Carceri, il diritto all’affettività subito di Stefano Anastasia e Franco Corleone Il Manifesto, 20 dicembre 2017 Rivolgiamo un appello al ministro Orlando, che tenacemente ha perseguito questo progetto di riforma, affinché sia chiaro da subito che l’affettività ne è una parte integrante, annunciando sin d’ora che le relative previsioni normative saranno decise dal successivo Consiglio di ministri. Nella sua prossima riunione, l’ultima prima dello scioglimento delle Camere, il Consiglio dei Ministri approverà i primi decreti di riforma dell’ordinamento penitenziario, frutto del lavoro delle commissioni ministeriali che hanno corpo alla delega parlamentare, ispirandosi alle riflessioni degli Stati Generali sull’esecuzione della pena. Un intervento utile e opportuno perché dalla legge del 1975 molto è cambiato nelle carceri italiane. Già nel 2005 Alessandro Margara - ispiratore della legge Gozzini e autore del regolamento penitenziario del 2000 - affrontò l’esigenza di un adeguamento dell’ordinamento sul fronte dei diritti e della dignità della persona e riscrisse l’intero testo di legge con importanti innovazioni. La sua proposta fu presentata alla Camera dei Deputati il 3 novembre del 2005 con le firme, tra gli altri, di Marco Boato, Anna Finocchiaro, Giuseppe Fanfani e Giuliano Pisapia. Dopo dodici anni, quindi, si realizza un progetto a lungo perseguito. Dalle puntuali informazioni del Garante nazionale delle persone private della libertà, sappiamo che il Ministero della giustizia ha elaborato cinque distinti decreti delegati, di riforma dell’ordinamento penitenziario per adulti e per i minori, di riforma delle alternative alla detenzione e delle misure di sicurezza, di disciplina delle misure di giustizia riparativa. Misure necessarie e urgenti (si pensi alla revisione della disciplina delle misure di sicurezza all’indomani della chiusura degli Opg, o alla prima approvazione di una regolamentazione specifica dell’esecuzione penale per i minorenni), si affiancano a revisioni indirizzate nel senso del riconoscimento dei diritti dei detenuti, della decarcerizzazione e della sperimentazione di nuove pratiche di giustizia riparativa. Si tratta, dunque, di un complesso apparato normativo che è necessario che arrivi tutto a compimento, senza accantonamenti che potrebbero essere ingiustificatamente invocati con il pretesto dello scioglimento delle Camere, alle cui Commissioni competenti spetta dare il parere di conformità alla delega concessa con la legge (e che può essere dato anche a Camere sciolte). Siamo dunque preoccupati che il disegno riformatore subisca incidenti di percorso, proprio per il periodo delicato in cui si viene compiendo e che potrebbe motivare resistenze e opposizioni strumentali. Bisognerà vigilare, quindi, sui contenuti dei decreti, affinché rispondano alle aspettative dei detenuti e degli operatori coinvolti negli Stati generali. Ma oggi, in particolare, siamo preoccupati del fatto che la norma sulla coltivazione delle relazioni affettive delle persone detenute non è presente nel testo che andrà al prossimo Consiglio dei ministri. Il Governo, infatti, è in attesa della copertura di spesa per i necessari interventi di edilizia presente nella legge di bilancio in corso di approvazione. Ma il rischio che si ripeta quanto avvenuto nel 2000, quando il Consiglio di Stato bloccò la norma sull’affettività contenuta nel regolamento perché non era supportata da un’adeguata previsione di legge, ci preoccupa. Le diffuse resistenze - a un tempo moralistiche e vessatorie - a un diritto riconosciuto in tutti i paesi europei, recentemente sono state esplicitate da alcuni sindacati di polizia penitenziaria con argomenti inqualificabili per dei pubblici ufficiali. Le misure del piano carceri, in cella spazio all’affettività di Valentina Errante Il Messaggero, 20 dicembre 2017 La riforma dovrebbe ottenere sabato il via libera del Consiglio dei ministri. Visite dei parenti, asili per i figli dei detenuti. “Stanze per il sesso” rinviate: mancano i soldi. Dall’allargamento della popolazione carceraria che potrà ottenere i benefici di legge, come l’affidamento in prova e il lavoro esterno, che adesso saranno preclusi solo ai condannati di mafia o terrorismo, alle nuove misure che tuteleranno la vita detentiva e l’affettività in carcere, con un’attenzione speciale riservata alle mamme di bambini piccoli. Sono tre i decreti del cosiddetto “Piano carceri” che sabato dovrebbero ottenere il varo del consiglio dei ministri, anche se, non è escluso, che vengano accorpati in un solo testo. Dopo l’approvazione, toccherà alle commissioni, che potranno esprimersi anche a camere sciolte, esaminarli e portare avanti l’iter della riforma. Al momento restano fuori (ma la delega è di un anno) le nuove norme che consentiranno ai detenuti di avere anche incontri intimi con relativi compagni e le cosiddette “misure di sicurezza” che si applicano in caso di libertà vigilata, o detenuti condannato alle case lavoro, alle colonie agricole o agli ospedali psichiatrici. L’obiettivo è quello di alleggerire la popolazione carceraria con maggiore attenzione per i diritti dei detenuti. Estensione benefici - In gergo si chiama 4bis, ossia l’articolo dell’ordinamento penitenziario che riguarda i cosiddetti reati ostativi alla concessione dei benefici previsti dalla legge, finora preclusi a molti detenuti condannati per fatti considerati di elevata pericolosità sociale. Adesso invece sarà il giudice di sorveglianza, del quale aumenta il potere discrezionale, a stabilire, a prescindere dai fatti che hanno portato alla condanna, se dare il permesso per il lavoro esterno o l’affidamento ai servizi sociali. Anche per i condannati all’ergastolo verranno meno alcune “ostatività”. Continua a restare fuori dai benefici, invece, chi sia in carcere per reati di mafia o terrorismo. Mentre adesso potrà ottenere l’affidamento in prova anche chi sia condannato a quattro anni, prima il tetto era di tre anni. In base ai dati degli uffici per l’Esecuzione penale esterna, la popolazione carceraria ammonta a 56.436 persone e 45.456 scontano una pena all’esterno del carcere. Di questi, 9.782 sono “messi alla prova”, mentre l’affidamento ai servizi sociali coinvolge 13.651 condannati. Resta fuori, per il lungo iter della legge di Bilancio che avrebbe dovuto prevedere lo stanziamento dei fondi necessari, la possibilità di concedere ai detenuti incontri intimi con i partner. Le nuove misure prevedono tuttavia una maggiore attenzione per i colloqui con i familiari e per le mamme, con la creazione di asili riservati ai piccoli che abbiano meno di tre anni e la creazione di nuovi istituti a custodia attenuata per detenute madri che abbiano bimbi fino a sei anni e non possano usufruire dei benefici. È un intervento di tutela anche per i 100 mila bambini le cui relazioni affettive con genitori passano attraverso il carcere, il luogo che frequentano per mantenere il loro legame con il padre o con la madre detenuti. Maggiore attenzione anche per i colloqui con i familiari. La salute - Un intero capitolo è dedicato alla salute in carcere, con la creazione di sezioni speciali riservate ai casi di infermità mentale sopravvenuta dopo la condanna e l’opzione di rinviata esecuzione della pena in particolari circostanze. Il decreto prevede anche nuove disposizioni sulla possibilità di studio e lavoro in carcere, con la creazione di nuove figure all’interno degli istituti, come operatori e docenti, per garantire l’inserimento dei detenuti. Emergenza suicidi in carcere, sia di detenuti che di agenti quotidianosanita.it, 20 dicembre 2017 Dirindin (Leu): “Serve piano straordinario”. Dall’inizio dell’anno ci sarebbero stati 49 suicidi di persone ristrette, mentre negli ultimi 3 anni secondo l’associazione Antigone si sono tolti la vita 56 agenti. Dirindin: “Per contrastare questo fenomeno molto complesso e delicato servono azioni concrete, servono più operatori impegnati in carcere. Serve un piano vero”. “C’è un’emergenza di cui si parla troppo poco: quella dei suicidi nelle carceri, dei detenuti e degli operatori che ci lavorano”. Lo ha detto Nerina Dirindin, senatrice di Articolo 1 Mdp - Liberi e Uguali, intervenendo in Aula a fine seduta. “Dall’inizio dell’anno ci sarebbero stati 49 suicidi di persone ristrette, mentre negli ultimi 3 anni secondo l’associazione Antigone si sono tolti la vita 56 agenti - ha sottolineato Dirindin - Secondo uno studio del Consiglio d’Europa (riferito agli anni tra il 1993 e il 2010) in Italia il rischio di suicidio in carcere è fra i più elevati. Non solo, mentre fra la popolazione libera negli ultimi 20 anni i tassi di suicidio diminuiscono progressivamente, ciò non accade in carcere. La forbice tra il carcere e il mondo esterno è aumentata”. “Per contrastare questo fenomeno molto complesso e delicato servono azioni concrete, servono più operatori impegnati in carcere. Serve un piano vero, straordinario, perché la civiltà di un Paese si misura soprattutto sulla sua capacità di prendersi cura di chi è più vulnerabile e di chi si impegna nei luoghi più difficili”, ha concluso la senatrice. L’ex pm Carlo Nordio: “così i magistrati hanno scalato il potere politico” di Giulia Merlo Il Dubbio, 20 dicembre 2017 Chiaro e diretto, da sempre è considerato eretico dai suoi stessi colleghi. Carlo Nordio, ex procuratore aggiunto di Venezia, analizza a tutto campo il cortocircuito tra poteri e non lesina stilettate a una politica “che ha ceduto le armi” a una magistratura “che si è servita della stampa per ottenere la fama ed entrare in politica”. Procuratore, il processo mediatico è una patologia di questo tempo di crisi? Tutt’altro. Il processo mediatico c’è sempre stato a partire dal dopoguerra: penso all’omicidio di Wilma Montesi, che è stato il primo caso di interferenza delle indagini a fini politici, perché il processo era stato montato a bella posta per colpire l’onorevole Piccioni. Questa strumentalizzazione, tuttavia, ha assunto la forma di ordinaria patologia con Tangentopoli. Come è fatto questo virus che ha contagiato il nostro sistema giudiziario? Con Mani pulite si è instaurato un intreccio perverso tra magistratura inquirente e stampa. Gli inquirenti avevano canali privilegiati con alcuni giornali, ai quali facevano filtrare le notizie più succulente per fargli fare degli scoop. In cambio, questi pm ricevevano una serie di sperticati riconoscimenti elogiativi che li rendevano a loro volta più credibili, prestigiosi e forti. Così si è generato un potenziamento reciproco: più il magistrato era forte e più si sentiva impunito se lasciava filtrare le notizie, più le lasciava filtrare e più si rafforzava perché riceveva in cambio una legittimazione da parte della stampa. Tutto questo ha portato a un cortocircuito che non solo ha condizionato la politica, ma ha anche alterato la fisiologia della giustizia e della stampa. Parliamo di un cortocircuito iniziato venticinque anni fa. E oggi? Ora ne stiamo pagando le conseguenze, la più perniciosa delle quali è che una serie di magistrati, servendosi del prestigio e della fama acquisiti attraverso gli elogi della stampa, sono entrati in politica. L’ultimo dei quali oggi è a capo di un partito politico, il presidente del Senato, Piero Grasso. Di Grasso io critico la scelta fatta ormai cinque anni fa: si è candidato alle elezioni politiche poche ore dopo essere uscito dalla magistratura. Ecco, poiché non credo che una candidatura si improvvisi nel giro di poche ore, questo significa che mentre indossava la toga ha avuto dei contatti politici. Lei ritiene che un magistrato non dovrebbe fare politica? Intendiamoci, è perfettamente legittimo che lo faccia, ma secondo me è un elemento di disturbo nei rapporti fisiologici tra poteri. Un magistrato che indossa la toga può avere tutte le opinioni politiche che vuole e ha il diritto di esprimerle anche sui giornali, ma non trovo opportuno che abbia contatti diretti con la politica al fine di procurarsi una candidatura. E un magistrato che ha smesso la toga, invece? Nemmeno, soprattutto se quel magistrato ha condotto inchieste che hanno avuto un forte impatto politico. Se si candida, infatti, si espone al rischio che le sue inchieste siano considerate un mezzo per procurarsi una sorta di buen retiro politico. Parlo per me: ho condotto l’inchiesta sul Mose che ha demolito la classe dirigente veneta. Troverei raccapricciante il solo sospetto che si possa pensare di me che ho fatto un’inchiesta per prendere il posto di chi ho mandato in galera. Per questo un magistrato non dovrebbe candidarsi, nemmeno dopo essere andato in pensione. Da vittima, la politica si è innamorata dei carnefici. Non si contano i magistrati candidati, sia a destra che a sinistra. Con la caduta delle ideologie e la fine dei partiti di massa, la classe politica ha perduto completamente la fiducia in se stessa e, davanti all’offensiva giudiziaria, si è definitivamente sgretolata. Così ha cercato rifugio in quelli che sembravano i rappresentanti più significativi del Paese, cioè i magistrati. Lei ha fissato nella legge Biondi del 1994 il momento storico in cui la politica ha definitivamente ceduto il passo alla magistratura. I quattro pm di Mani pulite andarono in televisione, chiedendo il ritiro del decreto e minacciando le dimissioni. Allora un politico serio avrebbe dovuto rispondere: “Cari pm, avete diritto di critica perché non siete giudici terzi, per questo da domani separiamo le carriere. Inoltre, manteniamo il decreto e aspettiamo le vostre dimissioni”. Invece la politica ha ceduto le armi. Da quel momento è finito tutto: quando un potere lascia un vuoto così clamoroso qualcuno lo occupa e così ha fatto la magistratura. Intravede la possibilità di una inversione di tendenza? Dopo tanti anni di patologica regressione di campo da parte della politica non è facile ristabilire gli equilibri. lo mostra il fatto che, ogni volta che si propone una legge che incide sui poteri dei magistrati, l’Anm insorge e il Governo fa marcia indietro. L’unica soluzione si potrebbe trovare a livello costituzionale, rivedendo il reclutamento dei magistrati e il funzionamento del Csm, ma revisione non è cosa facile. L’ordinamento non contiene già i limiti tra poteri? Per ricondurre in alveo costituzionale tutti i poteri dello Stato andrebbe attuato al 100% il codice penale accusatorio, un codice garantista e anglosassone che è stato attuato solo per il 20% e poi demolito dalla stessa Corte Costituzionale. È una crisi ormai fisiologica e non risolvibile, quindi? Guardi, l’unica speranza è il ricambio generazionale, in magistratura come in politica. Questo, mi sembra, sta già avvenendo. Tutto di lei si può dire, meno che non sia diretto. Quanto le sono costate queste posizioni in contrasto con le idee dominanti in magistratura? [Ride di gusto ndr]. Io non ho mai cambiato idea e ciò che dico oggi l’ho scritto in un libro del 1997. La mia eresia di allora mi costò la chiamata davanti ai probiviri di Anm: io ci risi sopra e nemmeno mi presentai. Lei, però, rimane una mosca bianca quando parla di separazione delle carriere e di magistrati in politica. Le assicuro che oggi molti magistrati la pensano come me, ma non tutti hanno poi il coraggio di dirlo perché entrerebbero in conflitto col pensiero dominante dell’Anm che, attraverso il Csm decide le sorti professionali. Eppure, oggi la separazione delle carriere non è più il tabù che era vent’anni fa e lo stesso vale per la necessità di paletti più incisivi per l’ingresso dei magistrati in politica. Del resto ormai si è deideologizzato tutto, non vedo perché lo stesso non possa accadere anche con gli ultimi pachidermici miti dell’Anm. Ma esiste una magistratura di destra e una di sinistra? Io sono convinto che la giustizia risponda a criteri di buon senso e la distinzione destra-sinistra sia estremamente ingannevole su questo piano. Lei è in pensione da un anno, le manca la toga? Mi mancano le amicizie che si sono un po’ diradate, ma non il lavoro. Mi piace leggere, scrivere, andare a cavallo e ascoltare musica classica e ora ho finalmente il tempo per farlo. Guardandosi indietro, però, sceglierebbe ancora il lavoro di magistrato? Io non ho mai vissuto la magistratura come una missione o un sacerdozio. Anzi, diffido molto dei magistrati che vivono così il loro ufficio, perché il sacerdozio rischia di sconfinare nel fanatismo. Per me, però, è sempre stata una funzione centrale per la democrazia: dopo il medico che incide sulla salute c’è il magistrato che incide sulla dignità e sull’onore del cittadino. Ecco, per questo sono orgoglioso di aver indossato la toga e rifarei senza dubbio questa scelta L’impraticabile meccanismo di selezione delle intercettazioni di Glauco Giostra Il Sole 24 Ore, 20 dicembre 2017 Aveva proprio ragione Flaiano: “In Italia, la via più breve tra due punti è sempre l’arabesco”. L’attuale disciplina delle intercettazioni presenta, fra gli altri, un serio problema riguardante la divulgabilità delle conversazioni captate, inopinatamente soggetta allo stesso regime previsto per gli altri atti di indagine: la pubblicazione del contenuto è consentita quando l’atto non è più segreto, cioè quando è divenuto conoscibile dall’indagato. Questo momento, per le intercettazioni, coincide con il deposito delle stesse a disposizione della difesa, in funzione della selezione di quelle rilevanti per l’accertamento dei fatti, che non può essere lasciata a una sola delle parti: è necessario che accusa e difesa prospettino ad un giudice come andrebbe operata, e che questi decida. Il legislatore non ha considerato, tuttavia, che l’intercettazione, a differenza di ogni altro atto di indagine, è “idrovora fonica”, che tutto indiscriminatamente inghiotte. Poiché il segreto e il divieto assoluto di pubblicazione cadono, come abbiamo visto, con il deposito delle registrazioni, tutto diviene legittimamente divulgabile, almeno nel contenuto, prima che il giudice abbia potuto selezionare le sole conversazioni rilevanti. Per porvi rimedio, dunque, bisognerebbe prolungare sino all’intervento selettivo del giudice il segreto sulle conversazioni intercettate, predisponendo accorgimenti operativi per garantirne l’effettività. Evidentemente troppo semplice. Il legislatore delegante, attraverso un malaccorto assemblaggio delle circolari adottate in materia da molte Procure, ha escogitato un impraticabile meccanismo di selezione a monte da parte della polizia giudiziaria, che sarebbe tenuta a trascrivere soltanto le conversazioni che reputa rilevanti, mentre delle altre si dovrebbe limitare a indicare data, ora e dispositivo. Un’operazione, questa, tanto delicata, quanto inutile. Siamo in presenza della prima voluta dell’arabesco, cui altre seguono in successione obbligata. Poiché la selezione effettuata dalla Pg potrebbe non essere condivisa dal Pm, è necessario che questa gli fornisca annotazioni sui dialoghi “scartati”, in modo che il Pm possa controllarne il contenuto e con decreto motivato disporne la trascrizione, ove lo ritenga processualmente pertinente. Poiché le valutazioni del Pm potrebbero a loro volta non essere condivise dal difensore, questi ha diritto di prendere visione di quanto trascritto e di quanto annotato, nonché di ascoltare i colloqui registrati (senza poterne, discutibilmente, ottenere copia) per capire se ci sono conversazioni rilevanti tra quelle lasciate “criptate” dalla Pg e dal Pm poiché solo il giudice può imparzialmente apprezzare ciò che è rilevante da ciò che non lo è, le parti prospettano le loro opzioni e il giudice decide quali colloqui acquisire al procedimento e rendere ostensibili. Poiché al giudice potrebbe nascere il dubbio - in base al suo intuito, si deve supporre - che tra le conversazioni ancora relegate nel caveau dell’archivio riservato ve ne possano essere di rilevanti, può procedere all’ascolto delle stesse. Fine dell’arabesco. Risultato: un meccanismo farraginoso e inutilmente complicato per tutti i protagonisti. Proviamo a sostituire l’arabesco con una prosaica linea retta (riservandoci di tornare sul particolare impiego delle intercettazioni per motivare una richiesta di misura cautelare). Nei verbali (brogliacci d’ascolto) la Pg dovrebbe riservare a ciò che ritiene irrilevante una sorta di “twitter documentale” (soltanto il nucleo essenziale della conversazione: data, interlocutori e oggetto). I verbali e le registrazioni delle intercettazioni dovrebbero essere custoditi sin dall’inizio in un archivio riservato presso la Procura e rimanere coperti dal segreto fino a quando il giudice, nel contraddittorio, non abbia selezionato i colloqui rilevanti. Il difensore, in vista di tale contraddittorio, dovrebbe poter accedere a tutto quel materiale e ottenerne copia, senza che per ciò cada il segreto. A seguito della cernita giudiziaria, le conversazioni irrilevanti dovrebbero “rimanere” nell’archivio riservato continuando a essere coperte dal segreto; quelle rilevanti andrebbero acquisite al procedimento, divenendo accessibili e pubblicabili. Per rendere credibile questa impostazione si dovrebbe, poi, prevedere una responsabilità disciplinare a carico del magistrato che non bonifichi i propri atti dalle intercettazioni di cui sia indubbia l’irrilevanza; precisare che il difensore risponde di illecita rivelazione se comunica il contenuto di intercettazioni coperte dal segreto; stabilire per il giornalista che le pubblichi conseguenze meno risibili di quelle attualmente previste dall’articolo 684 del Codice penale (salvo che la condotta non sia scriminata dal rilevante interesse pubblico della notizia). Ma perché ciò accada, da un lato, il legislatore delegato dovrebbe disattendere la delega; dall’altro, si dovrebbe vincere la prevedibile “reazione immunitaria” delle categorie professionali interessate. Difficile dire quale dei due ostacoli sia più arduo da superare. Sparare ai ladri: quando scatta la “legittima difesa” di Agostino Gramigna Corriere della Sera, 20 dicembre 2017 Assolti o condannati per aver sparato a un ladro, talvolta chiamati a risarcirlo. Ecco perché casi che sembrano simili possono concludersi con sentenze opposte. Collocata in politica la questione sarebbe molto netta. O si sta nel campo di chi pensa che la difesa è sempre legittima e se un ladro entra in casa si può ricorrere alle armi; o si sta con chi vede in questo scenario la preconizzazione del far west. In termini giuridici, invece, lo scenario è molto più articolato e sfumato. Perché non sempre è facile capire come fatti processuali simili producano sentenze assai diverse. È dei giorni scorsi la decisione a Padova di condannare a quattro anni e 11 mesi Walter Onichini per aver sparato, ferendolo, a Nelson Dreca, un ladro sorpreso nel giardino di casa. Una vicenda simile a quella di Francesco Sicignano, pensionato di Vaprio d’Adda che nel 2015 ammazzò con un colpo di pistola un ladro entrato in casa sua. La differenza l’ha fatta il risultato: Sicignano è stato prosciolto. Di esempi del genere la cronaca è piena. Come quello che aveva messo al centro un benzinaio, Graziano Stracchio di Ponte di Nanto (Vicenza), che nel 2015 aveva fatto secco un ladro che stava svaligiando una gioielleria. Ma non era la sua. Prosciolto pure lui. Alessandro Continiello è un avvocato, esperto di diritto penale, autore di libri sul tema. Afferma che non c’è da stupirsi se sui casi di legittima difesa le sentenze variano di molto. “Le norme del codice non sono ben definite. Questo aumenta la discrezionalità del togato. Del resto è proprio il codice che lo prevede, l’articolo 133. Il giudice può applicare la pena in modo discrezionale, soprattutto quando si tratta di decidere se c’è stato o no eccesso di difesa”. Le sentenze variano perché il dibattimento corre sempre su un filo. Un terreno di confine. “Due fatti simili possono portare a sentenze diverse perché la pena va da un minimo ad un massimo. Nel caso Onichini il giudice ha valutato che l’imputato aveva travalicato i confini della legittima difesa. La condanna a quasi 5 anni è una conseguenza. A Brescia, Mirco Franzoni è stato condannato a 9 anni e 4 mesi per aver ucciso in strada un uomo che aveva rubato in casa del fratello. Stacchio ha sparato, è vero, ma l’articolo 52 prevede la difesa anche di un diritto altrui”. Nella geometria della discrezionalità il penalista traccia un segmento introspettivo. “Il giudice si trova sempre davanti a tre opzioni: legittima difesa e quindi archiviazione, eccesso di difesa o omicidio volontario. In questi due ultimi casi si va a processo. Entrano in scena il medico legale, la balistica, i testimoni. Poniamo il caso di un ladro ucciso in una abitazione e che venga ritrovato privo di armi. Con la persona indagata che si difende dicendo di aver agito supponendo che il ladro fosse armato. Ecco che la valutazione del giudice entra in un campo più introspettivo”. Il caso Sicignano è l’esempio del caso di confine. Il corpo del ladro è stato trovato sul l’uscio di casa. Ma l’archiviazione è scattata solo dopo che le indagini hanno escluso che fosse stato ucciso all’esterno della villetta, nell’atto di fuggire. Il colpo è partito dentro le mura. Per il giudice si è trattato di “legittima difesa”. Responsabilità enti: giudizi nulli se il difensore è nominato dall’amministratore imputato di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 20 dicembre 2017 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 19 dicembre 2017 n. 56427. Sono nulli i giudizi di primo e secondo grado nei confronti della persona giuridica, in base alla legge sulla responsabilità degli enti, se il difensore che ha assisto la società è stato nominato del legale rappresentante imputato nel reato da cui dipende l’illecito amministrativo. La Cassazione, con la sentenza 56427, annulla la sentenza con la quale veniva disposta la confisca nei confronti della Srl, come previsto dall’articolo 19 della legge 231/2000, di una somma di denaro, per reati tributari (gran parte dei quali prescritti) e truffa commessi dal suo legale rappresentante. Alla base del “colpo di spugna” l’incompatibilità assoluta in cui si trovava l’amministratore, che come imputato, non era nella condizione di nominare un difensore di fiducia. L’ente, in assenza di una formale rappresentanza e di una valida costituzione in giudizio, avrebbe dovuto essere dichiarato contumace, con la conseguente nomina di un avvocato d’ufficio. Alla Srl era stato contestato, in particolare, di non aver predisposto, prima della commissione dei fatti, modelli di gestione e di organizzazione idonei a prevenire in modo adeguato reati della stessa specie di quelli che si erano verificati. Secondo i giudici la società, non avendo adeguatamente vigilato sull’osservanza di un ipotetico modello organizzativo predisposto per prevenire le condotte illecite, avrebbe, tra l’altro, consentito al suo amministratore unico di indurre in errore il ministero delle attività produttive che aveva concesso, tramite banca, un contributo non dovuto. Ma la nullità assoluta dei giudizi, comporta la necessità trasmettere di nuovo gli atti al Tribunale di primo grado. I contributi prevalgono sugli stipendi di Matteo Prioschi Il Sole 24 Ore, 20 dicembre 2017 Corte di cassazione - Sentenza 56432/2017. Il datore di lavoro a corto di liquidità, dovendo scegliere se pagare le retribuzioni dei dipendenti o versare le relative contribuzioni, dovrebbe preferire la seconda opzione. Questa l’indicazione che emerge dalla sentenza 56432/2017 della Corte di cassazione in cui è stato anche ribadito il criterio temporale per calcolare la rilevanza penale dell’inadempimento, già indicato in altre pronunce. Un datore di lavoro che non ha versato i contributi tra dicembre 2011 e ottobre 2012 si è difeso sostenendo di trovarsi in una situazione di forza maggiore. Il suo comportamento sarebbe derivato da una situazione di forza maggiore e per questo motivo, ha sostenuto la difesa, non sarebbe stato condannabile perché, secondo l’articolo 45 del codice penale, “non è punibile chi ha commesso il fatto per caso fortuito o per forza maggiore”. Tuttavia la Cassazione rileva che l’azienda non ha avuto una crisi di liquidità assoluta, dato che, mentre ometteva di versare i contributi, ha continuato a pagare lo stipendio ai dipendenti. Inoltre il datore di lavoro avrebbe dovuto prevedere che continuando a versare le retribuzioni “non avrebbe potuto adempiere agli obblighi contributivi”. L’imprenditore si è trovato di fronte al “conflitto tra l’obbligo contributivo e il diritto dei lavoratori a percepire la retribuzione agli stessi spettante”. Due adempimenti entrambi “meritevoli di tutela” ma correttamente, secondo la Cassazione, nei primi due gradi di giudizio si è data prevalenza all’obbligo contributivo in quanto solo il mancato rispetto dello stesso comporta un illecito penale. Ne consegue, secondo la Suprema corte che “l’imputato avrebbe dovuto, dinnanzi al contestuale sorgere delle due obbligazioni, accantonare le somme corrispondenti al debito previdenziale”. Per quanto riguarda, invece, i dodici mesi da considerare per verificare se l’importo degli importi omessi supera i 10mila euro con conseguente sanzione penale, la Cassazione si allinea alle precedenti pronunce, secondo cui vale il principio di competenza: si devono considerare i mesi da gennaio a dicembre e le relative scadenze di pagamento dal 16 febbraio al 16 gennaio dell’anno successivo. Un orientamento che contrasta con quanto concordato in via amministrativa tra Inps, ministero del Lavoro e Procura di Roma. Fatture false per operazioni inesistenti possono mascherare una bancarotta Il Sole 24 Ore, 20 dicembre 2017 Reati tributari - Dichiarazione fraudolenta ed emissione di fatture false (articoli 2-8 Dlgs n. 74/2000) - Concorso nei reati del commercialista - Definitività della misura interdittiva. Concorre nel reato di dichiarazione fraudolenta ed emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (articoli 2-8 Dlgs n. 74/2000) il commercialista che assuma un ruolo determinante nella commissione degli illeciti, atteggiandosi a regista dell’operazione, suggerendo e agevolando nei soggetti la commissione delle condotte contestate nella formazione di documenti attestanti falsamente le operazioni fittizie utilizzate, al fine di abbattere l’imponibile tributario e pertanto di conseguire l’indebito vantaggio; individuando i soggetti emittenti, redigendo e facendo uso dei documenti per operazioni inesistenti. Entrambe le fattispecie si realizzano a condizione che la documentazione fiscale falsa preesista quanto meno alla presentazione della dichiarazione fraudolentemente formata, il momento della frode consumandosi nel momento in cui viene presentata ai competenti uffici tributari la dichiarazione contenente i dati mendaci. (Nel caso di specie, il commercialista, accusato di avere ideato un articolato sistema di frode fiscale a vantaggio dei propri clienti, era stato dapprima posto agli arresti domiciliari, quindi, la misura era stata sostituita con il divieto di esercitare l’attività professionale per due mesi, misura interdittiva da considerarsi definitiva già dopo la sentenza di primo grado). • Corte di cassazione, sezione IV, sentenza 11 dicembre 2017 n. 55136. Reati fallimentari - Bancarotta documentale - Dolo generico - Fatture false per operazioni inesistenti (Dlgs n. 74/2000, articoli 2, 8) - Soggetti falsi - Sussiste. Nella bancarotta documentale, diversamente dalle ipotesi concernenti un’eventuale sottrazione o distruzione dei libri contabili, è richiesta semplicemente la prova del dolo generico, di certo riscontrabile quando l’amministratore della società era consapevole di annotare fatture non rispondenti al vero sul piano dell’individuazione dei reali soggetti giuridici tra cui erano intervenute le operazioni commerciali ivi documentate. Il delitto sussiste non solo quando la ricostruzione del patrimonio si renda impossibile per il modo in cui le scritture contabili sono state tenute ma anche quando, in vista di tale ricostruzione, al cospetto di libri tenuti con modalità formalmente regolari, gli accertamenti degli organi della procedura concorsuale siano stati ostacolati da difficoltà superabili solo con particolare diligenza. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 24 ottobre 2017 n. 48765. Reati fallimentari - Bancarotta fraudolenta patrimoniale - Mancanza della prova - Assoluzione con formula dubitativa - Inammissibilità - Rinvio - Fattispecie. L’insussistenza dei fatti di bancarotta patrimoniale dichiarata dal giudice di primo grado non può essere svilita, nella sua valenza di accertamento negativo, sulla base dell’argomento che il proscioglimento è stato pronunciato, in parte, per mancanza di prova. Il fatto che l’imputato sia stato assolto con formula dubitativa dalle ipotesi di distrazione in mancanza di prova certa al riguardo può indurre il giudice di appello a ritenere che le gravi carenze nella tenuta delle scritture contabili siano state finalizzate ad impedire la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari della società e a pregiudicare gli interessi dei creditori. (Nel caso di specie, il titolare di un’impresa individuale dichiarata fallita era stato ritenuto responsabile del reato di bancarotta fraudolenta documentale, poiché teneva i libri e le scritture contabili in modo da non permettere la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari, ma era stato assolto dal reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione e di ricorso abusivo al credito. La Suprema corte cassa con rinvio). • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 19 ottobre 2017 n. 48208. Reati tributari - Fatture per operazioni inesistenti (Dlgs n. 74/2000, articoli 1-2) - Descrizione delle fattispecie - Soggetti diversi da quelli reali - Imposte dirette - Dichiarazione Iva. Nella nozione di fatture per operazioni inesistenti devono ricondursi le fatture emesse a fronte di operazioni non realmente effettuate in tutto o in parte, ovvero indicanti i corrispettivi o l’imposta sul valore aggiunto in misura superiore a quella reale, ovvero riferenti l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi (Dlgs n. 74/2000, articolo 1, lett. a). Nel reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (articolo 2) la falsità può essere riferita anche all’indicazione dei soggetti con cui è intercorsa l’operazione, intendendosi per soggetti diversi da quelli effettivi coloro che, pur avendo apparentemente emesso il documento, non hanno effettuato la prestazione, sono irreali, come nel caso di nomi di fantasia, o non hanno avuto alcun rapporto con il contribuente finale. Il delitto è configurabile allorché, per mezzo di fatture per operazioni inesistenti, soggettivamente o oggettivamente, si indichino in una delle dichiarazioni annuali relative alle imposte dirette o all’imposta sul valore aggiunto elementi passivi fittizi al fine di evadere dette imposte (in tema di Iva, la nozione di fattura soggettivamente inesistente presuppone, da un lato, l’effettività dell’acquisto dei beni entrati nella disponibilità patrimoniale dell’impresa utilizzatrice delle fatture e, dall’altro, la simulazione soggettiva, ossia la provenienza della merce da ditta diversa da quella figurante sulle fatture medesima). • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 17 ottobre 2017 n. 47823. Imposte sui redditi - Accertamento - Fatture per operazioni inesistenti - Onere della prova - Principio di inerenza - Indeducibilità dei costi (articolo 109 Tuir). In tema di accertamento delle imposte sui redditi e con riguardo ad operazioni oggettivamente inesistenti, grava sul contribuente l’onere di provare la fittizietà dei componenti positivi che, ove direttamente afferenti a spese o altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati, non concorrono alla formazione del reddito oggetto di rettifica, entro i limiti dell’ammontare non ammesso in deduzione delle predette spese o altri componenti negativi (Dl 2 marzo 2012, n. 16, articolo 8, comma 2, conv., con modif., nella legge 26 aprile 2012, n. 44), dato il vincolo di indeducibilità dei costi posto dalla mancanza dei requisiti di cui all’articolo 109 Tuir, vale a dire effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità degli stessi. • Corte di cassazione, sezione VI civile, ordinanza 4 ottobre 2017 n. 23241. Campania: il Garante dei detenuti “carceri sovraffollate e a rischio suicidi” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 dicembre 2017 Sovraffollamento, diritto alla salute mentale e fisica, suicidi, tempi di attesa lunghi per avere una decisione da parte del tribunale di sorveglianza, ma anche aspetti positivi riscontrati nei penitenziari campani. Di questo ne abbiamo parlato con Samuele Ciambriello, il nuovo Garante dei detenuti della regione Campania, eletto a fine settembre e succeduto alla defunta Adriana Tocco, donna sempre pronta a battersi per i diritti civili e costituzionali degli ultimi, in questo caso i detenuti. Ciambriello, presidente dell’associazione La Mansarda, da anni si occupa di detenuti e di persone messe ai margini della società. Lo abbiamo intervistato in occasione del convegno sulla salute mentale nelle carceri campane che si terrà questa mattina, alle 9, nell’aula del Consiglio Regionale della Campania. In questi tre mesi ha compiuto un lungo giro di visite in tutti gli istituti della Campania, al livello generale quali criticità ha riscontrato? Il primo dato negativo riscontrato è quello del sovraffollamento, che coinvolge soprattutto le case circondariali come a Poggioreale, Secondigliano, Salerno e Santa Maria Capua Vetere. Il secondo dato che emerge sono i temi relativi alla sanità: i tempi relativi all’attesa sono lunghissimi, sia per ricevere visite specialistiche che per essere operati. I posti disponibili per ricoverare in ospedale un detenuto sono pochi. Ad esempio all’ospedale di Poggioreale i posti riservati ai detenuti sono 12 e all’ospedale Cotugno sono ridotti a tre. In questo senso, infatti, in qualità di Garante, ho avanzato l’ipotesi di far entrare nelle carceri i medici specialisti. Da sottolineare che ci sono anche degli esempi virtuosi. Nello stesso carcere di Poggioreale, infatti, hanno impiantato i macchinari per fare gli esami radiologici e questo aiuta moltissimo l’intero istituto che contra più di duemila ristretti, o “diversamente liberi”, come mi piace definirli. Altro dato negativo è il problema dei magistrati di sorveglianza. Non c’è uniformità di giudizio e i tempi di attesa per avere i permessi sono lunghi. Ma, attenzione, i magistrati di sorveglianza hanno l’abitudine a non concedere tutti i giorni di permesso che il detenuto ha diritto come previsto dall’ordinamento penitenziario. Sempre per quanto riguarda la magistratura di sorveglianza, c’è anche il discorso della concessione dei permessi per buona condotta. Il problema è che a decidere è sempre il magistrato che molto spesso non ascolta gli operatori del carcere che sanno se il detenuto ha avuto un beneficio o meno dal trattamento risocializzante. Ci sono degli aspetti positivi? Certo. In alcuni Istituti penitenziari, quello che mi ha colpito in positivo, è la collaborazione con gli istituti scolastici. Penso al carcere di Avellino o a quello di Secondigliano dove tantissimi detenuti frequentano il corso per geometri o il liceo artistico. La scuola è un aspetto fondamentale, non solo perché fa occupare il tempo e lo fa occupare bene, ma perché porta i detenuti ad una consapevolezza di come dare un giusto valore anche all’aspetto culturale, della conoscenza. Poi c’è il lavoro. Ci sono esempi virtuosi come al carcere femminile di Pozzuoli, dove recentemente è stato inaugurato il laboratorio per la realizzazione di cravatte nato dal protocollo di intesa tra l’azienda napoletana Marinella, la Regione Campania e la direzione del carcere flegreo. Complessivamente il lavoro c’è in tutti gli istituti, ma prevalentemente è quello relativo alle strutture come la pulizia o la cucina, ma sono pochi i casi dove c’è un lavoro di produzione. Nel carcere di Sant’Angelo dei Lombardi i detenuti fanno il vino, il miele, lavori di tipografia, carrozzeria ed elettrauto. Pensi che in un anno, per i lavori realizzati, il carcere di Sant’Angelo ha avuto un’entrata di 2 milioni di euro. Parliamo ora della salute mentale in carcere, argomento del convegno che ha organizzato per oggi. Le do dei dati. L’anno scorso ci sono stati 700 casi di autolesionismo, 50 tentativi di suicidi, due suicidi. Quest’anno, invece, sempre nelle carceri campane ci sono stati più di 700 casi di autolesionismo, 58 tentativi di suicidi evitati grazie all’intervento degli agenti di polizia, 5 suicidi e anche 2 suicidi da parte degli agenti di polizia penitenziaria, perché anche loro sono soggetti allo stress dovuto dal sistema penitenziario. La questione psichica, in pratica, riguarda tutti i soggetti che fanno parte dell’istituto penitenziario. Su questo tema, quindi, bisogna intervenire di più. Pensiamo all’uomo che è morto di crepacuore mentre era sull’autobus della polizia che lo avrebbe dovuto portale in tribunale. Lui aveva problemi psichiatrici e infatti era in cura presso una comunità. Era evaso e invece di riportarlo in cura, lo avevano rimandato in carcere. Una morte che probabilmente si poteva evitare. Ecco perché si aggiunge il problema dei malati psichiatrici. Sono stati chiusi gli Opg, ma ora qual è la situazione? Dopo la chiusura degli Opg di Napoli e di Aversa e sono state attivate 6 Articolazioni psichiatriche nelle carceri e 4 Rems che, però sono insufficienti, se si pensa che a Napoli non ce n’è ancora nemmeno una. Inoltre, bisogna assolutamente dire che le persone con patologie psichiatriche ristrette nelle articolazioni di salute mentale devono essere prese in carico dai dipartimenti di salute mentale prescrivendo dei piani terapeutici e di sostegno. C’è un “sommerso” delle patologie psichiche nelle carceri campane che bisogna far emergere per porre fine allo stato di disagio e di abbandono in cui versano i detenuti. Per questo motivo ho organizzato un convengo dove parteciperanno, tra gli altri, il presidente del consiglio regionale della Campania, Rosa D’Amelio, il presidente della commissione regionale sanità, Raffaele Topo, la presidente della commissione speciale trasparenza, Valeria Ciarambino, il provveditore regionale amministrazione penitenziaria della Campania, Giuseppe Martone, i magistrati di sorveglianza, Amirante, De Micco e Puglia e il direttore generale dell’Asl Napoli 1 centro Mario Forlenza e Franco Corleone, già commissario unico per il superamento degli Opg. A concludere i lavori ci sarà il sottosegretario alla Giustizia, Gennaro Migliore. Campania: devianza minorile, cinquemila ragazzi sotto tutela di Pietro Treccagnoli Il Mattino, 20 dicembre 2017 “Nelle periferie napoletane la massa di giovani disperati è gigantesca. In mezzo a loro capita sempre che ci siano dieci, quindici ragazzi che si organizzano e decidono di vendicarsi con il mondo o con chi ritengono diverso o ingiustamente privilegiato e lo fanno con atti di rivalsa rabbiosa”. Quando, ragionando dei dati dell’ultimo Rapporto Antigone sulle carceri minori o delle “stese” nei quartieri di Napoli, si prova a focalizzare profili e risposte sociali insieme a Cesare Moreno, maestro di strada e animatore del Progetto Chance, la risposta va al di là delle aspettative e del politicamente corretto. Si solleva un velo di Maya e si dà il nome esatto ai fenomeni. “Questi giovani non sono Robin Hood, ma persone che vogliono scassare e basta, perché stanno scassati dentro e vogliono scassare gli altri” insiste Moreno che ieri sera ha ritirato il Premio Napoli per la Cultura. Il degrado delle periferie napoletane produce questa aberrazione. “L’idea che i raid nei quartieri del centro nascano da questa voglia di vendicarsi, secondo la loro logica distorta, di rompere tutto, non è sbagliata. E non si può neanche liquidarla semplicemente come frutto di un giudizio razzista, perché è un dato di fatto”. Potrebbero vendicarsi uscendo dal loro ghetto, realizzando la rivalsa con il riscatto culturale e sociale? “Ma non è da tutti. È un privilegio per pochi”. Su 452 detenuti nei carceri minorili italiani ben oltre la metà proviene dalla Campania e dalla Sicilia. Dal 2014, con la legge che ha consentito ai minori che hanno commesso un reato prima della maggiore età di restare o ritornare nel circuito penale minorile fino a 25 anni, le caratteristiche della popolazione carceraria sono cambiate. Il tipo di reato commesso è sempre più grave. Negli istituti minorili campani, Nisida e Airola, sono rinchiusi una ottantina di ragazzi e giovani uomini. Altri 220 circa vivono nelle comunità. Ma molti detenuti minorenni della regione soggiornano in carceri di altre zone del Paese. Sono in aumento anche le pene per reati contro la persona. Se prima prevalevano furti e rapine, adesso sono cresciuti i tentati omicidi e le violenze, anche sessuali. Chi tra Airola e Nisida è in contatto costante con questo mondo di segregazione, ma pure di sforzi per il riscatto, il reinserimento sociale o la redenzione morale, concorda su molti punti che potrebbero sembrare scontati, ma con la loro persistenza nel tempo lanciano forti segnali di disagio e pericolosità crescenti. A puntare sul controllo delle attività economiche illecite (estorsioni e spaccio di droga, in primis) sono ormai i ragazzi più giovani che usano con maggiore rapidità e incoscienza lo strumento della violenza per impulsività o emulazione. La provenienza più diffusa è dalla zona orientale, dalla periferia a Nord di Napoli, da Pianura e Soccavo, ma anche dal Centro Storico (Sanità, Quartieri, Forcella-carbonara) che attualmente è l’area più calda della città. I contesti familiari sono l’humus patogeno che facilita la devianza, oltre al condizionamento sociale. Vivono il presente, perché non hanno passato. Nemmeno nella stessa famiglia, senza padri (morti o in carcere), senza radici. Non hanno sogni se non quelli di ottenere un potere economico temporaneo da sperperare con vacanze in luoghi esotici o in serate con belle donne. La felicità momentanea è l’unica gratificazione che conoscono. Per il resto la loro vita scivola via nel contesto quotidiano di degrado. Un ritratto da “Gomorra”, con un rimbalzo continuo tra realtà e finzione. “Siamo comunque di fronte a una criminalità sfilacciata” commenta Moreno. “A una prima lettura potrebbe sembrare meno pericolosa, ma non è così. Non esistono gerarchie stabili”. Decapiti una banda e subito si scatena la lotta per il potere o ne spunta una seconda più agguerrita a sostituirla. “Esistono dei veri e propri vivai di piccoli criminali” aggiunge. “C’è quello ampio della società deprivata e analfabeta che fa da grande brodo di coltura e c’è quello ristretto, familiare che non ha nessun elemento di struttura formativa o educativa”. E incalza Ciambriello: “Quasi tutti i ragazzi che poi finiscono nei guai con la giustizia hanno un parente stretto, non necessariamente il padre, in prigione”. Uno zio, un fratello, un cugino, il nonno. Moreno precisa: “Non hanno nessuna attitudine o abilità da spendere sul mercato della vita, se non quella di dare o ricevere la morte. Marche: “detenuti in crescita e personale ridotto”, ecco lo stato delle carceri centropagina.it, 20 dicembre 2017 Sovraffollamento, un’adeguata mediazione culturale e l’aumento di particolari patologie soprattutto di carattere psichiatrico e legate a malattie infettive come l’epatite C tra le maggiori criticità del sistema emerse nel dossier 2017. I detenuti presenti nelle carceri delle Marche sono attualmente 934 (fonte Ministero Giustizia, novembre 2017), a fronte degli 823 del 2016, e di cui 310 stranieri rispetto ai 277 del precedente anno. Questa mattina ad Ancona a Palazzo delle Marche la presentazione del Report 2017 con la partecipazione del Presidente del Consiglio Antonio Mastrovincenzo e di Andrea Nobili, il garante dei Diritti. Entrando nel dettaglio, Nobili ha evidenziato le maggiori criticità, che contemplano un crescente sovraffollamento; i mutamenti in atto nella popolazione carceraria e la necessità di attivare un’adeguata mediazione culturale; l’aumento di detenuti affetti da particolari patologie soprattutto di carattere psichiatrico e legate a malattie infettive (prevale l’epatite C), nonché la carenza di professionisti che possano interagire in questa direzione. Accanto a questi problemi, quelli più generali legati alla gestione di un sistema complesso, che annovera organici ridotti chiamati a garantire l’insieme del percorso di sicurezza, trattamento e reinserimento degli stessi detenuti; la mancanza in alcune sedi di dirigenti operatori ed educatori; le esigue risorse per quanto riguarda le attività trattamentali. Su tutto la mancata attivazione di progettualità che guardino al futuro degli istituti penitenziari e l’attuale situazione del Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, dopo il recente accorpamento all’ambito dell’Emilia Romagna, già oggetto di interrogazioni parlamentari. Nobili ribadisce la necessità di azioni più ampie e condivise, appello che la scorsa estate aveva chiamato in causa anche le istituzioni regionali con una prima risposta da parte del Presidente del Consiglio, Antonio Mastrovincenzo. Lo stesso presidente ha fatto presente l’impegno su più fronti, ricordando anche i recenti incontri con il mondo del volontariato, della polizia penitenziaria e con i responsabili dell’area sanitaria. “Per quanto riguarda le attività trattamentali - ha sottolineato - abbiamo fatto in modo di confermare i finanziamenti previsti dalla legge di settore. Nel bilancio di previsione, che andremo a discutere, sono previsti 212mila euro per il prossimo triennio”. Confermata anche la massima attenzione in relazione agli interventi da attivare per tentare di ripristinare una diversa funzionalità del Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria. A fornire ulteriori elementi per completare il quadro generale, gli interventi di Enrico Boaro, responsabile per le Marche dell’area sanitaria; Filippo Masera dirigente della Giunta regionale; Gianna Ortenzi, responsabile dell’area educativa e tratta mentale di Montacuto; Nicola Defilippis, comandante della polizia penitenziaria dello stesso istituto, e di alcune rappresentanti della Rems. I numeri - I detenuti presenti nelle Marche sono 934 (fonte Ministero Giustizia, novembre 2017), a fronte degli 823 del 2016, di cui 310 stranieri rispetto ai 277 del precedente anno. Al primo posto la casa circondariale di Montacuto con 281 detenuti (di cui 101 stranieri) per una capienza di 256. Dopo i lavori di ristrutturazione sono state aperte le sezioni di alta sicurezza che, a tutt’oggi, ospitano 75 persone. Segue la casa circondariale di Pesaro - Villa Fastiggi con 230 detenuti (di cui 105 stranieri e 16 donne) per una capienza complessiva di 153 unità. La sezione sex offender risulta essere la più affollata con 52 presenze (capienza regolamentare 24). Si passa poi Fossombrone con 156 detenuti (24 stranieri) a fronte di 202 posti disponibili; Marino del Tronto con 125 (35 stranieri e la sezione del 41 bis) su 101; Barcaglione con 82 (26 stranieri) su 100; Fermo 60 (19 stranieri) su 41. Nel contesto generale, questa volta in base ai dati raccolti dal Garante, sono presenti 624 agenti di polizia penitenziaria effettivamente in servizio (su 648 assegnati), 22 educatori e 9 psicologi. Sul fronte della situazione sanitaria, le tossicodipendenze mantengono sempre il primato con 278 detenuti che presentano problemi di droga accertati. Per quanto riguarda la Rems (Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza) di Monte Grimano Terme, attualmente ubicata nella struttura “Case Gemelle”, si registrano 21 ospiti, di cui 15 provenienti dalle Marche. Gli interventi messi in atto sul territorio dagli Uepe (Uffici di esecuzione penale esterna) di Ancona (che ricomprende anche Pesaro) e Macerata (con Fermo ed Ascoli Piceno) ammontano a 2.437, tra misure alternative, messa alla prova ed altri interventi esterni. Marche: “il Provveditore non basta, servono più psicologi e agenti penitenziari” anconatoday.it, 20 dicembre 2017 A spiegare il problema del sovraffollamento delle carceri è l’avvocato Francesca Petruzzo, segretaria dell’Unione Camere Penali di Ancona. La situazione delle carceri marchigiane, pur migliore rispetto agli anni passati sta peggiorando. A Montacuto si contano 281 detenuti a fronte di una capienza di 256. Meno dei circa 400 registrati durante il picco di qualche anno fa ma comunque in aumento rispetto allo scorso anno. Comunque un campanello d’allarme che non va sottovalutato. Ne abbiamo parlato con l’avvocato Francesca Petruzzo, segretaria dell’Unione Camere Penali di Ancona. “A Montacuto - spiega - ci sono reparti con celle da tre posti che occupano invece cinque brande. Il problema era già sorto ad agosto di quest’anno. Chiaro che questo crea problemi Sicuramente si può fare di meglio”. Come? “Per chi si trova in uno stato di detenzione in carcere è difficile ottenere misure alternative. Il Tribunale di Sorveglianza di Ancona è molto restrittivo e usa con il contagocce premi e permessi. Vero che si cerca di usare uscita progressiva dal carcere ma questo avviene a poca distanza, circa un anno e mezzo, dal fine pena”. Come mai? “Le istruttorie sono molto lunghe perché occorre valutare vari aspetti, condotta compresa. Poi però i tempi, già necessariamente lunghi, si dilatano ulteriormente perché abbiamo pochi assistenti, abbiamo difficoltà nei successivi controlli esterni e le forze dell’ordine hanno già il loro daffare nel presidiare il territorio. In prima istanza le richieste di permesso vengono quasi sempre rigettate”. Dalla politica chiedono un Provveditore per le Marche, può essere la soluzione? “Averlo sarebbe importante ma il problema non è solo quello. Abbiamo pochi agenti di polizia penitenziaria che sostengono carichi di lavoro esagerati. Hanno la mia stima perché li vedo lavorare sempre all’altezza della situazione nonostante le difficoltà”. E poi? “Occorrerebbe aumentare anche il numero di educatori e psicologi perché queste professionalità, ad oggi, sono in difficoltà nel dover stare dietro a una popolazione enorme. Il rischio è che la loro attività, volta al recupero, venga fatta in maniera parziale”. Lombardia: stanziati 4 milioni di euro per l’efficientamento energetico delle carceri Askanews, 20 dicembre 2017 “Abbiamo approvato lo stanziamento di oltre quattro milioni di euro per realizzare interventi di efficientamento energetico nelle case circondariali di Opera (Milano), San Vittore di Milano, Bollate (Milano), Pavia e Cremona”. Lo ha spiegato l’assessora regionale all’Ambiente, Energia e Sviluppo sostenibile di Regione Lombardia, Claudia Terzi, commentando l’approvazione dello schema del protocollo d’intesa tra Regione Lombardia, ministero della Giustizia - Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria e ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti - Provveditorato interregionale alle Opere pubbliche per la Lombardia e l’Emilia-Romagna. “La delibera che abbiamo approvato nella Giunta di ieri prevede uno stanziamento di 4.196.370 euro, in attuazione del Por Fesr 2014-2020, per la realizzazione di interventi dedicati alla riduzione del fabbisogno energetico per la climatizzazione e la produzione di acqua calda sanitaria in alcune strutture penitenziarie della nostra Regione” ha precisato l’assessora, sottolineando che “l’intervento prevede azioni finalizzate al miglioramento delle condizioni di abitabilità, di alcune strutture penitenziarie, mediante soluzioni impiantistiche a elevata efficienza energetica, anche con interventi sull’involucro edilizio”. “L’obiettivo è quello di diminuire la dipendenza da combustibile fossile, ridurre le emissioni climalteranti, valorizzare le risorse energetiche disponibili e ottenere un risparmio sui costi di gestione delle strutture” ha ricordato Terzi, evidenziando che “alcune strutture di detenzione presenti sul territorio regionale sono interessate da gravi carenze sia per quanto riguarda lo stato degli involucri edilizi sia per gli aspetti impiantistici, in particolare, la climatizzazione invernale”. “Queste criticità comportano, da un lato, il peggioramento delle condizioni generali di vita dei detenuti e la sicurezza della loro custodia, dall’altro, limitano fortemente l’utilizzo delle strutture causando la perdita di spazi destinati alla detenzione, con conseguente sovraffollamento degli spazi rimanenti” ha proseguito l’assessora, che si è detta “convinta che debba sempre prevalere l’assunto per cui chi sbaglia paga ma la detenzione deve avvenire in condizioni che siano definite umane e che consentano di estinguere il debito, di chi ha commesso il reato, verso la giustizia e la società”. “Occorre, quindi, garantire anche una sorta di riscatto per il detenuto che, una volta pagato il suo debito, può rientrare a pieno titolo nella società” ha proseguito concludendo che “condizioni ambientali come mancanza di spazio, assenza di acqua calda, insufficiente illuminazione e ventilazione delle celle, non favoriscono, di certo, il riscatto dell’individuo”. Ecco gli interventi previsti negli istituti che dovranno essere realizzati entro il 31 dicembre 2020: Casa circondariale di Opera: installazione di impianti di generazione di calore per climatizzazione ad alta efficienza; riqualificazione e isolamento termico del manto di copertura del centro clinico. Casa circondariale San Vittore di Milano: installazione di impianti di generazione di calore per climatizzazione ad alta efficienza; sostituzione serramenti. Casa circondariale di Bollate: installazione di impianti di generazione di calore per climatizzazione ad alta efficienza; installazione di pellicole oscuranti. Casa circondariale di Pavia: installazione di impianti di generazione di calore per climatizzazione ad alta efficienza; sostituzione serramenti. Casa circondariale di Cremona: riqualificazione e isolamento termico del manto di copertura dell’edificio caserma. Castellammare di Stabia (Na): lavori di pubblica utilità per dieci detenuti Fiorangela d’Amora Il Mattino, 20 dicembre 2017 Firmato il protocollo d’intesa tra il Tribunale di Torre Annunziata e il Comune: arriveranno dieci unità. Lavori di pubblica utilità per detenuti, protocollo d’intesa tra il Tribunale di Torre Annunziata e il comune stabiese. Il documento, firmato ieri mattina dal Sindaco di Castellammare Antonio Pannullo e dal presidente del Tribunale oplontino Ernesto Aghina, ha come obiettivo il reinserimento sociale di soggetti con una condanna penale definitiva, ammessi alla sospensione del processo e messa alla prova. Potranno accedere alla forma di pena alternativa, secondo quanto stabilito dall’articolo 168 bis del codice penale, gli imputati per reati non superiori a 4 anni che non sono ritenuti pericolosi per la collettività e che potrebbero, al termine del lavoro svolto, chiedere l’estinzione della pena. Sono dieci i soggetti che gratuitamente a Castellammare si occuperanno della pulizia e manutenzione di aree comunali, del verde pubblico, dell’arenile e degli spazi esterni alle scuole. Saranno impegnati per un minimo di dieci giorni anche non continuativi e per non più di otto ore giornaliere. “Si tratta di un modo per favorire il reintegro sociale e lavorativo dì persone che si trovano in condizioni di svantaggio - commenta il sindaco Pannullo - inoltre, potremo utilizzare questi soggetti anche per attività di protezione civile in caso di emergenza, per operazioni legate alla difesa ambientale del territorio, e da affiancare a squadre di operai comunali”. La messa in prova viene disposta dall’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna (Uepe), che dopo la riforma del 2015 è diventato un articolazione territoriale del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità. “Il passaggio al Tribunale dei Minori - afferma Samuele Ciambriello, Garante dei detenuti in Campania - fa comprendere che il carcere non è la sola misura utile, ma solo l’estrema ratio. La pena alternativa da scontare in un contesto sociale collettivo, anche per i minori, è il miglior modo per comprendere dove si è sbagliato”, Castellammare in questo senso è comune capofila, nell’area a sud di Napoli la città guidata da un avvocato, si fa banco di prova per nuove forme di reinserimento sociale. “L’esecuzione penale esterna non vuol dire depenalizzazione - precisa Ciambriello - piuttosto che ignorare la vita di chi commette un reato e spedirlo in un luogo ostico quale il carcere è giusto che la collettività impari a gestire chi nel carcere è arrivato anche per le mancanze della stessa collettività”. Le op ere saranno realizzate gratuitamente e al termine del periodo il Comune dovrà redigere una relazione sul buon andamento della messa in prova. Solo il 19% dei detenuti che accedono a forme alternative di pena, commettono nuovi reati una volta estinta la pena. In Italia in condizioni di semilibertà ci sono 45mila persone, di queste circa 10 mila sono soggette alla messa in prova. “Se il periodo lavorativo gratuito va a buon fine il reato si estingue - prosegue Ciambriello - e questa è anche una forma di risparmio”. Ma il Garante dei detenuti sa che la vera forma di recupero sociale è legata a un lavoro ricompensato, che sia realmente utile al reinserimento sociale dei detenuti. “Il mio auspicio è che le comunità coraggiose come Castellammare, ma anche privati, possano disporre di fondi per assumere in forma di semilibertà detenuti, lo stesso, nella mia esperienza di consigliere regionale - conclude Ciambriello - avevo un collaboratore che arrivava dal carcere. La vera sfida è resistere alla sirena populistica della prigione e realizzare progetti lavorativi legati alle vocazioni del territorio”. Favorevole al protocollo anche l’Ordine degli avvocati del foro di Torre Annunziata: “Questa è una strada da perseguire - commenta il presidente Gennaro Torrese - tutto ciò che serve al reinserimento nella società di persone colpevoli di reato è un fatto positivo, La stessa pena ha finalità di riabilitazione e reinserimento”. Ancona: era malato e morì in carcere, il pm chiede l’archiviazione di Stefano Pagliarini anconatoday.it, 20 dicembre 2017 L’avvocato: “Poteva essere salvato”. Il pm aveva già chiesto l’archiviazione del caso al quale l’avvocato Bartolini si era opposto e in quella circostanza il Gup impose al pm di indicare gli indagati che non erano mai stati individuati. Morì in carcere di infarto, il pm Paolo Gubinelli ha chiesto l’archiviazione del caso Daniele Zoppi, il 35enne anconetano deceduto nel carcere di Montacuto nell’estate del 2015. Per la Procura di Ancona non ci sono responsabilità perché Zoppi è morto per cause naturali. “Certo che è morto per cause naturali - ribadito l’avvocato della famiglia Zoppi Luca Bartolini - ma noi siamo convinti che poteva essere salvato dall’infarto perché da giorni c’erano segni che stava male, aveva le caviglie gonfie ed emaciate oltre a tutta un’altra serie di sintomi. Un caso che rientra perfettamente nella negligenza e nell’imperizia perché vorrei ricordare che una persona condannata ad una pena è pur sempre una persona, per di più sotto la custodia dello Stato”. Il pm aveva già chiesto l’archiviazione del caso al quale l’avvocato Bartolini si era opposto e in quella circostanza il Gup impose al pm di indicare una serie di indagati che non erano mai stati individuati. Nel registro degli indagati sono così stati iscritti il dirigente sanitario e i medici che avevano in cura Zoppi nella casa circondariale per poi chiederne subito l’archiviazione. Nuova opposizione della famiglia del detenuto, questa volta facendo presente che ci sarebbero delle persone pronte a testimoniare come già la sera prima del decesso fosse in condizioni di salute precarie. Catania: prevenzione del rischio suicidi in carcere, protocollo Asp-Case circondariali Adnkronos, 20 dicembre 2017 Un protocollo d’intesa tra l’Asp di Catania e le Case circondariali della provincia etnea per implementare le attività per la prevenzione del rischio suicidario nelle carceri e nelle strutture di giustizia minorile del territorio. Il documento, firmato stamattina presso la direzione generale dell’Azienda, sarà sottoscritto nei prossimi giorni anche dal Centro giustizia minorile di Catania. “Abbiamo intessuto una rete di collaborazioni e di operatività - dice Giuseppe Giammanco, direttore generale Asp Catania - che ha messo a sistema da un lato una prassi d’intervento consolidata nel lavoro dei nostri psichiatri e dall’altro l’insieme delle competenze professionali maturate sul campo dagli operatori dell’amministrazione penitenziaria. Il risultato è un lavoro d’integrazione, di sinergia e di grandi e ampie visioni”. Il progetto prevede l’attivazione di tutti gli interventi idonei alla promozione e alla tutela della salute dei soggetti che si trovano in carcere. A predisporre gli interventi sarà l’Asp di Catania, per il tramite del dipartimento di Salute mentale, di concerto, per quanto di competenza, con i servizi della sanità penitenziaria. All’Azienda anche il compito di garantire la continuità assistenziale, anche tramite i contatti con le famiglie. Rientrano nel progetto i corsi di formazione rivolti agli operatori dei cinque Istituti penitenziari coinvolti; la creazione di Pdta (percorso diagnostico-terapeutico-assistenziale) specifici; la formazione di detenuti peer supporter; l’attivazione di tecniche di debriefing per attenuare le conseguenze emotive quando avvengono i suicidi. Le azioni formative, realizzate secondo le linee guida regionali di prevenzione del rischio autolesivo e di suicidio nelle carceri, sono state attivate nel mese di maggio (le prime in Sicilia) e si svilupperanno nell’arco di un triennio. Già 200 gli operatori formati. Roma: detenuti al lavoro per il Comune, siglato accordo sui lavori socialmente utili affaritaliani.it, 20 dicembre 2017 Siglato l’accordo tra Campidoglio e Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria: ai detenuti a cui manca da scontare un anno di pena sarà concesso di svolgere lavori socialmente utili per la città. Su un totale di 5 mila, sono circa 500 le persone che stanno scontando la propria pena in carcere e che potranno usufruire dell’accordo. I progetti a cui hanno pensato Comune di Roma e Dap sono finalizzati alla tutela ambientale del territorio e vanno dalla pulizia delle aree verdi a quella dei grandi parchi della Capitale. A siglare l’accordo, che ha una durata di 18 mesi, è stata la stessa sindaca di Roma Virginia Raggi che ha incontrato la presidente del Tribunale di sorveglianza di Roma, Maria Antonia Vertaldi, il capo Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Santi Consolo e la Garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Roma Capitale Gabriella Stramaccioni. La lettera d’intenti intende dare attuazione al principio sancito dall’articolo 27 della Costituzione, secondo il quale il trattamento rieducativo dei soggetti privati della libertà personale deve tendere al reinserimento sociale degli stessi e che lo svolgimento di un’attività lavorativa a beneficio della comunità possa costituire un efficace strumento di reintegrazione. “Roma promuove ogni tipo di intervento per favorire l’inserimento lavorativo delle persone che si trovano in condizioni di svantaggio - ha dichiarato il sindaco Raggi. Per questo accogliamo con grande favore un accordo che consente di impiegare coloro che sono sottoposti ad una pena detentiva in attività che favoriscano la reintegrazione sociale e possano portare beneficio alla città, contribuendo alla tutela del nostro patrimonio ambientale”. “Già da tempo - ha aggiunto Consolo - abbiamo sperimentato una valida collaborazione, penso al Giubileo dei detenuti durante il quale abbiamo portato 800 persone in Vaticano senza che si sia verificato alcun problema. Attività all’esterno significa cominciare ad assaggiare l’affidabilità e il percorso di cambiamento di una persona”. Roma: Assotutela “carceri in condizioni scandalose, servono interventi urgenti” newtuscia.it, 20 dicembre 2017 “Nelle scorse ore nel carcere romano di Regina Coeli un detenuto è stato trasportato con urgenza all’Ospedale Santo Spirito per una visita dopo la quale gli è stata diagnosticata la meningite. Una realtà, quella igienico-sanitaria degli istituti penitenziari italiani, assai precaria e preoccupante, che espone Polizia penitenziaria a pericoli continui sul fronte incolumità e sicurezza. Problemi che vanno ad aggiungersi al sovraffollamento di detenuti e alla mancanza di personale. Sollecito, dunque, le istituzioni preposte ad intervenire immediatamente nella convinzione maturata che una buona accoglienza del detenuto e il suo benessere durante il periodo di detenzione dipenda pure dalle migliori condizioni di lavoro di chi è deputato al suo controllo e assistenza. Al contempo, è opportuno aprire un tavolo istituzionale al fine di lavorare in maniera condivisa alla risoluzione delle problematiche ambientali e strutturali delle carceri”. Così il presidente di Assotutela, Michel Emi Maritato. Brescia: “caro detenuto ti auguro”, frasi da 500 bimbi e una coperta per la nonna di Verziano di Wilma Petenzi Corriere della Sera, 20 dicembre 2017 Una coperta calda, un patchwork realizzato da diciannove scolari della seconda elementare Canossi. Con le loro piccole mani hanno tessuto dei quadrotti colorati da applicare su una base grigio melange. La coperta è per la “nonna” di Verziano, una signora che ha più di 80 anni e che in carcere dovrà restare ancora a lungo. La coperta le terrà caldo nelle giornate più fredde. E le scalderà anche il cuore. Una parte del tessuto è stata tenuta a scuola: copre il corpo di Gesù Bambino nel presepe realizzato in aula. Uno stesso filo per unire due mondi vicini, ma ancora molto - troppo - distanti. La coperta è solo uno dei doni destinati ai detenuti del carcere di Verziano e della casa circondariale Nerio Fischione grazie all’iniziativa della garante dei diritti delle persone private della libertà, Luisa Ravagnani, in collaborazione con l’associazione Carcere & Territorio, l’associazione Volca, l’Istituto comprensivo Rinaldi Sud 3 e la Camera penale di Brescia. I regali sono per tutti i detenuti. Predominano il colore rosso, l’oro e il verde negli oltre cinquecento biglietti di auguri scritti da scolari e studenti alle persone private della libertà. Predominano le buone parole, lo spirito di accoglienza, l’incoraggiamento a rimettersi in piedi e a ritrovare una nuova strada, ma c’è anche qualche ragazzino che al detenuto- amico di penna ha augurato di scontare la pena tra sofferenze e solitudine. A riprova che non tutti sono pronti ad accogliere chi ha sbagliato e deve essere rieducato, nei confronti dei detenuti non tutti hanno la stessa sensibilità. “Il nostro impegno - è la convinzione di Carlo Alberto Romano, presidente dell’associazione Carcere & Territorio - è di far cambiare questa percezione”. Ma la maggior parte dei bambini ha scritto messaggi di affetto, accogliendo con entusiasmo la proposta di inviare gli auguri per Natale e il nuovo anno a chi è rinchiuso dietro le sbarre. “Anche se non ti conosco ti auguro buone feste e un anno migliore di quello che hai passato”, scrive un bambino. “La vita forse non è stata generosa con voi.... ma vi auguro di trovare pace e serenità nei vostri cuori” è l’augurio di una ragazzina. “Cari carcerati - è l’augurio di un altro bambino - è un’esperienza che ho già vissuto con mio padre il sentimento che sento dentro di me è per voi. Vi auguro un buon Natale, baci e abbracci a tutti”. Ogni detenuto avrà un biglietto. “È una iniziativa molto importante, da senso di vicinanza - ha sottolineato Francesca Lucrezi, direttrice di Verziano, ringraziando i promotori - perché Natale è il momento più difficile di tutto l’anno, per chi si trova lontano dai propri familiari”. Con i biglietti dei bimbi saranno consegnati anche gli auguri delle autorità che hanno accolto l’invito della garante dei detenuti (l’invito - ha precisato Ravagnani - non era rivolto ai politici, ma solo alle autorità e chi era interessato ha inviato il suo messaggio”). Chi vive in carcere apprezzerà anche il “pacco” con generi alimentari che riceverà grazie all’impegno della Camera Penale, degli scout di Villa Carcina, della Centrale del Latte e di altre aziende che hanno preferito mantenere l’anonimato. “È importante - ha fatto sintesi Andrea Cavaliere, presidente della Camera Penale - far sentire la vicinanza ai detenuti: è un’arma vincente”. Como: il Sindaco vieta l’elemosina a Natale, multe a mendicanti e clochard di Anna Campaniello Corriere della Sera, 20 dicembre 2017 Mario Landriscina, a capo di una coalizione di centrodestra, ha vietato di “mendicare” nel periodo di Natale in centro. Il segretario Pd: “Un atto di generosità non è mai contro le regole”. Multe fino a 300 euro per chi chiede l’elemosina in centro o bivacca sotto i portici della città murata. Il sindaco di Como Mario Landriscina (a capo di una coalizione Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia, lista civica) ha firmato un’ordinanza anti accattonaggio “per ripristinare il decoro e la vivibilità urbana”. Un’ordinanza della durata di 45 giorni, che copre il periodo del Natale. Le multe - Nei giorni scorsi, i vigili hanno già fatto le prime sanzioni a tre mendicanti, anche se le sanzioni non hanno scoraggiato i questuanti. E la decisione ha anche portato due agenti di polizia locale a impedire a un gruppo di volontari di portare la prima colazione ai senzatetto che dormono all’aperto, in centro città, sotto il portico della ex chiesa di San Francesco. “I vigili ci hanno impedito di offrire la colazione alle persone che dormono all’aperto perché i nostri semplici gesti sarebbero contrari alla nuova ordinanza”, hanno scritto i volontari del gruppo “WelCom”. “A continuare ad allontanare i poveri non si elimina la povertà, la si amplifica, la si fa diventare un nemico, un nemico da combattere. Dignità non decoro ci aspettiamo dal nostro sindaco soprattutto a Natale, altrimenti non chiamiamolo Natale”. I cartoni sotto sequestro - Il sindaco ha deciso per la linea dura dopo aver segnalato un aumento dei mendicanti: “Nei contesti di sovraffollamento come quello del periodo natalizio i soggetti che chiedono l’ elemosina risultano ancora più invasivi e molesti”. In alcuni casi i vigili, come previsto dall’ordinanza, hanno anche sequestrato alle persone multate quelli che nel documento firmato dal sindaco vengono definiti “i mezzi utilizzati per commettere la violazione”, ovvero i contenitori per raccogliere il denaro e anche cartelli e cartoni sistemati per terra dai mendicanti, anche solo per sedersi. “Abbiamo scelto uno strumento amministrativo già adottato in altre città con l’ intento di arrivare ad ammodernare il vecchio regolamento di polizia urbana e renderlo più adeguato a rispondere alle nuove esigenze della nostra città”, ha commentato Mario Landriscina. “Fuorilegge anche Gesù?” - Reazioni diverse nell’opposizione: per il Movimento Cinque Stelle “il provvedimento non risolverà il problema”. Dal Pd invece arriva l’invito a “considerare la questione sociale”. “Questa ordinanza mette fuori legge anche Gesù Cristo che deve arrivare” ha commentato il direttore della Caritas Roberto Bernasconi, mentre da più parti, dall’associazione Como Senza Frontiere alla Cgil è stato chiesto al sindaco di revocare l’ordinanza. Intanto sabato e domenica sono state organizzate delle manifestazioni di solidarietà, un “bivacco solidale” e un flash mob per chiedere il ritiro del provvedimento. La distribuzione delle colazioni non è stata interrotta, ma prosegue in un oratorio della zona. La replica di Renzi - Sul caso è intervenuto anche il segretario del Pd, Matteo Renzi. “Penso che amministrare un luogo, una città, una comunità, significhi anche fare in modo che un gesto di generosità non possa mai essere definito contro le regole”, ha scritto nella sua eNews. Lecce: pranzo di Natale per i detenuti, studenti ai fornelli Quotidiano di Puglia, 20 dicembre 2017 I ragazzi dell’Istituto Columella cucineranno in carcere. Metti uomini e donne che stanno scontando il loro debito con la giustizia nelle celle di Borgo San Nicola. Anche per loro, fra qualche giorno, sarà Natale, ma viverlo in famiglia - come tradizione vorrebbe - non sarà possibile. Portare dietro le sbarre i profumi della tavola imbandita nei giorni di festa, insufflare nelle celle il desiderio di riscatto, l’odore buono della vita: l’obiettivo della seconda edizione di “Borgo in Festa”, che si apre domani, è proprio questo. Perché la manifestazione, anche quest’anno, aprirà le porte del carcere agli studenti dell’Istituto “Presta Columella”. E saranno loro a cucinare il pranzo di Natale per i detenuti. La scuola mira a rivolgere l’attenzione proprio a loro, a chi trascorrerà in carcere le festività, lontani dalle loro famiglie o, in qualche caso, senza averne una. Non a caso, partner dell’iniziativa sono la Caritas di Lecce, presieduta dall’instancabile don Attilio Mesagne e l’associazione di promozione sociale “Vento Nuovo” il cui presidente è il diacono Carlo Mazzotta. I ragazzi sono stati e saranno accompagnati in questa esperienza dal preside dell’Istituto scolastico, l’ingegnere Salvatore Fasano; dalla professoressa Antonella Menga e dai professori Pompeo De Paolis ed Ernesto Pezzulla. Le classi 4Aeno, 4 B Sala e Vendita e 5 A AT hanno preparato un menu ad hoc, dedicato proprio a chi sta scontando la sua pena dietro le sbarre di Borgo San Nicola. Si comincerà con una insalata di fusilli con zafferano cremo- so, poi una julienne di melanzane, zucchine e peperoni e una coppettina di riso venere con piselli, mais, pomodorini e finocchi. A seguire, sformato di pasta sfoglia con fonduta di prosciutto e funghi; quiche di verdure di campagna, pomodori e scamorza; abbracci di melanzane, mortadella e provola; arancini di riso speck e funghi e tortino di patate. Chiuderà il pranzo, il dessert: pandoro alla crema di mandarino e arancia. Un modo per allietare la giornata ai detenuti e mettere alla prova le capacità acquisite fra i banchi di scuola. “L’idea - spiega la professoressa Menga del Columella - nasce dalla volontà di far vivere ai nostri alunni un’esperienza formativa che offra l’occasione per riflettere sull’importanza del rispetto della legalità e li renda consapevoli di quanto dolore possa arrecare la privazione della libertà personale in conseguenza di condotte sbagliate. Nello stesso tempo, la scuola entra in carcere per farsi portavoce di un messaggio di speranza di rinnovamento morale, tendendo la mano a coloro che attendono che un giorno il mondo esterno li riaccolga. L’auspicio è che l’iniziativa rappresenti un momento di incontro e di crescita per tutti, che gli alunni avvertano forte il bisogno di difendere i valori che danno dignità all’uomo e i detenuti portino nelle loro celle - conclude - il ricordo di una solidarietà che risvegli il desiderio di riappropriarsi della vita”. Ius soli. Oggi fiaccolata per la legge, ma Gentiloni non vuole rischiare di Carlo Lania Il Manifesto, 20 dicembre 2017 L’appuntamento è per oggi pomeriggio alle cinque davanti a Montecitorio. Chiamate dal movimento Italiani senza cittadinanza tutte le associazioni che da anni si battono per l’approvazione dello ius soli daranno vita a una fiaccolata per sollecitare il Senato a licenziare la legge che consentirebbe a più di 800 mila ragazzi nati nel nostro Paese da genitori stranieri di diventare cittadini italiani. È l’ultima chiamata, l’ennesimo tentativo disperato - insieme allo sciopero della fame ripreso dal presidente della Commissione Diritti umani del Senato Luigi Manconi - di vedere finalmente approvare il provvedimento. Affermare però che la strada è in salita è dir poco. Nonostante gli impegni che il premier Paolo Gentiloni avrebbe preso proprio con Manconi, è praticamente scontato che anche questa volta da palazzo Chigi non arriverà nessun gesto utile a far sì che la riforma della cittadinanza diventi legge. Anzi. “Non so la dinamica dei lavori del Senato, se è rimasto del tempo, ma bisogna provarci lo stesso”, ha detto ieri il ministro della Giustizia Andrea Orlando ripetendo promesse che difficilmente potranno essere mantenute. Il calendario di palazzo Madama - dove la legge è ferma ormai da due anni - è infatti praticamente già scritto: questa mattina si vota il nuovo regolamento e per il pomeriggio è convocata la capigruppo nella quale lo ius soli dall’ultimo posto in cui è stato relegato dovrebbe passare in cima ai lavori dell’aula. Sapendo già in anticipo, però, che venerdì dalla Camera arriverà la manovra che ha la precedenza su tutto. “È sconfortante - si sfoga la capogruppo di Sinistra italiana Loredana De Petris. Noi possiamo continuare a chiedere la calendarizzazione della legge, ma non abbiamo altri strumenti per convincere l’aula a discuterla”. L’unica via percorribile, allora, è come sempre quella del ricorso al voto di fiducia che però il governo - al di là delle promesse fatte da Gentiloni a Manconi, non sembra proprio intenzionato e mettere non avendo la certezza di portare a casa il risultato. Anche perché senza il voto dei 5 stelle, contrari alla legge, i calcoli fatti da Pd confermano l’assenza di una maggioranza utile. Se poi si considera che la fine della legislatura potrebbe arrivare subito dopo Natale, come ha fatto capire il capo dello Stato, ecco che la partita si può considerare chiusa. Chi si batte per la legge è comunque deciso a non gettare la spugna. “Bisogna continuare ad insistere fino all’ultimo momento utile di questa legislatura. È inutile dire che i tempi non ci sono. Il Parlamento non è ancora sciolto”, ha twittato ieri Emma Bonino che con i Radicali italiani ha aderito anche lei allo sciopero della fame indetto da Manconi. Nel Sub-Sahara un muro di alberi contro la grande migrazione di Tommaso Carboni La Stampa, 20 dicembre 2017 Nel Sub-Sahara, si cerca di migliorare l’agricoltura fermando l’avanzata del deserto. Ma spingerà le persone a rimanere o a guadagnare i soldi per partire? Un orto rigoglioso e variopinto - pomodori, melanzane, angurie e ciuffi verdi di lattughe - non è esattamente il tipo di attività che ci si aspetterebbe di trovare in un luogo come questo: Koyli Alfa, villaggio riarso al centro del Senegal. Tra nubi di polvere, gruppi di mucche e capre ruminano l’erbaccia cresciuta qua e là all’ombra di alberelli emaciati. Eppure, alle donne di Koyli Alfa è riuscito un mezzo miracolo. Trasformare una terra arida, difficile da coltivare, in un giardino dove oggi lavorano trecento persone: oltre a una fonte di reddito, una piccola rivincita contro l’offensiva implacabile del deserto del Sahara. Quella di Koyli Alfa è una delle tante iniziative nate grazie al “Great Green Wall”, la cosiddetta “Grande Muraglia Verde”, un progetto enorme (8 miliardi di dollari) il cui intento iniziale era proprio costruire un muro di vegetazione, lungo 7700 kilometri, che attraversasse tutto il Sahel, dal Senegal al Gibuti. A dir la verità, osservando un volantino delle Nazioni Unite, si capisce bene che l’idea del “muro” è stata presto accantonata. Il “Great Green Wall” non è altro che un mosaico di progetti sparpagliati, in modo apparentemente casuale, in 13 paesi dell’Africa sub-sahariana. Gli obiettivi però sono gli stessi: contrastare la desertificazione causata dal cambiamento climatico e potenziare l’agricoltura. A questi se n’è aggiunto un terzo, ridurre l’intensità delle migrazioni, su cui le varie agenzie umanitarie oggi puntano molto per raccogliere fondi. La Fao, per esempio, assicura che il “Great Green Wall”, garantendo lavoro e migliori condizioni in Africa, dissuaderà molte persone dall’intraprendere pericolosi, e talvolta inutili, viaggi verso l’Europa. È proprio ciò che si augurano le donne di Koyli Alfa. “Siamo partite con il progetto quando abbiamo capito che i nostri figli avrebbero rischiato la vita su quei gommoni”, racconta Batta Mbengu, intervistata dal Guardian. Suo fratello ha tentato di imbarcarsi verso l’Italia, ma è finito prigioniero in un carcere libico. “Vogliamo che l’orto dia molti frutti così i nostri figli eviteranno di partire”. Ma diversi studiosi di migrazioni sostengono che tali politiche di sviluppo potrebbero avere l’effetto contrario, ossia spingere i giovani a partire. Con un po’ più di soldi in tasca, grazie a progetti come la “grande muraglia”, il viaggio diventa più sostenibile. Secondo Michael Clemens, economista dello sviluppo al Iza Institute of Labor Economics, l’impulso a migrare da un paese povero si riduce solo quando il suo reddito pro-capite supera un livello compreso tra 7mila e 9mila dollari l’anno (a parità di potere d’acquisto). Al di sotto di quella soglia, all’aumentare della ricchezza aumentano solo la propensione ad andarsene e le risorse per farlo. In Senegal, gli incentivi restano alti. Qui l’economia cresce rapidamente da almeno 15 anni, ma il reddito pro-capite, oggi di 2700 dollari l’anno, continua a essere parecchio lontano dagli standard europei. Riferendosi ai suoi connazionali più giovani, uno dei ministri del governo senegalese, Souleymane Jules Diop, ha detto al Wall Street Journal: “Non partono perché non hanno nulla, ma perché cercano qualcosa di più e di meglio”. Il Senegal conta molto sulle rimesse dei propri migranti (circa il 13% del prodotto interno lordo) e condivide almeno un grosso problema con gli altri paesi dell’Africa occidentale: altissima disoccupazione giovanile. Bisogna comunque tener presente che l’intensità delle emigrazioni dipende da tante cose, non soltanto dalla differenza di reddito tra luoghi d’arrivo e partenza. Nel caso dell’Africa sub-sahariana, la variabile più decisiva è probabilmente legata alla spinta demografica. Mentre la popolazione dell’Unione Europea è ferma dal 1990 a quota 500 milioni, quella sub-sahariana negli ultimi 25 anni è raddoppiata, passando da 500 milioni a un miliardo di abitanti. E, raddoppiando ancora, raggiungerà 2 miliardi entro il 2050. Che significa tutto questo? L’Ispi prova a fare una stima. Se il tasso di emigrazione degli africani resterà inalterato, la pressione demografica produrrà 30 milioni di nuovi migranti internazionali entro il 2050, di cui 10 milioni tenteranno di raggiungere l’Europa. Detto ciò, la “grande muraglia verde” resta un progetto del tutto lodevole, che produce occupazione e combatte già con ottimi risultati l’erosione del suolo. Ha “recuperato” per l’agricoltura più di 20 milioni di ettari di terra degradata in Etiopia, Burkina Faso, Mali, Niger, Nigeria, Senegal e Sudan. Solo in Nigeria, ventimila contadini hanno finalmente un lavoro. Passi avanti anche in Niger. Qui la FAO sta riattivando l’agricoltura e il commercio nel villaggio di Tera: case basse d’argilla e tanta polvere, ma il suo mercato del bestiame attira clienti da tutta la regione. Da poco è tornato anche Hassan Gado, 51 anni, dopo un lungo periodo da nomade in giro per l’Africa. “Ho venduto sigarette a Lagos (Nigeria), lavorato nel porto di Cotonou (Benin) e in un negozio di scarpe a Lomé (Togo). Volevo conoscere il mondo, se stai sempre nello stesso posto non impari nulla”. Cannabis legale: i vantaggi per l’economia italiana di Cristiana Gagliarducci money.it, 20 dicembre 2017 La legalizzazione della cannabis avrebbe ovviamente conseguenze di ampia portata, ma quali potrebbero essere i vantaggi per l’economia italiana? La legalizzazione della cannabis è un argomento piuttosto acceso, che a cadenza periodica sulle prime pagine dei quotidiani. Tra coloro che sono a favore e coloro che, invece, si schierano totalmente contro qualsiasi forma di apertura, una cosa è certa: la cannabis legale avrebbe conseguenze anche sull’economia italiana. Anche in questo senso, però, l’opinione pubblica si divide e accanto a chi sostiene i vantaggi della legalizzazione, c’è invece chi è convinto che una scelta del genere comporterebbe più pro che contro. Quali vantaggi per l’economia italiana? Il tema è tornato alla ribalta, più caldo che mai, in seguito alla recente proposta di legalizzazione avanzata da 218 parlamentari. Quest’ultima ha (come sempre) aperto le porte ad uno scontro più ideologico che analitico ed ha (ancora una volta) mancato il punto centrale della questione: i possibili vantaggi per l’economia italiana derivanti dalla legalizzazione della cannabis. 1. Riduzione dei costi di repressione - La lotta alla cannabis costa e neanche poco. Tra i primi vantaggi della legalizzazione ci sarebbe proprio la possibilità di limare queste spese, alleggerendo il bilancio statale e destinando il “risparmiato” ad altri settori. Stiamo facendo riferimento a tutti i costi relativi alla retribuzione delle forze dell’ordine - preposte alla repressione del commercio e del consumo di cannabis - ai costi legati alla magistratura (alle aule di tribunale, al personale di riferimento ecc...) e anche a quelli legati alle carceri. Secondo una recente analisi de Il Fatto Quotidiano, se il reato di produzione e commercio di droghe leggere venisse cancellato, il risparmio di queste voci sarebbe di circa 800 milioni di euro. 2. Lotta alle mafie - Tra i vantaggi più evidenti per l’economia italiana ci sarebbe senza ombra di dubbio la creazione di un mercato regolamentato e legale. Quella che sta dietro il consumo di sostanze considerate stupefacenti, come la cannabis, è un’economia sommersa decisamente ingombrante che potrebbe venir prosciugata da una regolamentazione. La lotta alla criminalità organizzata potrebbe assumere un volto completamente differente, con ovvie conseguenze economiche per l’Italia: la legalizzazione ridurrebbe la liquidità delle mafie e, perché no, anche il loro radicamento sociale. 3. Maggior gettito fiscale - In realtà nessuno crede che la legalizzazione farebbe scomparire gli affari illeciti, ma sono in molti a dirsi convinti che un’apertura in tal senso potrebbe limitare la polvere sotto al tappeto ed aumentare il gettito fiscale. In altre parole, legalizzando la cannabis, lo Stato avrebbe la possibilità di tassare le vendite, incrementando gli introiti - esattamente come accade con i tabacchi. Il beneficio fiscale dovrebbe oscillare tra i 6 e gli 8,7 miliardi di euro. 4. Altri vantaggi - Abbandonando per un attimo i meri dati economici, il discorso è tanto delicato quanto importante e merita qualche considerazione aggiuntiva. La legalizzazione della cannabis imporrebbe necessariamente una distinzione troppo spesso ignorata: quella tra droghe leggere e droghe pesanti. Al di là delle convinzioni individuali, saper distinguere le due categorie, soprattutto in giovane età, è qualcosa che in determinati casi può salvare una vita. La differenziazione degli effetti delle droghe leggere, da quelli di droghe psicotiche o endovenose potrebbe risultare davvero utile ad ogni educazione sociale, per evitare di confondere e porre sullo stesso piano le due categorie e passare così da una droga all’altra senza possibilità di tornare indietro. Nonostante gli osservatori più acuti non abbiano mai smesso di evidenziare anche gli ovvi possibili svantaggi di un’apertura alla canapa (il forte aumento dei costi di regolamentazione, produzione, vendita e consumo, l’incremento delle spese sanitarie), e a prescindere dalle convinzioni personali e individuali, non c’è dubbio che la cannabis legale potrebbe anche portare diversi vantaggi all’economia italiana. Reporters Sans Frontières: 65 i giornalisti uccisi nel mondo nel 2017 primaonline.it, 20 dicembre 2017 Raddoppiato il numero delle donne vittime. La Cina il Paese con più reporter in prigione; alla Siria il record per numero di ostaggi. Sono stati 65 i giornalisti uccisi nel mondo mentre svolgevano il loro mestiere nel 2017. Lo rileva l’ultimo rapporto di Reporters sans frontières (Rsf), sottolineando che i dati registrano un leggero calo rispetto ai 79 che hanno perso la vita lo scorso anno, pari a una riduzione del 18%. E in generale rispetto agli ultimi 14 anni. Tra i reporter uccisi nel 2017 ci sono 50 giornalisti professionisti, sette blogger e otto collaboratori dei media. Rsf ritiene si tratti comunque di dati “allarmanti”, anche se la riduzione dei giornalisti uccisi è costante dal 2012. Oltre ai 65 reporter morti nello svolgimento della loro professione, l’organismo con sede a Parigi parla di 326 giornalisti detenuti nel mondo, 54 in ostaggio e 2 scomparsi. Tra i 65 giornalisti uccisi 55 sono uomini e 10 donne. Ventisei di loro hanno perso la vita al lavoro, vittime collaterali di un contesto letale, come bombardamenti e attentati. Altri 39 sono stati assassinati, finiti direttamente nel mirino per le loro inchieste scomode su interessi politici, economici o mafiosi. Come per il 2016, la parte dei giornalisti colpiti in modo deliberato è quella più importante (60%). La maglia nera del Paese più pericoloso resta alla Siria, con 12 giornalisti uccisi recensiti, davanti al Messico (11), Afghanistan (9), Iraq (8) e Filippine (4). Stati Uniti. Il lento declino della pena di morte agenziaradicale.com, 20 dicembre 2017 Il Death Penalty Information Center ha pubblicato il suo tradizionale “Rapporto di fine anno”, evidenziando che sia le condanne a morte che le esecuzioni rimangono vicine ai minimi storici, mentre raggiunge il minimo storico degli ultimi 45 anni nei sondaggi il consenso che i cittadini danno alla pena di morte. Per il 17° anno consecutivo è diminuito il numero complessivo dei detenuti nei vari bracci della morte Usa, e ancora una volta i detenuti che hanno lasciato il braccio della morte per proscioglimenti, condanne ridotte dopo ricorsi, e morte naturale sono di più di quelli che lo hanno lasciato per morte da esecuzione. Tutto questo conferma il declino, lento ma costante, del sistema della pena di morte negli Usa. Il direttore del DPIC, Robert Dunham, ha individuato nei cambiamenti che stanno avvenendo nella Harris County (Texas) un paradigma da evidenziare. La Contea di Harris è la contea della capitale del Texas, Houston, da sempre è considerata “La Capitale” della pena di morte. Da sola ha giustiziato 126 persone da quando la pena di morte è stata reintrodotta negli Usa nel 1976 (e le esecuzioni in Texas sono riprese nel 1982), più di qualsiasi altra contea negli Usa, e più di qualsiasi stato (escluso ovviamente il Texas). Quest’anno nessuna esecuzione è stata effettuata su casi provenienti dalla Contea, e soprattutto nessun processo si è concluso con una condanna a morte, e per due condanne a morte che erano state annullate negli anni scorsi la pubblica accusa ha accettato altrettante condanne all’ergastolo. Secondo il sondaggio annuale della Gallup, che il DPIC considera il più attendibile, il consenso alla pena di morte misurato nell’ottobre 2017 è sceso al 55%, il più basso dal 1972. Rispetto al sondaggio dell’anno precedente la diminuzione complessiva è stata del 5%, con un picco tra gli elettori del partito Repubblicano, che hanno diminuito il loro consenso del 10%. Nel corso del 2017 sono state messe in calendario 81 esecuzioni, 58 delle quali (71,6%) non sono state effettuate o per rinvii di corti, commutazioni, rinvii o grazie governatoriali. Il minimo storico delle condanne (30) e delle esecuzioni (20) venne raggiunto lo scorso anno, i dati di quest’anno sono la seconda migliore misura da 45 anni. Quest’anno le 23 esecuzioni sono avvenute in 8 diversi stati: Texas (7), Arkansas (4), Alabama e Florida (3), Ohio e Virginia (2), Georgia e Missouri (1). Le condanne a morte sono state emesse in 14 stati, più una dal Sistema Federale: California (11), Arizona, Nevada e Texas (4), Florida (3), Alabama, Oklahoma, Pennsylvania (2) e Arkansas, Idaho, Mississippi, Missouri, Nebraska, Ohio, Sistema Federale (1). Secondo gli autori del Rapporto, il 90% delle 23 persone giustiziate presentavano prove significative di malattia mentale, disabilità intellettiva, danno cerebrale, grave trauma e/o innocenza. Su 4 delle persone giustiziate c’erano preoccupazioni sostanziali circa la loro non colpevolezza. La guerra nello Yemen, catastrofe che deve essere fermata di Paolo Lepri Corriere della Sera, 20 dicembre 2017 Le vittime complessive sono oltre diecimila, più di due milioni gli sfollati, mentre secondo le stime dell’Onu i due terzi della popolazione (28 milioni) necessitano di aiuto umanitario. Sono passati mille giorni, una lugubre ricorrenza circondata dal silenzio. La guerra nello Yemen è una pestilenza geopolitica che dovrebbe diventare un’enorme colpa collettiva. Nell’attesa, però, si continua a morire. E nemmeno l’indovina dagli occhi azzurri Zarqa al-Yamama - che ha dato indirettamente il nome al Palazzo reale saudita obiettivo del missile lanciato ieri dai ribelli Houthi, armati dall’Iran - potrebbe prevedere se e quando l’ex “Arabia Felix” diventerà un unico ammasso di macerie umane. Certo, gli Houthi sono i primi responsabili dell’inizio delle ostilità: nel settembre 2014 hanno occupato Sanàa scendendo dal nord. Il successivo intervento della coalizione a guida saudita, sostenuto dagli Emirati Arabi Uniti e da buona parte del mondo sunnita, è stato “consigliato” da Washington e Londra e reso più facile dalle ingenti vendite di armi di cui la monarchia wahabita beneficia da anni. Non lontano da quella città definita da Pier Paolo Pasolini “una Venezia selvaggia sulla polvere”, le bande del terrore legate all’eredità di Al Qaeda impongono le loro regole, sperando di piantare le bandiere nere in uno Stato distrutto. La più grave epidemia di colera degli ultimi decenni, provocata dai bombardamenti degli impianti di depurazione dell’acqua, ha fatto 2.000 morti, in gran parte bambini. Le vittime complessive sono oltre diecimila, più di due milioni gli sfollati, mentre secondo le stime dell’Onu i due terzi della popolazione (28 milioni) necessitano di aiuto umanitario. I sauditi hanno colpito scuole, mercati, moschee e ospedali mentre il blocco dei rifornimenti ad una popolazione agonizzante desta il sospetto, scrive l’Economist, che “si usi il cibo come strumento bellico”. Gli appelli, come quello lanciato ieri da 350 personalità mondiali tra cui sei premi Nobel, non servono a molto quando dietro a una guerra ci sono le firme del principe ereditario saudita Mohammad bin Salman, a cui Donald Trump ha dato “carta bianca”, e quelle degli ayatollah di Teheran. Le catastrofi sono spesso causate dagli uomini.