenza disconosciuta; uno sguardo che comunque sia penetra nell’anima di chi quello sguardo lo incrocia. In particolare, sono le tante donne detenute, più di quaranta ormai, che trasudano e trasmettono quel senso di smarrimento, di alienazione quasi. Di certo, l’essere mamme o spose imprime nelle detenute una sofferenza ulteriore, visibile agli occhi”. carceri 3”Quest’anno - ha spiegato ancora Siviglia - come mai era capitato per un Sindaco in passato, il primo Cittadino Giuseppe Falcomatà ha voluto partecipare, in entrambi gli istituti penitenziari, a questo momento di condivisione con i detenuti e le detenute, e per questo mi sento di ringraziarlo di cuore, perché la presenza del sindaco in un carcere restituisce ai detenuti la consapevolezza di non essere stati dimenticati e soprattutto di non aver smesso di essere cittadini, persone, esseri umani degni di attenzione ed ai quali le istituzioni hanno il dovere costituzionale di riconoscere “una seconda possibilità”, nel solco della legalità e della risocializzazione”. “Ma un sentito ringraziamento va tributato anche alla Direttrice del carcere; agli educatori, insegnanti, presbiteri e volontari che all’interno del carcere operano quotidianamente, senza clangore, nel silenzio, nella confidenzialità: perché il bene è discreto, non fa rumore. Così come gli agenti di polizia penitenziaria svolgono una preziosa opera di sicurezza, ma anche trattamentale. In ultima analisi, dunque, la sofferenza che si respira in carcere finisce per restituire, soprattutto in occasioni come questa, un grande “senso di umanità”, sul quale - ha concluso Siviglia - si può e si deve fondare l’opportunità di trasformare la propria vita, liberandola dal male, semplicemente, con il bene”. Benevento: “Il cuore delle donne” nelle periferie, prevenzione nel carcere primopianomolise.it, 22 dicembre 2017 Tre medici hanno incontrato le detenute per illustrare i rischi legati alle malattie cardiocircolatorie. La Fondazione “Il cuore delle donne” al servizio delle “periferie” sociali. La casa circondariale di Benevento ha accolto di recente l’iniziativa della Fondazione “Il cuore delle donne” di recente costituzione, presieduta nella funzione di presidente onorario, dal Segretario di Stato vaticano, cardinale Pietro Parolin, e dal presidente dottoressa Cecilia Politi, direttore Uoc di Medicina Interna P.O.”F. Veneziale” di Isernia, per attivare uno dei progetti messi in campo rivolti alla prevenzione, informazione e cura della salute femminile, soprattutto laddove le cure specialistiche non sono facilmente realizzabili. Lo scorso 15 dicembre, una rappresentanza della Fondazione composta da tre medici e dalla segretaria generale, ha incontrato le ospiti della Casa Circondariale di Benevento per la prima giornata dedicata alla informazione delle detenute, sui fattori di rischio delle malattie cardio circolatorie nella donna. “È stata una giornata di grande umanità- ha raccontato l’equipe della Fondazione - Un incontro significativo nel quale abbiamo visto la partecipazione naturale e spontanea delle detenute, la loro voglia di essere ascoltate dimostrando di essersi sentite considerate “persone “e non detenute. Tante sono state le domande sulle loro patologie e dei loro familiari”. L’incontro, cui hanno partecipato circa 35 detenute ed i loro educatori, oltre al vicedirettore ed ad il personale di sorveglianza, si è svolto in un clima di grande attenzione e di interesse per i dati epidemiologici che evidenziano la maggiore mortalità cardiovascolare della popolazione femminile rispetto a quella maschile sia in Europa che in Italia. Sono stati presentati i principali fattori di rischio cardiovascolare “modificabili”, come le anomalie lipidiche, l’ipertensione, il fumo, il diabete, l’obesità, l’inattività fisica ed il ruolo della depressione. Proprio temi caldi come il fumo, e l’importanza di tenere sotto controllo i valori glicemici, la pressione arteriosa ed il peso corporeo sono stati lo spunto per una approfondita chiacchierata tra i medici e le detenute. Inoltre, sono state presentate anche le carte del rischio cardiovascolare ed i test che verranno effettuati nella seconda giornata, quella dedicata alla diagnosi e alla stratificazione del rischio cardiovascolare nelle ospiti della casa Circondariale che vorranno partecipare allo screening, esprimendo il consenso. Le detenute che hanno partecipato, non solo hanno ascoltato con quella attenzione che qualunque donna dovrebbe porre al proprio stato di salute, ma sono intervenute chiedendo chiarimenti anche sulle patologie che colpivano i loro familiari. Un significativo approccio che ha posto al centro la cura per la persona, ponte di collegamento che ha permesso loro di transitare oltre le mura del carcere, vicino alla realtà ed ai loro affetti. Venezia: “Il granello di senape” e Coop Alleanza portano pacchi dono nelle carceri Gente Veneta, 22 dicembre 2017 Anche quest’anno l’associazione di volontariato penitenziario “Il granello di senape” ha consegnato alle ristrette e ai ristretti degli Istituti veneziani un pacco dono di generi alimentari contenente caffè, tè e biscotti. L’iniziativa, che si ripete da molti anni, è sostenuta da Coop Alleanza 3.0, che ha donato la gran parte dei prodotti e si è avvalsa della collaborazione della ditta Caberlotto di Mestre, di Veritas, dell’Avis comunale di Venezia che ha regalato i calendari 2018 e della cooperativa sociale “Il Cerchio” che ha provveduto ai trasporti. Ma i gesti di solidarietà e di attenzione verso il carcere hanno in città salde radici e forti legami; tant’è che per il quinto anno “Il Todaro Benefico” ha acquistato, assieme a “Il Granello di senape”, dei regali che i detenuti potranno donare ai propri figli durante le visite e i colloqui. Inoltre sia nel carcere maschile che in quello femminile, assieme alle cooperative sociali “Il Cerchio” e “Rio Terà dei Pensieri”, è stato programmato un pranzo con i ristretti, servito dai volontari: un evento atteso per il carattere gioviale e conviviale della manifestazione, oltre che per il significativo legame della città con la realtà penitenziaria. Inoltre alla libreria “la Toletta” di Venezia è attualmente in corso la seconda edizione de “Il libro sospeso”; chiunque può acquistare un volume - possibilmente di storia, fantascienza, narrativa, poesia, thriller - destinandolo alla biblioteca del carcere. I libri donati renderanno più ricca la biblioteca di S. Maria Maggiore, un luogo importante nel percorso di reinserimento di chi sta scontando una pena. Venezia: la messa del Patriarca in carcere “libertà è rispetto delle regole” di Nadia De Lazzari La Nuova Venezia, 22 dicembre 2017 La testimonianza di due detenuti: “Il lavoro con la cooperativa ci ha ridato fiducia per la vita futura” Nel pomeriggio altra celebrazione di Francesco Moraglia al Vega per i 100 anni di Porto Marghera. Dal carcere di Santa Maria Maggiore a Venezia al Parco tecnologico e scientifico Vega di Marghera e alla mostra sui cento anni di Porto Marghera. Ieri in Patriarca ha fatto altre due importanti visite con la celebrazione della Messa, in attesa delle Festività natalizie. Rispetto delle regole, assunzione di responsabilità e ripensamento della propria vita dietro la solitudine delle sbarre. Ai 226 “cari ospiti” del carcere circondariale maschile di Santa Maria Maggiore il patriarca Moraglia, ieri mattina durante la messa di Natale, ha portato un messaggio di speranza e consegnato riflessioni per il loro recupero. Nell’omelia il presule che ai detenuti ha teso la mano ha sottolineato: “Non siete soli; le vostre esperienze sono come gocce d’oro da donare agli altri”. Nella chiesetta addobbata con luci, decorazioni e l’albero di Natale ad ascoltare il presule, seduti tra i detenuti, l’assessore alla coesione sociale Simone Venturini, la presidente della Corte d’Appello Ines Marini, la presidente del Tribunale Manuela Farini, il procuratore della Repubblica Adelchi D’Ippolito, poco distante la direttrice Immacolata Mannarella. “La nostra società è fatta anche di ruoli, compiti, regole che certe volte ci vanno un po’ strette ma ci dicono che non siamo soli e che abbiamo dei diritti e dei doveri” ha sottolineato il Patriarca Moraglia ponendo poi un quesito “perché tante cose nel mondo potrebbero andare diversamente da come vanno?”. Soffermandosi sul termine libertà come dono “che se usata bene è un dono che si fa agli altri” il Patriarca ha augurato a tutti i detenuti di “scoprire che rispettando delle regole si è uomini liberi, la vita cambia e diventa nuova”. “Ritrovate voi stessi”, ha aggiunto, “ritroverete i fratelli e soprattutto ritroverete quel tanto bene che ciascuno di voi, se vuole, può incominciare a fare nella sua vita”. Durante la messa sono intervenuti due detenuti: Enzo, emozionato, ha detto: “non sono stato abituato ad avere un dialogo con Dio” e Michael, 26 anni, “sindacalista” dei detenuti che ha raccontato la sua vita smarrita prima per la cocaina dopo per l’eroina: “mio padre ubriaco picchiava mia madre, a 17 anni vivevo per strada. Ero cuoco e pizzaiolo, ora sento la detenzione come un parcheggio, mi hanno dato fiducia, ho un lavoro con la cooperativa Rio Terà e la speranza di una vita normale e di una famiglia tutta mia”. Uscendo dalla chiesa tutti hanno rivolto uno sguardo al presepe tradizionale realizzato dai detenuti con la sacra famiglia, la capanna costruita a mano con centinaia di fiammiferi, l’acqua vera e tutt’attorno, come un grande abbraccio, fotografie che hanno catturato immagini di uomini naufraghi, poveri, alcolizzati, malati, giocatori d’azzardo, detenuti, bambini affamati. Accanto a questi altri scatti: richiamano la misericordia, la carità, l’amore, come la lavanda e il bacio del piede. Nel pomeriggio il Patriarca ha visitato la mostra “Industriae” - dedicata ai cento anni di Porto Marghera - e, alle 15.30 ha celebrato la Santa Messa al Padiglione Antares del Parco Vega dove erano presenti, tra le autorità, il vice sindaco Luciana Colle, l’amministratore delegato di Vega, Tommaso Santini e il presidente di Confindustria Venezia, Vincenzo Marinese. Moraglia ha apprezzato la mostra “Industriae” che espone - alla stregua di opere d’arte - i prodotti, spesso essenziali alla vita di tutti giorni, realizzati ieri ed oggi a Porto Marghera. Dal Padiglione Antares del Parco Vega partono quotidianamente gli “Itinerari guidati” alle fabbriche e alle imprese attive, con centinaia di studenti interessati a conoscere questa realtà industriale del nostro territorio. Le iniziative al Vega sono promosse dal Comitato Nazionale per il Centenario di Porto Marghera, istituito dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo e presieduto dal sindaco, Luigi Brugnaro. Milano: una cena (al ristorante) InGalera, dentro il carcere di Bollate di Giulia Ubaldi ilgiornaledelcibo.it, 22 dicembre 2017 Entrare in un carcere non dovrebbe mai essere un’esperienza folkloristica, come se la visita fosse uno spettacolo a cui partecipare, nemmeno quando al suo interno c’è un ristorante come nel caso di InGalera a Bollate, Milano. Perché entrare in un carcere non significa varcare le porte di un circo con dentro animali, colpevoli, tenuti in gabbia, da osservare e magari anche da fotografare. Entrare in un carcere significa trovare persone che, qualsiasi siano i crimini commessi e seppur con delle responsabilità anche forti, hanno delle storie, a volte, da raccontare. Storie che possono impressionare o emozionare, sicuramente trasportare, poiché questa è la concessione che l’uomo in quanto tale dovrebbe fare prima di tutto a se stesso. Dunque, a mio parere, se liberi da qualsiasi spazio di giudizio, sono queste le premesse che dovrebbe porsi chi decide di entrare in un carcere, soprattutto in realtà come quella di Bollate, che, a differenza di altri, rende più vicina e possibile la relazione tra chi sta dentro e chi sta fuori. Nel giorno in cui noi siamo entrati nel carcere e abbiamo conosciuto più da vicino la realtà del ristorante InGalera, l’unico in una casa penitenziaria, c’era in corso una partita di calcio tra padri e figli. Catering, studio e un giornale: vita nel carcere - Dal carcere di Bollate escono in media circa 250 persone al giorno: vanno a fare sport o volontariato, a insegnare italiano oppure a tenere lezioni di cucina. Possono anche studiare e laurearsi all’Università, come il responsabile dei catering che sta per concludere un percorso di Giurisprudenza. O ancora, appunto, lavorare nel catering che da anni “esce” da Bollate in occasione di vari eventi e che è stata la cellula primordiale dell’esperienza di InGalera. Ogni due mesi esce anche un giornale, “Carte Bollate”, un periodico di informazione scritto dai detenuti con l’aiuto di volontari esterni, per raccontare pensieri, riflessioni e problematiche dall’interno. Inoltre, proprio di recente, è stata inaugurata una mostra fotografica, “Riscatto”, con fotografie scattate dopo la frequentazione di un corso. Insomma qui a Bollate l’importante è non far branda, cioè tenersi occupati e condensare il più possibile lo scorrere del tempo, nella profonda convinzione che far qualcosa sia comunque sempre meglio di non fare niente. Scopo principale, infatti, è quello di ridurre la recidività, poiché imparare un mestiere crea una possibilità di riscatto, una speranza. Ma la speranza, come tutte le cose più belle della vita, può anche invadere e diventare assordante, può avere la forma di un filo a cui ci si sente appesi tutti i giorni o quella di una chimera da rincorrere, a volte così sfuggente, altre così tangibile e concreta. Perché il tempo può essere tutto, ma anche niente. Articolo 21: diritto di lavorare - Tutto questo ha un nome e si chiama Articolo 21. Il riferimento è all’Ordinamento Penitenziario e si tratta del è il beneficio di legge che permette al detenuto di uscire dal carcere durante il giorno per lavorare. Ne possono godere tutti, imputati e condannati, come pure gli ergastolani dopo l’espiazione di almeno dieci anni di reclusione. Viene proposta dalla Direzione e concessa a discrezione del Tribunale di sorveglianza:. Proprio l’Articolo 21 dell’Ordinamento Penitenziario è una delle condizioni che dà la possibilità di lavorare all’interno dell’unico ristorante nel mondo dentro una casa penitenziaria: InGalera. Il ristorante InGalera - InGalera è stato inaugurato due anni fa, nell’ottobre del 2015, dentro al carcere di Bollate appunto. Il ristorante ha aperto dopo dieci anni di attività di catering in giro, con l’intento di voler continuare a dare qualcosa alla società, invece che chiedere. Il primo mese è stato un bombardamento mediatico continuo: giornalisti e tv all’ordine del giorno, New York Times compreso, poiché è innegabile che la notizia sia stata di forte impatto. Ma quella di InGalera non è una favola sociale o un’esperienza da ricordare con un selfie, quanto una realtà fatta di persone che tutti i giorni lavorano sodo, come in un qualsiasi altro ristorante. E che a volte, magari, soffrono pure, anche se in realtà per il cuoco “questo non è un lavoro, ma un gioco, perché tanto cucinare e mangiare sono due azioni che comunque devi fare tutti i giorni”. Infatti, lui cucinava sia prima di entrare in carcere, sia prima del ristorante InGalera, tanto che i suoi compagni ancora si ricordano i profumi di pasticceria che uscivano dalla sua cella. Il menù InGalera - Al ristorante InGalera fanno tutto loro: macinano la carne, preparano il pane, ma soprattutto vanno personalmente a fare la spesa. E ai commessi del supermercato non interessa chi essi siano, sono clienti, come tutti gli altri. Lo chef, ad esempio, è un amante del maiale: uno dei piatti forti, infatti, è il Filetto in crosta con fave di tonka. Poi c’è la Terrina di foies, la Lasagna aperta con pere e porcini, il Risotto con aglio nero e quaglia; come secondi il Salmone al Gin Tonic, la Millefoglie di Merluzzo confit con chips di rape colorate e poi il Gambero Killer e il Pollo alla Kiev in onore di Gualtiero Marchesi, perché il cuoco è stato uno dei primi a fare la Scuola di Cucina Alma. Infine, ovviamente, Polenta e aringa e Cassoeula poiché entrambi gli chef sono di origine milanese. Uno di loro ha anche scritto un libro: “I colori della mia vita”. Se davvero siete interessati a capire profondamente che cosa significhi l’esperienza di InGalera, evitate di farvi selfie fuori dal locale; per qualcuno potrebbe essere persino umiliante. Provate invece ad entrare, davvero, dentro e ad avere, comunque, rispetto. Perché proprio in quel momento ci potrebbe essere qualcuno che sta cercando di riacquistare una dignità che alcune forme di detenzione sembrano cancellare. Anche se su 60.000 detenuti circa in Italia ne lavorano solo 2000, oggi il lavoro in carcere sembra una realtà sempre più diffusa su quasi tutto il territorio nazionale. Basti pensare alla vicina Opera, sempre in provincia di Milano, dove la Cooperativa Sociale Opera in Fiore promuove il lavoro nelle carceri con manutenzione del verde, nursery per piante, giardini e orti verticali, ma anche laboratori artigianali di sartoria; o all’esperienza di Gorgona, l’unica isola penitenziaria d’Italia, dove insieme a ulivi e apicoltura, animali e caseificio, la storica cantina dei Marchesi Frescobaldi ha assunto tre detenuti per la produzione di un vino, Gorgona appunto. E a proposito di isole, che sappiamo essere da secoli luoghi ideali per le prigioni, che dire del carcere femminile della Giudecca, l’insieme di otto isolette che guardano Venezia? Lì, grazie alla cooperativa sociale Rio Terà dei Pensieri, le detenute curano un orto biologico e realizzano cosmetici di alta qualità a partire dalla distillazione di alcune piante coltivate, mantenendo viva l’antica tradizione veneziana della cosmesi artigianale. E sempre in Veneto, nel carcere di Padova, vi avevamo già parlato dei Panettoni artigianali Giotto che nascono in un laboratorio di pasticceria unico, preparati con cura dai detenuti nella Casa di Reclusione Due Palazzi. Che cos’è la libertà? di Biagio de Giovanni Il Mattino, 22 dicembre 2017 Una violenza insensata, pura violenza, quella esercitata pochi giorni fa in via Foria contro un ragazzino che tornava a casa da scuola e che “per due millimetri” di distanza del coltello dalla giugulare non ci ha rimesso la vita. Reazioni unanimi, cortei di protesta, dichiarazioni di solidarietà. Come sempre, riflessioni diverse, opposte: chi dice che la colpa è di Gomorra, del fascino perverso che provoca il racconto del potere del Sistema che spinge alla sua imitazione. Chi parla, invece, come una causa certo indiretta ma presente, del degrado dei quartieri di periferia e, perché no, anche del centro, in una Napoli dove è passato il messaggio che la regola blocca la vita. Dove si va dalla celebrazione dei semafori spenti, che finalmente liberano la circolazione, alla sensazione che il limite imposto dalla legalità sia sempre rimovibile, magari di poco ma di quel poco che esalta il libero movimento delle cose: occupando stabilmente e illegittimamente un marciapiede con una attività di commercio, o scatenando la movida, il chiasso fuori controllo, nei quartieri di una città che pare abbandonata a se stessa, il non-governo coincidendo con l’autogoverno di quell’introvabile soggetto che è il popolo. Non vorrei seguire nessuno di questi percorsi largamente attraversati nei commenti di questi giorni se non per dire, sinteticamente, che condannare Gomorra dopo via Foria significa guardare, come si dice, il dito invece della luna: come se i film americani di gangster producessero, negli anni trenta, la malavita di Chicago. Il tema profondo che attraversa episodi terribili come quello avvenuto in via Foria mi pare ponga problemi che superano ogni contingenza, e mette dinanzi ai nostri occhi aspetti della condizione umana di sempre e di oggi. Aspetti, solo aspetti, ma che richiamano verità che è “corretto” dimenticare, considerando certi fatti patologie isolate che avvengono nel sottosuolo del nostro umano vivere. Ma proprio questo sottosuolo, che ha mille modi di manifestarsi, ci ricorda che il disumano, l’inumano fanno parte dell’umano, e che per quanto si voglia ricacciare questa verità elementare nel dimenticatoio o negli archivi di una storia sempre giustificatrice, essa si ripresenta intatta, nel suo lavorare nei permanenti coni d’ombra dell’umanità: umano e disumano, l’uno incastrato nell’altro. Ma proprio questa consapevolezza deve guidare a comprendere e a governare la tensione continua che si agita sulla scena della vita umana. E che non sarà mai eliminata del tutto, per quell’oscurità selvatica che abita dentro di noi, quella vitalità scomposta che può giungere all’aberrazione di un delitto a freddo, non motivato nemmeno, si fa per dire, da qualche esaltazione emotiva. Certo la cultura, l’educazione, la scuola, le opere di ingegno, il diritto, tutto ciò che di bello e di accomunante produce l’umanità, sono antidoti a che la tragicità della scena umana non debordi. La vita sociale civilizzata dagli ordinamenti è lì a mostrarlo. Chi può negarlo? Ma quello che forse colpisce oggi è che quelle parole rassicuranti che si pronunciano, dopo un evento crudele, non sembrano più essere sufficienti, appaiono come parole stanche incapaci di rappresentare lo stato delle cose che eccede, sembra, le possibilità anche curative del linguaggio. Si vive una fase che sembra spesso sorretta dalla gratuità solitaria della azione, la quale, oltre un certo punto, si manifesta come arbitraria, inattesa violenza. Parole, dunque, fino al prossimo episodio in cui sulla scena compare la violenza cruda e nuda, e le parole ritornano, sempre uguali. E allora? Che dire? Con molta prudenza per la complicata ambiguità del tema, mi sento di sollevare una domanda: che cosa sta diventando, sotto i nostri occhi, la libertà? Questa parola preziosa, ineffabile, che apre allo scenario della spontaneità e responsabilità dell’azione, ma pure allo scenario opposto, all’ingresso del male nella coscienza e nella vita, una parola che, guardata solo nella sua realtà, per dir così, vitale, spinge al superamento di ogni limite. La libertà come possibilità infinita di fare tutto ciò che si può fare, scadente rappresentante di volontà di potenza, possibilità scatenata di affermare se stessi, questo sembra dominare la scena. Libertà senza vincoli, senza legge, senza norma, abbandonata al suo potente e fragile arbitrio dove tutto diventa lecito se realizzativo di sé, di ciò che si è o si immagina di essere, talvolta in modo infame, liberando l’energia cruda del disumano che si affaccia nell’umano e si intreccia con esso. Lo scenario che si apre nel fondo delle nostre società è proprio quello di una libertà che si è liberata da ogni vincolo, e nei suoi confini estremi non riconosce più nessun limite; si è liberata dal dover essere per guardare solo dentro di sé. È la libertà di un individuo sempre più solitariamente esposto alla neutralizzazione di ogni realtà vissuta in comune, dispregiativamente chiamata “collettiva”, che partecipa di una società che non possiede più un racconto di sé, e abbandona la forza accomunante del senso comune che, come insegnava Giambattista Vico, è ciò che tiene insieme una nazione. Il punto è che la rivoluzione antropologica e culturale prodotta dalla più profonda trasformazione che il mondo abbia mai conosciuto, sta creando un vuoto dove tutto diventa possibile. Non vuol essere un discorso regressivo e nostalgico il mio, ma neanche una euforica celebrazione del nuovo. Si stanno, in realtà, aprendo problemi enormi, che i saperi, nelle loro nuove indisciplinate incertezze, stentano a comprendere. Il mondo se ne va per conto suo, la libertà è insieme felice e disperata per il suo nuovo stato, è in quella parola fatale che bisogna far penetrare il dubbio, il pensiero, la politica, l’educazione, la fermezza del dovere, in una partita che deciderà molto del futuro dell’umanità. Fake news: istruzioni per l’uso di Milena Gabanelli e Martina Pennisi Corriere della Sera, 22 dicembre 2017 Vengono vendute in spiaggia, sui marciapiedi, nei mercati delle città di mezzo mondo: borse, cinture o sciarpe identiche alle originali di Burberry o Dolce e Gabbana. Stessi colori, forma e fantasia. Una sola differenza: l’etichetta. Sono dei falsi. Dei fake. Noto il movente di chi li vende: fare soldi sfruttando in modo fraudolento la popolarità di un marchio. Chi compra è di solito consapevole di essersi portato a casa un falso, non fosse altro perché sta risparmiando. Molto. Chi dovesse ricevere il (non) costoso oggetto in dono potrebbe non accorgersene e lo sfoggerebbe senza dare nell’occhio. Chiaro, cristallino, da tempo. Internet, come in ogni ambito in cui ha fatto irruzione, ha messo un po’ di pepe sul piatto: nel 2006 Lvmh accusava eBay di ospitare falsi corrispondenti al 90 per cento dei prodotti spacciati per originali con il suo marchio. Due anni dopo, un tribunale di Parigi diede ragione al colosso francese e ad analoghe denunce di Dior e stabilì un risarcimento complessivo da 40 milioni di euro. Oggi il problema è tutt’altro che risolto, come mostra la lettera scritta alla Commissione europea (e pubblicata dal Sole 24 Ore) lo scorso 16 novembre da un centinaio di imprese preoccupate per la contraffazione su Amazon o Alibaba, ma il perimetro entro cui ci si muove è definito fin dall’inizio. Con le fake news, o bufale che dir si voglia, è stato invece necessario più di un anno di dibattito globale per arrivare a comprendere di cosa si stia parlando, quali siano gli attori in campo e quali meccanismi siano finiti sotto lo stesso cappello (mediatico). Le fake news - Per essere sicuri dell’esistenza del problema, nel caso ci fosse ancora qualche dubbio, è sufficiente una ricerca su Google Trends: prendendo in considerazione gli ultimi cinque anni si nota come le interrogazioni al motore di ricerca con il termine “fake news” siano diventate ricorrenti nell’ottobre del 2016, per poi esplodere nel mese successivo e mantenersi ad alti livelli fino a oggi. Perché? Facile: se le menzogne, anche a fini politici, non hanno età - si pensi all’ormai citatissimo esempio delle armi di distruzione di massa per attaccare l’Iraq nel 2003 - quelle che transitano su Internet hanno vissuto con l’elezione di Donald Trump negli Stati Uniti la loro (ri)nascita. Come? Venendo condivise e commentate quanto se non più delle notizie pubblicate online dai media tradizionali. Il primo dato a sostegno di ciò è arrivato su Buzzfeed il 16 novembre del 2016: negli ultimi tre mesi di campagna elettorale americana le interazioni su Facebook con le notizie di testate riconosciute sono state inferiori a quelle con le cosiddette bufale. Quindi, online e nello specifico sul social network da 2 miliardi di utenti le assurdità hanno avuto più successo dell’informazione tradizionale. Se le fake news siano state in grado o meno di condizionare il voto a favore di Trump - sostenuto, secondo l’Università di Oxford, da messaggi sparati automaticamente cinque volte più numerosi di quelli pro-Clinton - è difficile, se non impossibile, quantificarlo, ma c’è un caso che ha fatto scuola per i suoi concreti effetti offline nonostante i tentativi di smentita della stampa tradizionale: il Pizzagate. Nel dicembre del 2016 un 28enne è stato arrestato a Washington per aver sparato un colpo d’arma da fuoco al Comet Ping Pong, ristorante accusato in Rete, prima su Reddit (con una discussione in seguito cancellata) e poi su Facebook e Twitter, di essere coinvolto in un giro di pedofilia riconducibile al Partito Democratico di Hillary Clinton. Un caso isolato ed eclatante o una delle punte particolarmente appuntite di un iceberg destinato a venire a galla, ci si chiedeva all’epoca? A caldo, in novembre, Mark Zuckerberg metteva le mani avanti definendo “folle il pensiero che Facebook abbia condizionato il voto” e dichiarando che il 99 per cento di quanto viene diffuso sulla (sua) piattaforma è autentico. Poi ha avuto di che ricredersi. Cosa sono le fake news e perché ci caschiamo - Come detto, sotto il cappello fake news, termine dell’anno 2017 secondo il Collins Dictionary, sono finiti diversi fenomeni mossi da differenti interessi. Facciamo un passo indietro e partiamo da una prima macro distinzione, quella fra disinformazione (la deliberata creazione e diffusione di informazioni false) e disinformazione (la condivisione involontaria di informazioni false). Causa ed effetto, in sostanza, in una relazione felicemente funzionante anche nei nostri confini: secondo una ricerca dell’Osservatorio News-Italia, il 70 per cento degli italiani si informa in Internet e il 53 per cento afferma di essersi spesso imbattuto in contenuti falsi o parzialmente falsi. Come lo si può trarre in inganno? Interessante consultare le sette modalità di manipolazione evidenziate da Claire Wardle su First Draft. Due le modalità da evidenziare: • Contenuti falsi al 100 per cento. Ad esempio: la foto di Boschi e Boldrini al funerale di Riina. Scatto che nulla aveva a che fare con il contesto citato. Oppure, uscendo dal recinto della politica ed entrando in quello altrettanto popolato della sanità, con 8,8 milioni di italiani che si sono imbattuti in bufale mediche: il magnesio può alleviare tutti i malanni, ma nessuno te lo racconta. • Contenuti parzialmente falsi, manipolati o strumentalizzati. Ad esempio: la foto dell’islamica sul ponte dell’attentato a Londra. Scatto vero, ma condiviso sottolineando la falsa indifferenza di uno dei soggetti ritratti. Due gli ostacoli nella ricerca di soluzioni per arginare il fenomeno: • È molto difficile definire a priori i confini in entrambi i casi, soprattutto nel secondo. Basti pensare a come la satira, il marketing politico o la propaganda possano creare confusione. • Difficile e pericoloso decidere chi debba diventare arbitro della verità. Perché le fake news ci traggono in inganno online? - Sui social network la prima buccia di banana è banalmente grafica. Soprattutto da smartphone - con il 65,5 per cento degli italiani che naviga solo in questa modalità (fonte Audiweb), siamo abituati a scorrere un flusso di riquadri praticamente identici all’interno dei quali possiamo trovare il post di un amico, la foto di un familiare, un video del Corriere della Sera, una notizia di un sito di informazione poco conosciuto ma affidabile, la pubblicità di una banca e il contenuto di un portale di fake news. Ci sono poi gli algoritmi delle piattaforme che premiano i contenuti in grado di rimbalzare più rapidamente da una bacheca e da un profilo all’altro. Negli anni, quindi, tutti gli attori in campo su Internet hanno erroneamente cavalcato a diversi livelli il sensazionalismo, soprattutto nei titoli. Chi vuole spararla grossa ha trovato terreno fertile e un codice di comunicazione comune. E ha adottato escamotage tecnici specifici, come l’uso di Url che richiamano il nome di testate note o l’ausilio di bot, utili a far rimbalzare un messaggio e renderlo virale in poco tempo. Perché vengono create e diffuse - Per interessi economici, di molti dei soggetti coinvolti. I siti guadagnano con la pubblicità, gli introiti pubblicitari crescono con l’aumentare dei clic e le piattaforme che ospitano i siti o i contenuti dei siti sono spesso le stesse che ingrassano facendo da concessionaria pubblicitaria. Il cortocircuito è servito. Si pensi che quest’anno i soli Facebook e Google raccoglieranno oltre il 60 per cento del mercato americano delle sponsorizzazioni in Rete da 83 miliardi di dollari (fonte eMarketer). In Italia, la pubblicità online procede con un rialzo superiore al 10 per cento all’anno dal 2008 (fonte Iab e Politecnico di Milano); fa eccezione il 2015 con una progressione solo del 9 per cento) mentre gli altri media calano (fonte Nielsen). Sugli schermi mobili la crescita è addirittura del 40 per cento. Chiamati in causa, alcuni dei gestori dei siti fake, come l’americano Paul Horner o l’italiano Matteo Ricci Mingani, non hanno avuto remore ad ammettere il fine ultimo della loro attività: fare soldi. Con le bufale pro-Trump, un 18enne macedone ha rastrellato 60 mila dollari in sei mesi. Il ragazzo vive a Veles, città della Macedonia cui fanno capo almeno cento portali che hanno sostenuto l’attuale presidente degli Stati Uniti. Per fare soldi. La propaganda ai tempi di Internet - Per motivi elettorali o propagandistici. Se gli esecutori vogliono guadagnare, i mandanti puntano a orientare le opinioni e a sfruttare la tendenza degli utenti, incoraggiata dagli algoritmi, a rifugiarsi in opinioni a loro affini. Negli Stati Uniti l’Fbi sta indagando su un possibile ruolo attivo della Russia nella campagna presidenziale. L’indagine ha portato davanti al Congresso anche i general counsel di Facebook, Twitter e Google. Di certe per ora ci sono le migliaia di post sponsorizzati acquistati da fabbriche di troll del Cremlino (mentre per la Brexit non sembra esserci stato un analogo sforzo economico) che creano profili e contenuti ad hoc e organizzano e ottimizzano la diffusione del materiale. “Avevo bisogno di soldi, come tutti”, ha confessato Alan Baskayev, ex impiegato della Internet Research Agency di San Pietroburgo, riportando il discorso ai sopracitati interessi economici degli esecutori. Da parte sua, Donald Trump ha da fin da subito sfruttato il termine “fake news” per usarlo contro la stampa e gli avversari politici. I politici italiani stanno seguendo la scia: dal “vi abbiamo sgamato” di Renzi sul palco della Leopolda rivolgendosi a 5 Stelle e Lega all’accusa di Beppe Grillo al New York Times di diffondere falsità orchestrate dal Pd, per citare alcune delle ultime dichiarazioni in ordine di tempo. E allora come ci si regola - Un anno di intenso dibattito globale ha insegnato qualcosa a tutti. Alle piattaforme, che stanno intervenendo sui loro algoritmi per abbattere la visibilità di portali che mentono sulla loro origine e finalità (Google) o dei post costruiti solo per ottenere clic (Facebook) e per tagliare gli introiti pubblicitari ai portali di bufale. Alle testate giornalistiche, richiamate all’ordine dal successo delle assurdità online e dalle accuse dei politici di spacciare falsità. Trump negli Stati Uniti, ma anche Grillo in Italia. Gli abbonamenti digitali del New York Times hanno beneficiato subito del ciclone fake news, con un’impennata nel quarto trimestre del 2016, e hanno registrato la più importante progressione di sempre nei primi tre mesi del 2017. Questa tendenza ci porta al ruolo degli utenti. I lettori. Devono, dobbiamo, in primis imparare a navigare consapevolmente, verificando fonti e firme e assumendoci la responsabilità di quanto condividiamo. E dobbiamo renderci conto come l’illusione dell’informazione gratuita abbia contribuito all’implosione del contesto in cui le fake news e i loro produttori hanno trovato terreno fertile. Qualità, tempestività, selezione, autorevolezza e completezza hanno un prezzo. I professionisti e il loro lavoro vanno pagati: non lo mettiamo in dubbio quando andiamo dal dentista, ci avvaliamo della collaborazione di un idraulico o acquistiamo un biglietto per un concerto o l’abbonamento a Netflix e Spotify e non dobbiamo farlo quando leggiamo un articolo o guardiamo una videoscheda sul sito di una testata giornalistica. Questo non vuol dire che il modello dell’acquisto della singola copia del quotidiano o del periodico debba essere replicato in toto in Rete, ovviamente, ma che i lettori debbano avere online la possibilità di consumare notizie e approfondimenti autorevoli, pagandoli con le modalità adatte a mezzi e prodotti. Dagli abbonamenti digitali al crowdfunding, passando per l’iscrizione a pagamento alle newsletter. La sola pubblicità non basta, ed è essa stessa parte della riflessione con la necessità degli inserzionisti di venire associati solo a materiale verificato e verificabile. Il valore dei contenuti non è un di più. E, sia quello delle testate tradizionali o di nuove realtà, va pagato. Migranti. Presidente, lo ius soli si può approvare di Luigi Manconi Il Manifesto, 22 dicembre 2017 Gentile Presidente Sergio Mattarella, sono al quarto giorno del mio sciopero della fame a sostegno della legge di riforma della cittadinanza. Insieme a me digiunano Elena Ferrara e Monica Cirinnà, Paolo Corsini e Silvio Lai, Walter Tocci e Sergio Lo Giudice; e tanti, tantissimi cittadini che, in queste ore, mi scrivono per aderire e solidarizzare. Fisicamente sto abbastanza bene, anche se incomincio ad avvertire una certa debolezza: e, tuttavia, il sentimento in me prevalente è quello di un profondo rammarico. Innanzitutto perché è stata dissipata la preziosa occasione di compiere un atto di giustizia, riconoscendo a tanti minori “italiani senza cittadinanza” la piena titolarità di doveri e diritti. Ma non per questo intendo lasciarmi prendere da quello sconforto che produce solo frustrazione. Due mesi fa lanciammo la campagna per lo Ius soli e culturae con uno slogan, Non è mai troppo tardi, che riecheggia le parole e l’attività di un grande maestro di scuola, Alberto Manzi. Ed è un richiamo quanto mai pertinente, quello a Manzi, perché - nel sostenere la riforma della cittadinanza - è stato cruciale il ruolo degli insegnanti. Ora provo a ripetermi: non è mai troppo tardi. E infatti, a tutt’oggi, la data delle prossime elezioni non è stata ancora fissata nonostante sia convinzione pressoché unanime che saremo chiamati al voto il prossimo 4 marzo. E questo imporrebbe che la legislatura si concludesse entro la prossima settimana. Questo calendario è stato dato per scontato e le relative scadenze come inevitabili e irremovibili. E perché mai? La decisione di sciogliere le Camere e di indire nuove elezioni spetta esclusivamente al Capo dello Stato e lei, caro Presidente, non ha indicato ancora alcuna data. Dunque, sarebbe sufficiente posticipare di un paio di settimane gli adempimenti previsti e andare al voto, che so, il 18 marzo. In tal modo, si avrebbe tempo e agio per approvare in fine la riforma della cittadinanza. Invece, sembra proprio che non andrà così e che anche l’ultima opportunità offerta dal calendario verrà sprecata. A meno che lei, Presidente, non decida che la conclusione della legislatura avvenga dopo la prima settimana di gennaio e dopo l’approvazione di una legge che tanti ritengono non solo sacrosanta ma indispensabile. Sarebbe una scelta felice, che, consentendo l’accesso alla cittadinanza ai tanti che hanno dimostrato di meritarlo, potrebbe costituire uno degli “anticorpi”, da lei stesso evocati, capaci di contrastare quelle “manifestazioni di razzismo” oggi certamente in crescita (Sergio Mattarella 19 dicembre 2017). E proprio perché l’accesso alla cittadinanza, nel riconoscere diritti e doveri, “può favorire l’inclusione dei minori, la loro socializzazione e il loro inserimento all’interno di regole condivise”. E può creare “un clima di reciproco rispetto” fino a rappresentare “un fondamentale contributo alla sicurezza collettiva”. Queste affermazioni non provengono da un fervente missionario comboniano né da un allucinato militante altermondialista: le hanno scritte quattro ex ministri dell’Interno (Enzo Bianco, Beppe Pisanu, Rosa Russo Iervolino e Annamaria Cancellieri) che, di ordine pubblico e di sicurezza nazionale, un po’ dovrebbero intendersi. Migranti. La giustizia in fondo al mare di Fulvio Vassallo Paleologo* Il Manifesto, 22 dicembre 2017 La sentenza di mercoledì del Tribunale permanente dei popoli riunito a Palermo dimostra la complicità del governo italiano e degli stati europei nei crimini contro l’umanità commessi in Libia e nelle acque internazionali. La circostanza che le violazioni dei diritti fondamentali di singole persone costrette a lasciare il proprio paese siano diventate tanto frequenti e prive di una qualsiasi sanzione giuridica, tale che ne possa impedire la reiterazione, hanno permesso di individuare un “popolo migrante”. Un “popolo” dotato di una sua specifica connotazione, come è emerso da numerose testimonianze e da rapporti concordanti, come quelli delle Nazioni Unite, di Medu e di Amnesty International, esaminati nel corso della recente sessione di Palermo del Tribunale Permanente dei popoli. Questo Tribunale può includere nella propria competenza violazioni sistemiche dei diritti dei popoli che non integrano direttamente o esclusivamente fattispecie penali di diritto positivo. I materiali probatori raccolti, la ricostruzione dei fatti e la qualificazione delle responsabilità possano avere però un riscontro anche nelle sedi giudiziarie ordinarie, fino ai gradi più alti della giurisdizione internazionale, nel rispetto dei principi e delle garanzie dello stato di diritto. Il diffuso populismo giudiziario, emerso nelle indagini contro le Ong, e la timidezza dei giudici costituzionali nell’affrontare le questioni di compatibilità delle normative e delle prassi in materia di contrasto dell’immigrazione irregolare, come nel caso dei cd. “respingimenti differiti” disposti dai questori in assenza di un effettivo controllo giurisdizionale, costringono a riflettere sulla reale portata dei diritti fondamentali riconosciuti alla persona migrante, ed in qualche modo anche sugli spazi di agibilità democratica che rimane a chi opera quotidianamente nel campo della solidarietà, oggetto di vere e proprie campagne di criminalizzazione. Quando sarà pubblicata l’imponente mole di testimonianze e rapporti raccolti durante la sessione del Tribunale permanente dei Popoli di Palermo, si potrà verificare sino in fondo la complicità del governo italiano e degli stati europei nei crimini contro l’umanità commessi in Libia e nelle acque internazionali ai danni dei migranti. Non soltanto una responsabilità per omissione, ma una responsabilità ancora più grave per avere deliberato accordi ed interventi, ed adottato misure operative, nella piena consapevolezza delle conseguenze che si sarebbero scaricate sulle persone bloccate in mare, riportate a terra dalla Guardia costiera libica ed intrappolate a tempo indeterminato nei centri di detenzione libici. Dai lavori del Tribunale dei Popoli è emerso come la distinzione in Libia tra centri governativi e centri informali non regga più, e come anche nei centri visitati, magari una volta al mese, da funzionari Onu, anche lì, non appena finiscono le visite, riprendono gli abusi e le richieste estorsive. Come è emerso anche quanto sia precaria ed esposta ai trafficanti la sorte di quella esigua minoranza di persone che ricevono dall’Unhcr la certificazione di rifugiato, ma non godono in Libia un alcuno status legale, considerati sempre come migranti “illegali”. La questione della giurisdizione in acque internazionali appare profondamente mutata dopo la recente dichiarazione delle autorità libiche di Tripoli che rinunciano alla istituzione di una zona SAR libica richiesta all’IMO (Organizzazione internazionale marittima) nei mesi successivi alle intese del 2 febbraio scorso tra Italia e Tripoli, ma mai accolta per assenza di requisiti. Oltre ad essere significativa per gli sviluppi futuri, quanto dichiarato adesso dall’IMO e dal governo libico confermano uno scenario che era stato identificato dalle denunce degli operatori umanitari, ma che il governo italiano aveva pervicacemente negato. Non esisteva, non è mai esistita una zona SAR libica, e dunque le autorità italiane hanno concluso accordi ed attuato prassi operative con uno stato che al di là delle proprie acque territoriali (12 miglia dalla costa) non poteva garantire alcun intervento di ricerca e soccorso in conformità alle norme imposte dalle Convenzioni internazionali. I comandi di “stand by” impartiti dal Comando centrale della Guardia costiera (MRCC) alle navi umanitarie che potrebbero intervenire con immediatezza in acque internazionali, e la “chiamata” alle autorità libiche, designate in un secondo momento come “Autorità Sar responsabile”, implicano scelte che corrispondono negli effetti ad un vero e proprio respingimento collettivo, attuato dalle autorità italiane in concorso con gli assetti europei presenti in acque internazionali. Occorre sospendere gli accordi con il governo di Tripoli, e con gli altri governi che non rispettano i diritti umani. Vanno riaperti canali sicuri e regolari in Europa per rifugiati e migranti, anche attraverso il reinsediamento, l’asilo umanitario e i visti umanitari, il ricongiungimento familiare, la mobilità dei lavoratori per livelli di competenza e visti di studio; il diritto di richiedere asilo in qualsiasi circostanza, anche nei centri Hotspot, deve essere assicurato. Occorre garantire che le politiche e le prassi di controllo delle frontiere dell’UE proteggano le persone e i loro diritti, e non abbiano lo scopo esclusivo, peraltro del tutto vano, di fermare i movimenti migratori. Saranno questi gli impegni per i quali continueranno a battersi nei prossimi mesi le centinaia di associazioni che hanno chiesto la sessione di Palermo del Tribunale permanente dei popoli. *Adif (Associazione Diritti e frontiere). Esponente della Requisitoria finale nella sessione di Palermo del Tribunale permanente dei popoli Dall’ex Jugoslavia alla corte dell’Aja, quei tribunali troppo scomodi di Gigi Riva La Repubblica, 22 dicembre 2017 Dopo 25 anni chiude l’organo creato per i crimini della guerra nei Balcani. Un tentativo di giustizia internazionale osteggiato da sempre più Paesi. Il Tribunale penale internazionale (Tpi) per i crimini nell’ex Jugoslavia è stato fondato ne11993 all’Aja (Olanda) su decisione del Consiglio di sicurezza Onu. La corte ha giudicato i crimini commessi in Croazia, Bosnia-Erzegovina, Kosovo e Macedonia durante i conflitti degli anni Novanta. È stata la prima corte per crimini di guerra in Europa dai tempi del Processo di Norimberga. Del tribunale dell’Ala per i crimini nella ex Jugoslavia che ha chiuso ieri i battenti dopo 25 anni resterà, indimenticata, la sua ultima immagine pubblica: lo spettacolare suicidio in diretta tv di Slobodan Praljak, capo politico e militare dei croati di Bosnia. La sua condanna è stata giudicata “politica” e “inaccettabile” a Zagabria perché il verdetto chiama in causa anche le responsabilità di Franjo Tudjman, il padre della patria, sottratto al processo solo dalla morte. Lo stesso hanno fatto, i croati, con tutti i compatrioti giudicati colpevoli. Esattamente la stessa postura adottata dai serbi coi loro “campioni nazionali” ma “criminali” per il diritto internazionale. Il segno che nessuna delle parti in causa ha mai accettato un giudice terzo. Nel tribunale si sono celebrati, in totale, 103 processi per 161 imputati, 4600 testimoni ascoltati e un milione 300mila pagine di documenti prodotti: uno straordinario archivio a disposizione ora degli Stati frutto della dissoluzione di quella che fu la Federazione di Tito, quando e se vorranno finalmente guardare con occhi lavati dal pregiudizio etnico la loro storia recente. Sorto sull’esempio di Norimberga, ma senza i limiti della “giustizia dei vincitori” (semmai, in questo caso, sono stati i parziali vincitori a finire alla sbarra) e con ampie garanzie per gli accusati fornite da magistrati neutrali, il Tribunale ha tuttavia funzionato tra perenni polemiche. Fu il risultato, all’origine, dell’idea che il nuovo ordine mondiale scaturito dalla fine della Guerra fredda meritasse un organismo capace di perseguire i delitti più atroci in nome di un’intera umanità capace di condividere valori universali. Una globalizzazione del diritto che accompagnava quella economica in un mondo che si credeva senza confini e che immaginava una governance comune. Fu anche il viatico per la creazione, nove anni dopo nel 2002, della Corte penale internazionale con sede sempre all’Ala, su decisa spinta di 300 Ong tra cui si distinse per attivismo l’italiana “Non c’è pace senza giustizia”, galassia radicale di Emma Bonino e Marco Pannella. Lo spirito del tempo che produsse la nascita della Corte si rivelò tuttavia di breve durata, ben presto travolto dalla forza centrifuga dei risorgenti nazionalismi. La volontà di essere “padroni in casa propria”, di non cedere quote di sovranità, di difendere i consanguinei contro imprecisati complotti orditi all’estero, hanno reso claudicante il Tribunale, al quale non hanno mai aderito, peraltro, potenze come la Cina, la Russia, gli Stati Uniti (e Israele). Preoccupati, questi ultimi, delle conseguenze sulle migliaia di soldati sparsi per il pianeta spesso coinvolti in episodi non edificanti (eufemismo). Washington si è fermamente opposta all’apertura di un’inchiesta, ora assegnata a una Camera preliminare, sui crimini di guerra commessi in Afghanistan dopo il 2002 da 007 di Kabul, talebani e militari Usa e agenti della Cia sospettati dalla procuratrice capo gambiana Fatou Bensouda di “tortura, trattamenti crudeli e stupri”. Putin da parte sua teme gli sbocchi di un fascicolo già aperto contro i russi per il conflitto in Georgia (2008) e di un dossier che potrebbe riguardare l’Ucraina. Non solo i grandi sono critici. Diversi Paesi africani definiscono la Corte “tribunale dei bianchi”, insinuando un sospetto di razzismo strisciante sulla scorta del dato per cui nove procedimenti aperti su dieci riguardano il Continente Nero. Il Burundi è uscito dall’elenco degli Stati aderenti, Sudafrica e Gambia hanno già minacciato di fare altrettanto. Succede questo quando, in una Terra diseguale, continua ad essere attuale la massima di Pascal per cui “non potendo fare che ciò che è giusto fosse forte abbiamo fatto che ciò che è forte fosse giusto”. E dove i “nostri” vanno difesi a qualunque costo. Anche se sono i peggiori. Egitto. Giulio Regeni fu pedinato fino alla sua scomparsa, 10 egiziani coinvolti di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 22 dicembre 2017 Il ruolo del maggiore Sharif e del capo degli ambulanti: cinque uomini hanno partecipato al rapimento, altri cinque al depistaggio. L’hanno sorvegliato e seguito fino alle sue ultime ore di libertà, fino al giorno della sua scomparsa. Con una pressione tale da trasformarsi in fondati sospetti. E adesso tutti gli indizi a carico di almeno cinque uomini degli apparati di sicurezza egiziani per il sequestro e l’omicidio di Giulio Regeni sono a disposizione degli inquirenti del Cairo. Se le dichiarazioni d’intenti hanno un senso, e se davvero c’è la volontà di dare seguito ai proclami per arrivare a “identificare i responsabili” dell’uccisione del giovane ricercatore friulano sparito nella capitale egiziana il 25 gennaio 2016 e ritrovato cadavere il 2 febbraio, lo si capirà dalle prossime mosse della magistratura locale. Quella di Roma ha fatto tutto ciò che era nelle sue possibilità con il materiale messo a disposizione dall’Egitto, anche se adesso n’è aggiunto altro; ora però tocca agli egiziani dimostrare di volersi muovere nei confronti degli indiziati. Anche attraverso una sorta di co-gestione dell’inchiesta proposta dai colleghi italiani. Più di una formalità - Ancora ieri la collaborazione tra i due uffici giudiziari è stata ribadita nell’incontro che s’è svolto al Cairo tra il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e il suo sostituto, Sergio Colaiocco, con il procuratore della Repubblica araba d’Egitto Nabel Sadek. Una riunione concordata dopo il lavorio politico-diplomatico delle scorse settimane, per procedere a un ulteriore scambio di informazioni e di atti, di cui ha dato conto uno scarno ma significativo comunicato congiunto. Non una semplice formalità, dal momento che entrambe le parti hanno sottolineato l’importanza di quanto messo a disposizione dell’altra. La ricostruzione dei fatti - Gli egiziani hanno “presentato le trascrizioni e i documenti su nuovi elementi dell’indagine”, che ora saranno esaminati dagli inquirenti italiani; in particolare le dichiarazioni dell’ultimo poliziotto individuato, e di cui da Roma era stato chiesto l’interrogatorio. Pignatone e Colaiocco, invece, hanno consegnato l’informativa che riassume il lavoro svolto dai poliziotti del Servizio centrale operativo e dai carabinieri del Ros sugli atti già messi a disposizione degli egiziani. Una “articolata e attenta ricostruzione dei fatti” resa possibile - soprattutto - dall’incrocio tra testimonianze e tabulati telefonici, dalla quale emergono elementi a carico di dieci appartenenti alla polizia locale e alla National security in due episodi chiavi della vicenda Regeni: da un lato la sparizione, avvenuta il 25 gennaio 2016 al Cairo; dall’altro il depistaggio per attribuirne la responsabilità a una banda di banditi comuni uccisi dalle forze di sicurezza. I nomi - Del primo gruppo, indiziato del rapimento del ricercatore friulano, fanno parte il maggiore Magdi Ibrqaim Abdlaal Sharif, il capitano Osan Helmy, e altre tre persone; del secondo il colonnello Mahmud Handy e altri quattro. Sharif è il militare che teneva i contatti con l’ex capo del sindacato autonomo dei venditori ambulanti Mohammed Abdallah, il quale aveva intrecciato i rapporti con Regeni per la sua ricerca sul campo e di fatto l’ha “venduto” agli apparati egiziani attraverso una denuncia sfociata in controlli sempre più serrati. Da Sharif e dal suo ufficio, Abdallah ricevette l’apparecchiatura per registrare il colloquio con Giulio del 6 gennaio 2016, nel quale si discuteva del finanziamento che il ricercatore italiano s’era impegnato a sollecitare, prima di scoprire che l’uomo voleva i soldi per sé. Il pedinamento - Dopo quell’incontro, i contatti tra Abdallah e Sharif sono proseguiti, ed è determinante - nella ricostruzione degli investigatori - ciò che il maggiore fece comprendere al sindacalista quando questi lo avvisò di aver fissato un nuovo appuntamento con Giulio per il 26 gennaio: “Da come mi parlò, ho capito che i controlli su Giulio sarebbero proseguiti nei giorni successivi, fino al 25 gennaio”, ha detto Abdallah agli inquirenti. Cioè il giorno del sequestro. Quasi un’accusa diretta: quando è scomparso, il ricercatore era pedinato dagli uomini di Sharif, ed è difficile immaginare che in una città presidiata dalle forze dell’ordine altri potessero inserirsi nella rete che gli era stata costruita intorno e portarlo via. Il ragionamento logico, secondo gli investigatori italiani, è confermato dai tabulati telefonici di Sharif, Helmy e gli altri tre sospettati di aver preso parte alla sorveglianza di Giulio, e ora al suo rapimento, a cui seguirono le torture e la morte. Poi ci sono i contatti tra gli appartenenti al gruppo accusato del depistaggio, e le tracce di colloqui tra entrambe i gruppi con altri ufficiali della Sicurezza. Ora tocca agli egiziani procedere, con il supporto della magistratura italiana confermato ieri da Pignatone. Polonia. “In pericolo lo stato di diritto”, procedura Ue contro Varsavia di Marco Bresolin La Stampa, 22 dicembre 2017 Per la prima volta attivato l’articolo 7 del Trattato: al via l’iter per le sanzioni. La Polonia: andiamo avanti. Il presidente Duda: sì alla riforma della giustizia. Il grilletto stava per essere premuto a luglio, poi un ripensamento in extremis aveva fermato la mano della Commissione europea. Ieri però Bruxelles ha deciso che non è più tempo per temporeggiare e ha attivato l’articolo 7 del Trattato contro la Polonia. La misura, applicata per la prima volta nella storia, è una risposta alle recenti riforme del sistema giudiziario di Varsavia, che mettono a rischio lo Stato di diritto e la separazione dei poteri. Teoricamente, l’iter avviato potrebbe portare a una serie di sanzioni, tra cui la perdita del diritto di voto. Per arrivare fin lì servirà il via libera all’unanimità degli Stati membri dell’Ue. Scenario poco probabile, visto che l’Ungheria ha già annunciato di voler bloccare il provvedimento. Ma quello deciso dalla Commissione è comunque un atto drastico che rischia di infiammare i già surriscaldati animi con il sesto Paese europeo per numero di abitanti, alimentando i sentimenti anti-Ue cavalcati dai partiti populisti. Era stato proprio il timore di questo effetto indesiderato, nei mesi scorsi, a nutrire i dubbi sull’utilità della misura. E infatti la risposta polacca è arrivata nei fatti: il presidente Andrzej Duda ha deciso di firmare altre due leggi che limitano i poteri della magistratura, mettendo i tribunali sotto un maggiore controllo politico. Il neo-premier Mateusz Morawiecki ha provato a gettare acqua sul fuoco, assicurando che cercherà il dialogo con Bruxelles. Ma il partito di maggioranza (PiS) insiste con la linea dura e bolla la mossa della Commissione come una “decisione politica”. Per Bruxelles, però, era necessario mandare un segnale. “Da luglio la situazione non è migliorata. Anzi, è addirittura peggiorata”, dice Frans Timmermans, vicepresidente della Commissione. “La Polonia non ci ha lasciato scelta”, aggiunge l’olandese, che elenca le 13 leggi che hanno messo a rischio l’indipendenza del potere giudiziario. Timmermans fa notare che, grazie a queste riforme, ora “la maggioranza di governo può interferire in modo sistematico nel funzionamento dell’autorità giudiziaria”. Ironia della sorte, ma neanche troppo, il partito che guida il Paese (PiS) si chiama Diritto e Giustizia. La Commissione ha dato tre mesi di tempo a Varsavia per rispondere alla raccomandazione inviata ieri (la quarta da quando è stato avviato il procedimento), che tra le altre cose chiede di modificare la legge sulla Corte Suprema, quella sul Consiglio nazionale della magistratura e di ristabilire l’indipendenza del Tribunale costituzionale. Se arrivassero segnali positivi, Bruxelles è pronta a fare marcia indietro. Il 9 gennaio il premier polacco vedrà Juncker: l’incontro servirà a capire che piega prenderà la vicenda. Le prossime tappe prevedono un voto dell’Europarlamento (con maggioranza dei due terzi), al momento schierato a fianco della Commissione, e poi il passaggio in Consiglio. Basterà il via libera da parte di 22 governi per confermare che esiste “un evidente rischio di violazione grave” dei valori fondamentali dell’Ue. Ma la certificazione della violazione deve essere poi approvata all’unanimità: senza questo passaggio non si potrà arrivare alle sanzioni (votate poi a maggioranza). Yemen. Triplicate le bombe Usa, 15mila i raid sauditi di Chiara Cruciati Il Manifesto, 22 dicembre 2017 Dopo mille giorni di guerra, il paese è devastato: +200% di bambini gravemente malnutriti, il 54% degli ospedali non lavora più. E la peggiore previsione è stata “rispettata”, ma non evitata: il colera ha contagiato un milione di yemeniti. Nella guerra invisibile a parlare sono i numeri, quelli delle bombe, dei morti, dei malati di colera. In mille giorni di offensiva saudita, sullo Yemen sono piovuti 15mila attacchi aerei. Il bilancio lo dà Save the Children che denuncia: il 92% dei raid su zone abitate (la stragrande maggioranza) hanno provocato vittime civili. Ovvero, quasi ogni bomba sganciata dalla coalizione sunnita a guida saudita ha danneggiato la popolazione, ferendola, uccidendola, devastandone la casa o il posto di lavoro. E dunque lasciandola in un dramma infinito, che non si può più chiamare emergenza. Perché è cronica: 4,5 bambini e donne incinte sono malnutriti, il 148% in più rispetto alla fine del 2014, prima che la guerra venisse lanciata; 462mila bambini sono gravemente malnutriti, +200%; 1.900 strutture mediche su 3.507 (54%) sono inagibili perché totalmente distrutti o parzialmente danneggiati; 4,5 milioni di minori non vanno più a scuola. Numeri aberranti che si aggiungono a un dato pronosticato con ampio anticipo dalle organizzazioni internazionali, ma che non è stato comunque evitato: un milione di yemeniti è stato contagiato dal colera, la cui diffusione repentina è iniziata nell’aprile scorso e ha già ucciso 2.227 persone. Basterebbe un’adeguata idratazione - un po’ d’acqua pulita, tesoro rarissimo nel paese privato di ogni infrastruttura fondamentale - per evitare altre vittime, contagiate da cibo contaminato e acqua non potabile. Non si muore solo di colera: l’Organizzazione Mondiale della Sanità segnala anche la diffusione di febbre dengue e malaria. A nulla servono gli appelli delle organizzazioni umanitarie, mancando del tutto quelle dei governi e della stampa: lo Yemen non ha scatenato l’indignazione che ha caratterizzato altri conflitti. Un’omertà globale che garantisce libertà di movimento all’Arabia saudita (comunque incapace di uscire dal pantano), ma anche agli alleati oltreoceano: con l’amministrazione Trump che con una mano firma contratti di vendita di armi a Riyadh pari a 110 miliardi di dollari e con l’altra chiede moderazione alla petro-monarchia, il Pentagono fa sapere che nel 2017 - il primo anno di mandato del nuovo presidente - i raid Usa sullo Yemen sono triplicati. Sono stati 120, contro i 34 del 2016 e i 58 del 2015. “Queste operazioni hanno aiutato a svelare le reti terroristiche, a raccogliere informazioni di intelligence, a realizzare operazioni sempre più produttive ed efficienti”, dice il portavoce del commando centrale Usa. La strategia militare resta la stessa dell’era Obama: fare dello Yemen modello della guerra a distanza, con i droni, senza stivali sul terreno. Le vittime, però, ci sono seppure occulte: il caso più eclatante fu quella della bimba di 8 anni, Nawar al-Awkali, uccisa a gennaio di quest’anno in un raid Usa insieme a 29 persone, di cui 10 donne e due bambini. E al Qaeda nella Penisola Arabica, la più potente filiale della rete, non arretra: grazie al vuoto di potere e alle alleanze di comodo con le forze pro-saudite ha assunto il controllo di interi distretti nell’est del paese. Stati Uniti. L’arte fantasma di Guantánamo di Anna Lombardi La Repubblica, 22 dicembre 2017 Il mare di Khaled Quasim, l’esperto di esplosivi di al Qaeda da 15 anni a Guantánamo, è rosso come il sangue e infestato di pescecani. Quello di Mansur al-Dayfi, ex jihadista spedito in Serbia dopo 14 anni nel supercarcere, è un abisso dal quale due mani cercano di riemergere. Per Muhammad Ansi, ex bodyguard di Bin Laden rilasciato e trasferito in Oman, è una distesa azzurra su cui si staglia Lady Liberty di spalle. Il mare di Guantánamo così come lo hanno immaginato i prigionieri è il protagonista di una mostra intitolata Ode to the Sea al John Jay College of Criminal Justice, l’università di legge sulla 59sima strada a New York. È qui che sono esposte 36 opere dall’apparenza innocua, che però hanno fatto infuriare il Pentagono. D’ora in poi, è stato deciso, nessun quadro lascerà più la prigione che Barack Obama non riuscì a chiudere ma che ha praticamente svuotato, visto che nei giorni più cupi ospitò 779 persone e ora ne restano 41, di cui solo 9 incriminate. Le tele rimaste saranno bruciate. “Appartengono al governo americano” dice al New York Times il maggiore Ben Sakrisson, portavoce del Pentagono. Spiegando che la decisione serve a prevenire eventuali vendite: “Non sappiamo come potrebbero usare quei soldi”. E pazienza se le opere in vendita sono poche. “Solo quelle di quattro detenuti rimessi in libertà secondo l’accordo fatto da Obama con paesi terzi. Spediti in Serbia, Uruguay, Oman, faticano ad inserirsi e hanno bisogno di guadagnare” dice a Repubblica Erin Thompson, curatrice della mostra, che alla Columbia University insegna proprio Art Crime: “Da furti e distruzioni perpetrati dai nazisti fino agli sfregi all’arte dello Stato Islamico”. E pensare che era stata proprio l’amministrazione del carcere a organizzare - dal 2009, Obama appena insediato - corsi di pittura che tenessero occupati quei prigionieri isolati dal mondo. “Un passo importante” racconta Thompson “in un carcere dove dalle lettere ai familiari si cancellavano cuori e fiori con inchiostro nero e nei primi anni perfino forme di mollica di pane venivano sequestrate e analizzate nel timore che fossero messaggi per al Qaeda”. Naturalmente, i temi dei quadri erano controllati: vietato ritrarre persone e animali, non restavano che paesaggi. “Nel 2014 si avvicinò un uragano” racconta lo yemenita al Dayfi nel catalogo, spiegando il perché di tante marine. “Il vento era così forte che per la prima volta in 12 anni le guardie tirarono via i teloni che celavano quel mare di cui sentivamo l’odore, ma che non avevamo mai visto. Fu come una vacanza: non staccavamo gli occhi dalle onde. Quando tre giorni dopo rimisero i teli ci mettemmo tutti a dipingere il mare”. A New York ci sono almeno cento opere realizzate a Guantánamo: “Doni - spiega la curatrice - fatti dai detenuti agli avvocati per ringraziarli”. In mostra c’è anche il modellino di un galeone assemblato con materiali di fortuna da Moath al-Alwi, yemenita di 40 anni classificato come “forever prisoner”: mai accusato di crimini specifici, ma ritenuto troppo pericoloso per essere rilasciato. Molti dipingono luoghi che non hanno mai visto: “Tanti si sono innamorati proprio di quell’America che li ha incarcerati crudelmente. Partecipano a questa mostra per far capire che sono uomini e non bestie”. Non è bastato. “Sui social scrivono che glorifichiamo il terrorismo, che Guantánamo non è così male se i prigionieri dipingono. In realtà sono opere piene di disperazione”. Come i vortici astratti del pachistano Ammar al Baluchi, uno dei cinque prigionieri accusati di aver collaborato alla preparazione dell’11 settembre per aver mandato denaro a uno degli attentatori. I suoi dipinti, ha detto l’avvocatessa Alka Pradhan alla rivista Vice, “mostrano gli effetti delle torture. Vertigini procurate dal waterboarding”. Anche per questo, crede, il Pentagono non vuole che siano mostrate. In realtà parte delle opere realizzate a Guantánamo è già stata distrutta: durante lo sciopero della fame del 2013, quando le guardie razziarono le celle. Ecco perché la nuova minaccia di incenerire le opere rimaste per Erin Thompson “è una scelta insensata. Priverà i detenuti della loro unica voce: e questo è profondamente allarmante”.