Cnf e Garante dei detenuti, insieme per una nuova cultura dei diritti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 dicembre 2017 Firmato ieri il Protocollo d’intesa che prevede una collaborazione tra le due istituzioni. Formazione all’interno dell’avvocatura sul valore del diritto penitenziario, sensibilizzazione della società civile, conoscenza della “Carta nazionale dei diritti della persona detenuta o della persona privata della libertà personale”, supporto legale per il Garante. Questi sono i pilastri portanti del protocollo d’intesa sottoscritto ieri mattina da Emilia Rossi, componente dell’Ufficio del Garante Nazionale dei Diritti delle persone private della libertà personale presieduto da Mauro Palma, e dal presidente del Consiglio nazionale forense Andrea Mascherin. Una reciproca collaborazione volta a promuovere ed incentivare, anche per il tramite delle fondazioni del Consiglio, degli Ordini territoriali degli avvocati e dei Garanti regionali o locali, l’iniziativa sullo stato della detenzione in Italia e la formazione su temi dell’esecuzione della pena. Un patto, quindi, tra due istituzioni di garanzia elevate, rappresentate dall’avvocatura e dal Garante nazionale. “La formazione all’interno dell’avvocatura sul valore del diritto penitenziario è di vitale importanza - spiega al Dubbio Emilia Rossi -, perché è stato poco approfondito nell’università e anche nella pratica forense. Anche se - aggiunge - da un po’ di tempo c’è maggiore attenzione verso le tematiche penitenziarie”. Emilia Rossi spiega anche il perché: “A cominciare dalle università si sta aprendo un canale di attenzione privilegiata sull’esecuzione della pena. In un momento in cui l’avvocatura esce da una situazione di crisi, la specialità del diritto penitenziario comincia ad essere considerata una materia in cui ci si può qualificare e quindi far valere la propria competenza”. Il primo obiettivo del protocollo è finalizzato, quindi, alla formazione. Andrea Mascherin, a tal proposito, ha proposto un corso iniziale nella sede del Consiglio nazionale forense, che servirà per elaborare un modulo da far girare presso tutto il mondo dell’avvocatura. “Altro obiettivo - spiega sempre Rossi - è quello dell’informazione, rivolta non solo all’avvocatura, ma potenzialmente con una portata più generale, sul valore delle garanzie nell’esecuzione della pena che coinvolge l’istituzione del Garante nazionale, fino ad arrivare ai Garanti regionali e locali”. L’obiettivo, quindi, è informare che esistono nel nostro Paese una rete di garanzie costruite in organismi istituzionali. “Non ci sono soltanto le associazioni e i partiti, rari, che fanno un lavoro egregio e meritevole ma con un potere ovviamente limitato - sottolinea Emilia Rossi, per questo bisogna far conoscere l’esistenza dell’istituto del Garante che ha l’obiettivo della soluzione delle problematiche in termini concreti e in via di collaborazione interna tra le amministrazioni”. Rossi tiene a specificare che il Garante non è un organo di denuncia delle situazioni critiche, ma di risoluzione dei problemi. Un organo che monitora il rispetto dei diritti, senza aver bisogno di chiedere l’autorizzazione presso le sedi competenti, né preavvisare i luoghi dove c’è privazione della libertà. Luoghi che non riguardano soltanto gli istituti penitenziari. “Non visitiamo solo i luoghi di detenzione dove c’è un provvedimento giudiziario - spiega Emilia Rossi, ma anche le strutture de facto private della libertà”. Punto sottolineato anche nel protocollo d’intesa che promuove l’approfondimento delle competenze in materia di diritto dentro e fuori i luoghi di detenzione, nonché nelle strutture dove c’è privazione di libertà. “Ci sono due situazioni di privazione de facto della libertà - pone come esempio Emilia Rossi, l’hotspot che serve per identificare gli immigrati dove non c’è nessun provvedimento giudiziario o amministrativo, ma di fatto gli immigrati vivono in una situazione di costrizione, e il trattamento sanitario obbligatorio quando la persona vi viene sottoposta prima di una convalida da parte del magistrato”. Il terzo obiettivo del protocollo d’intesa è il progetto riguardante la tutela dei diritti delle persone detenute. Anche in questo caso si tratta d’informazione, ma indirizzata principalmente alle persone ristrette. “Una problematica che noi abbiamo molto spesso rilevato durante i nostri monitoraggi - spiega Rossi - è che manca il regolamento interno, per questo i detenuti vivono in una situazione di grande disagio: non sono a conoscenza delle regole alle quali attenersi, sono quindi esposti all’arbitrio”. C’è una necessità da parte della popolazione detenuta di essere informata dei diritti inderogabili e degli strumenti per farli valere. Il presidente del consiglio nazionale forense Andrea Mascherin propone, quindi, l’elaborazione di un piccolo vademecum, magari come integrazione della Carta dei diritti dei detenuti già esistente. Il quarto obiettivo, invece, riguarda un sostegno legale fornito dal Cnf per l’ufficio del Garante nazionale. Nello specifico si tratta di costituire una rete nazionale composta da avvocati referenti, individuati su base locale degli Ordini territoriali degli avvocati, che fornisca assistenza legale pro bono al Garante nei procedimenti penali ai quali è interessato come parte. “Com’è noto - spiega Emilia Rossi - noi siamo intervenuti costituendoci come persona offesa in tutti i casi di suicidio dall’inizio dell’anno fino ad oggi, e siamo già stati parte civile in un procedimento a Trento per ipotesi di maltrattamento. In tutte queste situazioni in cui il Garante interviene in procedimenti penali - conclude Rossi -, possiamo quindi contare sull’assistenza legale fornita dal Consiglio nazionale forense”. “Più braccialetti meno carcere”, ieri la manifestazione nazionale delle Camere Penali firenzepost.it, 1 dicembre 2017 Una situazione vergognosa, uno dei tanti misteri italiani. Non usa mezzi termini Riccardo Polidoro, responsabile dell’Osservatorio carceri dell’Unione delle camere penali italiane, riferendosi all’utilizzo dei braccialetti elettronici per i detenuti agli arresti domiciliari. “A oggi sono 2mila, del tutto insufficienti: ci sono liste di attesa per detenuti che potrebbero uscire ma che non lo fanno perché non c’è la disponibilità del braccialetto - dice Polidoro - le cronache se ne sono occupate per casi clamorosi, come quello dell’attore Domenico Diele o dell’imprenditore Alfredo Romeo, che hanno aspettato settimane per uscire dal carcere in attesa che ci fosse la disponibilità del braccialetto. I dati sono mortificanti per il nostro paese - sottolinea - abbiamo una norma che esiste da 17 anni, che prevede il controllo a distanza del detenuto agli arresti domiciliari e che da 4 anni dovrebbe essere la regola, e si dovrebbe anzi motivare perché il braccialetto non viene usato. Nei primi 10 anni ci sono state pochissime applicazioni - ricorda - i casi si contano sulle dita di una mano con milioni di euro spesi all’anno senza che venisse utilizzato nessun braccialetto perché sembrava non funzionasse quindi il giudice non lo prendeva proprio in considerazione”. Quanto agli esiti futuri della misura, “il ministero dell’Interno ha bandito una gara che è stato vinta dalla Fastweb ma non si è capito per quanti braccialetti, con quali modalità e di che tipo di dispositivi si tratta. Quelli attualmente usati sono desueti - denuncia Polidoro - c’è una centralina che deve essere posta all’interno dell’abitazione, la Telecom deve perimetrare la casa. Ormai si possono usare quelli con il Gps che sono molto più utili”. “Con il dispositivo Gps, spiega il responsabile dell’Osservatorio carceri dell’Ucpi, potrebbero essere facilmente utilizzati per le misure alternative, per le cosiddette sanzioni di comunità, come nel caso di persone che devono scontare pochi mesi. Ci sarebbe un grosso sfollamento delle carceri, visto che il numero dei detenuti sta aumentando costantemente e arriveremo ben presto ai numeri di qualche anno fa. Il ministero della Giustizia, che fornisce periodicamente i dati sulle presenze nelle carceri non dà mai quelli sul numero di braccialetti utilizzati, ne abbiamo fatto più volte richiesta ma senza successo. Vogliamo capire qual è lo stato dell’arte - ribadisce Polidoro - come Osservatorio Carceri è il terzo anno che facciamo questa iniziativa, ogni 30 novembre. In occasione della giornata nazionale - fa sapere Polidoro - gli avvocati portano un braccialetto di plastica con su scritto “Più braccialetti meno carcere”. Appello sull’ergastolo ostativo della Camera Penale di Milano camerapenalemilano.it, 1 dicembre 2017 La Camera Penale di Milano, cosi come l’Unione delle Camere Penali Italiane, ormai da anni si batte per la revisione delle norme che hanno introdotto l’ergastolo ostativo. La pena dell’ergastolo, se comminata per i reati previsti dal primo comma dell’art. 4 bis del nostro ordinamento penitenziario, è caratterizzata dalla impossibilità di accesso ai benefici penitenziari. Una pena perpetua, senza via di scampo. L’unica modalità di uscita dal tunnel del “fine pena mai” è il riconoscimento di una condotta da parte dell’ergastolano di collaborazione effettiva, ovvero, dopo gli interventi della Corte Costituzionale, recepiti poi nell’ art. 4 bis, della impossibilità o della irrilevanza della collaborazione. La non revisionabilità della pena di durata indeterminata è in palese contrasto con la finalità di risocializzazione della pena prevista dalla nostra Carta Costituzionale; la preclusione assoluta lede persino l’autonomia di giudizio della magistratura di sorveglianza nel proprio compito di valutazione dell’individuo sulla base della personalizzazione del trattamento che sta alla base del nostro sistema penitenziario e dell’esecuzione penale in genere. Il sistema si pone, poi, in contrasto con i più recenti principi del diritto penale moderno, rinvenibili nella giurisprudenza della Corte Edu. Secondo tali principi ogni Stato deve disciplinare chiaramente le modalità e le tempistiche della revisione anche della pena dell’ergastolo, riconoscendo anche a questa categoria di detenuti il “diritto alla speranza”, ricompreso nell’art. 3 C.E.D.U. Questo diritto è, per i Giudici di Strasburgo, insito nella persona umana, in quanto, se è vero che i condannati all’ergastolo “effettivo” sono responsabili di gravi reati e le loro condotte hanno inflitto ad altri indescrivibili sofferenze, tuttavia, essi conservano un’umanità fondamentale ed hanno la capacità intrinseca di cambiare. Ne consegue che, indipendentemente dalla quantità della pena loro inflitta, essi conservano la speranza di riscatto per gli errori commessi. Come Camera penale, abbiamo organizzato incontri ed eventi di riflessione sul punto, non ultimo quello dello scorso 22 novembre presso la Casa di reclusione di Opera alla presenza dell’onorevole Fassone, autore del libro “Fine pena: ora” e con la partecipazione attiva degli stessi ergastolani. Abbiamo aderito alle mobilitazioni indette dall’Unione delle Camera Penali italiane per l’abolizione dell’ergastolo ostativo. Abbiamo partecipato con l’Osservatorio carcere Ucpi al tavolo 16 degli Stati Generali dell’esecuzione penale proprio al fine di ridisegnare o quantomeno ridurre l’ostacolo normativo alla concessione dei benefici penitenziari nei confronti dei condannati per i reati di cui all’art. 4 bis. La recente revisione dell’ordinamento penitenziario però, purtroppo, non ha previsto il superamento dell’ergastolo ostativo né ha modificato le condizioni di accesso ai benefici penitenziari, accesso ancora subordinato al requisito della collaborazione. In occasione dell’anniversario della Dichiarazione dei Diritti Umani del prossimo 10 dicembre ci sembra doveroso, dunque, rilanciare un appello pubblico per il superamento dell’ergastolo ostativo, aderendo all’iniziativa di digiuno per l’abolizione dell’ergastolo promossa per tale giornata dall’associazione “Liberarsi”. Per aderire all’iniziativa: www.liberarsi.net/aderisci-allo-sciopero-della-fame-del-10-dicembre-per-labolizione-dellergastolo.html Il lavoro penitenziario come opportunità: prospettive di riforma di Alessandro Torri poliziapenitenziaria.it, 1 dicembre 2017 Da pochi mesi si è concluso il lavoro degli Stati Generali sull’esecuzione penale che ha fornito una fotografia istantanea della situazione del nostro sistema penitenziario, individuando le varie carenze e indicando, anche in virtù di un costruttivo confronto e dello studio di esperienze di sistemi stranieri, quali aspetti possono e devono essere migliorati per avvicinare la vita penitenziaria alla finalità rieducativa indicata dai padri costituenti all’articolo 27 della Costituzione. L’esperienza maturata con questi diciotto tavoli tematici dovrà essere messa a disposizione per l’attuazione della legge delega di riforma dell’ordinamento penitenziario che il Parlamento ha approvato qualche settimana fa, per dare seguito alle riforme che sono già state messe in campo a seguito della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 2013, che condannava l’Italia per il trattamento inumano e degradante riservato ai detenuti. Tra i principi e criteri direttivi che sono stati individuati nella discussione in aula hanno particolare rilievo le previsioni in tema di incremento delle opportunità di lavoro retribuito perché è forte la convinzione che questo elemento possa contribuire in modo significativo a diminuire il tasso di recidiva, aumentare l’inclusione sociale e garantire una formazione professionale spendibile nel mondo del lavoro una volta scontata la propria pena. La delega parla di “opportunità lavorative” cogliendo, con tutta probabilità, una delle proposte emerse nel tavolo numero 8 degli Stati Generali, dedicato proprio alle tematiche del lavoro e della formazione, che indicava nel superamento del concetto di “obbligo” di lavoro un aspetto importante per modernizzare l’idea stessa di detenzione, in linea con l’evoluzione della giurisprudenza anche a livello internazionale. Vale la pena sottolineare che la regola 96 delle Mandela Rules, approvate dall’Onu nel 2015, aveva già contribuito a superare l’obbligatorietà, parlando di “opportunity to work and/or to actively participate in their rehabilitation, subject to a determination of physical and mental fitness by a physician or other qualified health-care professional”, a riprova della forte spinta, anche internazionale, verso una concezione più moderna di detenzione, con trattamenti penitenziari responsabilizzanti e basati sui principi di umanità e di rispetto della dignità della persona. Il lavoro, quindi, non rappresenta più uno strumento afflittivo per il condannato, ma deve essere un’opportunità di crescita, di sviluppo della personalità e di apprendimento di attitudini lavorative che possono essere fondamentali anche per avere una retribuzione ed aiutare la propria famiglia all’esterno. Secondo gli ultimi dati (31 dicembre 2016) forniti dal Ministero della Giustizia sono 16.251 i detenuti che svolgono attività inframurarie ed extra murarie, di cui la maggior parte sono alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria. Sono dati che devono essere certamente migliorati perché la mancanza di attività finisce con il favorire un progressivo distacco dello stesso detenuto dalla realtà esterna, con la conseguenza che questo non possa avere alcuna possibilità di reinserirsi e abbia una significativa probabilità di ricadere nell’illegalità, provocando conseguenze negative a sé stesso e all’intera società. Tra gli aspetti che dovranno essere presi in considerazione nell’attuazione della delega vi è anche quello dell’organizzazione delle strutture che, anche nelle attività del tavolo degli Stati Generali, è stato individuato come una delle maggiori criticità del sistema. È necessario trovare, infatti, un punto di incontro tra le esigenze della lavorazione e della produzione con le regole della vita carceraria, per assicurare la possibilità ad un numero più ampio di detenuti di poter accedere alle aree preposte per le attività lavorative. Si deve investire nella formazione professionale e creare un dialogo tra l’Amministrazione ed il mondo delle imprese per garantire una collaborazione leale e reciproca che possa essere di aiuto e di supporto ad entrambi. Produrre all’interno delle strutture penitenziarie e distribuire ai negozi e ai mercati locali, puntando sulla specializzazione dei prodotti per non creare ulteriore concorrenza alle imprese del territorio, per costruire quel ponte tra carcere e società che rappresenta la sfida per il futuro. Esistono delle realtà all’interno delle quali questa collaborazione avviene già con ottimi risultati e l’obiettivo deve essere quello di ampliare questo modello a tutte le strutture italiane. I tanti progetti di reinserimento sociale nelle carceri grazie al “mondo food” di Michela Becchi gamberorosso.it, 1 dicembre 2017 Orto urbano a Volterra, pasticceria a Foggia e gli altri. Le specialità realizzate nelle carceri della Penisola si moltiplicano, con le associazioni di sostegno incentivate a realizzare progetti per il reinserimento sociale dei detenuti. L’esempio di Volterra, Foggia, i due anni di Cibo Agricolo Libero a Roma. Riabilitare i giovani detenuti, aiutandoli a valorizzare il tempo trascorso in carcere. E guardare al futuro arricchiti di una nuova professionalità. Sono questi gli obiettivi dei progetti di reinserimento sociale che negli ultimi anni hanno preso vita in molte carceri d’Italia. Perché il mondo del cibo e della tavola sono sinonimo di convivialità per antonomasia ed è proprio sul senso di collettività e solidarietà che si basano molte iniziative sociali che coinvolgono i detenuti. In principio fu la Pasticceria Giotto dal Carcere di Padova (che è anche una delle realtà in lizza, col suo panettone, nella classifica dei panettoni sul nostro mensile di dicembre appena approdato in edicola), un caso ormai celebre che, per primo, ha dato voce ai detenuti, e poi Buoni Dentro, progetto di panificazione nato all’interno dell’Istituto Penale per Minorenni C. Beccaria di Milano, o ancora Pasta 1908, una pasta gluten free prodotta nel laboratorio all’interno del carcere di Sondrio, una vecchia autorimessa trasformata in un luogo di lavoro con macchine professionali ultimo modello, e poi l’accordo triennale fra Cantine San Marzano e carcere di Taranto, che ha trasformato i detenuti in viticoltori. E molti altri progetti affini. Cibo Agricolo Libero, per esempio, iniziativa di Vincenzo Mancino, mente di Proloco DOL a Roma, che ha trasformato la Casa Circondariale Femminile di Rebibbia in un caseificio. Un progetto che festeggia due anni di vita, compleanno speciale che segna il successo di un sogno che, in origine, era solo una speranza. Oggi, ci troviamo di fronte a una vera filiera corta che porta i formaggi di alta qualità del carcere direttamente sulle tavole romane, attraverso la vendita diretta presso il punto vendita di Centocelle. La solidarietà, infatti, è stata solo la benzina che ha messo in moto l’intero ingranaggio, ma non è certo l’unico motivo per cui valga la pena comprare questi prodotti. La materia prima di partenza è di prima scelta: LatoXlato, formaggio a pasta semi-dura, Candidum, Fico Nobile, pasta semi-dura prodotta con caglio vegetale avvolta in foglie di fico, Hathor e molte altre le specialità realizzate dalle detenute, che per i vaccini utilizzano solo Latte Nobile certificato de La Frisona di Segni. A loro - è inutile negarlo - l’iniziativa ha cambiato la vita: “Respirano un’aria diversa, vedono un’altra luce per ben cinque giorni alla settimana”, raccontava Mancino all’inizio di questa avventura. In Toscana, invece, si sperimenta con frutta e verdura. In arrivo dagli Stati Uniti, quello degli orti urbani è un fenomeno che sta iniziando a prendere sempre più piede anche in Italia (fra gli ultimi nati, il Parco Cerillo a Bacoli, in provincia di Napoli), una tendenza molto in voga, che ora approda anche in carcere. A siglare l’accordo, il Comune e la Casa di reclusione di Volterra, per consentire ai detenuti di curare una produzione ortoflorovivaistica destinata alla cucina. “Grazie al lavoro congiunto della direzione del carcere - da cui è partita l’idea progettuale - e dell’assessorato alle politiche sociali, abbiamo potuto intercettare i finanziamenti legati al bando e avviare un percorso improntato alla realizzazione di orti in città e sul territorio”, ha commentato il sindaco Marco Buselli. A disposizione della Casa di reclusione, le fasce di terreno nell’area del Vecchio forno, che potranno essere coltivate dai detenuti per un periodo di cinque anni. Dall’agricoltura alla pasticceria: all’Istituto Penitenziario di Foggia si è avviato lo scorso 22 novembre il progetto “Una pena più dolce”, un laboratorio artigianale pensato per 15 detenuti della casa circondariale per volontà del Cpia1, Centro Provinciale Istruzione Adulti. L’obiettivo? Far maturare alle persone coinvolte competenze spendibili anche all’esterno. “I detenuti potranno acquisire le nozioni base dell’arte pasticcera grazie a un docente di eccezione, Claudio Zingaro, impegnato in numerose attività di beneficenza”, spiega Luigi Talienti, tutor e ideatore del progetto. E aggiunge: “La nostra non sarà una formazione fine a se stessa, perché con questo corso di 60 ore vogliamo porre le basi per creare nuove figure professionali”. Per un futuro reinserimento lavorativo e sociale, in grado di restituire dignità e valore a chi per anni ha dovuto scontare una pena. Ma il corso di pasticceria è solo il primo di una lunga serie di progetti che saranno realizzati nella località pugliese, “per ora ancora in incubazione, ma speriamo possano vedere presto la luce”. Un’iniziativa che punta tutto sulla formazione, “che può costituire un allentamento della tensione, un impegno mentale che favorisce la non fissazione del qui e ora della cella, un’occasione di incontro con persone che, provenendo dall’esterno, favoriscono una sensazione di minore abbandono nei detenuti”. Un processo, dunque, di “umanizzazione della pena, aspetto che resta indispensabile”. Privacy. Oblio sugli atti di polizia, dati conservati 20 anni post assoluzione di Antonio Ciccia Messina Italia Oggi, 1 dicembre 2017 Il decreto attuativo è pronto per il Consiglio dei ministri. Cala l’oblio anche per gli atti delle forze di polizia. Scatta la tagliola per la conservazione dei dati nei trattamenti effettuati per ragioni di accertamento, prevenzione e repressione di reati. È in arrivo al Consiglio dei ministri il Dpr attuativo delle disposizioni del codice della privacy sui trattamenti di dati effettuati per le finalità di polizia, da organi, uffici e comandi di polizia. Il provvedimento attua l’articolo 57 del Dlgs 196/2003. Nell’iter di stesura del regolamento il garante della privacy ha criticato l’eccessiva dilatazione dei tempi di conservazione. Questi rilievi non sono stati accolti dal governo, che ha previsto termini lunghi di conservazione (anche tagliati rispetto alla formulazione originaria). Nella relazione illustrativa si giustifica questa scelta citando non solo fonti europee, ma anche il recente intervento legislativo, che, in deroga alle norme sulla privacy, ha portato a 72 mesi il periodo di conservazione dei dati del traffico telefonico (legge 167/2017). I dati relativi ad attività di polizia giudiziaria conclusa con provvedimento di archiviazione si tengono 20 anni dall’emissione del provvedimento; stessa scadenza per l’attività di polizia giudiziaria conclusa con sentenza di assoluzione o di non doversi procedere. Sono 25 gli anni (dal passaggio in giudicato della sentenza) della conservazione dei dati relativi ad attività di polizia giudiziaria conclusa con sentenza di condanna. La scadenza è di 30 anni per i dati relativi a provvedimenti di espulsione e rimpatrio di stranieri. Sempre 30 anni, ma dalla scarcerazione i dati relativi a persone detenute negli istituti penitenziari. Per i dati raccolti mediante sistemi di videosorveglianza o di ripresa fotografica, audio e video il termine è di 3 anni dalla raccolta, salvi i termini più lunghi se le registrazioni confluiscono in un procedimento. I termini sono aumentati di 2/3 per gravissimi reati, come quelli di mafia. E in ogni caso un attimo prima della scadenza, si può adottare la proroga motivata. Se e una volta decorsi i termini, i dati personali soggetti a trattamento automatizzato sono cancellati o resi anonimi. Il regolamento prevede, poi, il diritto dell’interessato a conoscere i dati trattati. Anche qui un bilanciamento. L’organo di polizia, entro 30 giorni dalla ricezione della richiesta, deve comunicare all’interessato se concede o no l’accesso ai dati, con possibilità, però, di omettere di provvedere, dandone informazione al garante, in caso di pregiudizio di azioni o operazioni a tutela dell’ordine o della sicurezza pubblica o di prevenzione e repressione dei reati o esposizione a rischio la sicurezza dello stato, la persona interessata o terzi. Fake news, a ciascuno la sua legge di Annalisa Cuzzocrea e Monica Rubino La Repubblica, 1 dicembre 2017 In parlamento c’è un affollamento di leggi per combattere le fake news. E mentre i partiti si armano di proposte e ddl, un nuovo caso di contenuto offensivo sui social network riaccende lo scontro tra Pd e M5s. Sul gruppo Facebook “Per Matteo Renzi Insieme”, community di fan del segretario dem che conta circa 15mila iscritti, è comparsa infatti una card (un poster digitale), con la faccia di Beppe Grillo in chiaroscuro accompagnata dalla scritta: “Il treno di Renzi non ha ucciso nessuno perché Renzi non ha un treno. La macchina di Grillo invece una famiglia l’ha veramente sterminata”. Il cartello viene disconosciuto dalla pagina ufficiale del Pd su Facebook. Per Matteo Richetti, capo della comunicazione del partito: “Questo post, questa pagina, questa presenza sulla Rete non ci appartiene, non ha nulla a che vedere con Matteo Renzi, con il Pd e con i suoi militanti”. Ma il gruppo “Per Matteo Renzi Insieme”, dopo aver eliminato il post sotto accusa, si giustifica: “Abbiamo detto la verità con un’immagine forte e provocatoria”. “Quest’ultimo caso spinge a riflettere sulla definizione stessa di fake news non illecita - spiega l’avvocato Guido Scorza, esperto di diritti sul web - che nessuna forza politica è riuscita ancora a mettere a fuoco, dal momento che un qualsiasi contenuto illecito rientra nel campo di reati già punibili, come la diffamazione”. Quali sono dunque le proposte in campo sul fronte legislativo? Oltre al disegno di legge Pd al Senato, che interviene soprattutto sui contenuti illeciti diffusi attraverso i social network, c’è anche la proposta di Forza Italia. E, novità appena annunciata, un secondo ddl dei democratici, a prima firma del deputato Michele Anzaldi, sull’obbligo di trasparenza della proprietà dei siti internet. Sullo sfondo una sola certezza: nessuno dei tre disegni ha la minima chance di arrivare in porto, se non altro per motivi di agenda con la legislatura agli sgoccioli. Alla Camera l’azzurra Nunzia De Girolamo ha depositato un testo, che vorrebbe aprire alla collaborazione di tutti, su “anonimato on line e diritto all’oblio”. Prevede cioè “il divieto, definibile assoluto, di inserire contenuti on line di qualsiasi genere in forma anonima”. Perché - secondo la deputata forzista - è proprio grazie all’anonimato e alla relativa impunità che si generano le fake news. Così, le piattaforme digitali dovrebbero tutte registrare i propri utenti attraverso nickname, password, email e relativo codice fiscale. In modo che - nel caso un’autorità giudiziaria voglia risalire alla persona fisica che sta dietro un determinato account - lo possa fare senza difficoltà. I colossi web che non si adegueranno a queste forme di registrazione verrebbero puniti con un’ammenda fino a 5 milioni di euro. “L’anonimato in rete è una bestia multicefala - aggiunge Scorza - ed eliminarlo tout court non favorisce la libertà di parola. Rilancio la vecchia idea dell’anonimato protetto: sono libero di postare quello che voglio ma mi faccio identificare dal provider, cioè da chi mi apre la porta della Rete, che potrà mettere la mia reale identità a disposizione dell’autorità giudiziaria in caso di reati”. Stalking, non basterà il risarcimento. Boldrini: “Corretto un errore” di Valentina Santarpia Corriere della Sera, 1 dicembre 2017 Modificata la norma che permetteva di estinguere il reato di stalking con un risarcimento economico. La presidente della Camera: “Il Parlamento ha corretto un errore e restituito certezza alle vittime”. “Bene Montecitorio su stalking, non si estinguerà più con indennizzo. Il Parlamento ha corretto un errore e restituito certezza alle vittime”: così la presidente della Camera, Laura Boldrini, in un tweet ha commentato l’eliminazione, nel decreto fiscale approvato oggi, della possibilità di estinguere il reato con una pena pecuniaria. La polemica sul reato di stalking era nata a giugno quando, con la riforma del codice penale, sono state approvate delle modifiche che riguardano le misure di giustizia riparativa, che consentono cioè l’estinzione di reati lievi attraverso risarcimenti. Tra questi reati, anche le forme meno gravi di stalking. In sostanza si prevedeva che chi era colpevole di stalking, se pagava una somma adeguata, poteva vedersi estinto il reato. Anche se la vittima non accettava il risarcimento: era sufficiente cioè che il colpevole offrisse una cifra considerata adeguata dal giudice. Una novità, questa, che era stata fortemente criticata da sindacati e associazioni, anche alla luce della decisione di una donna piemontese di non accettare il risarcimento di 1.500 euro dal suo stalker, considerata “cifra congrua” dal giudice che aveva emesso la condanna. Le polemiche avevano spinto il ministero della Giustizia, lo scorso ottobre, a un approfondimento tecnico e poi a depositare un parere favorevole a un emendamento per cancellare il risarcimento per lo stalking, presentato dalla senatrice Pd Francesca Puglisi nell’ambito dei lavori parlamentari sulla proposta di legge a tutela degli orfani dei crimini domestici. La misura ha poi trovato un “veicolo” ben più rapido e certo nel decreto fiscale. Il provvedimento così oggi finalmente è stato corretto. Il testo, basato su un emendamento del governo, prevede che non bastino più le “condotte riparatorie”, ovvero un risarcimento in denaro, per estinguere il reato di stalking: “All’articolo 162-ter del codice penale - recita l’articolo 2 della legge approvata oggi - è aggiunto, infine, il seguente comma: “le disposizioni del presente articolo non si applicano nei casi di cui all’articolo 612-bis”. “È positiva la correzione da parte del Parlamento del reato di stalking. Un fatto di giustizia e di buon senso. La violenza e le persecuzioni contro le donne non si possono estinguere con un indennizzo”. Lo sottolinea su Twitter la segretaria generale della Cisl, Annamaria Furlan, “Whistleblowing non violi il segreto delle inchieste”. Le condizioni del Colle di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 1 dicembre 2017 Rispetto del segreto istruttorio. Ma anche dell’autonomia e indipendenza della magistratura. Il Presidente della Repubblica ha promulgato ieri la legge sul whistleblowing, approvata poche settimane fa dal Parlamento. Lo fa accompagnando però il via libera con una lettera al premier Paolo Gentiloni, nella quale raccomanda la massima attenzione, nella fase di redazione delle misure applicative che si dovessero rivelare necessarie, al rispetto soprattutto dei principi costituzionali che presidiano autonomia e indipendenza della funzione giudiziaria. E Mattarella su questo punto è chiaro e mette nero su bianco come “le disposizioni recate dal provvedimento non incidono ovviamente sull’autonomia e sull’indipendenza della magistratura, né quindi sulla posizione e sulle funzioni che sono dalla Costituzione attribuite al Consiglio superiore della magistratura per tutto quanto attiene la posizione giuridica degli appartenenti all’ordine giudiziario”. Una precisazione significativa, che riconosce la specificità della magistratura nel più generale contesto della pubblica amministrazione. Se per quest’ultima, infatti, il “combinato disposto” tra legge Severino e legge sul whistleblowing, a tutela dei dipendenti che effettuano segnalazioni di condotte illecite, ha delineato un sistema ormai completo tra obblighi e misure di protezione, per quanto riguarda la magistratura il discorso è diverso. E Mattarella lo sottolinea. Perché da tenere presente ci sono l’esistenza e le competenze del Csm e quelle attribuite dall’ordinamento giudiziario, oltre ovviamente alla Costituzione. In altre parole, sarebbe potuto sorgere il dubbio sui possibili destinatari delle segnalazioni da parte dei magistrati, in quanto pubblici dipendenti. Se infatti nel comparto della pubblica amministrazione la legge individua Anac, responsabile della prevenzione della corruzione e magistratura stessa (anche contabile) come referenti per le segnalazioni delle condotte illecite, i magistrati hanno invece nei capi degli uffici e nel Consiglio superiore della magistratura i punti di riferimento. C’è poi un altro punto che emerge nella lettera di Mattarella. È vero infatti che la legge “persegue lo scopo di tutelare l’attività di segnalazione di condotte illecite attraverso la garanzia dell’anonimato, la protezione nei confronti di misure discriminatorie o ritorsive incidenti nell’ambito del rapporto di lavoro, nonché mediante la previsione di una giusta causa per quanto concerne la rivelazione di notizie coperte da determinati obblighi di segreto”. E su quest’ultimo aspetto, il riferimento è alla (parziale) incrinatura del segreto professionale per alcune categorie e a determinate circostanze: infatti la segnalazione nell’interesse all’integrità delle amministrazioni (pubbliche o private) e alla prevenzione e repressione di illeciti costituisce giusta causa di rivelazione del segreto d’ufficio, professionale, scientifico e anche di violazione dell’obbligo di fedeltà all’imprenditore. Tuttavia, è evidente, precisa il Presidente della Repubblica, che la legge non mette certo in discussione un altro tipo di segreto, quello delle indagini disciplinate dall’articolo 329 del Codice di procedura penale (peraltro ricordato dalla stessa legge a proposito della protezione dell’identità del segnalante nel procedimento penale). In caso contrario, infatti, verrebbero compromessi l’integrità e il corretto esercizio dell’azione penale. E anche in questo caso sarebbero colpiti i principi costituzionali che disciplinano l’attività degli organi giudiziari. Cassazione, lunghi coltelli al Csm di Liana Milella La Repubblica, 1 dicembre 2017 Dicembre di fuoco per le correnti della magistratura al Csm. La sinistra di Area e Unicost si giocano tutto. In lizza due posti che valgono quanto la poltrona di ministro. Quelli di primo presidente della Cassazione e quello di procuratore generale. Nonché i rispettivi vice. Che per la prima volta, nella storia della Cassazione, potrebbero vedere una donna magistrato sedere sullo scranno di presidente. Gara da chiudere entro la fine dell’anno, perché altrimenti finirebbe per essere a rischio la tradizionale cerimonia di apertura dell’anno giudiziario, prevista sempre nell’ultima settimana di gennaio. Lasciano due super toghe, Gianni Canzio, il primo presidente, ex potente vertice della Corte di Appello di Milano che giocò contro il procuratore Edmondo Bruti Liberati nello scontro con Robledo, e Pasquale Ciccolo, l’inquisitore di Henry John Woodcock, per un’intervista mai data, e per le manifeste gelosie dei colleghi che gli imputano di non aver rispettato regole formali nell’inchiesta Consip. Chi arriva al loro posto? Un paio i pronostici possibili. Dai quali, salvo sorprese, pare escluso Piercamillo Davigo, uno dei protagonisti di Mani pulite, per un anno al vertice dell’Anm, in cui ha dato il tormento proprio al Csm, e tolto il sonno al vice presidente Giovanni Legnini, per la polemica sulle nomine correntizie (“Uno a me, uno a te, uno a lui” dice Davigo).Riunioni fiume al Csm, e banco di prova per Luca Palamara, il neo presidente della quinta commissione, quella per gli incarichi direttivi, che per la procura generale dovrà scegliere tra due amici, Giovanni Salvi, ex collega della procura di Roma, di Md, e Riccardo Fuzio, ex Csm per Unicost, corrente anche di Palamara, ma anche in via Arenula con Piero Fassino quando fu Guardasigilli. Una sfida durissima, che in commissione dovrà essere votata tra l’11 e il 18 dicembre, e poi definita in plenum prima di Natale. La valenza politica è strategica, ben oltre la guerra delle correnti. Perché questo Csm, a guida Pd con Legnini, sta per scegliere i due componenti di diritto - primo presidente e Procuratore generale - del prossimo Csm che sarà formato a elezioni politiche già fatte. Quindi con consiglieri laici che saranno scelti, se i sondaggi non sbagliano, da una maggioranza di centrodestra. Il Csm dura in carica quattro anni e alcuni dei competitor, come Margherita Cassano e Giovanni Salvi, potrebbero garantire una copertura molto lunga. Chi seleziona e sceglie il vincitore e chi vince e chi perde tra le toghe in gara? Nella commissione decisa da Legnini a fine ottobre ecco, con Palamara, Antonello Ardituro di Area, il centrista Renato Balduzzi, il forzista Pierantonio Zanettin (sposato con la figlia dell’avvocato Franco Coppi che difende Berlusconi), Luca Forteleoni di Mi, e Aldo Morgigni, l’unico davighiano al Csm.Nessuno ha ancora anticipato ufficialmente le sue preferenze. Scontato l’appoggio di Area (Ardituro) per Salvi e Di Tomassi, ma il resto della commissione spingerà per le toghe di Unicost. I concorrenti e le loro chance. Con una premessa. Non possono vincere due magistrati della stessa corrente. Per esempio non può andare Salvi alla procura generale e Stefania Di Tomassi, entrambe toghe rosse, come primo presidente. Non c’è una ragione né logica, né professionale, ma solo correntizia. Come dice Davigo, “uno a me, uno a te, uno a lui”. Quindi se la sinistra prende la procura generale non può avere anche il vertice della Cassazione e viceversa. I nomi e le chance allora. Per la procura è presto detto, Salvi o Fuzio, Md contro Unicost. Davigo come outsider, che però al Csm potrebbe votare il solo Morgigni, anche se i suoi titoli e la sua anzianità sono fuori discussione. Per il vertice della Cassazione la sfida è rosa. Corrono ben tre donne. La Di Tomassi, oggi già presidente della prima sezione penale, Margherita Cassano e Marina Tavassi, entrambe al vertice della Corte d’Appello, la prima a Firenze e la seconda a Milano. Nutrita la pattuglia degli uomini, a partire da Giovanni Mammone, ex Csm, Magistratura indipendente, oggi già segretario della Cassazione, sponsorizzato da Canzio. Nella lista Luciano Panzani, al vertice della Corte di Appello di Roma, Domenico Carcano, al Massimario della Cassazione, e Stefano Schirò, anche lui già in piazza Cavour. Ma la sfida potrebbe restringersi a Mammone e Di Tomassi. L’obbligo del Csm: essere all’altezza di un patrimonio che si chiama indipendenza di Astolfo Di Amato Il Dubbio, 1 dicembre 2017 Gli indizi sono molti. Nelle ultime elezioni della Associazione nazionale magistrati Davigo ha dato vita, partendo dal nulla, a una corrente, che in sede elettorale ha avuto notevole successo, in virtù di un programma che, ridotto all’osso, si sostanziava nella richiesta di una gestione più corretta e trasparente dei poteri del Consiglio superiore della magistratura. Nel mese di agosto Andrea Mirenda, presidente della I sezione civile del Tribunale di Verona, rinunciava a questa carica per diventare giudice di sorveglianza presso lo stesso tribunale “per andare ad occuparmi degli ultimi della terra da ultimo dei magistrati”, denunciando un sistema giudiziario improntato ad un carrierismo spietato, arbitrario e lottizzatorio. La copertura del posto delicatissimo di procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli ha richiesto addirittura un anno per la decisone, nonostante l’importanza dell’ufficio e la palese incongruenza della sua mancata copertura pur in presenza di candidati di grande spessore professionale e di riconosciuto prestigio. Da ultimo Maria Giovanna Romeo, da cinque anni presidente di sezione della Corte di Appello di Caltanissetta, rinuncia alla toga denunciando che “le scelte del Csm rispondono in primo luogo a logiche di lottizzazione da perfetto manuale Cencelli della Prima Repubblica”. Gli episodi sopra riportati sono solo quelli che hanno avuto una qualche forma di diffusione perché segnalati all’attenzione del grande pubblico, in quanto riportati dalla stampa. In realtà, nell’ordine giudiziario il sentimento di una gestione, da parte del Consiglio superiore della magistratura improntata a criteri clientelari e correntisti è estremamente diffusa. Si tratta di una situazione che presenta aspetti di pericolosità molto maggiori di quanto potrebbe sembrare a prima vista. In gioco non è affatto un mero ulteriore degrado delle istituzioni su cui si fonda la democrazia italiana. In gioco è la credibilità di uno degli ultimi presidi della democrazia. La magistratura italiana è oggetto di molte critiche, ed alcune anche condivisibili. Ma vi è un punto sul quale il riconoscimento è unanime, anche da parte dei critici più severi. Il giudice italiano è indipendente, sia nella forma e sia nella sostanza. Quando si ha occasione di raffrontare l’esperienza giudiziaria italiana con quella di altri paesi, emerge con chiarezza il privilegio di cui godono i cittadini italiani per avere dei giudici che non sono assoggettati a fonti di potere esterne. Il che significa che davanti al giudice italiano può essere portata, senza remore, qualsiasi denuncia, anche nei confronti dell’uomo più potente, e che nella controversia contro un qualsiasi potentato, si può far fare affidamento su di un giudice non condizionato da tale potenza. Questo è possibile proprio perché vi è un organo, il Consiglio superiore della magistratura, istituzionalmente preposto a tutelare, contro qualsiasi intromissione ed attacco, l’indipendenza della magistratura. Tuttavia, se il principio della indipendenza viene ad essere leso proprio dall’organismo costituzionalmente demandato a attuarlo, se alla logica del merito si sostituisce quella dell’appartenenza e del favore personale, il rischio è che vi sia una erosione di quella cultura della indipendenza, che ha costituito sino ad ora uno dei valori più condivisibili del patrimonio gelosamente difeso dalla magistratura italiana. L’attuale Consiglio superiore della magistratura è prossimo al termine del suo mandato. Sarà capace di raddrizzare la scadente immagine che sinora ha dato di sé? La trattativa Stato-mafia, il processo dei processi di Enrico Bellavia La Repubblica, 1 dicembre 2017 A processo in corso, a udienze in svolgimento con i magistrati che lo hanno istruito smaniosi di procedere in ordine sparso, chi in politica, chi in un altrove indistinto che non è toga e non è scranno, il processo totem per eccellenza, vive nella narrazione dei commentatori, eccita la voglia di liquidarlo con un titolo a effetto, stuzzica l’eterna smania dei negazionisti. Cavalcato sull’onda di una legittima aspettativa di smascheramento ha rischiato in più di un’occasione, sul terreno dei media, di trasformarsi in una occasione di mascariamento. Così quello della trattativa, il patto tra Stato e mafia che aveva il prezzo dei corpi dilaniati di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e degli uomini e donne chiamati a scortarli, è diventato suo malgrado una specie di simbolo. Un’arma da brandire in un senso e nel suo opposto in primo luogo nell’agone della politica prima che sul terreno della verità. Per giorni e giorni della Trattativa non si è raccontato che il rebus delle telefonate Napolitano-Mancino. Ovvero le suppliche che l’ex ministro dell’Interno rivolgeva all’allora Capo dello Stato per cavarsi dall’impiccio di una accusa di falsa testimonianza sul punto del suo incontro con Paolo Borsellino di cui nulla ricordava. Le telefonate intercettate, custodite e poi distrutte hanno tenuto banco occupando tutta la scena che i media hanno riservato al processo. Chiuso quel capitolo sembra quasi che il dibattimento non sia in corso e la partita sulle verità intorno alle stragi liquidata per sempre. Una distorsione che ha acceso il massimo dei riflettori su una vicenda minore rispetto al cuore del processo. Ma che è servita a trasmettere nell’opinione pubblica l’idea che i mafiosi godano di tali e tante protezioni impenetrabili a ogni sforzo di chiarezza. In quella distorsione risiede il disinteresse di ritorno sul processo Trattativa. Con buona pace di chi quegli accordi li ha stretti per davvero e su quei segreti siede comodo. I “totem” dell’Antimafia, di Attilio Bolzoni Ci sono “verità” che soffocano la verità. Ci sono fatti che vengono scavalcati da fatti che fatti non sono, rappresentazioni fantasiose che si sovrappongono e si confondono, distorsioni della realtà che di bocca in bocca (o di articolo in articolo) si trasformano implacabilmente in certezze. A volte basta anche solo un dettaglio per sotterrare tutto. E quel tutto diventa niente. In questa serie del blog Enrico Bellavia - che ci ha proposto il tema - si inoltra coraggiosamente sul terreno scivoloso dei “totem” dall’Antimafia. Agitati nelle piazze mediatiche, si alimentano misteriosamente e vertiginosamente per interessi indicibili o - più di frequente - per eccesso di retorica e d’ignoranza. Nell’uno e nell’altro caso sollevano polveroni, cortine fumogene che mettono distanza fra il vero e il falso. Attraversano il tempo trasportandosi dietro scorie sotto forma di invenzioni, travisamenti che resistono a perentorie smentite e a sentenze faticosamente raggiunte. Sono feticci che oscurano sempre la scena. E poi quella scena ce la riconsegnano scarnificata, vuota. Gli articoli di Bellavia sono un’occasione per riflettere tutti insieme senza pregiudizi, senza dogmi. Il primo in assoluto di questi totem fu quello sul cosiddetto “terzo livello”, una fantomatica struttura “sopra tutto e tutti” che governava il male e dava ordini alla mafia siciliana. Ci inciampai anch’io da giovane cronista nei primi anni ‘80, dopo una frettolosa lettura di un dossier dell’americana Dea (Drug Enforcement Agency) che parlava appunto di un “terzo livello” di crimine fra i trafficanti ma che nulla aveva a che fare con la Cupola di Cosa Nostra. Invano furono, per mesi e mesi, le precisazioni di Giovanni Falcone sull’inesistenza di un organismo “superiore” al governo della mafia. Noi giornalisti - ci piaceva molto l’idea di una sorta di Spectre che tutto decideva e tutto controllava nel mondo - continuammo imperterriti nell’accreditare quella tesi farlocca ignorando le dinamiche interne e la secolare storia di Cosa Nostra. Ma più mafia e antimafia sono diventate materia di cronaca e più hanno offerto argomenti alla saggistica e più i “totem” si sono moltiplicati. Bellavia ne ricorda una decina, tutti molto rappresentativi di un modo di narrare o di semplificare vicende complesse e non sempre decifrabili attraverso un solo episodio. Soprattutto se poi - quell’episodio - non è mai avvenuto. Ci sono oggetti simbolo come l’agenda rossa di Paolo Borsellino, quella fatta sparire da mani invisibili in via D’Amelio mentre ancora fumavano le carcasse delle auto blindate. Bellavia la chiama la “scatola nera” delle stragi. Tutti i segreti del massacro sono dentro quell’agenda? Tutta la verità sull’uccisione del procuratore sono fra quelle pagine? Un commento è dedicato ad “Autore 1” e “Autore 2”, i due personaggi iscritti nel registro degli indagati per ben tre volte come presunti mandanti delle bombe ai Georgofili di Firenze del 1993. Uno è Silvio Berlusconi, l’altro Marcello Dell’Utri. Sono stati loro a muovere i fili della strategia della tensione o piuttosto sono stati loro - ben graditi a certi ambienti - a fermare le stragi con la loro rassicurante presenza come forza di governo? Un articolo è sul “processo dei processi”, la trattativa. Dalla presenza permanente in prima pagina con le famose telefonate poi distrutte - fra l’imputato ex ministro dell’Interno Nicola Mancino e l’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano - all’oblio totale nonostante le preziose informazioni riversate a ogni udienza in aula. Un ultimo totem: il “bacio” fra Giulio Andreotti e Totò Riina. Ci fu o non ci fu quell’incontro? I giudici hanno detto che non è dimostrabile ma il processo contro l’uomo politico italiano più potente dal dopoguerra - costruito con decine di migliaia di atti che hanno raccontato le vergogne di quella che era “la famiglia politica più inquinata della Sicilia (parole del generale Carlo Alberto dalla Chiesa) - si è giocato su pochi “episodi mediatici”, uno dei quali era proprio la storia del “bacio” fra chi era stato in Italia per sette volte Presidente del Consiglio e chi ammazzava gente per la strada. Un (presunto) maledetto bacio riferito da uno di quei pentiti corleonesi - Balduccio Di Maggio - che poi tornò a sparare nella sua San Giuseppe Jato “protetto” da qualche spione. Ci fu o non ci fu quell’incontro che ha segnato forse il destino di un processo? Non potendo fare altro, in questi anni mi sono rimesso all’intelligenza di un grande attore siciliano, Ciccio Ingrassia. La sua sentenza: “Io non lo so se Andreotti e Riina si sono mai incontrati, ma se si sono incontrati si sono sicuramente baciati”. Alla Cassazione più poteri nel giudizio di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 1 dicembre 2017 Corte cassazione - Informazione provvisoria 25/2017. Alla fine la Corte di cassazione sceglie la linea più innovativa. E chiarisce che l’annullamento senza rinvio è sostanzialmente possibile in tutti i casi in cui non è necessario procedere a nuovi accertamenti di fatto. Anche procedendo in questo modo alla rideterminazione della pena, quando necessario. In questo senso si sono pronunciate ieri le Sezioni unite, con un orientamento che per ora è disponibile solo con l’informazione provvisoria n. 25, in attesa di motivazioni che arriveranno solo tra qualche tempo. Davanti alle Sezioni unite era arrivato un contrasto, sia pure potenziale, sull’interpretazione della norma introdotta, anche per ragioni di economia processuale, da pochi mesi, nell’agosto, con la riforma del processo penale. La legge n. 103 del 2017 ha infatti riscritto l’articolo 620 lettera l) del Codice di procedura penale in una prospettiva di ampliamento dei poteri della Cassazione, prevedendo che l’annullamento senza rinvio può essere pronunciato se la Corte ritiene di potere decidere, non essendo necessari ulteriori elementi di fatto, di rideterminare la pena sulla base delle decisioni del giudice di merito o, ancora, di adottare tutti i provvedimenti necessari, e, comunque in tutti i casi in cui è superfluo un rinvio. La Cassazione, in una prima pronuncia, ha letto la norma sostanzialmente depotenziandone la portata innovativa, come una conferma cioè dell’orientamento consolidato secondo il quale il presupposto perché la Corte possa procedere alla rideterminazione della pena è la semplice possibilità di correggere la decisione senza sostituire giudizi di merito, incompatibili con le attribuzioni della Cassazione stessa. Un’altra interpretazione però è possibile, ed è quella poi seguita dalle Sezioni unite. Quella cioè che, esclusi accertamenti di fatto, questi sì incoerenti con la fisionomia della Cassazione, dà la possibilità alla Corte di intervenire tutte le volte che ha sul tavolo gli elementi per la decisione. Non solo sul fronte della rideterminazione della pena, peraltro. In questo senso viene sposata la linea più innovativa, quella che, per esempio, proprio sul fronte della precisazione della pena, intende lasciare spazio alla Cassazione quando l’accertamento già compiuto nella sentenza impugnata fornisce dati tali da permettere un giudizio. Un potere che è certo espressione di discrezionalità (come peraltro si è fatto notare essere conseguente per l’utilizzo nella riforma del verbo “ritenere”), ma di una discrezionalità che non si spinge sino a compiere nuove verifiche di fatto ma è piuttosto collegata ai parametri già acquisiti nella pronuncia di merito. Misure di prevenzione se il pericolo è attuale di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 1 dicembre 2017 Motivazione rafforzata sull’attualità della pericolosità sociale per applicare una misura di prevenzione personale a un indiziato di appartenere alla mafia. Le Sezioni unite della Cassazione, con l’informazione provvisoria 26, sbarrano la strada alla possibilità di “generalizzare” quando si tratta di fare ricorso alle misure di prevenzione previste dal codice antimafia (Dlgs 159 del 2011, articolo 4). Le Sezioni unite erano state chiamate (ordinanza interlocutoria 48441) il 23 ottobre scorso, dal collegio remittente impegnato in un procedimento che riguardava un commercialista, nei confronti del quale la Corte d’Appello aveva confermato la sorveglianza speciale, ritenendo esistente il presupposto della “pericolosità qualificata” per iscriverlo nella categoria prevista dall’articolo 4 del Codice. Una norma dedicata agli indiziati di appartenere ad un’associazione mafiosa (articolo 416-bis del Codice penale). La pericolosità, secondo il collegio remittente, era stata desunta dagli indizi di “adesione” al clan ma in assenza di una specifica condanna penale e malgrado i precedenti risalenti nel tempo. Per la Cassazione in un caso come quello esaminato il giudice prima di applicare la misura è tenuto ad accertare e a fornire una motivazione “in positivo” a supporto della sua scelta. Di parere diverso era stato il Pg che, nella requisitoria scritta, aveva chiesto il rigetto del ricorso, chiarendo che per motivare l’attualità della pericolosità, basta l’avvenuta iscrizione nella particolare categoria normativa degli appartenenti alla “cosca”, senza alcuna “spiegazione” particolare del giudice di merito sul punto. Al contrario, per la Sezione remittente, ad imporre una maggiore chiarezza c’è anche la Sentenza De Tommaso, con la quale la Corte europea dei diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia proprio per l’eccessiva genericità delle norme del Codice antimafia per la parte in cui impongono, con la sorveglianza speciale, il precetto del “vivere onestamente” e “rispettare le leggi”. Il rinvio alle Sezioni unite si rendeva quanto mai opportuno vista la nutrita giurisprudenza in linea con la tesi del Pg, secondo la quale esisterebbe una presunzione “ex lege” per chi è inquadrabile nella categoria prevista dall’articolo 4 del Codice, che consentirebbe di non approfondire il tema dell’attualità della pericolosità. Ma la Cassazione ieri ha negato che sia così aderendo, presumibilmente, all’argomentazione della sezione remittente secondo la quale nei casi come quello esaminato si può parlare di presunzioni semplici, derivanti dalla formalizzazione di massime di esperienza su base logica. Davanti alle quali il giudice ha un obbligo di motivazione rafforzata. Droghe leggere, pena sospesa dopo la decisione della Consulta di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 1 dicembre 2017 Tribunale di Bologna - Ordinanza 7 novembre 2017 n. 446. Il Tribunale di Bologna con una innovativa ordinanza, emessa il 7 novembre scorso n. 446, dopo aver rideterminato in modo favorevole al reo la pena per traffico di hashish, sulla base della sentenza della Corte costituzionale che ha dichiarato l’incostituzionalità della Fini Giovanardi laddove metteva sullo stesso piano droghe leggere e pesanti, ha - al termine di un giudizio complessivo del reato e della condotta successiva - accolto la richiesta di sospensione condizionale della pena, con conseguente immediata cessazione anche dell’affidamento in prova al servizio sociale in atto. A seguito di rito abbreviato il Gup di Bologna, decisione confermata dalla Corte d’Appello e divenuta irrevocabile, aveva condannato il ricorrente a 2 anni e 8 mesi di reclusione per il reato di cui all’articolo 73 comma 5 del Dpr 309/1990 concernente stupefacente di tipo hashish, commesso a Bologna nel 2006. Nel settembre di quest’anno il difensore, a seguito della sentenza n. 34/2014 della Corte Costituzionale, ha chiesto al giudice dell’esecuzione di procedere ad una nuova determinazione della pena e di concedere al condannato la sospensione condizionale. L’effetto della dichiarazione di incostituzionalità, ricorda la decisione, è stato quello di far rivivere la precedente normativa in tema di sostanze stupefacenti che prevedeva la distinzione tra le cosiddette “droghe pesanti” e “droghe leggere” e, per queste ultime, un trattamento sanzionatorio più attenuato rispetto a quello applicato nella sentenza emessa a carico del condannato. È principio generale dell’ordinamento, prosegue l’ordinanza, quello secondo cui “la restrizione della libertà personale del condannato deve essere legittimata, durante l’intero arco della sua durata, da una legge conforme a Costituzione e deve assolvere la funzione rieducativa imposta dall’art. 27, Cost”. Mentre la declaratoria d’incostituzionalità incide su entrambi i profili, “rendendo illegittima la condizione del detenuto condannato in forza di una legge contraria alla Costituzione ed imponendo quindi una compressione del principio della c.d. intangibilità del giudicato”. In questo senso “le ragioni di certezza del diritto e stabilità nell’assetto dei rapporti giuridici che presidiano tale principio non possono bloccare l’istanza di legalità della pena che, in fase esecutiva, deve ritenersi costantemente sub iudice, senza che il dato formale del giudicato possa essere di ostacolo alla tutela del diritto inviolabile e fondamentale della libertà personale”. Se questo principio, argomenta ancora il giudice Rita Zaccariello, trova applicazione immediata (ai sensi dell’articolo 2 c.p.) nel caso di abolitio criminis (cui consegue la revoca della sentenza di condanna e dell’esecuzione della pena; S.U. 1821/2013), “è evidente che anche la dichiarazione di incostituzionalità della legge nella parte relativa alla sanzione determini in capo al giudice l’obbligo di procedere alla rideterminazione della pena altrimenti illegittima”. Per cui la pena è stata rideterminata in 1 anno e 4 mesi di reclusione ma soprattutto, e qui è la novità della decisione, il giudice dell’esecuzione “avuto riguardo all’epoca risalente del commesso reato e alla regolare condotta di vita successiva, in assenza di elementi ostativi” ha accolto anche la richiesta di sospensione condizionale della pena. Parcheggiare l’auto troppo vicino ad altra può fare scattare la violenza privata di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 1 dicembre 2017 Corte di cassazione - Sezione V civile - Sentenza 30 novembre 2017 n. 53978. Parcheggiare l’auto a pochi centimetri da un’altra, impedendo così al conducente della macchina ferma di poter regolarmente uscire dal proprio sportello configura violenza privata. Lo chiarisce la Cassazione con la sentenza n. 53978/2017. La Corte si è trovata alle prese con una vicenda decisamente particolare ma che di fatto - nel caos cittadino - si può realizzare con una certa frequenza. La vicenda - Un cittadino “facendo uso improprio della propria autovettura che parcheggiava nei pressi dell’auto su cui sedeva la persona offesa a distanza tale (pochi centimetri) da non consentire al conducente di scendere dal suo lato, costringeva quest’ultimo a dover scendere da lato passeggero”. A nulla è valso l’appello con cui l’imputato ha eccepito di non aver parcheggiato la macchina in quel punto, ma di averla posta in prossimità di altra auto per discutere con il conducente della stessa. Il ricorrente ha dedotto di aver effettuato questa manovra al fine di affrontare il conducente dell’altra auto che a suo dire aveva pesantemente minacciato la propria moglie e suocera. La Cassazione ha rigettato l’appello in quanto ai fini della configurabilità della violenza privata, il requisito della violenza si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l’offeso della libertà di determinazione e azione. Si legge espressamente nella sentenza che secondo la ricostruzione della sentenza impugnata, il ricorrente posizionandosi con la propria vettura a pochi centimetri dello sportello lato autista dell’autovettura della persona offesa, la quale, per la presenza di autovetture parcheggiate avanti e dietro, non poteva in alcun modo spostarsi, ha costretto la stessa parte offesa a scendere dal proprio mezzo per affrontarlo in una discussione. Bocciata la tesi del ricorrente - La Corte non ha accolto nemmeno la tesi dell’appellante secondo cui la persona offesa poteva uscire dalla parte opposta in quanto ciò è sufficiente a condizionare la libertà di autodeterminazione e movimento della persona offesa. Le offese, infine, a moglie e suocera sono state eccepite solo in fase di legittimità e quindi non giudicabili. La Cassazione così ha respinto il ricorso e confermato il reato di violenza privata. Gorizia: l’ex scuola allarga gli spazi in carcere di Stefano Bizzi Il Piccolo, 1 dicembre 2017 “Diamo maggior dignità alla vita dei detenuti ma anche del personale del carcere di via Barzellini “incamerando”, nella struttura penitenziaria, gli spazi dell’ex scuola “Pitteri”. Il passaggio centrale della lettera inviata dal sindaco di Gorizia Rodolfo Ziberna al ministro della Giustizia Andrea Orlando è stato ricordato ieri mattina dal primo cittadino nel corso del convegno “A scuola di libertà” organizzato dalla Conferenza nazionale volontariato Giustizia per le scuole superiori della città. Nell’occasione, Ziberna ha evidenziato come l’intervento di ampliamento degli spazi nell’ex scuola Pitteri “andrebbe incontro ai progetti di recupero delle persone che, in seguito ai loro errori, sono finite in prigione e alle quali è giusto dare un’altra chance”. Intorno al recupero della struttura di via Barzellini si discute ormai da decenni. Qualcosa è stato fatto, ma molto ancora c’è da fare. Attualmente sono detenute 56 persone e gli agenti di polizia penitenziaria sono 27 (a fronte di una pianta organica che secondo quanto riferito dai sindacati a inizio settembre dovrebbe contarne 43). Delle tre sezioni, la prima è in stato di totale degrado. Qui l’umidità è ovunque e le celle vengono utilizzate solo in casi di estrema necessità (isolamento o custodia cautelare in attesa della convalida di un fermo da parte del magistrato). La seconda sezione può contare solo su due celle, ma almeno queste sono rinnovate: c’è l’acqua calda ed è possibile preparare qualcosa da mangiare. Acqua calda e possibilità di mettere a scaldare dell’acqua o una moka c’è anche in due delle otto celle della terza ed ultima sezione. Nelle rimanenti sei: acqua fredda e bagni interni. Quanto al parlatorio per i colloqui con i familiari e con i legali, l’ambiente è stretto e non consente privacy. La cucina, invece, si trova nei sotterranei e, oltre all’aria, mancano il gas e il forno. I fornelli sono elettrici e non c’è neppure una mensa per il personale. In compenso, la cappella è stata recentemente restaurata grazie al corso “tecniche di finitura” promosso in collaborazione con la Formedil di Gorizia e ci sono due aule per fare lezione e una biblioteca. La situazione generale è però di degrado. Per questo il sindaco, dopo il colloquio avuto con una delegazione della Uil Polizia Penitenziaria, ha preso carta e penna è ha scritto a Roma. Nella lettera, il primo cittadino ha invitato il ministro a visitare sia la casa circondariale, sia l’ex scuola elementare di via Cappuccini. “Proprio questa struttura - ha sottolineato Ziberna - qualora fosse acquisita dalla Direzione carceraria, garantirebbe maggiore dignità ai detenuti e agli operatori della Casa circondariale”. Oggi, tanto gli uni, quanto gli altri sono costretti a vivere in spazi non più adeguati alle reali esigenze di oggi. “Grazie a tale ampliamento, sarebbe possibile disporre di una struttura moderna in cui i detenuti potrebbero finalmente svolgere tutte quelle attività funzionali ad un loro futuro reinserimento all’interno della società”, ha detto Ziberna aggiungendo: “Spostando alcuni uffici nella ex scuola, infatti, si potrebbero liberare degli spazi interni al carcere, destinandoli, per esempio, alla formazione professionale dei detenuti, alle attività ludiche e di apprendimento, con la realizzazione di una biblioteca interna, di un refettorio, di una nuova cucina e di luoghi idonei ai colloqui con i familiari e con gli avvocati. Inoltre, all’interno della “Pitteri”, potrebbero venire attivati dei servizi che attualmente risultano essere carenti, se non addirittura del tutto assenti, quali quelli legati alla sala mensa per il personale della Polizia penitenziaria, alla caserma e alla palestra per gli agenti, agli alloggi per il direttore e il comandante, al magazzino per il vestiario e alla sala di lettura per il personale”. “Tale ottimizzazione degli spazi comporterebbe un fondamentale miglioramento della permanenza dei detenuti, come anche del clima lavorativo degli operatori che lamentano criticità legate alle condizioni dell’attuale struttura, degli arredi e delle attrezzature messe a loro disposizione”, si legge sempre nella missiva al ministro. Il progetto richiederebbe una spesa che si aggirerebbe intorno ai 4 milioni di euro, ma secondo il sindaco, consentirebbe, inoltre di incrementare il numero di operatori, con riferimento, soprattutto a quelli della Polizia penitenziaria, che oggi risultano essere ampiamente sotto dimensionati. E, a questo proposito, nell’occasione il sindaco non ha dimenticato di comunicare al ministro “la profonda preoccupazione del personale che opera all’interno della struttura carceraria di Gorizia che si trova, come già evidenziato, ad operare in una situazione di forte sotto organico, costringendo gli operatori a turni di lavoro massacranti, divenuti oramai insostenibili”. Gorizia: don Alberto De Nadai, al lavoro fuori e dietro le sbarre di Stefano Bizzi Il Piccolo, 1 dicembre 2017 Il Garante dei detenuti, 85 anni, spesso li accoglie in casa. E sulle guardie carcerarie: “Poche e con turni pazzeschi”. “Anche il carcere ha una sua storia”. Don Alberto De Nadai entra ed esce dalla casa circondariale di Gorizia ogni giorno. In qualità di garante per i diritti delle persone private della libertà, può fermarsi in cella a chiacchierare con i detenuti. Loro, quando lo vedono, lo invitano a prendere un caffè e lui accetta sempre volentieri l’invito. Sa che hanno bisogno di parlare con qualcuno e di riempire il tempo immobile di quel non luogo che è il carcere. Lui ascolta senza giudicare. Non chiede mai i motivi per cui sono rinchiusi. Cerca solo di portare un po’ di sollievo e conforto. “Non sono un giudice e non sono neppure uno psicologo, anzi non sono niente, forse non sono nemmeno un prete”, dice. A 85 anni di storie da raccontare, don Alberto, ne ha molte e alcune le ha ricordate ieri mattina ai ragazzi delle scuole superiori di Gorizia dal palco del Teatro Verdi perché dietro le mura di via Barzellini ci sono persone e tutte hanno qualcosa da raccontare. E se non possono farlo in prima persona, hanno bisogno di qualcuno che lo faccia per loro conto. Lì dentro ci sono anche persone che, per un motivo o per un altro, non dovrebbero scontare la pena in carcere ma non hanno un luogo alternativo dove andare ai domiciliari. E poi ci sono detenuti che, una volta fuori, non hanno un tetto sotto cui dormire. Per tutti loro, quando è possibile, c’è casa sua. “Abbiamo costruito un corridoio umanitario”, racconta ricordando, per esempio, il caso del detenuto transessuale che nessuno sapeva dove mettere e come trattare. Messo in una cella da solo voleva lasciarsi morire. Alla fine lo ha preso in carico lui. E don Alberto, accanto a questo caso, ha raccontato anche quello della compagna di un altro detenuto: la coppia viveva fuori regione e lei aveva partorito da poco. Doveva fermarsi un fine settimana, invece è rimasta fino al termine della pena del marito. O ancora, ha raccontato del 75enne che, a causa delle sue precarie condizioni fisiche, non poteva neppure scendere le scale per l’ora d’aria. “Ora sta con me e io che ho dieci anni più di lui gli faccio da badante. Ma lui fa un risotto alle erbe che è la fine del mondo”. Di storie di umanità don Alberto ne potrebbe raccontare a centinaia anche perché a subire il carcere non sono solo i detenuti. A subirlo ci sono anche gli agenti di polizia penitenziaria, costretti a turni sempre più serrati e massacranti. “Le guardie sono poche e hanno turni pazzeschi. Alle volte finiscono a mezzanotte e riprendono alle 8 del mattino. Tutto è stretto e terribile anche per gli agenti: c’è chi è sempre disponibile e caro e chi si porta dietro i problemi personali e alle volte scatta, ma sono esseri umani anche loro”. E se gli agenti di custodia sono pochi, a dare una mano è il volontariato. Al martedì e al giovedì pomeriggio, per esempio, c’è il laboratorio di rilegatura con due insegnanti. “Purtroppo possono seguire il corso solo in quattro perché mancano gli spazi. Per Natale stiamo preparando un attività per i figli dei detenuti. Sono attività semplici, ma sono importanti perché sottolineano l’aspetto umano delle persone”, conclude don Alberto. Santa Maria Capua Vetere (Ce): “carcere senza condotta idrica”, la denuncia del Garante larampa.it, 1 dicembre 2017 Nella giornata di ieri è continuato negli istituti penitenziari campani il viaggio del Garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello. La tappa è stata la casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere, dove sono ristretti 960 detenuti, di cui 60 donne. Il Garante dopo aver avuto 7 colloqui individuali con detenuti che avevano fatto richieste ha visitato la sezione Volturno (detenuti comuni), la Tevere (alta sicurezza), il reparto Nilo dove sono presenti 70 detenuti comuni e il primo piano della sezione femminile. Ha incontrato altresì operatori e detenuti dell’articolazione psichiatrica dove sono presenti 17 ristetti. Per il garante Ciambriello: “Ci sono tre criticità evidenti: buona parte dei detenuti vivono una distanza siderale dal luogo di residenza della famiglia in netto contrasto con il dettato normativo dell’ordinamento penitenziario che ribadisce la necessità di predisporre programmi di intervento con la famiglia con gli avvocati e quindi con un programma trattamentale alternativo alla detenzione”. Seconda criticità: “Malgrado siano state stanziate le risorse dalla Regione, ad oggi il comune ha provveduto solo alla progettazione per la realizzazione di un impianto idrico. Da gennaio partirà la realizzazione appalto dell’impianto, quindi ancora tempi lunghi e la certezza che nel periodo estivo anche dell’anno prossimo ci saranno problemi idrici in tutto l’istituto”. Infine, i detenuti e gli agenti di polizia penitenziaria hanno protestato con il garante e con il suo staff lamentando sia i disagi provocati dai ripetuti black out di energia elettrica sia della qualità dell’acqua proveniente dai pozzi, in molti casi, dai rubinetti escono residui di impurità che la rendono scura, gialla, certamente non potabile. L’amministrazione penitenziaria approvvigiona quotidianamente due litri di acqua al giorno per uso personale e per cucinare. Ciambriello ribadisce come più volte sottolineato che “la pena detentiva viene più volte aggravata dalla sommatoria di disagi e disfunzioni cui vengono afflitti i detenuti. Sembra che si aggiunga pene detentiva e pena afflittiva. Si può costruire un carcere senza condotta idrica?”. Firenze: a Sollicciano nuovo reparto di accoglienza detenuti, visita sottosegretario Ferri gonews.it, 1 dicembre 2017 Il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Maria Ferri ha visitato la Casa Circondariale “Sollicciano” di Firenze in occasione dell’inaugurazione del reparto di accoglienza dei detenuti completamente ristrutturato, effettuando un sopralluogo nei locali ed intrattenendosi con i presenti. La sezione detentiva è costituita da 11 camere detentive che possono ospitare circa 25 detenuti che fanno ingresso in Istituto come arrestati o assegnati da altro Istituto. Nel reparto sono stati realizzati 2 ambulatori per le attività di medicina di base curate dalla Asl, una stanza per i colloqui medici, psicologici e psichiatrici degli operatori sanitari e altri due locali ad uso del personale penitenziario. A margine della visita, che ha visto la presenza, tra gli altri, del Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze Marcello Bortolato, del presidente vicario della Corte d’Appello di Firenze Barbarisi, del magistrato di sorveglianza Claudio Caretto, del magistrato Christine Von Borries, del provveditore regionale e di tutti i vertici aziendali della Asl competente, Ferri ha dichiarato: “L’inaugurazione del Reparto di Accoglienza nella Casa Circondariale di Sollicciano è una testimonianza concreta del lavoro svolto in sinergia tra Istituzioni Penitenziarie e Sanitarie che ha consentito di creare uno spazio di autentica accoglienza per coloro che entrano nell’istituto penitenziario. È importante che i detenuti non si sentano soli e siano assistiti sin dai primi momenti in modo da individuare il reparto più adatto alla loro situazione giuridica e sanitaria dove compiere il percorso rieducativo. Ringrazio la Polizia Penitenziaria, tutto il personale ed il volontariato per il servizio che prestano quotidianamente a tutela non solo di sicurezza ed ordine ma anche umanità, dignità e trattamento risocializzante. L’impegno del Governo è costante per realizzare un sistema di pena diverso, con più spazi di condivisione e aree trattamentali all’interno delle strutture penitenziarie che garantisca assistenza e cura per i detenuti e consenta di compiere il reinserimento sociale”. Arezzo: presto un giardino per incontri sereni tra detenuti e figli di Nadia Frulli arezzonotizie.it, 1 dicembre 2017 Il direttore del carcere aretino Paolo Basco ha annunciato una novità che riguarda la casa circondariale “San Benedetto”, che da tempo è sottoposta a lavori di ristrutturazione. Un post su Facebook che ha raccolto tanti like e tanti commenti positivi. “A cosa sto pensando? Che domenica 26 Novembre al Castello di Valenzano è successo un miracolo”. Così il direttore del carcere aretino Paolo Basco ha annunciato una novità che riguarda la casa circondariale “San Benedetto”, che da tempo è sottoposta a lavori di ristrutturazione. Un post su Facebook che ha raccolto tanti like e tanti commenti positivi. Ma cosa ci sarà nel futuro della struttura? “Costruire un’area verde - scrive Basco - nel carcere di Arezzo, un piccolo giardino con tante piantine e fiori, per far incontrare i figli dei detenuti in un ambiente sereno, dove si potrà abbracciare il proprio cane, e giocare come fosse un mondo normale il carcere”. Una novità sulla quale importanza il direttore si sofferma con enfasi: “Tutto questo sembra poco per chi è fuori e può andare al Parco Giotto e godere dei prati, ma per chi non vede che muri e cemento, porte chiuse e cancelli di ferro, sbarre alle finestre, non è la stessa cosa, anche una piantina piccola o un fazzoletto di terra diventano un grande giardino. Ebbene ho trovato i soldi e il progetto è pronto. Devo ringraziare tante persone. In particolare Marino Franceschi che ha sostenuto totalmente le spese del pranzo, gli amici presidenti e soci del Rotary e del Lions Club di Arezzo e Casentino, con speciale riferimento al dr. Ridolfo e dr. Pecci, l’arch. Pennacchini per il progetto dell’area, la mia diretta collaboratrice dott.ssa Fabiola Papi, i volontari intervenuti e con particolare gratitudine, la laurenda Francesca Bacci che ha curato l’attività di segreteria e di coordinamento, ed infine il cabarettista Daniele Cangi e in special modo i miei amici musicisti delle band Franco e i Coralli e Il Quadro d’Autore che hanno allietato la giornata”. Il “miracolo” del quale parla Basco “consiste nel fatto che in un solo evento sono stati raccolti ben € 3.350 e altri 350 sono in arrivo come regalo di Natale. E vi pare poco? Racconto tutto questo per ricordare a tutti gli amici che bisogna credere negli altri ed avere fiducia nelle nostre idee, quando chiediamo per qualcosa di serio e di buono le risposte arrivano ed i sogni si avverano, Non è vero? Io ci ho sempre creduto e domenica ho avuto la conferma che investire in fiducia nell’essere umano è un ottimo affare. Credeteci”. Caserta: “educazione alla legalità”, magistrati e detenuti sul palco Il Mattino, 1 dicembre 2017 Per la prima volta, al Teatro Garibaldi, si esibiscono sullo stesso palco magistrati di sorveglianza e detenuti. L’evento, organizzato nell’ambito del protocollo di intesa “Educazione alla Legalità”, è in programma domani alle 20 a Santa Maria Capua Vetere. In questo contesto la città di Santa Maria Capua Vetere ha inteso essere protagonista di questa significativa esperienza promossa e organizzata in sinergia tra l’ufficio di Sorveglianza e il Comune di Santa Maria, in collaborazione con il dipartimento di Giurisprudenza della Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli, con il patrocinio della struttura territoriale per il distretto di Corte di Appello di Napoli. Si tratta di una sorta di reading che, allo stesso tempo, si estende al canto ed alla prosa recitata. Prevede anche il coinvolgimento di circa cinquanta studenti sammaritani che, nelle ultime settimane, hanno partecipato agli incontri tenuti in sala consiliare dai magistrati Filomena Capasso, Lucia De Micco e Marco Puglia sul principio costituzionale della finalità rieducativa della pena finalizzati a consentire agli stessi ragazzi di partecipare all’evento presso il Teatro Garibaldi con maggiore consapevolezza rispetto ai temi trattati. È un viaggio nella evoluzione stessa del concetto di detenzione che passa attraverso le opere di Raffaele Viviani, Bob Dylan, Konstantinos Kavafis, Giorgio Gaber per raccontare cosa ha significato in passato e cosa oggi significhi l’esperienza carceraria. Questa performance racchiude un messaggio: siamo tutti attori, nessuno escluso, del destino della nostra società. Solo esibendoci insieme, possiamo plasmarlo e modellarlo nel perseguimento del bene comune. Lo spettacolo, con la regia di Marco Puglia, prevede la partecipazione, in rigoroso ordine alfabetico, di: Alberto Brando, Milena Capasso, Felicia Carfora, Lucia De Micco, Vincenzo De Simone, Pasquale Di Palma, Giuseppe Donnarumma, Fiorella Federici, Massimiliano Foggia, Oriana Iuliano, Vincenzo Maglione, Filippo Morace, Giacinto Nacaroma, Carlo Palumbo, Francesco Polito, lo stesso Marco Puglia, Giovanna Tesoro e Maria Vaia. Direttore di scena Francesco Mercone, organizzazione logistica Lorenzo D’Amico, supervisione musicale Filippo Morace e Fiorella Federici, elementi scenici Pasquale Di Palma. L’evento verrà inoltre trasmesso in diretta streaming sul canale Kairos Tv dell’arcidiocesi di Capua. Milano: basta andare “InGalera” per mangiare bene di Gianni Barbacetto Il Fatto Quotidiano, 1 dicembre 2017 Ho assistito a strane conversazioni, a Milano. “Non vedo l’ora di riuscire ad andare in galera”, diceva una giovane donna a un’amica, “tu sei riuscita ad andarci?”. “No”, rispondeva affranta la ragazza, “ho provato un paio di volte, ma non ci sono riuscita”. A quel punto si univa alla conversazione l’uomo che le accompagnava: “Ma dovete prenotare per tempo. Io l’ho fatto e in galera ci sono riuscito ad andare. Vale la pena, ve lo consiglio”. Ho dovuto, con un po’ di faccia tosta, intromettermi nel surreale dibattito, per capire che la galera di cui parlavano aveva la G maiuscola e che la dizione giusta è così: InGalera, “il ristorante del carcere più stellato d’Italia”. È un’idea lanciata nel 2015 da Silvia Polleri, la milanese che è riuscita a rendere chic e molto amato dai milanesi il ristorante aperto all’interno del carcere di Bollate, a un passo da Milano. Tanto amato che i tavoli vanno prenotati con un po’ di anticipo. “Ho voluto chiamarlo proprio così, InGalera, usando l’espressione diretta, senza buonismi, senza politicamente corretto”, racconta. Se voleva aiutare le persone che stanno in carcere e, nello stesso tempo, cambiare l’idea che ha del carcere chi sta fuori, ebbene c’è riuscita, anche grazie alle esperienze iniziate nel 2004 dal direttore del carcere Lucia Castellano. “Volevo alleggerire questo luogo che evoca solo paura. Ora mi sento dire da molti: “Finalmente sono riuscito a venire InGalera e questo mi fa sorridere, ma mi fa anche pensare che forse una piccola rivoluzione l’abbiamo iniziata”. Camerieri in guanti bianchi, servizio di una gentilezza e professionalità difficili da trovare in tanti locali alla moda della nuova “Milano da mangiare”, piatti ottimi e mai banali. Un vero ristorante dove si mangia bene. Sul menu, prima dei piatti, si legge: “Benvenuti nel ristorante InGalera! Perché proprio qui? Da molti anni lavoriamo insieme a persone che per cause differenti si trovano in esecuzione di pena detentiva; ognuno di loro uscirà e la nostra, la loro ambizione, è tornare nella società con la “patente” e la dignità del cittadino che rispetta le regole. Nel tempo abbiamo imparato che la recidiva diminuisce straordinariamente quando il carcere favorisce occasioni di formazioni professionali e occupazioni di lavoro vero, quello che trasmette la “cultura del lavoro”, fatta di professionalità, di fatica e orgoglio nel quotidiano perché, pur detenuti, si contribuisce a mantenere la famiglia. Noi ci proviamo... E ora questo luogo unisce davvero, con la vostra presenza, la città con il carcere. Tutti noi, esterni e interni, ci impegneremo ogni pranzo e ogni cena per accogliervi e ristorarvi e permettervi di ricordare con piacere il tempo trascorso con noi. E ora, il momento è solo vostro”. Silvia Polleri da 14 anni ha organizzato una cooperativa di carcerati che fanno catering in giro per la città. Anche qui, camerieri in guanti bianchi, cibo di qualità e servizio impeccabile. “E stipendi dignitosi. Facciamo un lavoro vero, retribuito con trasparenza, che offre un buon curriculum a chi domani uscirà dal carcere e potrà più facilmente trovare una buona occupazione. La società non pensa che il carcere sia una sua parte, non pensa che le persone commettono i reati, ma non sono il reato commesso. Ecco, il ristorante InGalera è un primo passo per ribaltare la situazione: di solito il carcere chiede servizi alla città, questa volta ribaltiamo i luoghi comuni e offriamo noi un servizio alla città. Un servizio di alta qualità. La città entra in carcere e vede che qui InGalera ci sono persone che si impegnano per uscire migliori di prima”. Cremona: il cinema entra in carcere, proiezioni e dibattiti Cremona Oggi, 1 dicembre 2017 “Cinema e Carcere”, questo il titolo del progetto di durata biennale, presentato stamattina presso la Sala Consiglio alla presenza del presidente della Provincia di Cremona, Davide Viola, del dirigente Antonello Bonvini, funzionari del settore Cultura della Provincia, tra cui Giorgio Brugnoli, della direttrice della Casa Circondariale, Maria Gabriella Lusi e del Coordinatore degli educatori e responsabile dei progetti nel carcere Giuseppe Novelli. Un’iniziativa sorta in collaborazione tra la Provincia di Cremona e la Casa Circondariale di Cremona che vuole coniugare arte cinematografica, cultura e rapporto del carcere con il territorio. Come ha evidenziato il presidente della Provincia, Davide Viola, “il progetto è stato per ora varato e programmato con un arco di durata biennale in cui, al primo anno fanno capo attività di avvio, presentazione e proiezioni in carcere di opere cinematografiche sul tema, nel secondo anno c’è l’ambizione di realizzare un lungometraggio sulla realtà carceraria di Cremona e il suo impatto sul territorio, comprensivo anche delle interazioni complesse e positive che nel corso degli ultimi anni sono state intessute”. Ha continuato Viola: “I motivi, le ragioni, i significati e il senso di questo progetto presentano evidenze positive di immediato impatto quando si pensi che la portata sociale di questo lavoro mira a riconoscere, analizzare e consolidare il rapporto di una realtà che nella sua intrinseca criticità e drammaticità è tutt’altro che isolata in un territorio per il quale lavora e dà lavoro, ospita personale di amministrazione e di servizio e le loro famiglie, oltre che naturalmente detenuti e anche loro famigliari. La valenza culturale del progetto invece è data insieme dal mezzo, lo strumento, il mediatore culturale e canale veicolatore di contenuti e significati: il cinema e la sua caratteristica di unire arte, finzione, realtà e rappresentazione, ma anche dalla finalità del progetto di portare cultura del carcere in carcere e fuori dalle sue mura, perché il carcere esprime una sua cultura e vive una sua fruizione culturale”. Di ugual tenore le parole della direttrice della Casa Circondariale, Maria Gabriella Lusi che ha preso spunto per identificare la mission del progetto un murales all’interno del muro di cinta, che identifica una sorta di finestra sulla città e sul territorio, con rappresentate scene di vita quotidiana. La Casa Circondariale di Cremona ha sempre avuto una sguardo particolare al territorio e viceversa: da qui i buoni frutti che si stanno raccogliendo dei numerosi progetti formativi, culturali avviati all’interno del carcere, dove il progetto cinema e carcere rientra, divenendo esso stesso veicolo di riflessioni ed opportunità di approfondimenti a fini didattici e pedagogici nonché di sensibilizzazione. Giorgio Brugnoli è entrato nel merito tecnico del progetto, presentando il primo film “Fiore”, una nuova cinematografia italiana, che nel caso specifico, fa emergere quanto avviene in un carcere minorile sotto differenti aspetti e che andrà in onda il prossimo 5 dicembre alle 9.30 all’interno della stessa Casa Circondariale di Cremona. Un progetto culturale e cinematografico, che vedrà anche proiezioni al di fuori delle mura del carcere coinvolgendo le scuole, con momenti di riflessione dedicati. Il coordinatore degli educatori e responsabile dei progetti nel carcere Giuseppe Novelli ha rappresentato le molteplici attività aggregative, culturali, artistiche, scolastiche e formative avviate, contesto in cui rientra il medesimo progetto, con la finalità di instillare un qualcosa che possa contribuire a generare un cambiamento ed un differente modo di vede le cose da parte degli stessi detenuti. Per l’anno 2017 è prevista la proiezione di 2 film presso la Casa Circondariale di Cremona prevedendo anche proiezioni gratuite rivolte agli studenti delle scuole medie superiori ed una serale aperte alla cittadinanza. Il primo film che verrà presentato (i primi giorni del mese di dicembre 2017) sarà “Fiore”, per la regia di Claudio Giovannesi e la partecipazione di Valerio Mastandrea, una proiezione importante che pone l’attenzione sulle problematiche dei detenuti con particolare riferimento ai periodi di detenzione nei carceri minorili. Tutti i film verranno adeguatamente introdotti e nel dopo proiezione sarà possibile aprire anche un confronto e tutti gli approfondimenti necessari che potrebbero proseguire nei giorni successivi in un confronto più ristretto all’interno del carcere. Infine, per l’anno 2018 sono previste 5 proiezioni ed a completamento di questa importante esperienza verrà realizzato un cortometraggio sulla relazione tra Casa Circondariale e territorio. Roma: Radio Vaticana, i detenuti di Rebibbia commentano il Vangelo romasette.it, 1 dicembre 2017 Una striscia quotidiana, a partire dal 3 dicembre - prima domenica d’avvento, che vede protagonisti 11 detenuti della sezione penale: “Non identificare la persona con l’errore commesso”. A partire dal 3 dicembre prossimo, prima domenica d’Avvento, andrà in onda su Radio Vaticana Italia “Il Vangelo dentro”, una striscia quotidiana che vede protagonisti 11 detenuti della Sezione penale della Casa di Reclusione Rebibbia a Roma. La rubrica, della durata di circa sei minuti, prevede la lettura e il commento del Vangelo del giorno durante uno dei periodi più forti dell’anno liturgico, l’Avvento. L’obiettivo - spiegano i promotori dell’iniziativa - è quello di “contribuire a risolvere un grosso equivoco: non identificare, all’interno del carcere, la persona che abbiamo di fronte con l’errore che ha commesso”. Spesso, infatti, la società tende a considerare il detenuto un emarginato o comunque una persona che va condannata al di là dei suoi sentimenti e delle sue esigenze. Per loro, quindi, il carcere inizia molto prima della detenzione vera e propria e non finisce certo nel momento in cui si riacquisisce la libertà. “Affinché la pena sia feconda deve avere un orizzonte di speranza, altrimenti resta rinchiusa in se stessa ed è soltanto uno strumento di tortura”, ha sottolineato Papa Francesco nel videomessaggio inviato al Centro di studenti universitari del Complesso penitenziario federale di Ezeiza, in Argentina. “Speranza di reinserimento sociale, e per questo, formazione sociale, guardando al futuro”. “Il Vangelo dentro”, vuole essere “un piccolo contributo di pastorale carceraria, che si pone come obiettivo quello della diffusione e della conoscenza delle problematiche del carcere, con l’intendimento di stimolare il dibattito e di accrescere la sensibilità intorno alle tematiche connesse alla vita dei suoi ospiti”. Si può ascoltare il “Vangelo dentro” su 103.8FM e 105FM a Roma e provincia. In tutta Italia, sul canale tv 733 e sulla radio digitale DAB+ Neutralità della rete: è la morte di Internet? di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 1 dicembre 2017 Tra poche settimana verrà approvata negli Usa una riforma che potrebbe cambiare le regole di Internet. Il primo passo, forse, verso, una regolamentazione della rete. Se l’espressione net neutrality non vi dice nulla e il nome Ajit Pai ancora di meno, sappiate che questo avvocato figlio di urologo e di un’anestesista arrivati dall’India, scelto da Donald Trump per guidare la FCC (la Commissione federale per le comunicazioni) potrebbe entrare nelle vostre vite cambiando le regole di Internet e in futuro, forse, anche il modo di operare delle reti sociali.Giorno X: il 14 dicembre. Fra due settimane la Commissione (dominata dai repubblicani) approverà la riforma Pai che abolisce le norme varate nel 2005 (nell’era Bush) e poi rafforzate con Obama per garantire uguale trattamento a tutti su Internet da parte dei fornitori dei servizi di comunicazione. I proprietari delle “autostrade” della rete (società di tlc e cable tv), fin qui tenuti a comportarsi come utility che forniscono acqua o elettricità, saranno liberi di preferire gli utenti che pagano di più e di accelerare o rallentare la trasmissione dei dati con l’unico vincolo di rendere nota la loro scelta, motivandola. Un successo colossale per le società di tlc che si sentivano vampirizzate da chi, come Netflix, mangia la loro banda larga coi film in streaming, ma che negli Usa hanno ricreato dei monopoli locali di fatto. E una sconfitta per i giganti del web, da Google a Facebook. Ma la battaglia furibonda di questi giorni con le stelle di Hollywood molto più attive delle società della Silicon Valley nel contestare Pai e il gioco di specchi che si è messo in moto, aprono scenari diversi. Quello del capo della FCC potrebbe essere solo un primo passo - forse un passo falso studiato a tavolino - per arrivare a una più ampia regolamentazione della rete. La riforma (che comunque dà nuovi poteri alla Federal Trade Commission) potrebbe essere impugnata dai tribunali per mancanza di motivazioni sufficienti. A quel punto toccherebbe al Congresso, fin qui rimasto in disparte, intervenire e regolamentare approfittando dell’attuale debolezza politica della Silicon Valley. Coi suoi duri attacchi al ruolo di disgregazione sociale di Twitter e degli altri social, Pai sembra voler prendere questa direzione. Altri notano che i giganti della rete hanno ormai le spalle larghe: possono pagare e non verranno marginalizzati. I guai saranno per le start up: niente più sfidanti per i grandi del web. È la morte di Internet come denunciano in tanti? Di certo svanisce lo spirito libertario dei suoi fondatori. Ma era già stato compromesso con la rete man mano divenuta il luogo dell’egemonia dei giganti di Big Tech. I futuri cyberattacchi? Sempre più confusi e indecifrabili di Carola Frediani La Stampa, 1 dicembre 2017 I virus del riscatto saranno in calo, ma si specializzeranno per colpire dove fa più male. E verranno usati anche come depistaggio. Le ultime analisi dal summit sulla cybersicurezza di McAfee. Era il maggio del 2017 quando una serie di ospedali britannici, insieme a centinaia di organizzazioni e aziende in tutto il mondo, furono travolti da Wannacry. E mentre la notizia di un virus globale e virulento - un ransomware, un software malevolo che cifra i file e chiede un riscatto per decifrarli - rimbalzava su tutti i media, i maggiori esperti di sicurezza ricevevano telefonate concitate. “Era venerdì, mi hanno chiamato, e da quel momento sono stati giorni da pazzi. Siamo andati a vedere gli ospedali in tilt, qua in Gran Bretagna, cercando di capire cosa fare e cosa stava accadendo. Perché da subito, e ancora adesso, non era chiaro il senso di quell’attacco”, commenta a La Stampa Raj Samani, a capo della ricerca di McAfee, colosso della cybersicurezza che da pochi mesi si è staccato da Intel tornando indipendente. E che ha appena tenuto ad Amsterdam una conferenza globale in cui ha cercato di anticipare le minacce che ci aspettano. Anche sulla base di quanto successo nel 2017. E certamente Wannacry - ma anche Notpetya, altro virus globale che ha colpito poco dopo, o più recentemente BadRabbit - sono stati dei punti di svolta. Cosa accadrà quindi nel 2018? Ora, secondo gli analisti di McAfee, ci sono una buona e una cattiva notizia, a partire proprio dai ransomware che tanto hanno dominato la scena della sicurezza informatica negli ultimi tre anni. La buona notizia è che i virus del riscatto tradizionali, che si sono abbattuti a pioggia sui computer di utenti, professionisti, imprese, paiono rallentare come fenomeno. È vero cioè che sono cresciuti del 56 per cento negli ultimi quattro trimestri, ma il numero di pagamenti effettuati dalle vittime è in calo nell’ultimo anno. Ciò è probabilmente dovuto a più efficaci e diffuse strategie di backup dei dati; alla disponibilità di strumenti per decifrare alcune varianti del virus; all’azione congiunta di pubblico e privati in alleanze come la campagna NoMoreRansom.org. Tuttavia sappiamo che i cybercriminali sono molto rapidi e flessibili nella loro capacità di adattamento. E infatti, secondo gli analisti, starebbero già riposizionando i ransomware verso target di più alto profilo, verso vittime capaci di pagare di più. In pratica si investe maggiormente nello sviluppo dello strumento, e soprattutto delle tecniche di ingegneria sociale per veicolare gli attacchi, e si tende a colpire vittime più danarose. O più disposte a pagare perché il solo blocco delle attività è problematico. In prima fila in questo scenario ci sono proprio gli ospedali e più in generale le aziende. Dal punto di vista dell’economia criminale, ciò significa uno sfoltimento delle offerte di ransomware come servizio, quando un criminale più capace mette a disposizione a pagamento la propria infrastruttura ad altri attori meno abili. In pratica sopravvivranno i servizi in affitto più robusti, specializzati e con migliori funzionalità. Mentre per gli altri, i pur modesti costi di investimento dell’impresa malevola potrebbero non essere più compensati dai pagamenti delle vittime. Ma soprattutto i ransomware potrebbero essere applicati in modi nuovi: per distruggere, sabotare, fare danni. O come cortina fumogena per nascondere altri attacchi. “Quando abbiamo visto Wannacry e poi NotPetya la prima domanda è stata: considerato come sono stati progettati, e come sono pessimi nel monetizzare le infezioni, siamo davvero di fronte a un ransomware?”, commenta ancora Samani. “Ancora oggi esistono delle teorie, ma non abbiamo veramente capito la motivazione. E questo vale anche per il futuro. I criminali stanno mescolando assieme strumenti e vettori: pensiamo a come in Wannacry si sono fusi ransomware e worm, un tipo di virus che si autodiffonde in rete, come il vecchio Conficker. Questo scenario ibrido è quello che ci attende. Probabilmente, di fronte a nuovi attacchi, ci vorranno almeno otto mesi per capire la motivazione, sempre che si riesca”. Di certo, un fenomeno già comparso è l’uso dei ransomware per offuscare altre attività malevole. È successo alla Far Eastern International Bank (FEIB), una banca di Taiwan in cui gli attaccanti sarebbero entrati nei sistemi per tentare di modificare delle transazioni bancarie su rete Swift. Una volta scoperti, avrebbero adoperato un ransomware piuttosto comune per infettare la rete della banca, ritardare e confondere gli accertamenti, cifrare o distruggere prove dell’intrusione. L’altro osservato speciale sul fronte della cybersicurezza è anche il mondo dell’internet delle cose (internet of things, o IoT). Secondo un recente sondaggio condotto dalla società di analisi Quocirca, il 61 per cento degli intervistati, perlopiù grandi organizzazioni, ha ammesso di aver subito almeno una violazione di dati attraverso la breccia di stampanti non sicure. “Il tema della sicurezza di questo genere di dispositivi è all’ordine del giorno anche perché le stampanti sono diffuse in tutti i settori industriali e in tutte le organizzazioni”, commenta a La Stampa Alissa Johnson, nota anche come Dr Jay. È stata vicecapo della sicurezza delle informazioni nell’amministrazione Obama, dal 2012 al 2015. E forse non è un caso che sia stata chiamata a guidare la sicurezza proprio da Xerox, la multinazionale delle stampanti. “Il problema è anche che quando diciamo Internet delle cose, parliamo di apparecchi e situazioni molto diverse. Forse dovremmo iniziare a segmentare questa macro-categoria, specie se si inizia a pensare, come fa l’Unione europea, di creare sistemi di certificazione. Per cui o si affrontano caso per caso settori specifici o il rischio è di rimanere su indicazioni di massima”. “L’accordo sui migranti firmato da Libia e Italia sia un modello per altri Paesi europei” di Francesca Paci La Stampa, 1 dicembre 2017 “L’accordo sui migranti firmato con l’Italia è un accordo modello che altri Paesi europei potrebbero sottoscrivere”. Ospite di Med Dialogues 2017 il vice-premier libico Ahmed Maitig minimizza le polemiche che da settimane rimbalzano attraverso il canale di Sicilia. Mentre il primo ministro al Sarraj vola a Washington per incontrare Donald Trump, il suo numero due presiede il summit di Roma, dove fino a sabato sono in campo i più importanti attori dell’area Mena e i loro sponsor internazionali (oltre alla Russia quest’anno c’è una significativa presenza della Cina). Maitig ringrazia l’Italia (“ha fatto il possibile”), manda un messaggio di amicizia all’Eni (è rimasta nel nostro Paese durante la crisi e questo la rende una società molto privilegiata presso i libici”), ventila prospettive economiche a tutto campo (“l’attuale produzione di petrolio in Libia è di 1,1 milioni di barili, ma c’è la possibilità di arrivare a 1,8 milioni”). Rifiuta però la narrativa che dopo il filmato sulla compra-vendita dei migranti diffuso dalla Cnn descrive la Libia come l’inferno da cui evacuare migliaia di nigeriani, senegalesi, ivoriani: “Quel filmato non rappresenta le tradizioni e le consuetudini in Libia, Paese che ha sempre mantenuto eccellenti relazioni con il resto dell’Africa”. Evita di rispondere al perché Tripoli non abbia firmato la Convenzione sui rifugiati del 1951 e continui a non firmarla ma insiste sul fatto che “la crisi dei migranti” sia un problema di tutti (“siamo un Paese di transito per chi sogna l’Europa”) e che l’Italia non possa essere lasciata sola. C’è il pienone nella grande sala dell’Hotel Parco dei Principi allestito per la terza edizione di Med. Gli occhi sono puntati sul ministro degli esteri iraniano Zarif - che non chiude all’ipotesi di un incontro con l’amministrazione Trump ma chiede “rispetto reciproco” - ma anche sulla nutrita delegazione libica, sul ministro degli esteri del Qatar e la controparte saudita, sul luogotenente di Baghdad al Jaafari che chiede “un piano Marshall per l’Iraq e sul terrorismo, di cui il segretario generale dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica Yousef bin Ahmad al Othaimeen chiede il pugno di ferro con chi spara ma la tolleranza con chi prega. Il nemico comune a tutti è l’Isis ma ad ascoltare i singoli interventi si capisce quanto divergano le posizioni sulle modalità della “deisizzazione” della regione e quanto - come nota il vicepresidente dell’International Crisis Group Robert Malley - proprio la sconfitta definitiva dello Stato Islamico potrebbe riattizzare tensioni, antagonismi, conflitti. A Roma, per tre giorni, l’imperativo è costruire. Lo ribadisce a più riprese il ministro degli esteri Angelino Alfano che porgendo il benvenuto al presidente libanese Aoun e al nostro Mattarella annuncia l’Erasmus del Mediterraneo, “un’intesa strategica che verrà firmata a margine di Med”. “Centinaia di migliaia i migranti che in Libia hanno bisogno di aiuto” di Carlo Lania Il Manifesto, 1 dicembre 2017 Federico Scoda (Oim): “Puntiamo a organizzare un volo al giorno per i rimpatri. Ma i libici devono farci entrare in tutti i centri”. Il vertice di Abidjan si è chiuso con l’impegno preso da Unione europea, Unione africana e Onu di svuotare i centri di detenzione libici rimpatriando i migranti che vi sono tenuti prigionieri. Un compito che dovrà svolgere l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) che nel 2016 ha favorito il ritorno dalla Libia nei Paesi di origine di 2.775 migranti. “Quest’anno abbiamo già superato i 13.600 rimpatri e penso che arriveremo a 16-17 mila entro la fine di dicembre” afferma Federico Soda, direttore dell’Ufficio di coordinamento per il Mediterraneo dell’Oim. I rimpatri vengono già fatti, quindi quale sarebbe la novità del piano annunciato ad Abidjan? La novità non è nel piano, ma nella volontà politica sorta in seguito al reportage della Cnn sui migranti venduti come schiavi. Una realtà che noi avevamo già denunciato ad aprile ma l’impatto avuto da quello immagini ha provocato la reazioni di alcuni organismi, inclusa l’Unione africana. Come Oim siamo in grado oggi di trasferire circa 3-4 mila persone al mese. Se avremo altre risorse, sia dal governo libico che dai Paesi africani, riusciremo a togliere molti più migranti da una situazione come quella dei centri che non è solo inaccettabile e pericolosa, ma spesso rappresenta l’unica possibilità che queste persone hanno visto che molte di loro non possono fuggire perché non hanno i documenti né i mezzi per farlo. Per gli eritrei e i somali cosa è previsto? Per loro, come per chiunque altro abbia un valido motivo per richiedere la protezione internazionale, il mandato è dell’Unhcr che sta cercando di realizzare un centro a Tripoli dove fare una prima valutazione delle domande di asilo per poi spostare le persone in un Paese sicuro prima di trovare un terzo Paese sicuro dove ricollocarle. Si è parlato di una task force formata da Ue-Unione africana e Onu. Che compiti avrà? Sarà una task force politica che cercherà di aprire maggiori spazi in Libia per poter lavorare. Ma i dettagli devono ancora essere decisi. Servono più soldi per organizzare i rimpatri? I soldi ci vorranno. Non è un’esigenza immediata ma lo sarà presto. Oggi organizziamo quattro voli a settimana ma potremmo arrivare facilmente a uno al giorno. Ma c’è qualche ostacolo con le autorità libiche che va superato e questo include anche l’accesso a tutti i centri di detenzione. Lo stesso per gli aerei. La ragione per cui oggi abbiamo solo qualche volo alla settimana è strettamente operativa e riguarda l’aeroporto di Tripoli dove avremmo bisogno di far atterrare aerei più grandi. Di quanti migranti stiamo parlando? Glielo chiedo perché voi avete accesso ai soli centri governativi, che sono una trentina, ma poi ci sono quelli gestiti dalla milizie. Stimiamo che nei centri gestiti dal ministero dell’Interno libico ci siano tra i 15 mila e i 18 mila migranti. Poi ci sono tutti quelli di cui non sappiamo niente perché si trovano in luoghi non monitorati come case o altri posti privati. Pensiamo che il Libia possano esserci tra 700 e gli 800 mila stranieri, forse anche di più. Va detto però che non tutti sono in situazioni di pericolo o di sofferenza e non tutti hanno intenzione di raggiungere l’Europa. Sicuramente però le persone che hanno bisogno di assistenza sono molte centinaia di migliaia. Alla luce di questi dati l’annuncio di voler vuotare i centri non rischia di essere solo propaganda? Non credo. Il programma non è limitato a 20-25 mila persone. Non dimentichiamoci che nel 2011 abbiamo evacuato dalla Libia quasi 250 mila persone, quasi tutte verso il Bangladesh e le Filippine. Ma non erano prigioniere come invece succede oggi. È vero. Ovviamente in uno Stato fallito e senza strutture governative come è oggi la Libia la situazione è completamente diversa. Non la considero un’operazione di propaganda perché stiamo aiutando migliaia di persone migliorando le loro condizioni di vita. Il punto è che quando c’è qualcuno che soffre e ha bisogno di aiuto i numeri diventano in un certo senso irrilevanti. Se ne aiuti dieci o cento ovviamente cento è meglio, ma comunque quei dieci hanno ricevuto un’assistenza indispensabile. I numeri sono la propaganda degli europei, fissati su quanti sbarchi ci sono ogni giorno trascurando le questioni veramente importanti. L’Unhcr parla di 50 mila rifugiati da ricollocare in Europa. È una cifra realistica viste le difficoltà sempre mostrate da molti Stati? In questo momento non ci sono le condizioni in Europa per farlo. I 50 mila di cui parla l’Unhcr rappresentano l’esigenza, purtroppo però nella maggioranza degli Stati prevale una posizione di chiusura e siamo ancora molto, molto lontani da quei numeri. Migranti. Eritrei e somali andranno nei Centri Onu, per gli altri voli di ritorno in patria di Vladimiro Polchi La Repubblica, 1 dicembre 2017 Somali ed eritrei nei nuovi campi gestiti dall’Onu, nigeriani e senegalesi sui voli charter per i rimpatri volontari. Il piano d’evacuazione dei centri di detenzione libici si muove su due assi: chi ha diritto a una qualche forma di protezione potrà presentare domanda d’asilo nelle mani del personale Unhcr di Tripoli, gli altri saranno incentivati a tornare a casa su aerei gestiti dagli uomini dell’Oim. I numeri sono impressionanti: le ultime stime parlano di 500mila migranti pronti a partire dalla Libia. Oggi sul territorio si contano circa 30 centri governativi di detenzione, ma gli uomini dell’Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni) hanno accesso solo ai due terzi. “Dentro stimiamo che siano trattenute 20mila persone, ma nessuno ha una fotografia esatta - avverte Federico Soda, direttore dell’ufficio di coordinamento per il Mediterraneo dell’Oim - molti di più sono gli uomini rinchiusi nei campi illegali, nascosti in compound o case private”. Chi sono questi migranti detenuti? Per lo più provengono dall’Africa occidentale (record di nigeriani, seguono i tanti in fuga da Guinea, Costa d’Avorio, Mali), poi bengalesi ed eritrei. “Più difficile monitorare i nigerini - spiega Soda - che si muovono di continuo sulla frontiera col Niger e sulla rotta verso l’Algeria”. Il piano di chiusura dei campi si poggia su due pilastri. Il primo riguarda chi ha diritto a una qualche forma di protezione internazionale: è il caso per esempio degli eritrei. Questi migranti andranno accolti in nuovi centri che rispettino i diritti umani, sotto il controllo Onu, sottoposti a screening da parte del personale Unhcr e infine trasferiti in Europa attraverso corridoio umanitari. Stando alle stime Unhcr, sarebbero tra i 40mila in Libia ad aver diritto alla protezione. Qualcosa già si muove: le autorità libiche, col sostengo del governo italiano, hanno deciso di allestire una “struttura di transito e partenza” a Tripoli per le persone bisognose di protezione. “Ci auguriamo che migliaia di rifugiati - afferma Roberto Mignone, rappresentante Unhcr per la Libia - possano presto beneficiare di questa iniziativa”. Ma per la costruzione di veri e propri campi d’accoglienza, l’accordo col governo locale è ancora lontano. Chi invece non ha diritto all’asilo, sarà avviato ai rimpatri volontari. L’Oim già ne ha effettuati 13.531 verso 24 Paesi e per la fine dell’anno prevede di arrivare a 17mila: si tratta per lo più di nigeriani. In un solo giorno, il 28 novembre scorso, ne ha rimpatriati 399 su 2 voli commerciali e due charter verso Ghana, Guinea e Nigeria. Infine, c’è chi sta in mezzo: “La situazione più drammatica - ammette Soda - è per chi non ha diritto alla protezione e non può tornare a casa. Per loro, non c’è alcuna tutela internazionale”. Regeni, Djalali, la Libia: tre temi per il ministro Alfano al Rome Med 2017 di Riccardo Noury Corriere della Sera, 1 dicembre 2017 In occasione del Forum Rome Med 2017 - Mediterranean Dialogues che si tiene a Roma fino a domani, Amnesty International Italia ha rivolto al ministro degli Affari esteri e della Cooperazione Internazionale, Angelino Alfano, alcune raccomandazioni auspicando “che ai temi chiave individuati si affianchi il rispetto dei diritti umani in tutti i paesi dell’area mediterranea”. In particolare, Amnesty International Italia ha auspicato che nei colloqui con le autorità libiche presenti e nel bilaterale del ministro Alfano con il vice presidente del Consiglio presidenziale libico Ahmed Maitig venga ribadita l’urgenza di ripristinare il rispetto dei diritti umani di rifugiati e migranti. La cooperazione con la Libia sulle politiche migratorie da parte dell’Italia e dell’Unione europea dovrebbe essere subordinata al rispetto dei diritti umani fondamentali. L’organizzazione per i diritti umani ha inoltre presentato al ministro Alfano due richieste specifiche: rivolgere al ministro degli esteri egiziano la richiesta di un impegno reale e celere per conoscere i nomi dei responsabili dell’arresto, della sparizione, della tortura e dell’uccisione di Giulio Regeni e segnalare al contempo le preoccupazioni dell’Italia per il progressivo deterioramento della situazione generale dei diritti umani in Egitto. Infine, Amnesty International auspica che il ministro Alfano richiami l’attenzione del suo omologo iraniano sulla richiesta urgente di liberazione di Ahmadreza Djalali, ricercatore dell’Università del Piemonte Orientale di Novara, prigioniero di coscienza condannato a morte in Iran. Afghanistan. Omicidio di Maria Grazia Cutuli, sedici anni dopo la verità e il vuoto di Barbara Stefanelli Corriere della Sera, 1 dicembre 2017 In questi sedici anni o poco più trascorsi da quel 19 novembre 2001 e da quella gola afghana, abbiamo cercato di tenere Maria Grazia Cutuli tra noi, in mezzo a noi. Abbiamo provato a far sì che la memoria della sua faccia - della sua voglia di andare “dove la terra brucia”, come diceva un po’ scherzando e un po’ no - non diventasse opaca, non si disperdesse tra le righe. Per questo la sentenza è stata un’emozione forte, ieri, per tutti. Così come è stato, ancora una volta, doloroso e difficile ascoltare le parole della pm Nadia Plastina quando in aula ha ripercorso le ore prima e dopo l’esecuzione a freddo che lasciò il corpo di quattro reporter sul ciglio della strada verso Kabul. Accanto a Maria Grazia - lo ricordiamo sempre - c’erano Julio Fuentes, di El Mundo, l’australiano Harry Burton e l’afghano Azizullah Haidari, dell’agenzia Reuters. La sentenza della prima corte d’assise di Roma per Mamur e Zar Jan (24 anni per concorso in omicidio e concorso in rapina) non riconsegna la nostra compagna di lavoro a quell’appartamento milanese che aveva lasciato in ottobre e che in parte era stato arredato con pezzi acquistati durante precedenti spedizioni in Afghanistan - i tappeti, le sedie gemelle rasoterra, gli specchi. Non riconsegna la persona che amavamo al tempo che non ha avuto. Il vuoto resta, nel cuore e nella testa. Restano le domande che ci facevamo, ancora trentenni: restano sospesi i dubbi e i progetti di un’età che sembrava offrirci tutto per possibilità. Tuttavia la condanna dimostra alla famiglia, alle sorelle e al fratello, che lo Stato Italiano c’è stato e ha fatto la sua parte affinché non sparissero le tracce di un assassinio avvenuto in un’epoca che oggi già sembra lontana, quasi irreale, mentre l’Afghanistan liberato dai talebani in quei giorni concitati del 2001 è tornato nel caos. O forse non ne è mai uscito veramente. Mamur e Zar Jan, di origine pashtun, sono da tempo in una cella afghana dove stanno scontando pene a 16 e 18 anni. Un terzo uomo, Reza Kahn, fu giustiziato nel 2007 non solo per la morte dei quattro inviati. Noi continueremo a tenerci stretti al valore del lavoro di una giornalista che desiderava raccontare le storie, raccogliere direttamente le notizie, attraversare le retrovie delle notizie, che spingeva quel suo sguardo assieme incerto e coraggioso lungo i confini: immaginando - sono sicura - di poterli attraversare tutti, prima o poi. Stati Uniti. Immigrato irregolare assolto da un omicidio. Trump: “Verdetto scandaloso” La Stampa, 1 dicembre 2017 Ritenuto colpevole solo del possesso di armi. Rischia da 16 mesi a 3 anni. “Un verdetto scandaloso nel caso di Kate Steinle! Nessuno stupore se la gente del nostro Paese è così arrabbiata per l’immigrazione illegale”. A twittare è il presidente americano Donald Trump, commentando la decisione di una giuria di San Francisco di assolvere un immigrato messicano irregolare dall’uccisione di una donna (Kathryn Steinle, 32 anni) uccisa da un proiettile mentre camminava su un molo cittadino nel luglio 2015. Il caso è destinato a sollevare polemiche. Una giuria di San Francisco ha ritenuto Jose Ines Garcia Zarate (45 anni) colpevole non dell’assalto ma solo del possesso dell’arma, con cui ha sostenuto di aver sparato per errore. Ora rischia da 16 mesi a tre anni. Trump aveva cavalcato il caso in campagna elettorale per sostenere la linea dura anti immigrati. La morte della donna suscitò un aspro dibattito sull’opportunità di trattare più severamente gli immigrati senza status legale, come Zarate, e sul ruolo delle forze dell’ordine locali. Zarate era un senza tetto al momento della sparatoria e aveva alle spalle varie condanne. Era stato scarcerato solo pochi mesi prima della tragedia, ignorando una richiesta delle autorità federali per l’immigrazione, che avevano chiesto di prolungare la detenzione per poterlo espatriare di nuovo. Ma San Francisco è una delle tante città santuario americane e tutela gli illegali, anche sfidando le autorità federali. “Siamo scioccati e amareggiati, è stata resa giustizia, ma non è stata servita”, ha commentato il padre della vittima. Reazioni indignate particolarmente nel mondo di destra. Ha preso posizione anche l’attorney general Jeff Sessions, un paladino del pugno duro sull’immigrazione che ha tentato anche di togliere i fondi federali alle città santuario: “la decisione di San Francisco di proteggere i criminali stranieri ha portato alla evitabile e straziante morte di Kate Steinle. Invito i leader delle comunità della nazione a riflettere sull’esito di questo caso e di considerare attentamente il danno che stanno facendo ai loro cittadini rifiutando di cooperare con le forze dell’ordine federali”. Venezuela. Gli oppositori di Maduro torturati e perseguitati: l’allarme delle Ong di Chiara Nardinocchi La Repubblica, 1 dicembre 2017 Tra aprile e settembre 2017 sono stati documentati più di 88 casi di violazioni dei diritti umani: tutti antagonisti del presidente in carica. Nel giorno in cui ha annunciato l’intenzione di ricandidarsi alla presidenze alle elezioni del 2018, il presidente Nicolas Maduro e il suo governo sono al centro del rapporto redatto da Human Rights Watch e Penal Forum sugli abusi delle forze di sicurezza sugli oppositori del regime. Il rapporto “Giro di vite sul dissenso: brutalità, torture e persecuzioni politiche in Venezuela” documenta almeno 88 casi che coinvolgono più di 300 persone tra aprile e settembre 2017. Nessuno contro. I testimoni hanno raccontato di esser stati picchiati e torturati attraverso tecniche di asfissia, con scosse elettriche e violenze sessuali brutali. E questo non solo contro i detenuti politici, ma anche per le strade e nei quartieri “sovversivi”. Il tutto in un clima di giustizia sommaria e violenza mai sperimentata nella storia recente del paese. Governo complice. A insospettire è l’atmosfera di totale impunità in cui agiscono poliziotti e forze dell’ordine: “Gli abusi, inclusi casi eclatanti di tortura, e l’assoluta impunità per gli aggressori suggeriscono la responsabilità del governo ai massimi livelli - afferma José Miguel Vivanco, direttore delle Americhe di Hrw - Questi non sono casi isolati o reazioni eccessive e occasionali da parte di pessimi ufficiali, ma al contrario siamo di fronte a una pratica sistematica da parte delle forze di sicurezza venezuelane”. Carcere duro. Ad esser stati intervistati dai ricercatori delle Ong sono state vittime, familiari, avvocati e medici che hanno curato le ferite dei manifestanti per le vie di Caracas. Inoltre sono stati visionati anche dei video che documentano le violenze. In alcuni casi, le forze di sicurezza hanno fatto esplodere gas lacrimogeno in ambienti chiusi dove erano trattenuti i detenuti, in altri gli oppositori sono stati ammucchiati in celle di isolamento per periodi lunghi senza cibo e acqua. E quando il cibo arrivava è successo che fosse stato deliberatamente contaminato dagli escrementi, cenere o insetti. Violenze inaudite. E come se le pessime condizioni di detenzione non bastassero, i prigionieri politici sono stati spesso vittima di torture brutali escogitate da una parte come punizione, dall’altra per costringerli ad autoincriminarsi. Con l’acuirsi delle proteste, l’intelligence venezuelana ha iniziato a prelevare i sospetti direttamente dalle loro casa. “Non si tratta più solo di leader politici o di personaggi pubblici, questa volta se la sono presa anche con normali cittadini, come me”, racconta un uomo agli arresti domiciliari per aver criticato pubblicamente il governo che è stato torturato per confessare i presunti legami con l’opposizione politica. La strada in fiamme. Da aprile le fiamme il Venezuela è sprofondato nel caos: dal precipizio economico all’inasprimento delle condizioni di vita, la decisione unilaterale del presidente Madure di istituire una Costituente nonostante il 73% della popolazione sfavorevole ha spalancato le porte della rivolta. Decine i morti nelle strade, centinaia i feriti. “Le autorità hanno arrestato almeno 5.400 persone da aprile- racconta Alfredo Romero, direttore del Forum Penale - Alcuni detenuti sono stati rilasciati senza essere stati portati davanti a un giudice, ma altri sono stati oggetto di procedimenti arbitrari”. Almeno 757 civili sono stati processati in tribunali militari per crimini tra cui tradimento e ribellione, in circostanze che violano il diritto internazionale. Argentina. Dure condanne ai massacratori dell’Esma di Claudio Tognonato Il Manifesto, 1 dicembre 2017 Desaparecidos e voli della morte. Il processo a 40 anni dalla dittatura Videla ha portato a 48 condanne, 29 sono ergastoli. La sentenza di ieri è anche un lascito dell’era Kichner in un paese che teme ritorno al passato. Ieri si è concluso il processo più importante e più lungo di tutta la storia dell’Argentina. Dopo 5 anni di udienze che hanno coinvolto 54 imputati e 789 vittime la causa è arrivata a sentenza con 48 condanne: 29 ergastoli, 19 colpevoli con pene da 8 a 25 anni e 6 assolti. Il processo ha giudicato la violazione dei diritti umani nel principale campo di concentramento della dittatura militare (1976-1983), la famigerata Esma, la Scuola di Meccanica Navale in cui venivano portate le persone sequestrate dal regime. Le vittime dell’Esma sono migliaia, il processo ha riguardato solo i casi di alcuni superstiti e di molti che furono uccisi durante la tortura o gettati vivi in mezzo al mare da aerei della Marina nei tristemente celebri “voli della morte”. Con queste condanne all’ergastolo si è chiuso un processo esemplare in materia di diritti umani non solo per l’Argentina ma per l’intera umanità. Sono passati ormai 40 anni dai fatti, ma il processo ai responsabili del principale centro illegale di detenzione, tortura e morte di dissidenti politici o presunti tali, vuole rappresentare un altro passo verso il consolidamento della memoria storica. I militari condannati non si sono mai pentiti, non hanno mai collaborato con la magistratura e soprattutto non hanno mai rivelato la fine di migliaia di desaparecidos. Ora si sa che molti desaparecidos sono in fondo al mare. Si calcola che solo con “i voli della morte” dell’Esma siano state gettate in mare vive oltre 5.000 persone. Purtroppo il patto di sangue tra i militari ha funzionato e i familiari delle vittime non sapranno mai quale fine abbiano fatto i loro cari. L’impassibile silenzio degli assassini è stato una costante in tutti i processi che si sono susseguiti in questi anni. L’impunità della dittatura però è stata possibile grazie alla complicità di molti argentini. L’arroganza militare giocava a un doppio messaggio, da una parte nascondeva centinaia di campi di concentramento disseminati in tutto il territorio, si calcola oltre 360. Dall’altra, davanti alle telecamere, si rappresentava la normalità di un governo militare affiancato dalle più alte autorità della chiesa cattolica. Si parafrasava con insolenza Bertolt Brecht dicendo “Prima uccideremo tutti i sovversivi; poi uccideremo i loro collaboratori; poi i loro simpatizzanti; poi chi rimarrà indifferente, e infine uccideremo gli indecisi”. Come dichiarò, senza scomporsi, il generale Iberico Saint-Jean, governatore della provincia di Buenos Aires, parole pubblicate in Francia da Le Monde all’inizio della dittatura. Così, la complicità di un ampio settore della società e l’indifferenza internazionale hanno reso possibile un genocidio. La riparazione storica continua, la memoria è la facoltà che dimentica e deve essere continuamente ripresa per non ritornare all’oblio. Questo lungo percorso è iniziato nel 1985 durante il governo di Raúl Alfonsín, che condannò i membri delle Giunte militari per delitti di lesa umanità. La dura sentenza non fu però definitiva: calmate le acque, i carnefici furono beneficiati dall’indulto nel 1989 durante il governo di Carlos Menem. Ma prima ancora, nel 1986, lo stesso Alfonsín aveva fatto retromarcia e sancito le norme di “Punto finale” e “Ubbidienza dovuta”, per fermare la valanga di processi aperti contro i militari. S’impedì l’apertura di nuovi processi e furono scagionati gli autori materiali di torture e omicidi sostenendo che i quadri intermedi non avevano potere decisionale. I processi sono rimasti bloccati dalle leggi dell’impunità fino al 2005, anno in cui la Corte suprema dichiarò finalmente l’incostituzionalità di quelle norme. Grazie alle pressioni del governo di Néstor Kirchner si sono riaperti in Argentina centinaia di processi e molti imputati sono stati condannati. Lo stesso generale Jorge Videla morirà in carcere nel 2013 ammettendo la necessità della “disposizione finale” che ha lasciato 30.000 desaparecidos. Nei governi di Néstor e Cristina Kirchner la promozione dei diritti umani è rimasta al centro delle loro politiche. Néstor Kirchner si era definito nella prima assemblea delle Nazione Unite come figlio delle Madri di Piazza di Maggio. La sentenza ora arriva in una Argentina sconvolta dal ritorno al passato con le politiche del presidente Mauricio Macri. La dirigente indigena Milagro Sala rimane in carcere anche se la Commissione diritti umani dell’Onu, Amnesty e l’opinione pubblica internazionale considerano arbitraria la sua detenzione. Il ritorno alle politiche neoliberiste è accompagnato da politiche repressive di ogni tipo che hanno perfino provocato la scorsa settimana la morte di Rafael Nahuel, indigeno che rivendicava l’ancestrale proprietà delle terre mapuche oggi proprietà del nostro Benetton. Sono passati 40 anni, ma le ferite non si sono mai rimarginate e il clima che si respira con il governo Macri dimostra quanto sia difficile nella storia dei popoli considerare acquisito quell’agognato “mai più”, quel Nunca más che si declamava ieri in aula ed è un impegno per un futuro che non sia un ritorno al passato.