Riforma delle carceri appesa ad un filo di Valter Vecellio lindro.it, 21 dicembre 2017 Pressing radicale su Palazzo Chigi. Ok di Orlando, si attende il sì di Gentiloni. Tra qualche mese saremo chiamati a decidere quali senatori e quali deputati mandare in Parlamento. Un po’ tutti sono impegnati a far promesse di futuri bengodi. L’esperienza del recente passato dovrebbe, potrebbe, insegnare qualche cosa, ma non è detto. Non è vero che la storia sia maestra di vita. Qui limitiamoci a osservare e ad annotare che nessuno dei concorrenti a un posto al desco partitocratico fa anche un accenno, nei suoi programmi, alla madre di tutte le emergenze, al problema di tutti i problemi: la giustizia e la sua appendice più drammatica e urgente: il carcere. Semplicemente, ignorano, deliberatamente, la questione. È altro che interessa. Cosi continuano a languire, nonostante lodevoli e apprezzabili propositi del ministro della Giustizia, riforme necessarie per velocizzare i processi, smaltire gli arretrati spaventosi, rendere più rispondenti alle esigenze della società legislazioni obsolete e farraginose, rendere più vivibili carceri sovraffollate di poveri cristi che non dovrebbero essere detenute. Questioni che qui abbiamo denunciato mille volte e al lettore ben note. Annotiamo, su questo fronte, l’unica novità. Dalla mezzanotte riparte il Satyagraha di alcuni dirigenti del Partito Radicale, rivolto al Presidente del Consiglio Gentiloni. Rita Bernardini, Deborah Cianfanelli e altri militanti del partito di Marco Pannella danno atto al ministro della Giustizia Orlando di aver trasmesso da tempo al capo del governo Paolo Gentiloni i decreti attuativi della riforma dell`ordinamento penitenziario; al tempo stesso riprendono l’iniziativa nonviolente “rivolta all’approvazione da parte del consiglio dei Ministri di una riforma sempre più necessaria e urgente per le condizioni in cui versano le carceri del nostro Paese, a partire dalla salute dei detenuti sempre più vittime di abbandono sanitario spesso a causa di irresponsabili decisioni dei giudici di sorveglianza, come testimonia la vicenda di Marcello Dell`Utri, più che mai rappresentativa dei tantissimi casi di detenuti che in carcere non sono adeguatamente curati persino quando sono affetti da malattie gravissime”. Il ministro della Giustizia Orlando fa sapere, intervistato da “Repubblica” che i testi dei quattro decreti “sono da settimane a Palazzo Chigi in attesa di essere approvati in Consiglio dei ministri”. Secondo le intenzioni, daranno corpo alle nuove norme riguardanti le misure di sicurezza, le pene alternative, la giustizia riparativa e l’ordinamento dei carceri per adulti e di quelli per minori. Ma l’approvazione di palazzo Chigi non è sufficiente. Per concludere l’iter entro la fine della legislatura, pena l’azzeramento di tutta la riforma, occorre un ulteriore passaggio nelle commissioni Giustizia parlamentari, a cui farà seguito la definitiva deliberazione del governo. Di qui l’allarme e la “pressione” dei Radicali: se i decreti delegati non troveranno posto nell’ordine del giorno del prossimo Cdm che si dovrebbe tenere il 22 o il 23 dicembre (il governo si è mostrato particolarmente sensibile all’opposizione di alcune sigle sindacali di polizia penitenziaria), andrà in fumo la riforma messa a punto da decine di esperti riuniti per mesi attorno a tavoli di lavoro ad hoc. 52 suicidi dall’inizio dell’anno. La strage silenziosa nelle carceri italiane di Marco Sarti linkiesta.it, 21 dicembre 2017 In 17 anni quasi mille detenuti si sono tolti la vita dietro le sbarre. È un tema che porta pochi voti, difficilmente entrerà in campagna elettorale, ma la situazione delle carceri è sempre più difficile. Celle sovraffollate, violenze, pochi agenti. In questi giorni il governo vara nuove misure. L’ultimo suicidio è avvenuto pochi giorni fa nel carcere di Benevento. A impiccarsi è stato un ergastolano di trentanove anni. Dall’inizio dell’anno è il cinquantaduesimo detenuto che si toglie la vita. L’ennesimo dramma che segue di poche ore quanto accaduto anche a Regina Coeli, Terni e San Vittore. Una strage lunga e troppo spesso silenziosa. Stando ai dati di Ristretti Orizzonti, negli ultimi diciassette anni i suicidi dietro le sbarre sono stati 985. Quasi mille morti. “Ogni suicidio è sicuramente una storia e sé - ha spiegato il presidente dell’associazione Antigone Patrizio Gonnella - un gesto individuale di disperazione. Detto questo, ogni suicidio è anche il fallimento di un processo di conoscenza e presa in carico di una persona”. L’argomento non sposta voti, difficilmente entrerà in campagna elettorale. Eppure, nonostante gli sforzi degli ultimi anni, l’universo carcerario italiano resta una realtà difficile. Sempre secondo i dati di Antigone, da Nord a Sud le strutture carcerarie sono sempre più inadeguate e affollate. A fine novembre in tutto il Paese si contavano oltre 58mila detenuti, rinchiusi all’interno di istituti che potrebbero ospitarne solo 50.241. Un tasso di affollamento del 115,1 per cento. È un fenomeno in crescita, solo un anno prima i reclusi erano 4mila in meno. Ma soprattutto è una realtà che in alcune situazioni diventa insostenibile. Basta pensare al poco invidiabile primato degli istituti di pena di Lodi e Larino, dove l’affollamento carcerario ormai arriva al 200 per cento. Il doloroso fenomeno dei suicidi in carcere può essere spiegato anche alla luce di questi numeri. Centinaia e centinaia di vicende drammatiche che “non si prevengono con la sorveglianza asfissiante - insiste Gonnella - ma con i colloqui individuali, il sostegno psicosociale, la liberalizzazione delle telefonate, la sorveglianza dinamica, l’umanità del trattamento”. Molto è stato fatto, si diceva. In questi giorni il Consiglio dei ministri dovrà varare alcuni decreti attuativi della riforma carceraria. Tra le novità è prevista maggiore attenzione alla sfera dell’affettività, dei rapporti familiari e della salute dei detenuti. Ma soprattutto un maggior ricorso alle pene alternative durante l’esecuzione della condanna. “Anche nel carcere - ha chiarito il Guardasigilli Andrea Orlando in un’intervista a Repubblica - si introduce maggiore responsabilizzazione: più occasioni di lavoro, di studio, di attività. Allo stesso tempo basta automatismi: accedi agli sconti di pena e alle misure alternative solo se c’è un comportamento di responsabilità e segui percorsi di rieducazione”. Intanto la situazione resta molto difficile. Alcuni dati presentati in queste settimane a Montecitorio raccontano la realtà dietro le sbarre. Le difficili condizioni della detenzione creano problemi in buona parte degli istituti. Solo nell’ultimo anno, come denuncia un’interrogazione del deputato Mauro Pili, si sono verificate 8mila aggressioni. “A cui si affiancano poco meno di 10mila casi di autolesionismo e circa 11mila manifestazioni di protesta non collettiva”. E così le celle diventano un luogo di disagio diffuso. Una realtà preoccupante che in alcuni casi può arrivare a favorire percorsi di radicalizzazione jihadista. È un fenomeno che non interessa solo il nostro Paese, tornato di attualità a un anno esatto dalla morte di Anis Amri (il tunisino autore della strage al mercatino natalizio di Berlino e a lungo detenuto in Italia). Oggi nei nostri istituti di pena ben 506 reclusi sono sottoposti a monitoraggio per il rischio di radicalizzazione. In 240 casi si tratta di controlli ad alto livello. Se crescono gli episodi di violenza, destano preoccupazione anche altri fenomeni. Una lunga interrogazione del Movimento Cinque Stelle passa in rassegna i recenti casi di evasione. Da gennaio a giugno scorsi, così si legge nel documento a prima firma Vittorio Ferraresi, si sarebbero verificate ben 6 evasioni da istituti penitenziari, 17 da permessi premio e di necessità, 11 da lavoro all’esterno, 11 da semilibertà e 21 mancati rientri di internati. Anche questo problema, come i precedenti, è strettamente legato alle carenze d’organico tra gli agenti in servizio. La questione è poco discussa, eppure rappresenta un’altra fondamentale criticità del sistema. “La situazione delle carceri italiane è sempre più drammatica - ha denunciato a inizio dicembre il deputato Edmondo Cirielli - e a farne le spese è soprattutto il Corpo di polizia penitenziaria, sottodimensionato di oltre tremila unità e costretto a turnazioni di lavoro massacranti e straordinari non sempre retribuiti”. Le conseguenze non riguardano solo la sicurezza all’interno degli istituti di pena. Stando al parlamentare, la polizia penitenziaria detiene il primato del più alto tasso di suicidi tra tutte le compagini delle forze dell’ordine. “Troppo spesso, inoltre, gli agenti sarebbero oggetto di feroci aggressioni da parte dei detenuti: in media 12 ogni giorno sono costretti a ricorrere a cure mediche”. I Cinque Stelle denunciano un incisivo taglio lineare delle piante organiche della polizia penitenziaria. Da 41.335 unità nel 2013, si legge nel documento depositato alla Camera, a 37.181 unità nel 2017. Il governo risponde. Per migliorare le condizioni carcerarie a breve è previsto l’ingresso di nuovi operatori sociali. Negli ultimi mesi, poi, si è proceduto a sbloccare le assunzioni del personale di polizia penitenziaria. Grazie al Mille proroghe dello scorso anno, è stato avviato l’iter per l’assunzione di 887 agenti che “appena ultimato il corso di formazione andranno a colmare, in parte, il vuoto in organico del corpo di polizia penitenziaria”. Non solo. Come ha chiarito l’esecutivo in commissione Giustizia, anche la legge di bilancio “contiene la previsione di una specifica norma volta a consentire l’avvio di procedure straordinarie di assunzioni nell’ambito delle Forze di polizia, tra le quali un totale di 861 destinate ai ruoli del Corpo di polizia penitenziaria”. Forse non è ancora abbastanza, ma qualcosa si muove. Carceri minorili, ingiusto gestirle con le stesse regole di quelle per adulti di Susanna Marietti Il Fatto Quotidiano, 21 dicembre 2017 L’associazione Antigone ha presentato lunedì il suo quarto Rapporto sulle carceri minorili italiane, ospitato sul nuovo portale ragazzidentro.it, interamente dedicato alla giustizia penale minorile. È un tema di cui non si sente molto parlare. Difficilmente i media raccontano cosa succede nel sistema della giustizia minorile, chi sono i ragazzi che vi entrano, come funziona l’esecuzione delle pene, cosa fanno i giudici, gli operatori, i servizi sociali. È ben più facile sentir parlare delle carceri per adulti che di quelle per i minori. Perché accade questo? Perché la giustizia minorile in Italia funziona. E allora, dov’è la notizia? Nessuna situazione drammatica, nessun caso eclatante, nessuna condanna da parte dell’Europa nei confronti delle istituzioni italiane, nessuna tragedia annunciata di suicidi o malattie non curate. E invece dovremmo parlare della nostra giustizia penale minorile almeno per due motivi. Il primo è che essa costituisce qualcosa di cui possiamo e dobbiamo essere fieri di fronte all’intera Europa. Far conoscere il nostro modello significa sperare di riuscire a esportarlo, a diffonderlo, a migliorare altre condizioni con il nostro esempio. Il secondo è che, comunque e sempre, si può fare di meglio. E dunque è giusto discuterne e ragionarvi. Non è un caso che il titolo del Rapporto di Antigone sia “Guardiamo oltre”. Ci sono vari aspetti nell’esecuzione penale per i minorenni rispetto ai quali dobbiamo oggi guardare oltre. Dal Rapporto emerge come, al 15 novembre, siano 452 i ragazzi detenuti nelle 16 carceri minorili italiane. Il carcere è qui realmente extrema ratio, cosa che certo non accade nel sistema degli adulti (dove i detenuti sono oggi oltre 58.000). Se, tra gli adulti, ogni cento persone segnalate dall’autorità giudiziaria si riscontrano circa 25 condanne e sono infine in 7 a entrare in galera, tra i minori i numeri scendono a 10 condanne e, di media, meno di 4 ingressi in Istituto. Cosa c’è dunque che non va? Sicuramente l’incapacità anche del sistema minorile di superare la propria selettività. La scelta dei 4 che entrano in carcere non è dettata solo dalla gravità del reato commesso ma anche e soprattutto dalla marginalità sociale del ragazzo, dal suo essere o meno dotato di legami famigliari o altro sostegno sul territorio. Non a caso ben il 44% della popolazione detenuta nelle carceri per minori è composto da giovani stranieri. Chi non ha una dimora stabile, chi vive in un campo rom, chi non ha una famiglia che può assicurare un legame duraturo con gli assistenti sociali, fatica a essere destinatario delle tante misure alternative alla detenzione o al processo che il codice di procedura penale minorile permette. Dobbiamo dunque guardare oltre. Dobbiamo inventarci modalità ulteriori di presa in carico sul territorio che siano inclusive e non lascino da parte ragazzi ancora in via di formazione cui la società non può permettersi di rinunciare etichettandoli come criminali. E poi dobbiamo guardare oltre anche una volta fatto ingresso in carcere. Non è possibile che le carceri per minori siano gestite con le stesse regole delle carceri per adulti. Gli adolescenti hanno esigenze differenti rispetto agli adulti e necessitano di competenze differenti. Era il 1975 quando il legislatore scrisse che l’ordinamento penitenziario degli adulti sarebbe stato applicato ai minori per il solo tempo strettamente necessario a redigerne uno apposito. Ciò non venne mai fatto. Adesso il ministro Orlando ha annunciato che prima di Natale avremo, tra le altre cose, nuove regole carcerarie per gli Istituti di pena minorili. Per chi si occupa di carcere è un momento storico. Aspettiamo di leggere i contenuti della riforma e speriamo davvero che sia di portata memorabile. Tenuità del fatto: il Gip non può archiviare de plano se l’indagato si oppone di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 21 dicembre 2017 Corte di cassazione - Sezione II - Sentenza 20 dicembre 2017 n. 56942. Il gip non può archiviare de plano il procedimento per la particolare tenuità del fatto senza notificare le decisione all’imputato che si era già dichiarato contrario. La Corte di cassazione, con la sentenza 56942 depositata ieri, accoglie il ricorso contro la scelta del giudice delle indagini preliminari di archiviare senza fissare un’apposita udienza, malgrado ci fosse un atto di opposizione da parte del diretto interessato. La Suprema corte ricorda che il Dlgs 28 del 2015 che ha introdotto la particolare tenuità del fatto, ha in effetti previsto la possibilità di anticipare la dichiarazione di non punibilità in fase di indagini preliminari per rendere più incisiva la finalità deflattiva della norma ed effettivo l’alleggerimento del carico di lavoro degli uffici giudiziari. Il procedimento di archiviazione deve però necessariamente prevedere un “confronto” con l’indagato o con la persona offesa sulla richiesta del Pm, che li metta nella condizione di contestare la particolare tenuità del fatto, nel caso dell’indagato perché punta ad una piena assoluzione nel merito e nel caso della parte lesa perché ha interesse a dimostrare che il fatto non è di lieve entità. Per questo la norma prevede che sia la persona offesa sia quella sottoposta alle indagini preliminari sia no avvisate della richiesta di archiviazione alla quale possono opporsi entro 10 giorni e il giudice, se non rileva motivi di inammissibilità, deve fissare l’udienza camerale dandone notizia al Pm, all’indagato e alla parte lesa. È dunque evidente, per la Cassazione, che il mancato esame dei motivi dell’opposizione presentata dal ricorrente determina la nullità insanabile del decreto del Gip. Il patteggiamento penale giustifica il licenziamento di Giuseppe Bulgarini d’Elci Il Sole 24 Ore, 21 dicembre 2017 Corte di cassazione - Sentenza 30328/2017. Alla sentenza di patteggiamento che definisce il processo in sede penale può essere legittimamente attribuita piena efficacia probatoria nell’ambito di un procedimento disciplinare che si conclude con il licenziamento del lavoratore. Con sentenza 30328/2017 la Corte di cassazione osserva che, addivenendo al patteggiamento, l’imputato/lavoratore non nega i fatti e accetta la condanna, con la conseguenza che le componenti fattuali sulla scorta delle quali è stata emessa la sentenza penale di patteggiamento hanno valore probatorio al fine di giustificare il licenziamento sul piano disciplinare. Il caso sul quale si è pronunciata la Suprema corte è relativo alla dipendente di un ente locale condannata a una pena detentiva per avere indotto una collega d’ufficio, affetta da una condizione di deficit psichico, alla prostituzione. Il processo penale si è concluso con sentenza di patteggiamento, all’esito del quale il datore di lavoro ha promosso e, quindi, concluso un’azione disciplinare con licenziamento per giusta causa. La Corte d’appello di Milano ha confermato la legittimità del provvedimento espulsivo e la dipendente ha interposto ricorso per Cassazione sul presupposto, tra l’altro, che la sentenza penale di patteggiamento non può costituire, in assenza di un riesame dei fatti, idonea base per giustificare il licenziamento. La Cassazione rigetta questa lettura e conferma che in sede civile può essere attribuita piena efficacia probatoria a fatti e responsabilità ricostruiti nella sentenza di patteggiamento, atteso che in quella sede il lavoratore/imputato, accettando o, quantomeno, consentendo l’applicazione della condanna penale, non contesta né i fatti penalmente rilevanti né la loro riconducibilità a una sua responsabilità. Sulla scorta di queste considerazioni in merito alla rilevanza anche probatoria della sentenza penale di patteggiamento, la Corte di cassazione valorizza la condotta illecita extra-lavorativa ascritta alla dipendente, rimarcando come essa sia idonea a giustificare il licenziamento, nell’ambito di un rapporto di lavoro, ogni qual volta siano lesi gli interessi morali e materiali del datore di lavoro. Precisa la Suprema corte che il dipendente oltre ad adempiere le obbligazioni che discendono dal contratto di lavoro, è tenuto a non porre in essere, anche fuori dal contesto lavorativo, azioni che per la loro anti-socialità siano tali da scuotere il rapporto fiduciario. Laddove, poi, il datore di lavoro sia un ente pubblico, il grado di fiducia che si deve poter riporre nella condotta dei dipendenti al di fuori della sfera lavorativa assume rilievo ancora maggiore e contribuisce a giustificare il licenziamento in tronco. La Consulta: espulsione di stranieri da normare Italia Oggi, 21 dicembre 2017 L’accompagnamento coattivo alla frontiera è una modalità esecutiva del respingimento differito dello straniero, che “restringe la libertà personale (sentenze n. 222 del 2004 e n. 105 del 2001)” e perciò “richiede di essere disciplinata in conformità all’articolo 13, terzo comma, della Costituzione”. È quindi necessario che il legislatore intervenga sul relativo regime giuridico. Il monito è contenuto nella sentenza n. 275 depositata ieri (relatore Giorgio Lattanzi) con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 10, secondo comma, del dlgs 25 luglio 1998 n. 286 (T.u. immigrazione) sollevate dal tribunale di Palermo. La disposizione censurata, spiega una nota della Consulta, disciplina due ipotesi di respingimento, cosiddetto differito, dello straniero, entrambe con accompagnamento coattivo alla frontiera. Respingimento che secondo il tribunale comporterebbe una restrizione della libertà personale, in violazione dell’art. 13 della Costituzione. Le questioni sono state dichiarate inammissibili per difetto di rilevanza. Dunque la Corte non è potuta entrare nel merito, anche se ha lasciato intendere che le disposizioni impugnate sono in odore di incostituzionalità. Di qui il monito al legislatore a modificarle per rendere la procedura conforme alla Costituzione. “L’inammissibilità”, si legge nella sentenza, “non può esimere la Corte dal riconoscere la necessità che il legislatore intervenga sul regime giuridico del respingimento differito con accompagnamento alla frontiera, considerando che tale modalità esecutiva restringe la libertà personale (sentenze n. 222 del 2004 e n. 105 del 2001) e richiede di conseguenza di essere disciplinata in conformità all’articolo 13, terzo comma, della Costituzione” (secondo cui: “In casi eccezionali di necessità e urgenza, indicati tassativamente dalla legge l’autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto”. I requisiti del reato di appropriazione indebita Il Sole 24 Ore, 21 dicembre 2017 Caparra - Mancata restituzione - Impossessamento di cosa altrui - Esclusione - Passaggio della somma nel patrimonio dell’accipiens - Appropriazione indebita - Esclusione. L’acconto di prezzo relativo a un preliminare che la parte promissaria acquirente versa al promittente venditore, in ambito penale, non differisce dalla caparra in quanto entrambi non hanno alcun impiego vincolato: di conseguenza, entrando la somma di denaro a far parte del patrimonio dell’accipiens, a carico di costui, nel caso in cui il contratto venga meno fra le parti con conseguenti effetti restitutori, matura solo un obbligo di restituzione che, ove non adempiuto, integra solo gli estremi di un inadempimento di natura civilistica (in senso difforme Cass. pen. 48136 del 2013). • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 4 dicembre 2017 n. 54521. Contratto di spedizione - Conferimento di somme versate allo spedizioniere per il pagamento dei diritti doganali - Sistema del “differito doganale” - Utilizzazione del denaro per scopi diversi - Reato di appropriazione indebita - Sussistenza. Il fondamento del reato di appropriazione indebita di cui all’articolo 646 c.p. deve essere individuato nella volontà del legislatore di sanzionare penalmente il fatto di chi, avendo l’autonoma disponibilità della “res”, dia alla stessa una destinazione incompatibile con il titolo e le ragioni che ne giustificano il possesso, anche nel caso in cui si tratti di una somma di danaro. Se, dunque, il possesso di una somma di denaro da parte del soggetto agente, trova giustificazione nello scopo e nei limiti di un incarico conferitogli ciò implica, in mancanza di una espressa facoltà di utilizzazione di tale somma, un implicito divieto di utilizzazione, senza acquisizione della proprietà del denaro stesso da parte dell’agente, che, pertanto, non può appropriarsi del denaro ricevuto utilizzandolo per propri fini e, quindi, per scopi diversi ed estranei agli interessi di chi gli ha conferito l’incarico. (Nel caso di specie, secondo la Suprema corte, commette il reato di appropriazione indebita lo spedizioniere che ricevute somme di denaro dal cliente per il pagamento dei diritti doganali e potendo, in base al sistema del “differito doganale”, effettuare il pagamento entro 180 giorni, non vi provveda a causa del fallimento della società di spedizione). • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 17 giugno 2016 n. 25281. Quota di retribuzione trattenute dal datore di lavoro e destinate a terzi creditori - Omesso versamento - Configurabilità del reato di appropriazione indebita - Esclusione. Può essere ritenuto responsabile di appropriazione indebita colui che, avendo ricevuto una somma di denaro o altro bene fungibile per eseguire o in esecuzione di un impiego vincolato, se ne appropri dandogli destinazione diversa e incompatibile con quella dovuta. Non potrà, invece, ritenersi responsabile di appropriazione indebita colui che non adempia a obbligazioni pecuniarie cui avrebbe dovuto far fronte con quote del proprio patrimonio non conferite e vincolate a tale scopo; di conseguenza non integra il reato di appropriazione indebita, ma mero illecito civile, la condotta del datore di lavoro che ha omesso di versare al cessionario la quota di retribuzione dovuta al lavoratore e da questo ceduta al terzo. • Corte di cassazione, sezioni Unite, sentenza 20 ottobre 2011 n. 37954. Omesso versamento alla cassa edile delle somme trattenute dal datore di lavoro per ferie, gratifiche natalizie e festività - Reato di appropriazione indebita - Esclusione - Illecito amministrativo, ex articolo 13 d.lgs. n. 758 del 1994 - Configurazione a carico del datore di lavoro di infrazione amministrativa. Il denaro “trattenuto” dal datore di lavoro al dipendente rimane sempre nel “patrimonio” del datore di lavoro, confuso con tutti gli altri diritti e beni che lo compongono. Il lavoratore, di conseguenza, non acquista alla scadenza la proprietà delle somme trattenute, e il datore di lavoro non perde la “proprietà” di tale somme, ma ha soltanto l’obbligo, analogamente a quanto avviene per il sostituto d’imposta, di versarle alla Cassa Edile e agli Enti di Previdenza nella misura e alle scadenze previste dalle singole disposizioni; questo comporta, secondo la Suprema corte, che il mancato versamento delle trattenute in percentuale da parte del datore di lavoro sulla retribuzione per il versamento alle Casse edili può configurare unicamente la infrazione amministrativa prevista dall’articolo 13 D.Lgs. 19 dicembre 1994 n. 758, che ha sostituito integralmente l’ articolo 8 L. 14.07.1959, n. 741. • Corte di cassazione, sezioni Unite, sentenza 19 gennaio 2005 n. 1327. Avvocato radiato per bancarotta, reiscrizione con nuove regole di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 21 dicembre 2017 Corte di cassazione - Sezioni unite civile - Sentenza 20 dicembre 2017 n. 30589. L’avvocato radiato dall’albo per bancarotta fraudolenta non può richiedere l’applicazione delle precedente disciplina più favorevole se la domanda di reiscrizione è stata presentata dopo l’entrata in vigore della nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense (legge 247/2012). Le Sezioni unite della Corte di cassazione, sentenza 20 dicembre 2017 n. 30589, hanno così respinto il ricorso di un legale contro la decisione del Consiglio nazionale forense che aveva confermato la sanzione inflitta al professionista dal Consiglio dell’ordine degli avvocati di Monza. Il Cnf, dunque, in primo luogo, ha rilevato “l’infondatezza della tesi secondo cui avrebbero dovuto applicarsi le norme, più favorevoli, della previgente disciplina dell’ordinamento della professione forense, osservandosi che, poiché la domanda di reiscrizione era stata presentata nella vigenza delle disposizioni introdotte con la legge n. 247 del 2012, le stesse dovevano applicarsi al presente procedimento, in applicazione del principio tempus regit actum, non venendo in considerazioni aspetti di natura disciplinare previsti dall’invocato art. 65 della suddetta legge n. 247, relativo alla disciplina transitoria”. Secondo il ricorrente invece la ritenuta esclusione dei requisiti sarebbe stata il frutto di un errore “tenuto conto del tempo trascorso dal momento della radiazione” durante il quale nessun altro illecito di “natura penale o di altro genere” era stato compiuto, per cui la mancata reiscrizione tramutava “in una indebita persecuzione disciplinare”. Non solo, la “riconsiderazione - in relazione alla domanda di reiscrizione - del fatto che aveva determinato la sanzione della radiazione comporterebbe una sorta di violazione del divieto di bis in idem”. Per la Suprema Corte, il Consiglio Nazionale Forense ha correttamente escluso la presenza dei requisiti per la reiscrizone considerato che l’articolo 17 della legge 247 del 2012 “richiede, tra l’altro, la ricorrenza di una condotta irreprensibile”. “Sotto tale profilo - prosegue la decisione - nella sentenza impugnata il riferimento alla gravità del fatto di bancarotta in base al quale venne disposta la radiazione, che di per sé non comporta una perpetuazione della sanzione stessa, ma un’autonoma valutazione di uno dei presupposti per la reiscrizione, si associa alla valutazione del comportamento successivo dell’istante, rimarcandosi le circostanze inerenti - pur prescindendosi dall’assenza di una riabilitazione in sede penale, non più richiesta dalla vigente normativa - al mancato ristoro o restituzioni alla parte lesa, considerate quali indici negativi ai fini di un giudizio prognostico sulla recuperata affidabilità”. Accolto invece il motivo di ricorso sul termine di decadenza per richiedere l’iscrizione. Secondo la nuova legge infatti il professionista radiato può chiedere di essere nuovamente iscritto decorsi cinque anni dall’esecutività del provvedimento sanzionatorio, ma non oltre un anno successivamente alla scadenza di tale termine. Per la Cassazione però il termine “non poteva decorrere, pur in assenza di una norma transitoria, ma in virtù di un’interpretazione costituzionalmente orientata, in un momento anteriore all’entrata in vigore della stessa norma, vale a dire dal 1° gennaio 2015”. Bocciati invece gli altri motivi di ricorso fra cui quello di non essere stato ascoltato in quanto non era stata presenta la prevista domanda e quello relativo al presunto silenzio assenso per tardività della risposta del Cnf. Le tante attività per i detenuti nel carcere Pavia di Manuela Socionovi Ristretti Orizzonti, 21 dicembre 2017 Sono un’educatrice della Casa Circondariale di Pavia. Vorremmo portare a conoscenza tutte la attività realizzate e tuttora in corso di svolgimento presso la nostra Casa Circondariale. Inizio col dire che abbiamo ricevuto una donazione molto importante di giochi, libri e materiale vario da donare ai bambini che durante l’anno frequentano il nostro Istituto durante i colloqui con i familiari ristretti. La donazione è stata fatta dalla Feltrinelli di Pavia, la Libreria Il Delfino di Pavia, la biblioteca Prini Paternico sempre di Pavia. Il 02 dicembre è stato realizzato uno spettacolo teatrale per i minori dei detenuti del reparto comuni dalla compagni teatrale “Cicogne Teatro Arte Musica”, intitolato “Buon Natale Babbo Noè”. C’è stata una grande partecipazione dei piccoli, e in quell’occasione è stata distribuita la prima parte di regali che ci sono stati donati come ti ho già rappresentato. Per la prima giornata mondiale del povero, sono state realizzate dodici crostate di frutta preparate dai cuochi del padiglione protetti e donate ai senza fissa dimora della Caritas di Don Dario. 09 dicembre: catering organizzato dai cuochi del padiglione protetti per la serata teatrale al Fraschini di Pavia. 14 dicembre: spettacolo teatrale rivolto ai detenuti del padiglione protetti della compagnia teatrale “Carolina Reaper” di Milano intitolato “In.Ter.Nos” 15 dicembre: festa di natale dedicata invece ai bambini dei detenuti del padiglione protetti (quella per i comuni è stata fatta il 2); abbiamo contattato l’agenzia di animazione “Pazza Animazione” di Novi Ligure, che lavora molto anche nella provincia di Pavia e Milano che ha realizzato una festa natalizia con animazione completa in costume natalizio (con gli elfi di babbo natale), spettacolo di bolle di sapone, palloncini modellabili e trucca bimbi. Anche in questa occasione sono stati distribuiti parte dei doni che ci sono stati offerti dagli enti sopra menzionati. Sempre il 15 dicembre nella cucina del padiglione protetti è stato organizzato un pranzo/brindisi per gli auguri di natale tra gli operatori dello staff (una parte ovviamente!) dell’Istituto e una rappresentanza di detenuti. Il pranzo è stato allestito dai detenuti del padiglione protetti. 16 dicembre: spettacolo teatrale dedicato ai detenuti del padiglione comuni realizzato dalla compagnia “Teatro Di Mezzo” e intitolato “Sarto per Signora”. Il 19 dicembre: concerto del coro del Collegio di Santa Caterina, già presente e attivo nel nostro Istituto in occasione di altri eventi; sarà destinato ai detenuti comuni. È stato inoltre donato alla Parrocchia di Don Franco Tassoni un presepe bellissimo realizzato interamente a mano dai detenuti del padiglione protetti. E per chiudere una importante iniziativa a cui teniamo molto, ossia i detenuti del padiglione protetti prepareranno il pranzo di natale per i senza fissa dimora della comunità di Sant’Egidio presente in territorio pavese, con cui abbiamo intrapreso una intensa collaborazione. Insomma, le cose sono tante e vale la pena far conoscere anche le cose belle che si fanno in carcere. Inoltre le attività con il territorio si stanno intensificando sempre di più, il territorio ha imparato a conoscerci e sta rispondendo positivamente. Ottimo il lavoro di concerto che stiamo portando qui in Istituto; mi riferisco alla importante e proficua collaborazione e confronto costante con la Dott.ssa Stefania D’Agostino (Direttrice della Casa Circondariale), la Polizia Penitenziaria e la nostra Area. Il lavoro di squadra è fondamentale per la realizzazione di una crescita costante e di un lavoro portato avanti con serietà, motivazione e professionalità. Se ci fosse possibilità di dare “luce” a quanto realizzato, anche con poche righe, tenetemi aggiornata. Grazie mille e buone feste. L’alba dietro le sbarre… poco prima di Natale di Emanuela Cimmino* Ristretti Orizzonti, 21 dicembre 2017 Il cielo di questa mattina era di colore rosa a tratti rosso, sembrava di essere davanti ad uno di quei stupendi panorami che si vedono sui poster da attaccare in salotto o quando ci si reca in agenzia di viaggi; peccato però vederla a metà. Si perché era l’alba dietro le sbarre, quelle del corridoio, non di una cella. E così mi sono fermata anche per prendere un po’ di calore attaccandomi al termosifone, dopo essere entrata che fuori si gelava e mi sono messa a pensare mentre udivo i corvi, perché qui volano i corvi oltre i piccioni. Ho pensato ed immaginato a cosa i ristretti vedono, il loro punto di vista, secondo quale prospettiva vedono il mondo che c’è da fuori, fuori dalle sbarre della loro camera di pernottamento. Probabilmente un mondo a metà, probabilmente la strada, probabilmente il mare in lontananza o le verdi colline. Ci sono strutture ubicate in montagna, altre in città, altre isolate immerse nelle vallate ed altri ancora circondati dal mare come se fossero delle oasi a se stanti. Ma ciò che si vede è sempre a metà. Il cielo con i suoi colori non è totale, il mare così immenso lo si vede come un fazzoletto, e quelle colline verdi che non fanno vedere cosa c’è oltre, ma fanno solo immaginare case, giardini, famiglie riunite a tavola che si raccontano la giornata trascorsa. Ed in questi giorni mamme che addobbano l’albero con i propri figli che gironzolano per il salotto con palline e stelline come se fossero abiti da indossare. È l’alba di un nuovo giorno quella di oggi, un tripudio di colori che emanano perfino rappresentazioni sonore, un’alba che fa scuotere dentro strane e vibranti sensazioni. Mi allontano dal termosifone, passeggio, mi incammino verso lo spaccio per prendere caffè e saccottino al cioccolato e vedo l’altra metà del cielo, costruendolo come se fosse un puzzle, pezzo dopo pezzo, e vedo i colori rosa, rosso ed intravedo il celeste ed i palazzi, perfino i palazzi. Libera nel mio spazio e libera con il mio tempo, mi sposto ed ammiro quell’alba da ogni angolazione, da ogni prospettiva. Il mio utente dalla sua camera dietro le sbarre non vede l’altra metà, non costruisce il puzzle se non nella sua fantasia e quell’albero di Natale oltre ad averlo fatto in reparto con i suoi compagni, lo dipinge nel cielo, la sera, quando il cielo dopo il tramonto si fa scuro e le stelle, si quelle, si vedono scendere, appese sulle punte dell’albero. C’è Gabriele che esce in art 21, dal portone principale, si ferma nel cortile, si gira, guarda il cielo, guarda proprio quell’alba, tira un respiro di sollievo, poi si incammina verso quei colori, verso l’uscita e libero a metà nello spazio e nel tempo concesso vede il cielo per intero. C’è Ezechiele che invece è addetto alle pulizie dei vetri, e lo fa lentamente per stare a guardare quell’alba che gli ricorda tanto quella del suo paese, dove il sole si alza presto al mattino e si rispecchia nell’acqua. C’è Ibraim che spazza nell’ufficio e lo fa quasi danzando, nel deserto si danza con il sole che sorge e si abbraccia quando muore. E c’è Paul in stanza, in quello spazio condiviso con altri tre compagni, in una camera dalle tende rosse e da un tavolo di legno al centro. Lui l’alba la vede stando seduto mentre scrive una lettera al figlio. Sono seduta anche io, dietro la scrivania, davanti al pc. Qui l’alba non si vede ma io libera nello spazio e nel mio tempo con il mio tempo, mi dico che domani potrò vedere un’altra alba e potrò vederla al di là di quelle sbarre di una finestra nel corridoio, dove c’è lo spaccio, che è pur sempre un luogo libero, non è ancora carcere, ma il piano terra della caserma. Io libera. L’alba che oggi mi ha fatto sentire libera. *Funzionario giuridico pedagogico Campania: il Garante Ciambriello “oltre la metà dei detenuti soffre di disagio psichico” agora24.it, 21 dicembre 2017 “Ho scelto come Garante, dopo un primo e lungo giro di visite in tutti gli istituti e le Rems della Campania, di organizzare quale primo evento pubblico per mettere in connessione amministrazione penitenziaria, aziende sanitarie locali, la Regione Campania, i volontari del terzo settore, con la consapevolezza che la chiusura degli Opg è solo il primo passo verso una reale riforma della questione salute mentale e carceri”. Cosi si è espresso il Garante dei Detenuti, Samuele Ciambriello, che ha presentato il convegno “La salute mentale nelle carceri campane: fotografia bianco e nero”, incontro organizzato dallo stesso Ciambriello a 100 giorni dall’inizio del suo mandato. Il Garante snocciolando i dati in merito al tema della salute mentale in carcere, sentenzia che: “Secondo i dati della Società Italiana di Medicina e Salute Penitenziaria nel 2016 oltre 40mila detenuti soffrono di un disagio psichico. Un disagio che può assumere anche forme molto gravi (depressioni, psicosi) e che può portare anche gesti estremi o a comportamenti autolesionistici”. Il convegno è stato suddiviso in due sessioni, nella prima che tratta dalla chiusura delle Opg alla apertura delle Rems di oggi, sono intervenuti: Franco Corleone, Garante detenuti Regione Toscana, già Commissario unico per il superamento delle Opg, Giuseppe Nese, Responsabile del tavolo tecnico sulla salute mentale delle carceri campane, Nicola Graziano, Magistrato ed autore del libro “Matricola 001” e Dario Stefano Dell’Aquila autore del libro “Storia di Antonia. Viaggio al termine di un manicomio”. Intervento da rimarcare in questa prima sessione è quello di Franco Corleone che ha dichiarato: “I dati sulle patologie appaiono eccessivi, ma prendendole per buone - dice - vuol dire che se c’è il 65% della popolazione carceraria con disturbi mentali significa che o tutte le persone con disturbi vengono messe in carcere, oppure il carcere viene utilizzato per persone che non dovrebbero essere lì. La popolazione in carcere aumenta - prosegue - ma non per i reati della modernità: reati informatici o finanziari. Il carcere dev’essere un luogo per chi compie gravi delitti. Con la chiusura degli Opg si è fatta una rivoluzione, ora però bisogna affrontare il nodo delle misure di sicurezza, per cui aspettiamo il decreto delegato che risolve questo problema. In Italia ci sono 30 Rems, ma la legge 81/14 pone il ricorso alle Rems come ultima istanza, eppure dopo la Riforma, da parte dei magistrati si è allargato l’uso dei procedimenti per incapacità di intendere e di volere, che ha provocato l’esplosione delle Rems: se in Friuli abbiamo 3 Rems da due posti letto e non sono neanche occupate, la Lombardia prevede di avere Rems per 160 persone, qualcosa non torna se non vogliamo pensare che sono più matti in Lombardia. Se ci sarà una nuova legge sulle misure di sicurezza devono essere affrontati anche questi nodi”. Nella seconda sessione che tratta delle criticità e delle esperienze nelle carceri, sono intervenuti, Domenico Schiattone, Direttore responsabile dell’ufficio trattamentale Prap, Fedele Maurano, Responsabile della tutela salute mentale negli istituti penitenziari napoletani, Dipartimento Asl Na1 Centro, Giuseppe Ortano, Responsabile Rems Mondragone, Lucia De Micco, Magistrato di Sorveglianza, Mario Forlenza, Direttore Generale Asl Na1, Marco Puglia, Magistrato di Sorveglianza, Valeria Ciarambino Presidente Commissione Speciale controllo sull’attività della Regione e degli Enti collegati e dell’utilizzo di tutti i fondi e infine Lello Topo, Presidente della quinta commissione regionale Sanità e sicurezza sociale. Le conclusioni finali sono state affidate all’Onorevole Gennaro Migliore, Sottosegretario alla Giustizia che ha ringraziato il Garante Ciambriello per aver organizzato questo incontro e con un pizzico di ottimismo ha terminato con queste parole il suo intervento: “Quello che è stato fatto nel corso di questa legislatura non ha ne precedenti ne paragoni con i decenni precedenti né con gli altri Paesi europei. Abbiamo chiuso gli Opg, e li abbiamo sostituiti con delle strutture sanitarie. Non è stato solo un cambio di insegna: le Rems sono effettivamente strutture sanitarie. A giorni, probabilmente entro questa settimana, si vareranno i decreti legislativi per la riforma dell’ordinamento penitenziario, di cui uno legato proprio alla salute mentale. Poi bisogna applicarli in maniera efficace, con il monitoraggio delle associazioni, del garante, delle istituzioni locali”. Roma: intesa con il Dap, una task force di detenuti per curare il verde di Mauro Favale La Repubblica, 21 dicembre 2017 La convenzione prevede di utilizzare reclusi che non abbiano procedimenti per reati contro la persona e con meno 4 anni di pena residua. Si comincerà da Villa Pamphili e dalla pineta di Castelfusano e poi si andrà avanti complessivamente su una quindicina tra ville e aree verdi della città, protagoniste di un’attività di pulizia straordinaria. La novità è che a usare rastrelli e ramazze saranno i detenuti di Rebibbia e Regina Coeli: è questo il frutto della lettera d’intenti firmata ieri in Campidoglio dalla sindaca di Roma Virginia Raggi, da Santi Consolo, il capo del Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, e dalla presidente del tribunale di sorveglianza di Roma, Maria Vertaldi. Mancano ancora i protocolli d’intesa e, soprattutto, le linee di indirizzo della formazione alla quale verranno sottoposti i detenuti prescelti e della quale si occuperanno Ama e Servizio Giardini. Una volta ultimata la parte burocratica, il progetto dovrebbe iniziare a partire dalla seconda metà di gennaio e andare avanti per 18 mesi. Con un doppio risultato: le aree verdi della città, grazie a questa sorta di task force, potrebbero ritornare pulite come non accade ormai da anni. E, in più, “i detenuti potranno cominciare un percorso di reinserimento nella socità”, come sottolinea Consolo. A coordinare il progetto a livello nazionale sarà il dirigente del Dap Vincenzo Lo Cascio, da anni impegnato su questi temi, che in passato ha già promosso iniziative simili nel resto d’Italia. A essere coinvolti saranno principalmente detenuti che stanno scontando condanne definitive per tutte quelle fattispecie di reato che non sono contro le persone, ai quali mancano al massimo 4 anni di pena. La selezione verrà fatta dal Dap ma l’ok lo darà il tribunale di sorveglianza. A quel punto si partirà con l’attività che, per il momento, non prevede alcun rimborso. Ma di “borse di lavoro” ha parlato ieri la presidente Vertaldi, sollecitando Raggi a valutare la possibilità di ripagare i detenuti che puliranno aree verdi e ville. “Intanto accogliamo con grande favore questo progetto che favorisce la reintegrazione sociale, portando un beneficio alla città e contribuendo alla tutela del nostro patrimonio ambientale”. Per la garante dei detenuti del Campidoglio, Gabriella Stramaccioni, “le persone detenute che lavoreranno per la capitale lasceranno un segnale chiaro di recupero e restituzione alla città”. Avellino: percorso di rieducazione e reinserimento dei detenuti ottopagine.it, 21 dicembre 2017 Solidarietà, integrazione, sensibilizzazione all’accoglienza percorso di rieducazione e reinserimento dei detenuti. Il Comitato provinciale dell’Unicef di Avellino, in collaborazione con la sezione femminile della Casa Circondariale “Antimo Graziano”, ha inaugurato la mostra fotografica di Antonia Di Nardo “Riscattiamoci oltre la fiaba. Una pigotta per ricominciare”. Un evento di rilevanza nazionale, che coinvolge le detenute nel laboratorio di pigotte, le bambole simbolo dell’Unicef, per esprimere, con la creatività, il loro desiderio di relazionarsi con l’esterno. L’iniziativa, realizzata in Italia soltanto alle Carceri di “Opera” di Milano, è inserita nella rassegna “L’altro Natale”, organizzata dalla Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio nel Complesso Monumentale dell’ex Carcere Borbonico. L’allestimento, visitabile nella sala “Lioni”, è un tuffo nella bellezza e nella speranza, con il Presepe di Pigotte, con le bambole che diventano personaggi delle fiabe, come Cappuccetto Rosso, Cenerentola, Trilly Campanellino, La Principessa indiana ed il ranocchio. “ Il progetto- commenta Amalia Benevento- è nato da un’idea di Gloria Rigione, operatrice carceraria, e da Genevieve Azzurra Testa, una nostra giovane volontaria. La nostra presenza, insieme ad alcuni membri della Caritas, ha portato una ventata di ottimismo, consentendo alle detenute di impegnarsi, diventando protagoniste nelle campagne umanitarie dell’Unicef, tese alla difesa dei diritti dell’infanzia ed all’accoglienza dei bambini migranti. Abbiamo cercato di rendere concreta la loro aspirazione a sentirsi parte della comunità, fungendo da mediatori con la realtà al di là delle mura. Il risultato è pregevole: abbiamo toccato tutti i temi, anche il dramma della violenza sulle donne, esponendo una bacheca che raccoglie le scarpe rosse. Le detenute si sono dimostrate sensibili e generose, ma anche felici, mentre, con le spalle all’obiettivo per motivi di sicurezza, si lasciavano ritrarre con le pigotte realizzate. Antonia Di Nardo, fotografa professionista, ha colto la loro emozione, trasferendola nell’immagine”. Ancora una volta, l’Unicef è in prima linea, per promuovere la cultura della pari dignità, dell’uguaglianza, arginando i pregiudizi e le ostilità nei confronti di chi è percepito come diverso. “Per noi - conclude Amalia Benevento - donare un sorriso è importante quanto salvare una vita. L’adozione della pigotta consente di curare i bambini migranti, di assisterli, assicurandogli la sopravvivenza. Le detenute lanciano un messaggio importante, aprendo la riflessione sulla sofferenza di quanti sono ai margini della società globale”-. La mostra potrà essere visitata fino al 30 dicembre. Taranto: gelo, puzza e stanze al buio, il tribunale è sotto scacco Quotidiano di Puglia, 21 dicembre 2017 Scenario spettrale ieri nel piano terra del tribunale di Taranto, che ospita le cancellerie e le aule del giudice per le indagini preliminari e del giudice dell’udienza preliminare. L’assenza di energia elettrica, dovuta all’incendio che si è sviluppato martedì mattina all’interno di una stanza adibita ad archivio recente, ha creato non pochi problemi all’attività dei giudici e a quello delle cancellerie. Soprattutto a queste ultime. Gli operatori, infatti, hanno operato in condizioni estremamente critiche e con fortissime limitazioni. L’assenza di energia elettrica ha impedito infatti l’utilizzo dei terminali necessari per il disbrigo delle pratiche e per il normale svolgimento delle attività nella interlocuzione con la classe forense. In più, ad aggravare la situazione di per se paradossale ed inconcepibile nel terzo Millennio, il personale è stato costretto a fare i conti con due criticità, anzi tre. La prima è legata al cattivo odore che ancora permane nel piano terra, una porzione del quale - appunto adibito a cancellerie, uffici dei giudici e aule di Gip e Gup - è stato teatro dell’incendio di numeroso materiale cartaceo. La seconda è che, in ragione proprio del cattivo odore persistente, nelle stanze in cui si è lavorato, tutte le finestre sono rimaste aperte. Ciò ha permesso al gelo di insinuarsi a piacimento negli ambienti “affrontati” con sciarpe e cappotti. La terza criticità si collega con la seconda, dal momento che le finestre aperte hanno aggravato il disagio che da numerosi giorni è vissuto dal personale del ministero di giustizia: l’assenza di gasolio che impedisce i rifornimenti destinati agli impianti di riscaldamento. Una situazione kafkiana, questa, che è vissuta con grande spirito di sacrificio negli ambienti in cui questo problema, che non riguarda gli uffici della procura, sta assumendo proporzioni drammatiche: uffici e aule del tribunale. Proprio in conseguenza di ciò, ieri, il presidente vicario del tribunale dottor Pietro Genoviva ha emesso un decreto in cui è evidenziato come “a causa delle criticità strutturali presenti nel Palazzo di giustizia è necessario prendere provvedimenti di urgenza che servano a contemperare le esigenze di tutela della salute dei magistrati e degli impiegati, con la necessità d non interrompere il servizio pubblico”. Nel sottolineare come “il riscaldamento del palazzo dovrebbe essere assicurato a partire dal 27 dicembre prossimo”, il dottor Genoviva ha disposto che “le udienze civili e penali, su disposizione del singolo giudice, potranno essere rinviate; le udienze penali con detenuti o con termini di scadenza saranno assicurate in ogni caso; nei giorni 20 (ieri), 21 e 22 dicembre 2017 gli impiegati che ne avranno l’esigenza sono autorizzati a ridurre la giornata lavorativa non effettuando, in tutto o in parte, il rientro e le eventuali ore non lavorate non sarano oggetto di recupero”. Infine, “gli impiegati e i magistrati addetti alle cancellerie dell’ufficio gip/gup, durante lo svolgimento dei lavori di ripristino dell’impianto elettrico (già iniziati e della presumibile durata di tre giorni), non potranno lavorare presso le proprie postazioni di lavoro e quindi si sta provvedendo a individuare postazioni di lavoro e aule da utilizzare per consentire di svolgere almeno le attività indifferibili e urgenti”. Napoli: Piazza Mercato, così i ragazzini giocano a imitare le “stese” di Dario Del Porto La Repubblica, 21 dicembre 2017 La denuncia: “Ogni sera scorribande in scooter mimando le sparatorie”. Cafiero de Raho: “Manca la famiglia”. Le scorribande in motorino che simulano una sparatoria, un coltello in tasca per sentirsi più forti. Nel cuore di Napoli ci sono bambini che si divertono con i simboli del male. “I ragazzini in piazza Mercato giocano a fare le stese”, denuncia Gianfranco Wurburger, presidente di Assogioca, l’associazione di volontariato che segue 320 giovanissimi nel centro cittadino. “Girano vorticosamente con le mani in alto che mimano uno sparo. Corrono in una giostra di scooter che non si ferma mai. Succede praticamente ogni sera, dopo le 20. Avranno dagli 8 ai 14 anni”, spiega Wurzburger a Repubblica. E aggiunge: “Per le forze dell’ordine diventa pericoloso anche inseguirli: si muovono in gruppo e a forte velocità, il rischio è di provocare qualche incidente”. I video di questi raid sono in rete e Wurzburger ha raccontato pubblicamente quello che si verifica sistematicamente in una delle zone più popolari della città durante l’incontro tenuto proprio in piazza Mercato alla presenza, fra gli altri, del sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore, del procuratore nazionale Antimafia Federico Cafiero de Raho e del direttore del carcere di Nisida Gianluca Guida. Attorno al tavolo erano presenti, inoltre, don Tonino Palmese, il garante regionale per i detenuti Samuele Ciambriello e Lucia Montanino, la vedova di Gaetano, la guardia giurata uccisa in un tentativo di rapina il 4 agosto 2009 proprio in piazza Mercato. In platea, ad ascoltare c’erano anche il comandante provinciale dei carabinieri, Ubaldo Del Monaco, e il questore Antonio De Iesu. “A un bambino di 9 anni - ha detto ancora Wurzburger - abbiamo trovato un coltello a ventaglio comprato su una bancarella per appena 15 euro”. Dice il presidente di Assogioca che il bambino gli ha riferito “di averlo acquistato “in società” con altri amici. Si è giustificato così: “ Volevo solo giocare, mica fare male a qualcuno”“. Ragiona il procuratore nazionale Cafiero de Raho: “È la famiglia che manca a ragazzini. Si muovono con una carica di violenza e aggressività che impone un’analisi profonda sull’ambiente in cui stanno crescendo. In primo luogo, dovrebbe intervenire l’articolazione dei servizi sociali per accertare il livello di educazione e formazione che si riesce a raggiungere nel nucleo familiare di appartenenza. D’altra parte - ricorda il magistrato - la Costituzione attribuisce alla famiglia il ruolo di prima istituzione nella quale formazione ed educazione rappresentano i principi fondamentali per lo sviluppo culturale e sociale dell’individuo. Laddove questi valori educativi familiari non ci sono, devono intervenire non solo i servizi sociali, ma anche i giudici che possono adottare provvedimenti per consentire ai ragazzi, se necessario, di trovare un ambiente sostitutivo che apra agli stessi delle prospettive alternative di vita. Se si cresce in un ambiente che ha la violenza come principale riferimento, si rischia seriamente di finire nella spirale della delinquenza o addirittura della criminalità organizzata”, sottolinea il procuratore Cafiero de Raho, invitando a non “perdere mai la speranza”. Anche perché accanto a queste immagini che fanno male, ci sono storie che lasciano intravedere la possibilità di superare la violenza. È il caso di Lucia Montanino, che ha avviato un difficile percorso di riconciliazione con uno degli assassini del marito, Antonio, prendendosi cura di lui e dei suoi bambini. “Un miracolo”, lo definisce Lucia. Nella piccola sala di piazza Mercato, confuso fra la folla, anche Antonio l’ascolta. Quando si abbracciano, la notte della città sembra meno buia. Como: mobilitazione contro il divieto del Sindaco di aiutare i senzatetto di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 21 dicembre 2017 A Como continua a valere la legge della giungla per cui è proibito portare latte caldo e qualcosa da mangiare o una coperta ai senza fissa dimora, per altro quasi tutti italiani. “El portava i scarp del tennis, el gh’aveva dù oeucc de bon; l’era el primm a menà via perché l’era un barbon”, gliela canteranno a squarciagola, al sindaco di Como, domenica prossima, santa vigilia del santo natale, davanti al duomo. Il Sindaco Mario Ladriscina, indipendente alla guida di una giunta di centrodestra, già ieri in conferenza stampa qualche difficoltà con la sua coscienza, per l’ordinanza anti homeless firmata per garantire un tranquillo shopping natalizio nelle vie del centro, pare averla manifestata. È apparso con una espressione lacrimosa e contrariata e ha detto che non ci sta a passare per “il sindaco più cattivo d’Italia” e che pur non volendo ritirare l’ordinanza anti bivacco, “non devo fare carriera io - ha scandito - per cui se la città me lo chiede mi dimetto”. Intanto però a Como continua a valere la legge della giungla per cui è proibito portare latte caldo e qualcosa da mangiare o una coperta ai senza fissa dimora, per altro quasi tutti italiani, che hanno trovato un riparo dal gelo sotto i portici della chiesa sconsacrata di San Francesco, proprio davanti al tribunale. I vigili battono la zona, allontanano i volontari sia della parrocchia e della Caritas sia delle associazioni antirazziste, con la minaccia di applicare l’ordinanza, che prevede multe salate, da 50 a 300 euro. La guerra del latte caldo è però appena iniziata. Gli studenti hanno già manifestato contro l’ordinanza cattivista e sabato mattina è stata convocata un’altra protesta, o meglio una pacifica espressione di disobbedienza civile: gli attivisti dell’associazione “Como Senza Frontiere” - gli stessi costretti ad ascoltare nella loro sede i deliri di Veneto Fronte Skinheads solo qualche settimana fa - andranno a portare un pasto caldo e a mangiare insieme ai senza tetto di San Francesco, sfidando vigili e multe. E l’indomani ci sarà la cantata collettiva del testo di Enzo Iannacci e Dario Fo. Il clima politico su questo lato del lago nel frattempo sta un po’ cambiando, in questo rigido inverno. Ad esempio Maurizio Traglio, imprenditore che aveva finito per candidarsi come indipendente appoggiato dal Pd e sfidare Landriscina, dopo molti tentennamenti verso l’altra sponda e frasi di appoggio alle crociate anti venditori abusivi, ieri ha rilasciato al manifesto una dichiarazione in cui dice che “l’atteggiamento della giunta guidata da Mario Landriscina nei confronti dei poveri e delle persone finite ai margini della società sta assumendo contorni allucinanti”, ribadendo che si tratta di “una vergogna” e una “ignobile guerra tra poveri”, che va ben “oltre l’esigenza di sicurezza e di decoro”. Altro segno che il vento abbia cambiato direzione è poi che il Partito democratico questa volta abbia deciso di partecipare al “bivacco solidale” di sabato contro l’ordinanza. Chi rivendica invece fino in fondo l’ordinanza e, di più, la rilancia come permanente, non limitata al periodo natalizio, è la vice sindaca leghista di Como, Alessandra Locatelli. E riscuote l’assist della assessora alla Sicurezza, Protezione civile e Immigrazione della Regione Lombardia Simona Bordonali, la quale plaude sul suo profilo Facebook al provvedimento anti accattonaggio voluto dalla giunta di Como, che “riporta ordine e legalità in città”, ma s’impegna anche a chiedere ad altre amministrazioni di seguirne l’esempio. Arianna, che ha 23 anni e come parte di Como Senza Frontiere ha assistito sia al blitz dei naziskin sia alla manifestazione antifascista del 9 dicembre, è poco ottimista sul ritiro dell’atto da parte del sindaco. E ricorda: “Anche quando siamo stati assaliti Landriscina, che pure è un medico, è stato un dirigente del 118, è andato a portare aiuti ai terremotati di Haiti, non ci ha espresso la sua solidarietà, niente. Mentre la sua vice ha addirittura condiviso il post di Salvini”, quello di difendeva i “dieci ragazzi di destra con un volantino”. Fermo (Ap): gesti di solidarietà per chi è dietro le sbarre, dentro un Natale difficile informazione.tv, 21 dicembre 2017 Soroptimist e la Carifermo protagonisti di gesti di grande sensibilità nei confronti delle persone detenute. La riconoscenza della direttrice Eleonora Consoli, del responsabile dell’area trattamentale Nicola Arbusti e del comandante Loredana Napoli. C’è il Natale delle luci e della serenità, il Natale delle certezze e delle cose belle. E poi c’è il Natale di chi resta indietro, di chi ha poco, di chi vive un periodo dietro le sbarre. È Natale anche per i detenuti nel carcere di Fermo, in questi giorni è stato allestito l’albero e anche il presepe, in attesa della prossima annunciata visita del Vescovo Rocco Pennacchio. Intanto sono arrivate testimonianze di sensibilità e vicinanza, come ogni anno il club Soroptimist ha portato avanti anche a Fermo il progetto nazionale di solidarietà alle famiglie e ai bambini dei detenuti. Lo scorso anno il gruppo fermano si era occupato di portare materiale di cancelleria e giocattoli per i bimbi in visita nei giorni di Natale, quest’anno la presidente Loredana Dionisi, accompagnata da Paola Viozzi e Antonella Romagnoli ha portato dolci e libri per i figli dei detenuti, da consegnare in occasione dei colloqui che normalmente fanno con i famigliari. “È il secondo anno che il Club si prodiga per questa iniziativa, sottolinea la direttrice della casa di reclusione, Eleonora Consoli, che testimonia l’attenzione del territorio per il carcere e per le persone che vi sono detenute, dimostrando sensibilità verso questa istituzione, che mai come in questo momento risulta essere al centro dell’attenzione pubblica”. Ieri è stata la volta di Alessandra Vitali Rosati, amministratore delegato di Carifermo Spa, che già qualche settimana fa aveva donato al carcere un nuovo biliardino ma anche il materiale per ritinteggiare le celle e gli stessi detenuti stanno già procedendo all’opera di rinnovamento degli ambienti. La visita di ieri voleva essere un modo per far sentire la vicinanza del territorio nella speranza di un futuro diverso, per procedere con le premiazioni per il torneo di biliardino che è stato organizzato in carcere, proprio per dimostrare l’apprezzamento per il dono ricevuto, un oggetto che riempie alcune ore di allegria e condivisione. Vitali Rosati ha sottolineato la necessità di guardare avanti con un atteggiamento diverso, impostando la propria vita in senso costruttivo, dopo aver pagato, in maniera dignitosa, la propria colpa. Un momento molto intenso e importante per i detenuti che vivranno dietro le sbarre le feste di Natale, in un momento in cui la distanza dai propri cari pesa di più. Migranti. Ius soli addio, dopo due anni il Senato affossa definitivamente la legge Il Manifesto, 21 dicembre 2017 Lo ius soli verrà discusso dall’aula del Senato dopo l’approvazione della legge di bilancio. A deciderlo è stata ieri la conferenza dei capigruppo che in questo modo ha definitivamente messo la parola fine alle speranze di vedere approvato il testo. “La maggioranza ha gettato la spugna su un provvedimento per il quale erano stati presi impegni molto seri”, ha attaccato la presidente dei senatori Mdp-Leu Cecilia Guerra dopo che la conferenza aveva respinto la richiesta avanzata da Sinistra italiana di discutere la legge subito, prima dell’arrivo a palazzo Madama della manovra. Mentre il Senato affossava la possibilità per più di 800 mila ragazzi nati nel nostro Paese da genitori stranieri di diventare cittadini italiani, all’esterno di Montecitorio si è svolta una fiaccolata organizzata di Italiani senza cittadinanza per sollecitare ancora una volta l’approvazione della legge. Tra i manifestanti anche padre Alex Zanotelli, venuto apposta da Napoli per sostenere la riforma della cittadinanza: “È grave che il parlamento non abbia il coraggio mantenere la promessa fatta a questi ragazzi”, dice. “Vivo nel rione Sanità e vedo come la rabbia sta crescendo per il modo in cui viene impedito a tanti giovani di integrarsi come meriterebbero”. Il calendario dei lavori prevede che prima dello ius soli l’aula esamini i ddl sulla protezione dei testimoni di giustizia, gli orfani dei crimini domestici, la legge di bilancio che arriverà domani dalla Camera. Solo dopo toccherà alla riforma della cittadinanza, quando ormai i tempi saranno scaduti vista anche la determinazione del capo dello Stato a sciogliere le camere subito dopo Natale. Determinato a non perdere la speranza il senatore Luigi Manconi, giunto ieri al suo secondo giorno dello sciopero della fame avviato a sostegno della legge. “Accompagnerò i tentativi in atto di far approvare lo ius soli fino a quando vi sarà un’ora e un minuto che possano consentire la calendarizzazione della legge. Tutto questo è possibile - ha detto ieri Manconi -: non è il tempo che manca, ma il coraggio”. Migranti. Luigi Manconi: “caro Pd, lo ius soli si può approvare ma serve coraggio” di Giulia Merlo Il Dubbio, 21 dicembre 2017 “Farò lo sciopero della fame fino a che ci sarà anche solo un’ora, anche solo un minuto per discutere in Aula dello ius soli”. Il senatore del Partito Democratico Luigi Manconi, presidente della Commissioni diritti umani, non si rassegna a lasciar finire il disegno di legge in un binario morto (nonostante la calendarizzazione di ieri) e sfida la propria maggioranza a un atto di coraggio. Senatore, quante possibilità ci sono di approvare lo ius soli? Riconosco che, oggi, le possibilità di approvare questa legge sono assai scarse e si stanno riducendo di ora in ora. Tuttavia continuo a pensare che sia rimasta ancora un’opportunità e nego che, come sembra essere opinione prevalente, non vi sia tempo e non vi siano i numeri. Ogni volta che lo si è voluto, il tempo e i numeri si sono trovati, sempre che se ne abbia la necessaria determinazione. Se non sono il tempo e i numeri, che cosa manca per approvare la legge? Mi trovo d’accordo con il ministro dell’Interno Marco Minniti, dal quale pure mi dividono tante questioni, quando dice: “Non è il tempo che manca, ma il coraggio”. È proprio così. Eppure siamo agli sgoccioli di questa legislatura e trovare uno spiraglio nel calendario sembra davvero improbo. Contesto questa tesi con un esempio inequivocabile. Il primo giorno di questa legislatura, il 15 marzo del 2013, ho presentato il disegno di legge sul testamento biologico e, per quattro anni e 10 mesi, si è pensato che fosse definitivamente affossato. Lo si considerava divisivo e lacerante per l’opinione pubblica e per il Parlamento, ma poi è bastato un atto di volontà politica per portare il testo alla discussione in Aula e approvarlo in un paio di settimane. Tutto dipende dalla volontà politica, appunto. Lei sta ancora digiunando per sollecitare l’opinione pubblica e politica? Io ho iniziato il digiuno martedì e andrò avanti fino a che vi sarà una manciata di ore per discutere quel disegno di legge. Lo farò fino a che le condizioni di salute me lo consentiranno, dal momento che, come noto, non dispongo di un fisico propriamente bestiale. A chi fa paura questo provvedimento? A mio avviso non può fare paura a nessuno. Lo ius soli, però, ha un valore simbolico che induce settori della classe politica a utilizzarlo come posta in gioco di un aspro conflitto ideologico. Vi si ricorre, cioè, come una merce elettorale che dovrebbe tradurre politicamente il senso di smarrimento di settori della società di fronte agli stranieri. Tuttavia, per poterlo usare come strumento di galvanizzazione della paura, bisogna dire bugie e presentare lo ius soli come collegato allo sbarco dei migranti, quando invece nulla ha a che vedere con quel drammatico fenomeno. Chiariamo ancora una volta, allora, che cosa prevede il decreto. Si riferisce a bambini e ragazzi nati in Italia o comunque arrivati prima di 12 anni, da genitori stranieri già residenti, e che realizzano qui un intero ciclo di studi. Uno ius soli temperato, privo di qualunque automatismo, e che prevede un percorso di istruzione e formazione. Nulla che possa far paura, ma al contrario un mezzo capace di garantire la sicurezza collettiva. In che senso parla di sicurezza collettiva? Su mio invito quattro ex ministri dell’Interno di diversa ispirazione culturale, Enzo Bianco, Beppe Pisanu, Anna Maria Cancellieri e Rosa Russo Jervolino, hanno sottoscritto un documento in cui affermano che la riforma della cittadinanza costituisce un importante contributo alla convivenza pacifica, all’integrazione e al rafforzamento del legame sociale. È quanto pensa l’attuale ministro Minniti. Ecco, questa è la risposta più eloquente a quell’agitazione demagogica, che crea artificiali allarmi sociali, e vuole trasformare l’inquietudine degli strati popolari più deboli in razzismo. Quante possibilità ci sono che le sue ragioni convincano l’attuale maggioranza, che deve compiere l’atto politico di calendarizzare lo ius soli? Se c’è stata una larga maggioranza sul testamento biologico, mi ostino a pensare che sia ancora possibile ottenerla sullo ius soli. Rinunciare a provarci significa rinunciare alla politica, perpetuando l’errore rovinoso che ha portato al disastro della sinistra, la cui classe politica ha scelto un atteggiamento codardo e opportunista. Migranti. Il Tpp condanna Italia e Europa: “Sui rifugiati crimini di sistema” di Alfredo Marsala Il Manifesto, 21 dicembre 2017 Sentenza storica del Tribunale permanente dei popoli: “Roma e Bruxelles corresponsabili delle violenze”. I giudici hanno visionato l’atto di accusa di 95 Ong e le testimonianze dei sopravvissuti. “Crimini di sistema” è il “reato” che il Tribunale permanente dei popoli (Tpp) contesta all’Ue e al governo italiano, finiti sul banco degli imputati per le violazioni dei diritti dei migranti. I “giudici” indicano la necessità “di invertire la rotta e rivendicare il diritto di migrare, ius migrandi, e il diritto all’accoglienza come diritti umani fondamentali”. Perché “migrare è un atto politico ed esistenziale e lo ius migrandi è il diritto umano del nuovo millennio che, sostenuto dall’associazionismo militante, dai movimenti internazionali e dalla opinione pubblica sempre più avvertita e vigile, richiederà una lotta pari a quella per l’abolizione della schiavitù”. Dopo aver esaminato l’atto d’accusa formulato da 95 gruppi di lavoro - Ong e associazioni - che hanno fornito una documentazione dettagliata e testimonianze di violenze e torture nei campi libici, la giuria del Tpp ha emesso, a conclusione di tre giornate di lavoro a Palermo, una sentenza storica che inchioda alle proprie responsabilità i paesi dell’Ue per “accordi” come quello con la Turchia di Erdogan e quello con la Libia, che in realtà - come emerge dalle prove documentali acquisite - non poggiano su alcun fondamento giuridico. Si tratta di intese che “da un punto di vista legale, appaiono sempre più dubbie”, accusa l’avvocato Fulvio Vassallo Paleologo, sua la requisitoria al processo davanti al Tpp, la cui giuria era composta dal presidente Franco Ippolito (magistrato di Cassazione), Francesco Martone, Donatella Di Cesare, Luciana Castellina, Philippe Texier, Carlos Beristain e Luis Moita. “Ancora oggi il ministro dell’interno Minniti, che pure si definisce ‘preoccupato’ per la sorte dei diritti umani in Libia, conferma la validità e l’efficacia di quelle intese”, attacca Paleologo, che è componente del collegio del dottorato in “Diritti umani: evoluzione, tutela, limiti” nel dipartimento di scienze giuridiche dell’Università e componente della clinica legale per i diritti umani (Cledu) a Palermo. Il Tribunale chiede “una moratoria urgente dell’attuazione di tutti quegli accordi che, similarmente all’accordo Ue-Turchia e il processo di Karthoum, sono caratterizzati da assenza di controllo pubblico e dalla corresponsabilità nelle violazioni dei diritti umani fondamentali dei migranti”. E invita il Parlamento italiano e il Parlamento europeo a convocare urgentemente “commissioni d’inchiesta o indagine sulle politiche migratorie, gli accordi e il loro impatto sui diritti umani, nonché sull’uso e la destinazione di fondi destinati alla cooperazione internazionale, al fine di identificare e perseguire eventuali responsabili”. Il Tribunale fa proprie e rilancia “le proposte elaborate dalla relatrice speciale dell’Onu nel suo ultimo rapporto sulle sparizioni forzate nelle rotte migratorie” nonché “le richieste e raccomandazioni fatte da varie organizzazioni non governative, come Amnesty International sulla situazione in Libia”. Durante l’udienza sono state sentite le voci e le testimonianze di esperti di Sea-Watch, Oxfam, Medu, Borderline Sicilia, Baobab Experience e LasciateCIEntrare; sono stati ascolti migranti protagonisti di torture: scosse elettriche, esecuzioni sommarie, violenze sessuali, trattenimenti, mutilazioni. Per il Tpp “dai fatti esaminati e dalle testimonianze ascoltate, emerge la spoliazione progressiva dei diritti e della dignità delle persone che si manifesta lungo tutto il percorso migratorio, dalle condizioni nei luoghi d’origine, al viaggio, alla permanenza nei campi prima di cadere nelle mani di trafficanti, poi nel corso della traversata in mare”. “Chi viene respinto entra nell’inferno dei campi di detenzione legali o informali - sostiene il Tribunale - Chi eventualmente arriva sul territorio italiano, termina in un hotspot, dove le sue possibilità di chiedere il riconoscimento dello status di rifugiato sono affidate al caso o alla fortuna”. Nella sentenza si parla di “responsabilità frantumata”, di cui “si fa spesso un profitto intenzionale”. “Diventa perciò difficile indicare con precisione chi è il colpevole, chi deve rispondere - osserva il Tpp. L’opinione pubblica ne viene disorientata. La concatenazione, la sequela, è talmente lunga, complicata, occulta, che quasi sempre si perde il nesso. Questo non permette di risalire a chi ha le maggiori responsabilità e spinge invece a fermarsi agli aguzzini più manifesti e ovvi, ad esempio alle guardie libiche, ai trafficanti o agli scafisti, figure di quella zona grigia di cui spesso, loro malgrado, fanno parte gli stessi migranti”. Ecco perché “per un perverso meccanismo, oramai frequente, vengono rovesciati i ruoli della vittima e del persecutore: il migrante viene presentato come il primo colpevole, quello su cui ricade la colpa originaria, semplicemente per essersi mosso e aver così disturbato l’ordine degli Stati”. Droghe. Paradosso marijuana legale: non si può fumare, ma dilaga in tutta Italia di Filippo Femia e Nadia Ferrigo La Stampa, 21 dicembre 2017 Oltre 350 negozi vendono l’erba che non sballa: un affare da 40 milioni. La normativa rimane ambigua. Gli esperti: “È comunque dannosa per la salute”. Sull’insegna c’è una sagoma con la foglia verde a sette punte. In vetrina biscotti, pasta, cosmetici ed energy drink. Tutto a base di canapa. Una madre varca la soglia del negozio con il figlio e chiede informazioni al commesso, indicando una teca con le infiorescenze. La cosiddetta cannabis light. Da Torino a Reggio Calabria, è una scena che si ripete sempre più spesso. La marijuana legale - con Thc, il principio attivo, non superiore allo 0,2% come da legge - sta conquistando il mercato. Convincendo anche i genitori dei giovani. “Se proprio vogliono farsi le canne, meglio un prodotto controllato. Senza pensare ai pericoli di acquistare dai pusher per strada”, è il ragionamento di Maria, 43 anni, madre torinese di un 20enne. E il fenomeno inizia ad allargarsi: sono circa 350 i negozi in cui si vende l’erba legale per un giro d’affari stimato in 40 milioni di euro. “Siamo aperti da giugno ma sono arrivati subito molti genitori con figli”, racconta Alberto Valsecchi, uno dei soci di Hemp Embassy a Milano. Una fetta che, stima, rappresenta il 15% della clientela. La tendenza è in aumento anche secondo Luigi Mantuano del Canapa Caffé di Roma: “L’altro giorno è venuta la mamma di un figlio malato, che voleva fargli provare l’erba con basso Thc”. La cannabis light non ha effetti psicotropi (creati da alti livelli di Thc), ma fumata, avvertono gli esperti, è comunque dannosa per la salute. Il mercato è in piena espansione, anche se si trova in una zona grigia. Le infiorescenze di canapa sono legali - il limite di Thc e le colture controllate rispettano la legge sulla coltivazione agro-industriale in vigore dallo scorso anno - ma non c’è la destinazione d’uso. “Materiale per uso tecnico - si legge sull’etichetta - non atto alla combustione”. È un prodotto da collezione, si schermiscono i commessi. “Io la vendo, ma il cliente non potrebbe fumarla. È la classica ipocrisia della legge italiana - dice Marco Mirabelli del Maria Giovanna Hemporium di Torino - Come le cartine lunghe vendute dai tabacchini: nessuno fuma sigarette lunghe, le comprano tutti per le canne”. “Secondo le norme del testo unico per il commercio, l’erba legale non si potrebbe neanche vendere - spiega Luca Marola, fondatore di EasyJoint. La sanzione è amministrativa, il che è un male perché scoraggia i piccoli a entrare nel business, ma per noi è un bene. Oltre a continuare il dialogo con le istituzioni, dimostrare l’assurdità della normativa con le vie legali, è una buona strada per sbloccare la situazione”. E un assist agli anti proibizionisti arriva da Gianpaolo Grassi, del Crea di Rovigo, ente di ricerca per le colture industriali: gli studi dimostrano che l’aumento del consumo di canapa light comporta una significativa erosione (circa un terzo) della “quota di mercato” nelle mani delle narco-mafie. Nell’ultimo anno c’è stato un boom dei negozi di canapa. I franchising si rincorrono, a ritmi impressionanti. Come la napoletana Cannabis Store Amsterdam, catena da 38 negozi in tutta Italia e 22 pronti a inaugurare. “Ieri ne abbiamo aperto uno a Pavia, oggi a Sciacca e venerdì tocca a Varese”, dice il fondatore Giovanni Bianco. Lo scorso maggio ha debuttato la bolognese EasyJoint, primo brand italiano a distribuire canapa light. I numeri fotografano l’esplosione del fenomeno. In sei mesi sono state acquistate 15 tonnellate di fiore di canapa da 80 aziende agricole, poi rivendute in barattoli da 5 grammi: oltre 125mila tra smart shop ed erboristerie. Oggi EasyJoint detiene l’85 per cento del mercato, mentre il 15 è distribuito tra le aziende agricole che producono fiori e semi, come la piemontese Asso Canapa. Da oltre vent’anni coltiva la varietà Carmagnola, tra le più antiche e pregiate. Da gennaio EasyJoint aprirà altri 125 negozi (erano arrivate 600 richieste per store in franchising). “Appena partiti non avevamo idea del target dei consumatori - spiega il fondatore Luca Marola - Ora, grazie alle ordinazioni online e ai dati raccolti su Facebook, abbiamo un identikit del cliente tipo: adulto, sui trent’anni, consapevole e conoscitore del prodotto. Sono persone che non vogliono più rivolgersi al mercato clandestino. Poi c’è una buona rappresentanza di chi usa l’erba legale per abbandonare le sigarette. E viene consigliata anche da alcuni medici a chi soffre di lievi disturbi del sonno”. “Altri hanno avuto crisi di panico o malesseri causati dalle sostanze con cui viene tagliata la marijuana illegale e sono passati a quella light”, aggiunge Valsecchi. Tanti giovani, ma nessun adolescente (la vendita è vietata ai minori di 18 anni). “Ma la maggioranza sono ancora i ragazzini che comprano l’erba dai pusher. Cercano lo sballo che soltanto l’alto Thc può dare”, è l’allarme lanciato dagli psicologi che si occupano di dipendenze. Kenya. I rifugiati somali rimandati in mezzo alla guerra e alla fame di Riccardo Noury Corriere della Sera, 21 dicembre 2017 Amnesty International ha denunciato oggi che migliaia di rifugiati somali costretti a lasciare il campo di Dadaab in Kenya stanno affrontando siccità, carestia e un nuovo ciclo di sfollamenti in Somalia. I rimpatri da Dadaab hanno conosciuto un’accelerazione da quando, nel maggio 2016, le autorità Kenyane hanno annunciato l’intenzione di chiudere il campo di Dadaab, iniziando a ridurre i servizi e la fornitura di cibo e minacciando i residenti che, in caso di rifiuto, anziché un rimpatrio assistito avrebbero dovuto affrontare un rimpatrio forzato e senza alcuna assistenza. Nel febbraio di quest’anno l’Alta corte del Kenya ha dichiarato illegale la chiusura del campo. Nel frattempo però decine di migliaia di rifugiati somali erano già stati rimpatriati. I rifugiati un tempo fuggiti dalla siccità, dalla carestia e dalla violenza in Somalia sono rientrati nel mezzo di una grave crisi umanitaria e si trovano nella stessa disperata situazione da cui erano scappati. Secondo le Nazioni Unite, oltre metà della popolazione ha bisogno di assistenza umanitaria. Per non parlare della violenza, che piaga la Somalia da un ventennio. Solo da gennaio 2016 a ottobre 2017 ha causato circa 4585 vittime civili. Il gruppo armato al-Shabaab mantiene il controllo su una rilevante parte del paese e compie attacchi indiscriminati contro i civili. Questa combinazione di fattori ha prodotto una profonda crisi interna di sfollamenti. Secondo dati aggiornati al novembre 2017, in Somalia vi sono 2.100.000 profughi interni, molti dei quali ai margini dei sovraffollati centri urbani. La mancanza d’acqua potabile ha causato un’epidemia di colera che tra gennaio e luglio del 2017 ha fatto almeno 1155 vittime. Dunque, è evidente che la Somalia non è pronta per quei ritorni su larga scala diventati più frequenti dal 2016. Ma le responsabilità non sono tutte del Kenya, anzi: chiamano in causa la mancanza di un sostegno adeguato da parte della comunità internazionale. Nel novembre 2017 l’appello dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati per rispondere alla crisi dei rifugiati in Kenya era stato finanziato solo per il 29 per cento. Anche il Programma alimentare mondiale lamenta mancanza di finanziamenti ed è regolarmente costretto a ridurre il valore energetico delle forniture di cibo ai rifugiati. Amnesty International ha chiesto alla comunità internazionale di fornire al governo del Kenya assistenza tecnica e finanziaria adeguata e di proporre soluzioni sostenibili e di lungo periodo per l’integrazione dei rifugiati nel paese attraverso il completo finanziamento dei programmi dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati e l’incremento dei posti per il reinsediamento e di percorsi alternativi per i rifugiati somali. L’Azerbaijan nel mirino dell’Ue: non rispetta gli oppositori politici di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 dicembre 2017 Non ha eseguito la richiesta di scarcerazione di Hilal Mammadov, in cella dal 2013. Per la prima volta il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa utilizza l’articolo 46 contro uno Stato che non ha eseguito la sentenza emessa dalla corte europea dei diritti dell’uomo. Per la prima volta il comitato dei ministri del consiglio d’Europa utilizza l’articolo 46 contro uno Stato che non ha eseguito la sentenza emessa dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo. Un caso senza precedenti, perché per la prima volta l’Europa ha dovuto ricorrere all’articolo della convenzione europea avviando la procedura speciale contro uno Stato. Parliamo dell’Azerbaijan che non ha rispettato la richiesta immediata di scarcerazione dell’oppositore politico Hilal Mammadov, in carcere dal 2013. A maggio 2014, la Corte ha stabilito che l’arresto e la detenzione prolungata di Mammadov, un politico dell’opposizione, era in violazione di diversi articoli della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La Corte ha in particolare dichiarato che il vero scopo dell’azione penale intrapresa contro di lui e della sua detenzione era quello di metterlo a tacere o punirlo per aver criticato il governo, in violazione dell’Articolo 18 della Convenzione. Ad oggi, la Corte ha riscontrato una violazione dell’Articolo 18 in soli 5 casi, e in tutti questi eccetto quello di Ilgar Mammadov, i ricorrenti sono stati liberati. Tre anni dopo, Mammadov è ancora detenuto in carcere. Il Comitato dei Ministri aveva deciso ad ottobre scorso di avviare una procedura introdotta nel 2010, secondo cui un caso può essere rinviato dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo per accertare se la mancata esecuzione rappresenti un’ulteriore violazione della Convenzione. Nella risoluzione interinale che aveva adottato, il Comitato aveva invitato l’Azerbaijan a formulare per iscritto le sue osservazioni entro il 29 novembre. Ma niente da fare, silenzio più assoluto. Per questo motivo ora il Comitato dei ministri europei si è ritrovato costretto ad avviare la procedura speciale. lgar Mammadov è un noto analista politico e una delle poche voci alternative nel panorama politico azero. Mammadov è stato arrestato nel febbraio 2013, con l’accusa di incitazione alla violenza, e condannato a scontare una pena di sette anni dopo un procedimento politicamente motivato e svolto in evidente violazione dei principi del giusto processo. Poco prima del suo arresto, Mammadov annunciato la sua intenzione di sfidare il presidente Ilham Aliyev alle elezioni di ottobre 2013, candidandosi con il partito di opposizione Real (Alternativa Repubblicana), da lui diretto. L’Azerbaijan è una piccola repubblica che sorge nel Caucaso e ripetutamente calpesta i diritti umani, incarcerando avvocati, giornalisti ed attivisti politici. Grazie ai soldi del petrolio, la piccola repubblica del Caucaso negli ultimi sette anni è diventata una potenza regionale e ha scelto di trasformare la sua capitale in una sorta di vetrina sul mondo: grandi alberghi, boutique d’alta moda, pratini all’inglese, marciapiedi immacolati, il museo nazionale disegnato da Zaha Hadid, tre torri firmate Norman Foster con tanto di bandiera nazionale riprodotta sulle vetrate da migliaia di luci a led. Talmente tanti soldi che - secondo un’inchiesta realizzata dal consorzio internazionale di centri di giornalismo e testate internazionali guidati dall’Organised crime and corruption reporting project (Occrp) con sede a Sarajevo -, tra il 2012 e il 2014 la famiglia Aliyev - al potere ininterrottamente in Azerbaijan dal 1993 - avrebbe inondato l’Europa con 2,5 miliardi di euro. Denaro che da quattro anonime società offshore, gestite dalla Gran Bretagna e dall’Azerbaijan, è approdato anche nei conti di politici e funzionari europei, direttori di banca e di istituzioni internazionali. Le strade di questo Paese tracimano di simboli del “padre della patria”: poster, fotografie e statue di Heidar Alyiev, capo del Partito comunista azero a partire dal 1969, epoca Breznev, poi primo presidente dell’Azerbaijan indipendente nel 1993. Il suo erede Ilham, che ha 53 anni, tre figli e meno immagini di sé in giro per il Paese, ha ricevuto il potere nel 2003 e non l’ha più mollato. Tutto tramite elezioni, la cui regolarità è però stata messa in dubbio dall’organo di controllo internazionale (Osce), così come criticati dalle associazioni dei diritti umani sono i metodi con cui gli Aliyev gestiscono il dissenso. Per Amnesty International ci sono più di 22 casi accertati di “prigionieri di coscienza”, mente per alcuni avvocati locali sono almeno un’ottantina. Ma non solo. In Azerbaijan ci sono state, a più riprese, diverse ondate di arresti nei confronti della comunità Lgbt. Formalmente, in Azerbaijan non ci sono leggi che perseguono le persone con orientamenti sessuali diversi, ma il paese è classificato, dall’indice compilato da Ilga-Europe Rainbow, come il peggiore in cui vivere in Europa per un gay. Il portavoce del ministero degli Interni Eskhan Zakhidov, si era giustificato spiegando che “gli arresti colpiscono persone che dimostrano mancanza di rispetto per gli altri, infastidiscono concittadini con il loro comportamento e anche portatori di malattie infettive, a giudizio della polizia o delle autorità sanitarie, non minoranze sessuali”. La polizia, invece, parla di una “campagna contro la prostituzione e la diffusione di malattie”. Ma gli attivisti e i giornalisti hanno denunciato che solo a settembre scorso, decine di gay (e anche diverse donne trans) sono stati arrestati per strada, bar e persino rapiti nelle loro case e nei loro luoghi di lavoro. Gli attivisti hanno parlato con le vittime, che hanno riferito di essere stati oggetto di abusi verbali, di torture e di esami medici forzati (le ragazze trans sono anche state obbligate a rasarsi la testa). Molti uomini sono stati liberati solo dopo aver fornito nomi e indirizzi di altre persone Lgbt. Insomma, abbiamo un piccolo Paese, a cavallo tra l’Asia e l’Europa, che non solo non rispetta i diritti umani, ma nemmeno la sentenza emessa dalla corte europea. Iraq. Hrw: si teme sparizione forzata per oltre 350 detenuti nel Kurdistan Nova, 21 dicembre 2017 Oltre 350 detenuti nella zona di Kirkuk, nella regione del Kurdistan iracheno, potrebbero essere stati vittime di sparizione forzata. Lo riporta oggi l’organizzazione non governativa Human Rights Watch (Hrw). Le presunte vittime sono prevalentemente arabi sunniti sgomberate a Kirkuk o residenti nella città, detenuti dalle forze di sicurezza del governo regionale, Asayish, per sospetta di affiliazione allo Stato islamico. Quando le forze irachene centrali hanno ripreso controllo della zona di Kirkuk nello scorso ottobre, secondo dati di Hrw, i prigionieri non si trovavano più nelle strutture di detenzione locali. Lo scorso novembre si sono quindi svolte dimostrazioni a Kirkuk, in seguito alle quali il primo ministro iracheno, Haider al Abadi, ha ordinato un’inchiesta sui detenuti, inviando una delegazione a Kirkuk. L’ex responsabile del comitato di sicurezza del Consiglio provinciale di Kirkuk, Azad Jabari, ha tuttavia negato che le Asayish siano responsabile delle sparizioni, accusandone invece le forze statunitensi precedentemente presenti nella zona; Jabari ha sottolineato che gran parte delle sparizioni sarebbe avvenuta infatti dal 2003 al 2011. Le forze di sicurezza del governo curdo Asayish avrebbero tuttavia consegnato alle forze irachene locali, in seguito a tali dichiarazioni, 105 detenuti che da Kirkuk erano stati trasferiti a Sulaymaniyya, come comunicato a Hrw dal governatore di Kirkuk, Rakkan Said. 26 persone intervistate da Hrw tra novembre e dicembre sarebbero inoltre testimoni di 27 arresti di arabi sunniti, avvenuti a Kirkuk ad opera di Asayish dal 2015 in avanti; gli intervistati hanno affermato di non essere più riusciti a comunicare con gli arrestati e di non aver ricevuto alcuna informazione ufficiale su di loro né da Asayish né da altre forze. Lo scorso 18 dicembre Hrw ha contattato Dindar Zebari, presidente dell’Alto comitato del governo regionale curdo per la Valutazione sui rapporti sulle organizzazioni internazionali, con l’intento di ottenere notizie circa i detenuti nella zona di Kirkuk. Zebari non avrebbe fornito risposte.