Rappresentanza delle persone detenute: sette mesi dalle elezioni, trascorsi inutilmente Ristretti Orizzonti, 19 dicembre 2017 Perché i Rappresentanti delle persone detenute non iniziano la loro attività? Perché quello che è possibile a Bollate, a Padova è stato bloccato? Noi di Ristretti Orizzonti siamo convinti che i percorsi di reinserimento delle persone detenute debbano passare soprattutto dalla loro responsabilizzazione, e la condizione di questo è che prima ancora sia l’Istituzione a dover essere responsabile, i volontari, il terzo settore, tutti quelli che in carcere ci entrano per contribuire a questi percorsi. E, sempre noi di Ristretti Orizzonti, crediamo che un modo per essere responsabili, noi per primi, sia ricordare all’Amministrazione Penitenziaria, con trasparenza e alla luce del sole, che per promuovere un cambiamento nella direzione della assunzione di responsabilità nelle persone detenute è necessario anche un cambiamento delle modalità di relazione tra le persone detenute e l’Amministrazione Penitenziaria. La nostra proposta di istituire, come a Bollate, una rappresentanza delle persone detenute andava in questa direzione. Siamo stati a Bollate per capire come funziona lì la rappresentanza, siamo tornati a Padova e ne abbiamo parlato a lungo con la Direzione, l’Ufficio Educatori, l’Ufficio Comando, la Sorveglianza interna, abbiamo preparato insieme il regolamento e abbiamo avuto l’autorizzazione a procedere. Nel novembre 2016 siamo andati a presentare questa proposta in tutte le sezioni della Casa di Reclusione di Padova insieme al personale dell’Ufficio Educatori; siamo tornati ancora in aprile 2017 a ricordare il senso di questa proposta e ad annunciare che le elezioni si sarebbero tenute il 6 maggio. Non è stato semplice vincere la diffidenza delle persone detenute, cercare di motivare chi non aveva mai votato in vita sua a candidarsi o a votare un proprio rappresentante. Ci abbiamo messo la faccia per la terza volta il 6 maggio, quando una decina di noi, con emozione, sono saliti in sezione con schede elettorali, urne, penne. Con emozione, sì, perché avevamo l’illusione che stesse avvenendo qualcosa di straordinariamente importante nella vita in carcere. Gli agenti hanno dato un grande contributo, sia durante le riunioni in saletta sia durante le votazioni, alle elezioni sarebbe seguito un accompagnamento e una formazione degli eletti, con il coinvolgimento di tutte le realtà, veramente pensavamo stesse nascendo qualcosa di nuovo e bello da fare insieme. Abbiamo fatto lo spoglio, con la cura che c’è nei seggi elettorali durante le elezioni politiche e abbiamo individuato le persone elette. Abbiamo inviato tutto alla Direzione per le comunicazioni alle persone detenute, immaginando che la proclamazione degli eletti potesse essere anche un momento importante, quasi solenne. Tutto era pronto, ma la comunicazione non arrivava. Le persone detenute ci fermavano nei corridoi, per chiedere “E quindi?”. Abbiamo chiesto di aspettare, convinti che il problema, che non abbiamo mai saputo quale fosse, si sarebbe risolto. Ma così non è stato. Sono passati sette mesi, alcune delle persone che sono state votate non sono nemmeno più in questo carcere; altre se ne sono scordate; altre ancora ci chiedono perché le abbiamo prese in giro; i più dicono “vedete che avevamo ragione noi a dire che non serviva a niente?”. Non sappiamo ancora cosa sia successo, chi e perché abbia deciso che quell’esperienza dovesse naufragare. Quello che sappiamo è che non ha fatto il bene dell’Istituzione, che doveva essere salvaguardata nella propria credibilità. Ora chiediamo: cosa intendete fare di questa esperienza, che anche il dott. Piscitello, Direttore della Direzione Generale Detenuti e Trattamento del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria in un incontro in redazione ha ritenuto significativa per la responsabilizzazione delle persone detenute? Rapporto dell’Associazione Antigone: sono 452 i detenuti negli Istituti Penali Minorili di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 dicembre 2017 Nonostante alcune criticità, la giustizia minorile italiana rimane un modello virtuoso. È questo ciò che emerge da Guardiamo Oltre, il 4° Rapporto di Antigone sugli Istituti di Pena per Minorenni (Ipm) presentato ieri a Roma durante una conferenza stampa. Nel rapporto - che si può visionare nel nuovo portale di Antigone all’indirizzo “ragazzidentro.it”, specifico per gli istituti penali per minorenni - si legge che al 15 novembre 2017 i presenti nei sedici Istituti Penali per Minorenni in Italia sono 452. I minorenni sono il 42%, mentre i maggiorenni il 58%. Le ragazze sono 34 (pari all’ 8%) mentre gli stranieri sono in totale 200 e rappresentano il 44% della popolazione detenuta. Il carcere, per i minorenni, è davvero utilizzato come extrema ratio. Infatti, sempre secondo Antigone, le presenze nei nostri Istituti penitenziari per minorenni, ormai dalla metà degli anni 80 si aggirano attorno alle 500 unità. Negli ultimi anni, tra gli adulti, per ogni 100 segnalati dall’autorità giudiziaria, c’erano circa 25 condannati ed entravano in carcere circa 7 detenuti. Tra i minori, per ogni 100 segnalati dall’autorità giudiziaria, c’erano meno di 10 condannati ed entravano in Ipm meno di 4 ragazzi. Per quanto riguarda l’età, in media, i giovani adulti - coloro che possono restare in Ipm fino al compimento del venticinquesimo anno di età sono il 58% dei presenti. La media è più alta per gli Italiani, che sono il 65%, e più bassa per gli stranieri, solo il 50%, ed ancora più bassa per le femmine, che sono invece in prevalenza (59%) minorenni. Alto il numero dei ristretti in custodia cautelare, che va a colpire soprattutto gli stranieri. Infatti nel rapporto si legge che è in custodia cautelare il 48,2% dei ragazzi, ma il dato cambia molto se si guarda all’età e la nazionalità. Tra i minorenni, quelli in custodia cautelare sono l’ 81,6%, tra i giovani adulti solo il 24,0%. I ragazzi in custodia cautelare sono minoranza tra gli italiani (44,0%) e maggioranza tra gli stranieri (53,5%). Sempre dal rapporto si evince che tra i ragazzi entrati in Ipm nel corso dell’anno sono assolutamente prevalenti i reati contro il patrimonio, il 59% del totale, e addirittura il 67% tra i ragazzi stranieri. I reati contro la persona sono una minoranza (17%), ancor più tra gli stranieri (15%). Altro dato è la provenienza. Campania e Sicilia sono le regioni di provenienza di ben oltre la metà dei ragazzi italiani detenuti in Ipm. Circa il 10% viene dalla Lombardia, pochi meno dal Lazio. Dalla Puglia l’ 8 novembre veniva il 4,4% dei ragazzi italiani, dalla Calabria il 3,6%. C’è un vero e proprio ‘ boom’ quello dell’applicazione della messa alla prova nella giustizia minorile registrato negli ultimi anni: si è passati dai 788 provvedimenti di sospensione del processo per messa alla prova nel 1992 ai 3.757 casi del 2016. Altro dato che emerge è la presenza dei bambini negli Ipm. Sì, perché nonostante la giovane età, tra i 1.207 ragazzi passati per i nostri Ipm nel 2017, ben 49, il 4,1%, era genitore di almeno un figlio. Sempre nel corso dell’anno ben 10 ragazze sono state detenute con il proprio bambino. Un capitolo a parte riguarda i minori stranieri. Dal rapporto di Antigone emerge che secondo gli ultimi dati statistici, rappresentano il 52% degli ingressi nei Centri di prima accoglienza, il 39% dei collocamenti in Comunità, il 48% degli ingressi in Ipm, il 44% delle presenze statiche in Ipm e solo il 26% dell’utenza degli Uffici di servizio sociale per i minorenni. Gli stranieri in percentuale vengono maggiormente sottoposti a misura cautelare detentiva: rappresentano il 45% di coloro sottoposti a prescrizioni, il 43% di coloro cui viene prescritta la permanenza in casa, il 49% di coloro per cui viene disposto il collocamento in comunità, ma il 55% di coloro che vengono sottoposti alla misura della custodia cautelare in carcere. Mentre il 42% degli italiani presenti sono senza condanna definitiva, guardando agli stranieri la percentuale sale al 49%. Nel primo semestre del 2017 le nazionalità straniere più rappresentate negli Ipm sono quelle dei minori provenienti dalla Romania (48 ingressi) e dal Marocco (36), dato che è rimasto costante dal 2014. Il 56% delle imputazioni riguardanti reati contro il patrimonio si riferiscono a soggetti stranieri, mentre si scende al 39% guardando ai delitti contro la persona e al 31% per i reati contro l’incolumità pubblica, che quasi per la totalità sono violazioni della legge in materia di stupefacenti. Il numero di minori cui è stato contestato il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina nel 2017 è pari a zero. Emergenza baby detenuti, metà provengono da Campania e Sicilia di Francesco Lo Dico Il Mattino, 19 dicembre 2017 Ce un’amara sorpresa per il Sud, nascosta nei numeri del nuovo rapporto Antigone sulle carceri: dei 452 detenuti reclusi in Istituti per minori, ben oltre la metà proviene dalla Campania e dalla Sicilia. Ma se a questo dato aggiungiamo anche il 4,4 per cento dei giovani carcerati pugliesi, e il 3,6 per cento di quelli calabresi, si arriva alla drammatica constatazione che più della metà dei ragazzi oggi prigionieri negli istituti minorili, sono meridionali. Se si considera che la restante parte della popolazione carceraria junior è per il 44 per cento costituita da giovani stranieri, è facile intuire come i giovani del centro e del Nord rappresentino una minima parte del quadro detentivo complessivo. A determinare lo squilibrio tra giovani meridionali e settentrionali, non è però come si potrebbe arguire il maggiore tasso di delinquenza che vige al Sud. Si tratta soprattutto di opportunità di scontare la pena grazie a misure alternative al carcere, che in Meridione sono enormemente inferiori. Per il Sud una vera beffa, dato che l’istituto della sospensione del processo e la relativa messa alla prova nei minorenni ha un esito positivo nell?80 per cento dei casi. I nostri giovani, i giovani del Sud, potrebbero quindi redimersi e trovare percorsi di vita alternativi, ma le chance alternative a loro disposizione sono così ridotte da obbligarli a restare in carcere. Nel complesso, il dossier che ogni anno l’associazione Antigone elabora nel tentativo di denunciare le storture del nostro sistema penitenziario, rileva che in realtà i minorenni reclusi sono soltanto il 42 per cento, mentre i maggiorenni ammontano al 58 per cento del totale. La legge 117 del 2014 ha consentito infatti a tutti i minori che hanno commesso un reato prima della maggiore età, di restare nel circuito penale minorile fino a venticinque anni. Una riforma che già lano scorso si prestò molte polemiche in seguito ai disordini che scoppiarono ad Airola tra detenuti ?abbastanza adulti? e altri propriamente minori. Tra i 452 detenuti nelle carceri minorili, si scopre poi che 34 sono ragazze (pari all?8%). E che negli ultimi trent’anni il numero di giovani in prigione non è variato: infatti dalla metà degli anni 80 si aggirano attorno alle 500 unità. Il rapporto Antigone racconta anche per quali tipi di reati i minorenni sono finiti tra le sbarre. I delitti prevalenti sono quelli contro il patrimonio che rappresentano il 59% del totale. Ma i reati contro il patrimonio sono anche quelli nettamente più diffusi tra i giovani detenuti stranieri: se ne sono resi protagonisti il 67 per cento. Nonostante la giovane età, tra i 1.207 ragazzi passati per le nostre carceri nel 2017, ben 49, il 4,1%, era genitore di almeno un figlio. E sempre nel corso dell’anno sono state ben dieci le ragazze che hanno scontato il loro periodo in prigione: minori carcerate in compagnia del proprio bambino. Nell’80,9% dei casi la “messa alla prova” dei detenuti minori ha esito positivo di Andrea Carli Il Sole 24 Ore, 19 dicembre 2017 L’istituto della sospensione del processo e relativa messa alla prova nei minorenni ha un esito positivo nell’80% dei casi. Nel 2016 la percentuale ha raggiunto l’80,9%. È quanto emerge da “Guardiamo Oltre”, il 4° Rapporto di Antigone sugli Istituti di pena per minorenni (Ipm) presentato questa mattina a Roma. Dall’indagine viene fuori che sono 452 i giovani detenuti nei 16 istituti penali per minorenni, un numero che - sottolinea il report - negli ultimi 30 anni è rimasto sostanzialmente invariato. I minorenni sono il 42%, i maggiorenni il 58% (hanno tra i 18 e i 25 anni). Le ragazze sono 34 (pari all’8%) mentre gli stranieri sono in totale 200 e rappresentano il 44% della popolazione detenuta. Dal 1992 al 2016 messa alla prova cresciuta di quasi 5 volte - Per quanto riguarda la messa alla prova, l’indagine mette in evidenza che questo istituto costituisce una delle innovazioni giuridiche e culturali più importanti, che ha avuto negli anni un aumento costantemente crescente: nel 1992 i provvedimenti emessi erano 788, nel 2016 hanno raggiunto quota 3.757.”Una crescita di quasi cinque volte che - sottolinea Antigone - avrebbe dovuto comportare un corrispondente aumento del personale di giustizia e dei servizi sociali cosa che non è accaduta”. Il 26% dei detenuti minori è straniero - Al primo semestre del 2017, gli stranieri rappresentano il 49% degli ingressi nei Centri di prima accoglienza (49% anche nel 2016), il 38% dei collocamenti in comunità (arrivavano al 44% nel 2016) e il 47% degli ingressi in Istituti penali per minorenni (50% nel 2016), mentre se si guarda all’utenza complessiva degli Ussm (uffici di servizio sociale per minorenni) essi ne costituiscono solo il 26% (25% nel 2016). Dai dati aggiornati al 15 novembre 2017, emerge come gli stranieri rappresentino il 43% di coloro sottoposti a prescrizioni, il 45% di coloro cui viene prescritta la permanenza in casa, il 49% di coloro per cui viene disposto il collocamento in comunità, ma il 56% di coloro che vengono sottoposti alla misura della custodia cautelare in carcere. Le percentuali risultano all’opposto se si guarda a coloro che escono dai Cpa a seguito della remissione in libertà, tra i quali gli stranieri rappresentano il 67%. Soprattutto da Romania, Croazia e Albania - Per quanto riguarda le principali aree geografiche di provenienza dei minorenni e giovani adulti stranieri che costituiscono l’utenza dei servizi minorili, osservando i dati riferiti al 2016 e al primo semestre 2017, tra le provenienze comunitarie prevalgono la Romania e la Croazia, mentre tra le altre nazionalità europee figurano prevalentemente l’Albania, la Bosnia Erzegovina e la Serbia. In particolare, i dati relativi al primo semestre del 2017 mostrano una prevalenza di giovani provenienti dalla Romania tra gli ingressi di minori stranieri nei Cpa: questo elemento rappresenta una costante degli ultimi anni. Tra le tipologie di reato prevalgono i reati di furto e rapina - Per quanto riguarda i reati che vengono imputati ai minori e giovani adulti stranieri che entrano nel sistema dei servizi della giustizia penale minorile - continua l’indagine - dai dati sugli ingressi nei Cpa viene fuori che tra le tipologie di reato prevalgono i reati di furto e rapina, seguiti dalle violazioni delle disposizioni in materia di sostanze stupefacenti (Dpr 309/90). Nel primo semestre 2017, infatti, il 69% dei reati ascritti agli stranieri entrati in Cpa è rappresentato da delitti contro il patrimonio. Nello specifico il 56% delle imputazioni riguardanti reati contro il patrimonio si riferiscono a persone straniere, mentre si scende al 39% guardando ai delitti contro la persona e al 31% per i reati contro l’incolumità pubblica, che quasi per la totalità sono violazioni della legge in materia di stupefacenti. Una percentuale uguale a quella sui reati contro il patrimonio la si può trovare unicamente in materia di reati contro lo Stato, le altre istituzioni e l’ordine pubblico, dove il 56% delle imputazioni sono a carico di stranieri. L’indagine sottolinea tuttavia che il 77% di queste imputazioni riguarda il reato di violenza o resistenza a pubblico. La fotografia delle differenze a livello geografico - Guardando ai dati riferiti alle presenze a livello regionale alla fine del primo semestre del 2017, negli Ipm che si trovano al centro e al nord Italia si trovano generalmente pochi ragazzi italiani mentre i dati risultano invertiti al sud e nelle isole, dove i dati sulle presenze indicano una prevalenza dei detenuti italiani. Carceri minorili, in attesa dei decreti per la riforma di Eleonora Martini Il Manifesto, 19 dicembre 2017 Il rapporto di Antigone: “Necessarie nuove norme”. Orlando: “Spero nel prossimo Cdm”. Ultimi passaggi necessari per varare la legge delega entro la legislatura. “A quarantadue anni dalla legge penitenziaria è finalmente arrivato il momento di avere regole ad hoc per i ragazzi e le ragazze detenuti nei 17 Istituti penali a loro dedicati. Regole che mettano al centro prioritarie esigenze di tipo educativo, che tolgano tutti i paletti per l’accesso alle misure alternative, che facciano assomigliare le carceri a comunità. Bisogna guardare oltre e non limitarsi a difendersi da chi invece vorrebbe tornare a un passato fatto di repressione e disciplina”. Presentando il 4° Rapporto di Antigone sulle carceri per minori, Patrizio Gonnella commenta così l’auspicio formulato dal ministro di Giustizia Andrea Orlando, ieri in un’intervista a Repubblica, di vedere varati i decreti attuativi della riforma dell’ordinamento penitenziario prima di Natale. I testi dei quattro decreti, spiega il Guardasigilli, “sono da settimane a Palazzo Chigi”, in attesa di essere approvati in Consiglio dei ministri. Poi, per concludere l’iter entro la fine della legislatura, pena l’azzeramento di tutta la riforma fortemente voluta dal ministro Orlando, occorre un passaggio nelle commissioni Giustizia parlamentari, a cui farà seguito la definitiva deliberazione del governo. Dunque se i decreti delegati non troveranno posto nell’ordine del giorno del prossimo Cdm che si dovrebbe tenere il 22 o il 23 dicembre (il governo si è mostrato particolarmente sensibile all’opposizione di alcune sigle sindacali di polizia penitenziaria), andrà in fumo la riforma messa a punto da decine di esperti riuniti per mesi - prima e dopo gli Stati generali dell’esecuzione penale - attorno a tavoli di lavoro ad hoc. Una riforma per la quale oltre 11 mila detenuti insieme alla radicale Rita Bernardini, che ha partecipato agli Stati generali e ai tavoli di lavoro istituiti dal ministro, hanno messo in atto una forma di protesta non violenta con scioperi della fame a staffetta. I quattro decreti legislativi daranno corpo alle nuove norme riguardanti le misure di sicurezza, le pene alternative, la giustizia riparativa e l’ordinamento dei carceri per adulti e di quelli per minori. Ed è proprio sui giovani detenuti che si sofferma il rapporto dell’associazione Antigone denominato “Guardiamo oltre” che contiene i risultati di un’indagine condotta nei 16 istituti penali (il 17° ha aperto da pochi giorni a Firenze) dove sono rinchiuse 452 persone (un numero rimasto quasi invariato negli ultimi 30 anni), di cui solo il 42% è minorenne mentre il 58% ha tra i 18 e i 25 anni. Secondo il rapporto, “le ragazze sono l’8% mentre gli stranieri sono il 44% della popolazione detenuta. Il 48,2% di chi è attualmente detenuto in un Ipm è in custodia cautelare. E ad esserlo sono soprattutto i minorenni. Tra loro l’81,6% non ha ancora una condanna definitiva. Inoltre gli stranieri in custodia cautelare sono più degli italiani, rappresentando il 53,5% del totale”. Negli ultimi anni, riporta Antigone, si è assistito però anche ad una forte crescita dell’istituto della messa alla prova - “una delle innovazioni giuridiche e culturali più importanti” - dei detenuti minorenni, con un “esito positivo nell’80% dei casi: dai 778 provvedimenti del 1992 si è arrivati ai 3.757 casi del 2016. Una crescita di quasi cinque volte che avrebbe dovuto comportare una crescita corrispondente del personale di giustizia e dei servizi sociali, cosa non accaduta”. “È dal 1975 - ricordano i curatori del rapporto, Susanna Marietti e Alessio Scandurra - che ai detenuti minorenni si applica l’ordinamento penitenziario degli adulti, una norma che doveva essere transitoria e che invece è diventata permanente”. Ora, la speranza sta nei decreti legislativi che il ministro Orlando vorrebbe varare nel prossimo Cdm, perché “occorrono nuove regole che mettano al centro in maniera radicale un progetto educativo e non repressivo, e l’apertura al territorio. I ragazzi in carcere non possono essere gestiti con le stesse regole degli adulti”. Sette ergastolani a vita nel direttivo di Nessuno tocchi Caino di Elisabetta Zamparutti* Il Manifesto, 19 dicembre 2017 È una tradizione per “Nessuno tocchi Caino” tenere il Congresso in un carcere, quest’anno quello milanese di Opera, dove, nel dicembre 2015, si era svolto l’ultimo a cui ha partecipato Marco Pannella e da cui ha tratto ispirazione la campagna “Spes contra Spem” per il superamento dell’ergastolo ostativo ed il 41bis. È però una novità assoluta che il Congresso abbia eletto nel Consiglio direttivo proprio degli ergastolani ostativi. Sono infatti 7 gli ergastolani di Opera che ora ricoprono un ruolo da dirigenti nell’associazione: tra loro ci sono Gaetano Puzzangaro, Orazio Paolello, Vito Baglio, Alfredo Sole, Rocco Ferrara, Roberto Cannavò e Giuseppe Ferlito. Uomini a cui negata per legge la speranza con un “fine pena mai” che hanno deciso di incarnarla, di essere fonte di un processo attivo di cambiamento, come testimoniano il docu-film “Spes contra spem - liberi dentro” di Ambrogio Crespi, di cui sono protagonisti, e quegli omonimi laboratori costituiti in varie carceri e fortemente sostenuti dal ministro della Giustizia Andrea Orlando e dal Capo del Dap Santi Consolo. Da oggi, spetterà anche ai sette ergastolani decidere e prendere iniziative volte a superare, con la pena di morte, anche la morte per pena e la pena fino alla morte, nei fatti decretate dall’armamentario emergenzialista speciale di norme e regimi penitenziari quali l’ergastolo ostativo, il 41bis e l’isolamento diurno, per far vivere il “diritto alla speranza” che appartiene ad ogni essere umano, diritto codificato nello spazio del Consiglio d’Europa dalla giurisprudenza della Corte europea dei Diritti dell’Uomo e dagli standard del Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt), ma negato, come è in Italia, da quello sbarramento automatico alla concessione di benefici penitenziari per chi sia imputato o condannato per i reati di cui al 4bis, fintanto che non decida di collaborare alle indagini. In questo senso il Congresso è stato anche occasione per presentare un’altra iniziativa innovativa, un ricorso di massa, quasi 250 casi, al Comitato Diritti umani e al Comitato contro la tortura dell’Onu curato dallo studio legale di Andrea Saccucci per denunciare il sistema dell’ergastolo ostativo che, combinato al “carcere duro” e all’isolamento diurno, provoca nel tempo - come ampiamente dimostrato dalla analisi statistica prodotta da Francesco Fabi in base alle risposte ai questionari di 247 ergastolani ostativi - danni irreversibili sulla salute fisica e mentale del detenuto, tali da configurare punizioni e/o trattamenti inumani e degradanti. È la via sovranazionale, quella che Nessuno tocchi Caino continua a percorrere nello sforzo di accelerare quelle modifiche normative interne necessarie ad adeguare il nostro e altri Paesi agli standard internazionali sui diritti umani. È successo, per quanto riguarda la pena di morte, con l’approvazione della Risoluzione per la moratoria universale delle esecuzioni capitali da parte dell’Assemblea generale di cui proprio oggi ricorre il decennale. Potrebbe succedere, per quanto riguarda l’ergastolo ostativo, già la prossima primavera, quando la Corte Europea per i diritti umani per la prima volta si pronuncerà sul ricorso di un ergastolano a vita, Marcello Viola, contro lo Stato italiano. *Tesoriera di Nessuno tocchi Caino Gli ergastolani di “ Spes contra spem” nel direttivo di Nessuno Tocchi Caino di Valentina Stella Il Dubbio, 19 dicembre 2017 Il settimo congresso dell’associazione a Opera, come nel 2005 quando partecipò Marco Pannella. Sergio D’Elia ed Elisabetta Zamparutti sono stati confermati segretario e tesoriere, mentre Rita Bernardini è stata eletta presidente. Il settimo congresso di Nessuno Tocchi Caino, soggetto costituente il Partito Radicale, si è concluso sabato sera nel carcere milanese di Opera dove, nel dicembre 2015, si era svolto l’ultimo a cui ha partecipato Marco Pannella. Confermati alla Segreteria e Tesoreria rispettivamente Sergio D’Elia ed Elisabetta Zamparutti, mentre Rita Bernardini è stata eletta presidente. La scelta del 16 dicembre come data per tenere il Congresso non è stata casuale, bensì proprio a ridosso del 18 dicembre, giorno in cui, dieci anni fa, vi fu l’approvazione della Risoluzione da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite della moratoria delle esecuzioni capitali che ha contribuito a far quasi dimezzare le esecuzioni, dalle circa 6000 del 2007 alle almeno 3000 dell’anno scorso, oltre che a far aumentare il numero dei Paesi a vario titolo abolizionisti passati dai 148 del 2007 ai 160 attuali. Tuttavia, a causa dell’emergenza terrorismo, alcuni Stati hanno reintrodotto la pena di morte o hanno ripreso le esecuzioni, per questo Nessuno Tocchi Caino ha deciso di impegnarsi in un progetto per contenere la pena di morte in Tunisia, Egitto e Somalia. “Il Congresso ha anche deciso - commenta Elisabetta Zamparutti - con una mozione approvata all’unanimità, di prendere iniziative volte a superare, con la pena di morte, anche la morte per pena e la pena fino alla morte, nei fatti decretate dall’armamentario emergenzialista speciale di norme e regimi penitenziari quali l’ergastolo ostativo, il 41- bis e l’isolamento diurno, per far vivere il “diritto alla speranza” che appartiene ad ogni essere umano, diritto codificato nello spazio del Consiglio d’Europa dalla giurisprudenza della Corte europea dei Diritti dell’Uomo e dagli standard del Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt), ma negato, come è in Italia, da quello sbarramento automatico alla concessione di benefici penitenziari per chi sia imputato o condannato per i reati di cui al 4- bis, fintanto che non decida di collaborare alle indagini”. Ad Opera si è festeggiato soprattutto il raggiungimento dell’obiettivo dei 3000 iscritti al Partito Radicale fissato, pena la sua chiusura, dal 40° Congresso tenuto nel Carcere di Rebibbia e che ora ne deve raggiungerne altrettanti nel 2018, per continuare le lotte di Marco Pannella. “Tra coloro che hanno dato un contributo rilevante alla salvezza del Partito - commenta Sergio D’Elia - ci sono stati sicuramente le iscrizioni dei detenuti, a partire da quelli di Opera: per questo, proprio perché il vissuto conta, il Congresso di Nessuno Tocchi Caino ha deciso di eleggere nel nuovo Consiglio direttivo gli ergastolani ostativi del docu-film “Spes contra Spem - Liberi dentro”, del regista Ambrogio Crespi”. All’evento ha partecipato anche il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri che ha annunciato che l’approvazione dei decreti attuativi dell’ordinamento penitenziario da parte del Consiglio dei ministri è questione di giorni. Intercettazioni, il governo rafforza la difesa di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 19 dicembre 2017 Schema di Dlgs intercettazioni (delega legge 103/2017). Sul piano formale: tempi un po’ più lunghi per l’approvazione finale. Sul piano sostanziale: rafforzato il diritto di difesa e allargato il diritto di accesso agli atti da parte dei giornalisti, in particolare alle ordinanze cautelari. Sono questi i punti chiave da sottolineare, dopo il nuovo passaggio di ieri in Consiglio dei ministri, del decreto di riforma della disciplina delle intercettazioni. Il via libera definitivo avverrà probabilmente la prossima settimana, nell’ultimo consiglio dei ministri dell’anno. Nel frattempo si sarà svolto anche un nuovo round parlamentare, rendendo il testo inattaccabile, dopo che il Governo ha ritenuto di non dovere accogliere tutte le condizioni espresse dalle commissioni Giustizia di Camera e Senato. Sul piano del merito, la versione approvata ieri sera reintroduce una norma che era stata inizialmente voluta, ma poi stralciata, dal ministro della Giustizia Andrea Orlando per consentire ai giornalisti di accedere direttamente ai provvedimenti depositati durante l’indagine e non più segreti, in particolare a quelli in materia cautelare. Si chiarisce cioè che non esiste motivo per sottrarre l’ordinanza cautelare elaborata secondo i nuovi criteri, che impongono cautela nell’inserimento nella relativa motivazione dei contenuti delle intercettazioni, alla possibilità di pubblicazione, in vista proprio del rafforzamento del diritto all’informazione. Con la sua esecuzione o notificazione viene infatti meno il segreto e conservare il divieto di pubblicazione fino alla conclusione delle indagini preliminari oppure fino al termine dell’udienza preliminare appare irragionevole. E se la riforma sarà operativa 6 mesi dopo la pubblicazione, per quanto riguarda invece questa specifica misura sulla stampa, l’entrata in vigore avverrà 12 mesi dopo la pubblicazione. Il termine temporale attribuito ai difensori per l’esame del materiale intercettato, una volta che questo sia stato depositato, è stato alzato da 5 a 10 giorni, con possibile proroga se il materiale è molto ampio e complesso. Gli avvocati potranno avere copia anticipata dei verbali di trascrizione sommaria effettuati dalla polizia giudiziaria e giudicati rilevanti. Chiarito poi che l’avvocato difensore potrà accedere in ogni stato e grado del procedimento all’archivio riservato nel quale andranno a confluire tutte le comunicazioni intercettate. Le condizioni respinte sono in larghissima parte quelle inserite nel parere votato dalla commissione Giustizia del Senato. In particolare, cruciale è stato il no dato alla richiesta, avanzata in sintonia con le sollecitazioni di alcuni dei principali procuratori del Paese, di eliminazione solo delle conversazioni “manifestamente irrilevanti”, con un restringimento rispetto a quanto previsto dalla delega. La legge di delega, infatti, mette in evidenza l’Ufficio legislativo della Giustizia, “non fa menzione della manifesta irrilevanza per l’essenziale ragione che vuol limitare la quantità di conversazioni o comunicazioni oggetto di trascrizione nei verbali”. Il rischio di lesione ai diritti alla riservatezza sarebbe infatti maggiore se anche materiale irrilevante, pur se non manifestamente irrilevante, fosse oggetto di trascrizione. Il criterio della manifesta irrilevanza potrebbe avere senso, si osserva ancora, in un sistema che riconoscesse alla polizia giudiziaria delegata all’ascolto un potere di filtro: priva della direzione delle indagini, non potrebbe che riferirsi “ad un criterio capace di scartare soltanto il materiale macroscopicamente estraneo alle indagini medesime. La legge di delega, invece, conferma una scelta già operata dal codice di rito, assegnando ogni decisione al pubblico ministero”. Intercettazioni. C’è il carcere per chi diffonde video e audio in modo fraudolento di Luigi Chiarello Italia Oggi, 19 dicembre 2017 Il Consiglio dei Ministri vara il Dlgs che riscrive la disciplina delle intercettazioni. Entra nel codice penale il delitto di “diffusione di riprese e registrazioni di comunicazioni fraudolente”. Chiunque diffonda audio e video, in modo fraudolento e con ogni mezzo, allo scopo di arrecare danno alla reputazione o all’immagine altrui sarà punito con la reclusione fino a quattro anni. Previsto anche un giro di vite a tutela della riservatezza delle comunicazioni tra avvocato difensore ed assistito. E il divieto di trascrizione, anche sommaria, di comunicazioni e conversazioni considerate irrilevanti per le indagini. Stesso divieto per i dati considerati “sensibili” dalla legge. Non è finita. Arriva anche una nuova disciplina per il deposito degli atti relativi alle intercettazioni, per la selezione del materiale raccolto e, non da ultimo, per le modalità di intercettazioni mediante captatori informatici. Tutto questo è previsto da un decreto legislativo, approvato ieri in seconda lettura dal Consiglio dei ministri, recante disposizioni in fatto di intercettazioni e comunicazioni; il provvedimento è attuativo della delega prevista dalla legge n. 103/2017, all’articolo 1, commi 82, 83 e 84, lettere a), b), c), d) ed e). L’obiettivo, si legge in una nota di Palazzo Chigi, è confermare “il ruolo delle intercettazioni come fondamentale strumento di indagine” e creare “giusto equilibrio tra la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione e il diritto all’informazione”. Ma andiamo con ordine. Diffusione audio e video. Come detto, tra le misure principali, il testo prevede: l’introduzione nel Codice penale del delitto di “diffusione di riprese e registrazioni di comunicazioni fraudolente”. La reclusione fino a 4 anni scatta per chiunque diffonda riprese audio o video, fatte in modo fraudolento, di incontri privati o registrazioni (pur esse fraudolente), ma anche conversazioni (anche telefoniche o telematiche), svolte in sua presenza o con la sua partecipazione. La punibilità è esclusa se la diffusione delle riprese o delle registrazioni deriva in via diretta ed immediata dalla loro utilizzazione in un procedimento amministrativo o giudiziario. Oppure per l’esercizio del diritto di difesa o del diritto di cronaca. Il delitto è punibile a querela della persona offesa. Comunicazioni tra difensore e assistito. Il divieto, già previsto, di attività diretta di intercettazione nei confronti del difensore, con conseguente inutilizzabilità delle relative acquisizioni, viene ampliato, prevedendo che l’eventuale coinvolgimento, in via anche solo occasionale, del difensore nell’attività di ascolto legittimamente eseguita, non possa condurre a verbalizzazione delle relative comunicazioni o conversazioni. Divieto di trascrizione delle comunicazioni o conversazioni irrilevanti per le indagini. Il divieto riguarda le intercettazioni reputate irrilevanti, sia riguardo all’oggetto d’indagine, sia in relazione ai soggetti coinvolti. Ma il divieto si estende anche alle conversazioni o comunicazioni contenenti dati personali sensibili (ove non fossero ritenute rilevanti a fini probatori). Viene fatta salva la facoltà del pubblico ministero di disporre per decreto che comunicazioni e conversazioni siano trascritte nel verbale, quando vengano ritenute rilevanti. Stessa cosa per i dati personali sensibili. Deposito degli atti riguardanti le intercettazioni e selezione del materiale raccolto. Viene introdotta una nuova disciplina, consistente in una procedura in due fasi. Questa prevede, in primis, il deposito delle conversazioni e delle comunicazioni, oltre che dei relativi atti. E solo dopo, l’acquisizione di quelle rilevanti e utilizzabili e il contestuale stralcio di quelle irrilevanti e inutilizzabili. Inoltre, il pm viene individuato come garante della riservatezza della documentazione, poiché a lui spetta la custodia, in un apposito archivio riservato, del materiale irrilevante e inutilizzabile, con facoltà di ascolto ed esame, ma non di copia, da parte dei difensori e del giudice, fino al momento di conclusione della procedura di acquisizione. Di conseguenza, il dlgs ridefinisce la procedura volta a selezionare il materiale raccolto dal pm e prevede un meccanismo differenziato di acquisizione nel caso in cui il materiale d’intercettazione rilevante sia stato già utilizzato per l’emissione di un provvedimento cautelare. Si supera quindi il precedente modello incentrato sulla cosiddetta “udienza stralcio”, caratterizzato dal fatto che tutto il materiale d’intercettazione era sin da subito nel fascicolo delle indagini preliminari, invece che essere collocato in un archivio riservato. Captatori informatici (trojan horse). Il dlgs prevede che tali dispositivi non possano essere mantenuti attivi senza limiti di tempo o spazio, ma debbano essere attivati da remoto secondo quanto previsto dal pm nel proprio programma d’indagine. In più, vanno disattivati se l’intercettazione avviene in ambiente domiciliare, a meno che non vi sia prova che in tale ambito si stia svolgendo l’attività criminosa. O quando l’indagine non riguardi i delitti più gravi, tra cui mafia e terrorismo. Il Cdm ha poi approvato in via definitiva altri due dlgs: uno sui richiedenti asilo e l’altro per facilitare la tutela consolare dei cittadini Ue. Le carceri rumene violano i diritti umani, no all’estradizione di Irene Savasta ragusanews.com, 19 dicembre 2017 Costica Sandu, rumeno, 36enne, resterà per il momento in Italia perché le carceri rumene violano i diritti umani. Era stato arrestato il 7 luglio del 2017 su mandato di cattura europeo perché condannato in Romania dal tribunale di Neamt alla pena di cinque anni di reclusione perché ritenuto responsabile del reato di tentato omicidio commesso in patria la notte del 21 giugno 2013. L’uomo è stato rintracciato dalla polizia di Vittoria in un’abitazione centro storico e portato in carcere a Ragusa a disposizione del Presidente della Corte di Appello di Catania. Sandu Costica ha vinto il ricorso in Cassazione, presentato dal suo avvocato difensore Rosario Alessandro Calabrese. Un iter giudiziario piuttosto travagliato ma la difesa, spiega l’avvocato Calabrese, non intende mollare e ha prodotto documentazione circa lo stato delle carceri in Romania. La Corte di Appello di Catania, dopo aver convalidato l’arresto di Costica gli applicava la misura cautelare della custodia in carcere, in attesa della trasmissione, da parte delle Autorità Rumene, dei documenti necessari ed imprescindibili per il mantenimento della misura cautelare e per l’accoglimento della richiesta di consegna del condannato. Durante l’udienza di convalida, tramite il difensore, si è opposto alla consegna e ha insistito sull’illegittimità del mandato di arresto europeo. Ha così prodotto un rapporto del Consiglio d’Europa da cui si evincevano gravi indizi di violazione dei diritti umani in relazione alle condizioni di detenzione presso le carceri rumene. La Corte di Appello ha però rigettato tutti i motivi di opposizione al mandato di arresto e ha disposto la consegna di Costica allo Stato della Romania. La sentenza è stata però impugnata dalla difesa dinanzi alla Corte di Cassazione perché, spiega il difensore, la Corte di Appello non aveva verificato i documenti circa la probabile violazione dei diritti umani nelle carceri Rumene. La Cassazione ha così accolto il ricorso e annullava con rinvio la sentenza, richiedendo che un’altra sezione della Corte Distrettuale verificasse il rispetto degli standard minimi europei di trattamento carcerario e specificamente di valutare lo spazio inframurario di detenzione, individuato in un minimo di 3 mq netti calpestabili. L’imputato è stato scarcerato il 14 dicembre e il 19 dicembre ci sarà l’udienza conclusiva dinanzi alla Corte D’Appello di Catania per decidere se l’imputato debba essere consegnato alle Autorità Rumene per scontare la pena in Romania o se restare in Italia, come da sempre sostenuto dalla Difesa, perché le carceri rumene violano i diritti umani. Reato di omessi contributi a confini incerti di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 19 dicembre 2017 Corte di cassazione - Rinvio alle Sezioni unite. È caos su uno dei cardini della recente depenalizzazione, l’uscita dall’area penale delle omesse ritenute al di sotto della soglia di 10mila euro all’anno. Ed è proprio sul momento in cui si consuma il reato che è esploso il caso, di rilevanza tale da convincere il Primo presidente della Cassazione, Giovanni Canzio, a rinviare alle Sezioni unite la soluzione. Decisione presa perché “pur in assenza di un contrasto giurisprudenziale in atto, la questione interpretativa prospettata appare di particolare delicatezza, incidendo da un lato su aspetti attinenti a risorse finanziarie pubbliche di primario rilievo, dall’altro sugli assetti organizzativi dell’Istituto di previdenza”. Era stato, infatti, quest’ultimo a sollecitare un chiarimento sul punto con una nota indirizzata ai vertici della Cassazione, nella quale si faceva notare come il passaggio da penale ad amministrativa della sanzione per la violazione sotto soglia, aveva imposto all’Inps di riorganizzare in tempi ridottissimi, per rispettare il termine di 90 giorni entro il quale notificare la contestazione dell’illecito amministrativo rilevato dagli atti restituiti dalle Procure, i processi di gestione della materia contributiva e di commissionare programmi informatici adeguati. Anche perché, sottolinea l’Inps, il fenomeno ha dimensioni assai rilevanti, visto che al 30 settembre 2017 erano state rilevate 3.199.829 violazioni a partire dal 2010 ed erano state, a quella data, inviate 18.777 diffide penali e 366.478 notifiche per contestazioni di illecito amministrativo, con un costo complessivo per le sole notifiche di quasi 5 milioni di euro. In via preliminare, quindi, Inps avviò un confronto con il ministero del Lavoro e con la Procura di Roma. In questo contesto si arrivò alla conclusione di dovere riconoscere nella nuova fattispecie un reato che potrebbe anche configurarsi a formazione progressiva e a consumazione prolungata. “Quest’ultimo carattere, particolare, portò a ritenere che il rispetto della struttura annuale dell’illecito imponesse di contenere entro l’arco temporale dell’anno civile non soltanto l’importo omesso, ma anche la condotta omissiva”. In questo modo si arrivò a concludere di dovere fare riferimento alla somma delle singole omissioni verificatesi nel corso di uno stesso anno a partire da quella del mese di gennaio, riferita all’importo dovuto per il mese di dicembre dell’anno precedente, fino all’omissione del mese di dicembre riferita all’importo contributivo dovuto per novembre. Ragionando diversamente, ci si sarebbe invece indirizzati su una condizione ibrida che veniva a sommare importi omessi con importi dovuti, ma non ancora omessi perché la scadenza del versamento delle ritenute operate su dicembre è fissata al 16 gennaio dell’anno seguente. Non si sarebbe potuto inoltre riconoscere nel reato una consumazione prolungata circoscritta all’anno. A questa linea si attennero poi sia il Ministero sia l’Inps sia la Procura di Roma nell’individuare i fascicoli da inviare all’Istituto perché privi di rilevanza penale. A fare scoppiare però il caso, rispetto a questo assetto condiviso, è stata proprio la Cassazione che, con una serie di sentenze (da ultimo le 22140, 39464 e 39882 del 2017), ha indicato un diverso criterio di calcolo del contributo omesso, rapportandolo non più all’importo effettivamente omesso, ma quello maturato nell’anno di competenza, dal 1° gennaio (con scadenza il 16 febbraio dello stesso anno) al 31 dicembre (con scadenza il 16 gennaio dell’anno successivo). Decisione recepita dall’Ispettorato del lavoro, a cui sono passate le competenze ministeriali, con lettera circolare 8376 dello scorso 25 settembre. Se quest’orientamento si consolidasse, lancia l’allarme l’Inps, si renderebbe necessario il riesame di migliaia di fascicoli, compresi quelli inviati dalle Procure che hanno adottato il medesimo criterio di quella romana: andrebbe cioè nuovamente accertato se può essere ancora contestato l’illecito amministrativo o se è necessario rimandare gli atti ai pubblici ministeri interessati, mettendone in risalto il profilo penale. “Inoltre si dovrebbero commissionare le modifiche ai programmi informatici e riesaminare tutte le contestazioni di illecito amministrativo già notificate e, ove necessario, revocarle”. Omesso versamento di ritenute e crisi di liquidità, punibilità esclusa se manca il dolo di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 19 dicembre 2017 Tribunale di Firenze - Sezione II penale - Sentenza 6 luglio 2017 n. 1518. Il legale rappresentante di una società che omette di versare, nel termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta, le ritenute certificate risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituti, non può essere punito per il reato di omesso versamento di ritenute certificate per difetto di dolo, qualora la società abbia adottato tutte le misure concrete possibili per far fronte alla crisi di liquidità. Ad affermarlo è il Tribunale di Firenze con la sentenza 1518/2017. I fatti - La vicenda processuale trae origine dalla contestazione del delitto di cui all’articolo 10-bis del Dlgs 74/2000 nei confronti del legale rappresentante di una società produttrice di macchine per la lavorazione del legno, che, alla scadenza del termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto d’imposta, non aveva versato le somme risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituti, per un ammontare di circa 220 mila euro. Il legale rappresentante della società si difendeva sostenendo di aver fatto tutto il possibile, con azioni concrete, per evitare l’omesso versamento delle ritenute, nel contesto di una situazione economico-finanziaria che repentinamente aveva portato ad una irreversibile crisi del settore della lavorazione del legno. La società, infatti, aveva fatto di tutto per sopravvivere, garantendo il pagamento dei fornitori strategici ed essenziali per ottenere i servizi necessari, ricorrendo anche al contratto di solidarietà difensiva, pagando gli emolumenti spettanti ai dipendenti, l’Iva e l’Irpef, facendo fronte alle problematiche bancarie connesse alla crisi di liquidità, rateizzando i debiti con il Fisco, rinunciando ai compensi per i membri del Cda per due anni e riducendo gli emolumenti per gli anni futuri. Tutto ciò, tuttavia, non era bastato per onorare il debito tributario. L’assenza di dolo esclude il reato - Il Tribunale analizza la fattispecie contestata all’imputato dell’omesso versamento di ritenute, che sempre o quasi “ha origine in difficoltà economiche dell’obbligato”, soffermandosi sul meccanismo di riscossione dell’imposta mediante sostituzione, il cui funzionamento consente di salvaguardare il sostituto “che non dovrà sopportare il rischio che il prelievo rimanga a suo carico”, ma che dovrà “adempiere al pagamento al posto del sostituito, avendo lui stesso la disponibilità materiale di quelle somme di denaro che sono di giuridica spettanza dell’Erario”. In tale ipotesi, dunque, sorge in capo al sostituto “l’obbligo di accantonare le somme dovute all’Erario, organizzando le risorse disponibili in modo da poter adempiere all’obbligazione tributaria”, essendo poi gli spazi per ritenere esclusa la responsabilità penale dell’amministratore piuttosto ristretti, ovvero “l’assenza dell’elemento soggettivo o la sussistenza della scriminante della forza maggiore, quale conseguenza di una improvvisa situazione di illiquidità”. Ebbene, il giudice dopo aver rilevato la tesi che fa leva sull’applicazione della scriminante di cui all’articolo 45 c.p., ritiene di aderire all’orientamento che ritiene “inesigibile - più che scriminato - la condotta doverosa da parte dell’imputato rispetto al debito erariale”. La mancanza di liquidità della società, cioè, non poteva essere imputabile al rappresentante legale della stessa. L’azienda aveva, infatti, fatto tutto il possibile per evitare l’inadempimento tributario, dalla rateizzazione dei debiti, al pagamento dei salari sino alla riduzione dei compensi dei vertici societari, essendo “di fatto oggettivamente impossibile onorare il debito tributario con il versamento delle somme risultanti dalle certificazioni, somme effettivamente corrisposte nel momento in cui l’azienda riprendeva vigore e tale inadempimento non poteva essere addebitato all’imputato a titolo di dolo”. Consegna dell’imputato tra stati membri: stop ai ritardi dell’estradizione Il Sole 24 Ore, 19 dicembre 2017 Cooperazione internazionale penale - Mandato di arresto europeo (Mae) - Estradizione - Latitanza - Evasione. Lo stato di latitanza, a cui è equiparata la condizione dell’evaso, cessa, oltre che nelle ipotesi di cui all’articolo 296, comma 4, c.p.p., soltanto con la cattura del latitante o con la costituzione spontanea in Italia o ancora con l’arresto all’estero a seguito di estradizione, qualora l’imputato possa considerarsi a disposizione dell’autorità giudiziaria italiana. Inoltre, una simile condizione ricorre anche in caso di arresto effettuato secondo la procedura relativa al mandato di arresto europeo (Mae) nonché alle procedure di consegna tra Stati membri, che introducono un sistema semplificato di consegna delle persone condannate e/o imputate eliminando le complessità e i ritardi inevitabilmente collegati all’estradizione. • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 1° dicembre 2017 n. 54245. Rapporti giurisdizionali con autorità straniere in materia penale - Estradizione - Mandato d’arresto europeo - Principio di specialità, operatività. In tema di estradizione, alla luce di quanto stabilito dagli articoli 26 e 32 della legge n. 69/2005, con la quale è stata recepita la decisione - quadro del Consiglio in materia di mandato di arresto europeo e di procedure di consegna fra gli Stati membri, deve ritenersi che, quando si rientri nell’ambito di applicazione di tale Legge, principio di specialità operi in maniera attenuata, nel senso che la persona consegnata può legittimamente essere sottoposta a procedimento anche per fatti anteriori e diversi rispetto a quelli per i quali la consegna e stata ottenuta, a condizione che detto procedimento non dia luogo a privazione della libertà personale. (Nella specie, in applicazione di tale principio, la Corte ha ritenuto che legittimamente fosse stata attivata, nei confronti della persona consegnata, la procedura di revoca del beneficio della sospensione condizionale che era stato concesso con una sentenza relativa a fatti non compresi tra quelli per i quali il provvedimento di consegna era stato adottato). • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 30 gennaio 2017 n. 4457. Rapporti giurisdizionali con autorità straniere in materia penale - Estradizione - Principio di specialità - Contenuto applicabilità - Esclusione - Per entrata in vigore della disciplina in materia di mandato d’arresto europeo - Conseguenza diretta - Esclusione. In tema di estradizione, qualora la consegna di un imputato sia stata chiesta e ottenuta sulla base dell’articolo 14 della Convenzione europea di estradizione, resa esecutiva in Italia con la legge n. 300 del 1963, la piena operatività del principio di specialità, fissato in detta norma, per cui l’estradato non può essere neppure perseguito a piede libero per fatto commesso anteriormente alla consegna e diverso da quello per il quale l’estradizione è stata concessa (salve le ipotesi che venga chiesta e ottenuta un’estradizione suppletiva o che l’interessato rinunci espressamente o “per facta concludentia” al privilegio), non può essere esclusa sulla base della sopravvenuta entrata in vigore della disciplina in materia di mandato di arresto europeo nella parte in cui questa consente che il pur mantenuto principio di specialità possa essere derogato ove il procedimento penale non dia luogo all’applicazione di una misura restrittiva della liberta, personale (articolo 26, comma 2, lett. c della legge n. 69/2005). • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 18 ottobre 2016 n. 44121. Estradizione e mandato d’arresto europeo - Mandato d’arresto europeo - Motivi di rifiuto della consegna - Reato commesso in parte nel territorio italiano - Accordi tra gli stati membri in materia di estradizione più favorevoli alla consegna - Applicabilità. Nel sistema del mandato d’arresto europeo, qualora il reato sia stato commesso in tutto o in parte nel territorio dello Stato, la consegna della persona ricercata può essere concessa anche applicando singole disposizioni degli accordi in vigore tra gli Stati membri in materia di estradizione che risultino più favorevoli alla consegna, non operando in tal caso il divieto previsto dall’articolo 18, comma 1, lettera p), L. 69/05 (fattispecie relativa all’esecuzione di un mandato d’arresto europeo emesso dall’autorità giudiziaria tedesca e ritenuto eseguibile in applicazione dell’art. 11 dell’accordo bilaterale italo-tedesco del 24/10/1979, ratificato con L. 11/12/1984 n. 969). • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 27 dicembre 2010, n. 45524. Milano: morire a vent’anni nel bagno di un carcere di Fabrizio Ravelli La Repubblica, 19 dicembre 2017 Del carcere molti hanno idee approssimative, per lo più alimentate da pessimi film americani. Si fatica a capire che è un mondo complicato, pieno di luci e ombre, di dolore ma anche di umanità. L’ombra è quella che cala in momenti come quello di martedì scorso, quando alla sera hanno trovato un detenuto che s’era suicidato a San Vittore. Era un ragazzo egiziano di vent’anni, s’è impiccato con le stringhe delle scarpe nel bagno della sua cella al quinto raggio. Hanno provato a soccorrerlo, è arrivata un’ambulanza ma non c’era più niente da fare. Pochi giorni prima era stato processato e condannato a quattro anni per una rapina. Il pm aveva chiesto due anni. Lui si diceva innocente vittima di uno scambio di persona. Notizie come questa facilmente scorrono via, e si dimenticano in fretta. Ma la mattina dopo in carcere non si parlava d’altro. La comandante della polizia penitenziaria, pallidissima, governava l’andirivieni di agenti per ricostruire il fatto. C’era molto sgomento nel personale per questa sconfitta, l’ennesima. A San Vittore funziona una struttura di psicologi che, dopo ogni condanna, cercano di dare sostegno al detenuto e di valutare le sue condizioni. Gli stessi detenuti, informalmente fanno il possibile per star vicino al loro compagno. Questo ragazzo egiziano era solo in Italia, senza soldi, alla sua prima carcerazione, senza la forza di resistere alla prospettiva di quattro anni in cella. Non si può morire così, a vent’anni, nel cesso di una galera. E un ragazzo condannato a quattro anni forse dovrebbe stare in un altro tipo di struttura, non a San Vittore. Alba (Cn): agricoltura sociale, il convegno “Il lavoro, dentro… Dentro al lavoro” agricolae.eu, 19 dicembre 2017 Sabato scorso si è tenuto ad Alba, presso la Sala Vittorio Riolfo nel Cortile della Maddalena, il convegno “Il lavoro dentro… Dentro al lavoro”. L’evento, che ha visto tra i promotori il Consorzio di Cooperative Sociali - Compagnia di Iniziative Sociali CIS, la Città di Alba, i Garanti regionale e comunale delle persone private della libertà personale e Syngenta, azienda leader in agricoltura a livello globale, ha come obiettivo primario quello di creare un momento di discussione e confronto tra le istituzioni politiche nazionali, quelle locali, enti del Terzo Settore e le realtà che operano nel settore d’interesse, sul tema del recupero sociale e professionale dei detenuti e sul ruolo che l’agricoltura può svolgere in questo processo riabilitativo, grazie alla legge sull’Agricoltura Sociale promossa dal Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali. Tra le istituzioni presenti in occasione del convegno anche il Viceministro delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, Andrea Olivero. I punti cardine del confronto discussi tra i relatori sono stai l’importanza del reinserimento sociale dei detenuti e le opportunità offerte dalla legge dell’agricoltura sociale, coinvolgendo nel dibattito non solo le istituzioni, ma anche le associazioni e gli imprenditori agricoli del territorio per comprendere opportunità, limitazioni e bisogni che permettano una multifunzionale applicazione della legge. Per l’occasione sono stati coinvolti vari enti che operano nel settore, chiamati a presentare i loro migliori progetti rieducativi, sviluppati in questi anni in Piemonte e tradotti nel tempo in esperienze di particolare successo. Tra i casi di maggiore rilievo in ambito di Agricoltura sociale è stato discusso Valelapena, ambizioso progetto nato nel 2006 che vede la collaborazione tra Syngenta, il Ministero della Giustizia, la Casa di Reclusione d’Alba, l’Istituto Enologico d’Alba e i Comuni di Alba e Bra per sostenere il recupero dei detenuti della casa circondariale di Alba attraverso una formazione specifica e l’impiego diretto e concreto in un vigneto situato all’interno del carcere stesso. Ogni anno il progetto coinvolge 15 detenuti che, all’interno dell’istituto penitenziario, seguono un corso per ottenere la qualifica di operatore agricolo e coltivano vitigni di nebbiolo, barbera, dolcetto e cortese. Alla vinificazione, imbottigliamento ed etichettatura provvede l’Istituto Enologico Umberto I di Alba per una produzione annua di 1.400 bottiglie. Attraverso la qualifica professionale e l’attività svolta nel vigneto, gli ospiti della Casa di Reclusione hanno la possibilità di maturare le competenze e l’esperienza necessarie per trovare impiego presso le aziende vitivinicole della zona una volta scontata la pena. Syngenta mette a disposizione i prodotti, le competenze e le risorse necessarie per una corretta e completa protezione del vigneto. Il Viceministro delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, Andrea Olivero ha affermato: “Sono lieto di dare il mio contributo a questo evento dedicato all’Agricoltura Sociale e al progetto Valelapena perché credo fortemente che possa rappresentare un esempio per altre realtà e un’occasione concreta di riscatto e vera e propria rinascita per i detenuti. Ho sostenuto fortemente la legge sull’Agricoltura sociale e intendo continuare a promuovere con impegno ogni iniziativa di welfare che possa portare integrazione tra agricoltura, etica e legalità”. Elena Saglietti, Presidente del Consorzio di Cooperative Sociali CIS commenta: “Il convegno del 16 dicembre rappresenta un’occasione per creare delle importanti relazioni tra il mondo delle imprese profit e quelle del privato sociale impegnate in progetti di reinserimento delle persone detenute. Proprio il tema dell’agricoltura sociale può rappresentare un terreno di interessanti sinergie e collaborazioni”. Giuseppina Piscioneri, Direttrice della Casa di Reclusione di Alba aggiunge: “L’obiettivo primario dei progetti di Agricoltura sociale come Valelapena è offrire ai detenuti una professionalità di cui potranno beneficiare al termine della reclusione. In questo modo infatti si concretizza il processo di reinserimento sociale del detenuto, che avrà tutto il know-how necessario per rientrare a pieno nel contesto della comunità locale e alle opportunità offerte dal tessuto produttivo del territorio”. Cristina Marchetti, Responsabile Regulatory & Corporate Affairs di Syngenta Italia commenta: “La nostra azienda, totalmente dedicata all’agricoltura e da sempre attenta ai risvolti sociali del settore, attraverso il progetto Valelapena vuole sensibilizzare l’opinione pubblica locale e le Istituzioni sul ruolo fondamentale dell’agricoltura non solo per la nostra economia ma anche per il tessuto sociale. La legge nazionale sull’Agricoltura Sociale rappresenta un’occasione unica per dare continuità a questa esperienza”. Il convegno “Il lavoro dentro… Dentro al lavoro” nasce dalla collaborazione di numerose Enti e aziende impegnate nel settore sul territorio. Capofila del progetto è infatti il Consorzio di Cooperative Sociali - Compagnia di Iniziative Sociali CIS, e vede come partner la Città di Alba, i Garanti regionale e comunale delle persone private della libertà personale, l’Associazione Arcobaleno, la Casa di Reclusione “Giuseppe Montalto” di Alba, Syngenta, l’Ente Fiera Internazionale del Tartufo Bianco d’Alba, il Mercato della Terra “Italo Seletto Onlus” di Alba e la Consulta comunale del Volontariato. Il progetto ha inoltre ricevuto il contributo finanziario della Fondazione Cassa di Risparmio di Cuneo. Roma: detenuto con meningite a Regina Coeli, trasferito all’ospedale Santo Spirito romatoday.it, 19 dicembre 2017 Caso di meningite a Regina Coeli. Un detenuto italiano, recluso nel carcere romano per il reato di “omicidio” è stato trasportato con urgenza all’Ospedale Santo Spirito per una visita dopo la quale gli è stata diagnosticata la malattia. Sono già state disposte le procedure per la profilassi al personale di Polizia Penitenziaria ed ai detenuti dell’VIII Sezione detentiva di Regina Coeli. È quanto fa sapere in una nota Maurizio Somma, segretario nazionale per il Lazio del il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria (Sappe): “Una situazione, quella sanitaria, assai problematica per le carceri, che espone il personale di Polizia Penitenziaria a rischio costanti e continui per la propria incolumità e sicurezza”. “In un recente Consesso degli esperti medici penitenziari di Simspe e Simit è stato rilevato come, nel corso del 2016, siano transitate all’interno dei 190 istituti penitenziari italiani oltre centomila detenuti. Oltre la metà dei circa 20mila detenuti stranieri è risultato positivo al test alla tubercolina che indica un pregresso contatto con il bacillo tubercolare. Queste persone non presentano una malattia attiva, ma sono a rischio di svilupparla in caso di forti stress in grado di ridurre l’efficienza del proprio sistema immunitario. Molto diffuse anche le patologie psichiatriche, ed alcune fra le più gravi, quale la schizofrenia, appaiono notevolmente sottostimate, con appena uno 0,6% affetto da questa patologia, che rappresenta in realtà solo i pazienti detenuti con sintomi conclamati e facilmente diagnosticabili. Ma i dati più preoccupanti provengono dalle malattie infettive”, conclude Donato Capece, segretario generale del Sappe. Caserta: carceri, il nuovo modello nel volume di Antonio Mattone di Franco Tontoli Il Mattino, 19 dicembre 2017 A pochi giorni dall’approvazione della riforma del sistema penitenziario, un momento di riflessione sul mondo delle carceri, sulla condizione dei detenuti, sul reinserimento nella società per quanti scontano il loro debito con la giustizia, è venuto dal convegno organizzato nella biblioteca diocesana da Camilla Sgambato, deputata al parlamento, componente della commissione Cultura. Il tema della discussione è stato tratto dal libro di Antonio Mattone “E adesso la palla passa a me. Malavita, solitudine e riscatto dal carcere”, una raccolta di articoli e riflessioni che l’autore ha sviluppato in dieci anni di esperienza vissuti come volontario all’interno del carcere di Poggioreale e di altri penitenziari italiani, attraverso gli editoriali pubblicati su Il Mattino. Con la parlamentare Sgambato, sono intervenuti, con il coordinamento del giornalista Luigi Ferraiuolo, il vescovo Giovanni D’Alise e Mauro Palma, garante nazionale dei detenuti e dei privati della libertà. L’avvio al confronto, poi risultato tutto una concordanza, dalla lettura di alcuni brani del libro da parte di Lucia Ferillo, passaggi sulle “carceri enclavi del male praticato da carcerati e carcerieri”, su quei cancelli ove “una mandata di chiavistelli raddoppiata, raddoppia anche la recidiva”. Non si è ragionato di buonismo, ma di umanità. “Ho avuto esperienza di frequentazione nelle carceri di Ariano Irpino - ha detto il vescovo D’Alise - e facendo tesoro dell’esempio di monsignor Riboldi, ho sempre considerato la popolazione carceraria come la mia parrocchia più importante. Auspico che nel nuovo sistema sia stato messo al centro soprattutto la dignità dell’uomo”. Mauro Palma ha parlato da esperto, presidente dell’organismo di garanzia e componente a Strasburgo della commissione che ha sanzionato l’Italia per l’inadeguatezza del sistema carcerario. “Ad essere tutelati - diceva - oltre ai detenuti devono essere gli ospiti delle comunità riabilitative, gli anziani e disabili, i migranti, tutti a vario modo privati della libertà. La nuova normativa porterà dal carcere inerte al carcere responsabilizzato, con pene diverse dalla detenzione”. “La politica - ha osservato Camilla Sgambato - si è fatta a lungo condizionare dall’indifferenza su un tema delicato e importante. Ho visitato più volte le carceri di Carinola e San Tammaro, le sofferenze dei detenuti di questo stabilimento senza condotte idriche, per il cui allacciamento all’acquedotto è pronto un finanziamento della Regione che il comune di Santa Maria Capua Vetere non riesce a impiegare. Questi i problemi da risolvere”. Da Antonio Mattone la considerazione finale: “Condizioni detentive dignitose, cura della salute e accesso a pene alternative: queste le chiavi risolutive per il recupero sociale di chi ha sbagliato”. Brascia: Salvini (Lega) a Canton Mombello “troppi reclusi stranieri” di Silvia Ghilardi Corriere della Sera, 19 dicembre 2017 Attorniato da un gruppo di baschi azzurri Matteo Salvini, leader della Lega Nord, ha visitato ieri il carcere di Canton Mombello. È stato proprio il sindacato di Polizia Penitenziaria Sinappe ad invitarlo a Brescia per valutare le condizioni della struttura tra sovraffollamento e carenza d’organico. il suo commento, una volta fuori dalle mura della casa circondariale, non si è fatto attendere. “Questi uomini - ha detto Salvini riferendosi agli agenti di polizia penitenziaria - si sacrificano oltre ogni limite per uno stipendio che arriva a malapena ai 1200 euro al mese ed è quindi ora di sbloccare il loro contratto che è fermo da nove anni. Queste persone hanno meno diritti di chi è detenuto”. Secondo il segretario leghista quello dentro alle carceri italiane è un mondo al contrario. “I detenuti sono una grossa spesa per la collettività e hanno sempre garantite le visite mediche, cosa che non accade a molti cittadini che vivono onestamente”. Una soluzione per Matteo Salvini potrebbe essere quella dell’espulsione. “A Canton Mombello ci sono 340 detenuti ed i due terzi sono stranieri: nel 2017 ci sono state solo 13 espulsioni, dato eccessivamente basso. Bisogna riportare nei loro paesi questi gentiluomini marocchini, albanesi e tunisini che hanno rubato e violentato”. Sottolineando la necessità di rinnovare strutture carcerarie come quella bresciana (il prossimo anno arriverà il progetto esecutivo da 14 milioni per la nuova casa circondariale di Verziano), il deputato ha anche lanciato una frecciata al suo principale alleato proprio in tema di giustizia. Forza Italia si è astenuta sull’eliminazione dello sconto di pena per reati efferati proposta dalla Lega. “Non esiste che Forza Italia non stia con noi sul tema della certezza della pena. Mi aspetto un comportamento simile dalla sinistra ma non da loro. Spero che Forza Italia riconosca l’errore e ponga rimedio”. Una battuta Matteo Salvini l’ha riservata anche alle elezioni amministrative di palazzo Loggia, della prossima primavera: “Ribadisco che vorrei vedere un sindaco leghista qui a Brescia. Un sindaco capace, che torni ad occuparsi di temi importanti come appunto l’immigrazione. La Lega Nord per questo incarico non ha solo una persona disponibile ma ne ha più di una. Confido che come abbiamo vinto in altre città vinceremo anche a Brescia”. Torino: “Da noi a loro”, un regalo per i giovani detenuti del Ferrante Aporti di Jacopo Ricca La Repubblica, 19 dicembre 2017 L’iniziativa lanciata dalla garante Monica Gallo: “Almeno un dono a chi non può godere del calore della famiglia”. Far scoprire la gioia di ricevere un regalo ai giovani detenuti del Ferrante Aporti di Torino. “Da noi a loro” è l’iniziativa, lanciata lo scorso anno dalla Garante dei detenuti della Città di Torino, Monica Gallo, per permettere di avere almeno “un dono a chi non può godere del calore della famiglia durante il periodo natalizio”. Il problema sono i fondi, molto limitati, che non consentono alla direttrice del carcere, Gabriella Picco, di acquistare regali per i detenuti, ma il Natale si celebra anche in un carcere minorile. E anche per chi non crede, o ha una fede diversa, la festa è una delle poche occasioni dove ci si può sentire come tutti gli altri ragazzini, nonostante ci si trovi dietro le sbarre. Il progetto “Da noi a loro” l’anno scorso ha riscosso grande successo tra i torinesi che hanno risposto in massa all’appello della garante Gallo: il grande albero che anima in queste settimane la “piazza”, l’atrio centrale del Ferrante Aporti, si era riempito di doni, da portare rigorosamente non impacchettati per consentire i controlli di sicurezza. “Un successo che fa sentire meno soli e meno esclusi i ragazzi - dice la garante - E riaccende il principio di sussidiarietà orizzontale che già lo scorso anno aveva stimolato tante persone ad avvicinarsi al carcere minorile”. E per i 34 giovani detenuti che passeranno il Natale 2017 nella struttura gli organizzatori sperano di poter fare lo stesso: “Sì ricorre sempre meno alla detenzione minorile perché la giustizia dei minori viene affrontata il più possibile fuori dal carcere ed è una delle ragioni per le quali si tende a dimenticare gli istituti minorili e i bisogni di chi ci vive - spiega la garante Monica Gallo - Questa iniziativa nata lo scorso Natale vuole anche sensibilizzare i cittadini e accorciare le distanze tra chi è dentro e chi è fuori. Da noi a loro, appunto”. Secondo Gallo l’iniziativa consentirà di passare “un Natale più solidale non solo per i giovani detenuti del Ferrante Aporti, ma per tutti coloro che intendono contribuire. La scorsa edizione si era aperta con la donazione da parte di un ragazzino di un modellino di Fiat 500, ed era continuata sino alla vigilia con tanti doni, ma anche con tante proposte di collaborazione che si sono poi concretizzate durante l’anno”. Anche quest’anno è arrivato l’ok della direttrice Picco che, soddisfatta di com’è andato l’anno scorso, si è detta favorevole a ripetere l’esperimento. Come già per il 2016 l’adesione è piuttosto semplice. Basterà presentarsi ai cancelli del carcere minorile di Torino “Ferrante Aporti”, in Via Berruti e Ferrero 3 con un dono non impacchettato per consentire i dovuti controlli, suonare e annunciare che avete aderito alla proposta “Da noi a loro”. Per maggiori informazioni sull’iniziativa è possibile scrivere all’indirizzo email, ufficio.garante@comune.torino.it. Milano: a San Vittore il concerto di Natale per i detenuti di Massimo Luce La Stampa, 19 dicembre 2017 Nel giorno dell’insediamento del nuovo direttore Giacinto Siciliano. Un momento di evasione nel carcere milanese di San Vittore. Una ottantina di detenuti ha partecipato al concerto di Natale organizzato dall’associazione M’impegno. Il coro era composto poi da una parte dei detenuti del V Raggio. A rendere particolare l’iniziativa la presenza al suo primo giorno a San Vittore il nuovo direttore Giacinto Siciliano: “Il carcere va pensato come luogo di incontro e di integrazione, dove si può costruire il futuro”. Poi rivolto ai detenuti che negli ultimi giorni hanno avuto momenti di tensione dopo il suicidio di uno di loro ha ricordato: “Un carcere senza problemi non esiste però cerchiamo di trasformarlo insieme in un posto migliore. Voi pensate di vivere la detenzione come un momento di ascolto e di confronto”. Ad assistere all’iniziativa a cui hanno partecipato i reclusi di tutti i raggi anche una delegazione di politici del Pirellone, guidati da Raffaele Cattaneo, presidente del Consiglio e della commissione carceri: “Questa iniziativa nasce dalla volontà di festeggiare il Natale anche nelle periferie della nostra società e delle nostre città. Il carcere è spesso un luogo in qualche modo dimenticato e il Consiglio regionale vuole invece puntare l’attenzione sul fatto che i penitenziari siano soprattutto un luogo di detenzione in cui tutte le persone che hanno sbagliato possano avere la possibilità non solo di scontare la propria pena ma di poterne trarre un insegnamento”. Siena: lo spettacolo “Nudi e crudi” per i detenuti del carcere di Santo Spirito di Claudio Marini sienanews.it, 19 dicembre 2017 Nella piccola Casa circondariale di Santo Spirito quest’anno il Natale è arrivato con dieci giorni di anticipo. Il regalo che i circa sessanta detenuti hanno trovato sotto l’albero è di quelli che si ricordano per molto tempo. Hanno deciso infatti di fare visita al carcere senese tre attori di primo piano nel panorama nazionale: Paolo Calabresi, Maria Amelia Monti e Nicola Sorrenti, che hanno portato in questi giorni al teatro dei Rinnovati l’opera “Nudi e Crudi”, di Alan Bennett. E nudi e crudi si sono presentati nel teatro del carcere davanti a una platea di detenuti curiosi ed emozionati. Non capita certo tutti i giorni di trovarsi a pochi metri da personaggi di questo spessore artistico. Paolo Calabresi agli occhi dei ragazzi è la iena per antonomasia (uno dei conduttori, il pizzardone intransigente, e soprattutto quello che ha preso a schiaffi Corona), il giornalista di inchiesta, uno dei protagonisti di “Smetto quando voglio” (che in questo ambiente è stato visto con un occhio particolare) e di tanti altri film per il grande e il piccolo schermo. Maria Amelia Monti è uno dei volti più noti e amati per bellezza e simpatia della nostra televisione: da Distretto Polizia a Si può fare, dall’Amore non basta a Baciati dall’amore. Nell’immaginario collettivo rimane però la moglie di Jerry Scotti in Finalmente Soli. E infine Nicola Sorrenti (riconosciuto dai detenuti per la sua partecipazione a qualche produzione televisiva italiana) è un talentuoso e giovanissimo attore romano (classe 1987) di cui (a mio modesto parere) sentiremo ancora parlare. I primi venti minuti sono stati di imbarazzo reciproco. Come alla festa delle medie. Maschi da una parte e femmine dall’altra. Piano piano però il ghiaccio si comincia a rompere e alcuni detenuti, con un po’ di inevitabile timidezza reverenziale, hanno mostrato agli artisti la loro parte nella pièce teatrale che stanno allestendo in carcere sotto la guida di Altero Borghi. Il clima, inizialmente di distacco e di studio reciproco, si è via via scaldato, diventando di complicità e di interazione. Gli attori hanno spogliato letteralmente lo spettacolo di Bennett offrendo un interessante dietro le quinte di questa opera: la psicologia dei personaggi all’interno del delicato equilibrio di un rapporto di coppia, le reazioni dei coniugi diametralmente opposte davanti a un trauma imprevisto (tornare a casa e trovare l’appartamento completamente spoglio), i trucchi scenografici per dare il senso di profondità. Ai detenuti sembra di essere nella platea dei Rinnovati. Immaginano. Riflettono. Sorridono (è uno spettacolo ironico). Applaudono. Nudi e crudi sono però anche i detenuti di fronte agli attori. Percepiscono che la loro visita è davvero spontanea, voluta, sincera. E si fidano. Parlano dei loro errori o, per usare le parole della Monti, del loro lato oscuro che, in quanto esseri umani, ognuno porta dentro di sé. Si affronta il delicato tema dell’importanza della detenzione e del percorso di reintegro. Si discute di come sia difficile cambiare e ricominciare a vivere una vita normale una volta fuori senza l’aiuto di qualcuno. Il teatro a questo punto è in silenzio, attento, partecipe. Non ci sono più, come all’inizio dell’incontro, i grandi attori da una parte e i detenuti dall’altra. È un confronto alla pari. Quasi una chiacchierata tra amici. Ci sono solo persone. Alcune che hanno sbagliato e stanno pagando per quello che hanno fatto, altre, invece, che sono pienamente consapevoli che si può sbagliare. Non è andato troppo lontano dal vero un detenuto che ha osservato che la sola differenza tra loro che stanno dentro e alcuni che stanno fuori sta nel fatto che a loro li hanno presi. È stato un incontro molto intenso e vero, grazie anche alla semplicità portata in carcere da questo trio. A chi di voi, si è posto (anche per sbaglio) la domanda se i signori Calabresi e Monti sono davvero così “umani” come la TV spesso li ha ritratti, rispondo di no. Dal vivo, lo sono molto di più. Anzi. Voglio aggiungere un piccolo aneddoto che poteva (e doveva) rimanere tra le quattro mura del carcere. Non me ne voglia Maria Amelia. Durante la discussione l’attrice milanese aveva proposto, come aiuto durante il percorso detentivo, un’iniziazione alla filosofia Buddhista che lei pratica abitualmente, consigliando qualche lettura sull’argomento. Saputo della presenza di una piccola biblioteca all’interno della casa circondariale, appena uscita dal carcere, si è recata, sua sponte, a una libreria del centro ad acquistare diversi libri da regalare alla struttura. Un gesto semplice, spontaneo, sentito, come l’intera visita e che contribuirà, almeno in parte, a rendere più sopportabile il Natale a chi è costretto a trascorrerlo dentro una piccola cella. A chi di voi invece si è chiesto se la Monti anche “dal vivo” parla così come in scena, come in tv… rispondo di si. Nella stessa identica maniera. Personalmente volevo fare i complimenti a Nicola Sorrenti (dei tre, per il momento, il meno noto) sia per gli interventi durante l’incontro in carcere, puntuali, profondi e mai banali, sia per la performance teatrale dove, vestendo i panni di un narratore stile Arancia Meccanica (con Mozart al posto di Beethoven) e di tutti gli altri personaggi secondari, ha mostrato un forte carattere, una grande poliedricità e una consistente presenza scenica. Bravissimo. Per chiudere voglio denunciare che Paolo Calabresi, grande inviato delle Iene, leone quando si trova dall’altra parte del microfono, davanti a una delle tante domande scomode dei detenuti è fuggito senza dare una risposta convincente. Grande delusione per gli ospiti di Santo Spirito che continueranno, invano, a chiedersi: “Ma come è dal vivo la Ilary Blasi?” Roma: “L’Aria”, in scena la libertà della detenzione metropolitanmagazine.it, 19 dicembre 2017 Successo confermato al Teatro Porta Portese a Roma per “L’Aria”, lo spettacolo coraggioso e appassionante dedicato a tutte le vittime degli abusi di potere da parte dello stato. Secondo Dostoevskij “il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni” e in Italia non siamo messi benissimo. Ne “L’Aria”, lo spettacolo teatrale firmato da Pierfrancesco Nacca e diretto da Giulia Paoletti, si parla proprio di questo. La situazione delle strutture carcerarie italiane è vergognosa e drammatica, il sovraffollamento e le precarie condizioni igieniche rendono la detenzione infernale, mettendo a dura prova il rispetto e la dignità umana che spesso viene calpestata. L’Aria è il pretesto per raccontare la storia di quattro detenuti: Nicola, Mario, Rosario e Carmine, rinchiusi in un istituto di detenzione del nostro paese. Raccontano pezzi della loro vita, quella vera, prima di essere reclusi, fino ad arrivare poi al momento della carcerazione. Cosa si nasconde dietro ai loro reati? Dietro quei volti scavati, dietro il loro taglio di capelli, dietro quelle tute acetate? Forse solo uomini, ed è questo che si vuole raccontare, storie di uomini, storie di abusi, di disagio e di sofferenza. La messa in scena scorre fluida, le storie di ogni detenuto si alternano e mentre ognuno racconta la propria, gli altri tre, come un coro greco, l’amplificano e la fanno vibrare. Ogni attore porta abilmente qualcosa del suo personaggio sotto i riflettori: i muscoli e le lacrime di Gabriele Sorrentino; la disperazione di Andrea Colangelo; l’umanità di Alessandro Calamunci Manitta e l’istrionismo di Pierfrancesco Nacca. La regia di Giulia Paoletti riesce ad amalgamare bene questi elementi e a dare il giusto risalto al testo di Nacca creando uno spettacolo che merita lunga vita. Capita anche che in carcere, si entri da vivi e si esca da morti, perché l’assistenza sanitaria è precaria, quasi inesistente, perché vivere dentro è insopportabile e si preferisce il suicidio alle sbarre; perché c’è sempre qualcuno che ha la responsabilità di assistere e difendere i diritti umani, che abusa del proprio potere, con l’uso spropositato della forza, della violenza ingiustificata, delle percosse, delle lesioni. Pochi i casi di cronaca giudiziaria risolti, tanti altri, ancora in cerca dei colpevoli, tra forze dell’ordine, medici e infermieri. Quelle strane morti, improvvise, sospette, quelle foto violacee di volti emaciati, di membra lacerate, gridano ancora giustizia: Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva, Michele Ferrulli. “Noi che viviamo in questo carcere, nella cui vita non esistono fatti ma dolore, dobbiamo misurare il tempo con i palpiti della sofferenza, e il ricordo dei momenti amari. Non abbiamo altro a cui pensare. La sofferenza è il nostro modo d’esistere, poiché è l’unico modo a nostra disposizione per diventare consapevoli della vita; il ricordo di quanto abbiamo sofferto nel passato ci è necessario come la garanzia, la testimonianza della nostra identità”. Scriveva Oscar Wilde nel suo De Profundis: il carcere compare diverse volte, in letteratura, al cinema, nell’arte. In “Cesare deve morire” dei fratelli Taviani vediamo i veri detenuti del carcere di Rebibbia interpretare l’opera di Shakespeare; in “Orange is the new black”, seguitissima serie Netflix, scopriamo il pluri-sfaccettato universo femminile in un istituto di detenzione americano; “L’Aria” si aggiunge a questa lista facendoci sognare il mare tra quattro mura. Roma: gli studenti di Roma Tre “il teatro in carcere ci ha cambiati” di Cristina Lacava Io Donna, 19 dicembre 2017 Si può avere nostalgia del carcere? In qualche modo sì, ed è proprio quello che è successo a un gruppo di studenti del Dams dell’università Roma Tre, alla fine della loro esperienza a Rebibbia con la Compagnia della sezione di Alta sicurezza. Dopo aver messo in scena con i detenuti Hamlet in Rebibbia, presentato alla Festa del Cinema di Roma, e dopo aver concluso il loro corso (obbligatorio nel triennio), i ragazzi hanno voluto raccontare le emozioni e le riflessioni, personali e collettive: ne è nato un docu-film, Rebibbia 24, che sarà presentato al Teatro di Rebibbia Nuovo Complesso mercoledì 20 dicembre. Gli studenti di Roma Tre già da qualche anno entrano in carcere: “Abbiamo accordi con il Ministero della Giustizia per far sì che i nostri studenti seguano là dentro dei laboratori teatrali” dice la professoressa Valentina Venturini, docente di Storia del Teatro. “In particolare, funziona bene il rapporto con la Compagnia di Alta sicurezza guidata da Fabio Cavalli, la stessa del film dei fratelli Taviani Cesare deve morire. Non è facile per degli studenti lavorare in una situazione così, l’impatto è forte, ci sono molti controlli”. Non è facile entrare e non è facile sintonizzarsi con i detenuti di una sezione speciale, che sono rinchiusi per reati di associazione a delinquere, e sono quindi camorristi, mafiosi, spacciatori. Riuscire a mantenere la giusta distanza, superando paure e pregiudizi, soprattutto ascoltando gli altri, è difficile per gli adulti, figuriamoci per i ragazzi. Loro però ci sono riusciti e Rebibbia 24 è il frutto di un lavoro iniziato l’estate scorsa nel quale sono attori, sceneggiatori e montatori (hanno collaborato anche gli studenti dell’istituto superiore cine tv Roberto Rossellini). Sette ragazzi, con sette sguardi diversi, seguiti nelle loro giornate dentro, ma soprattutto fuori. Con le loro ansie e perfino i loro pianti, quando hanno salutato per l’ultima volta i “colleghi” attori detenuti: ognuno tornava alla sua vita, nella sua realtà. A guidarli e a coordinare il progetto è Fabio Cavalli, (che è stato anche il coproduttore del film dei Taviani), responsabile del laboratorio, che ci spiega: “Al centro di Rebibbia 24 c’è soprattutto la testimonianza di una studentessa cinese, Yaya Jia. Per lei l’esperienza è stata ancora più straniante che per gli altri, perché nel suo Paese non sarebbe stata possibile. Ha un occhio tutto particolare”. Il docu-film è la storia del dietro le quinte di Hamlet in Rebibbia ma si conclude con un’emozionante versione di Jailhouse Rock di Elvis Presley, “come nel finale dei Blues Brothers; loro la suonano a San Quintino, noi a Rebibbia. Volevo qualcosa di forte per mostrare l’unione delle anime, degli studenti e dei detenuti, e ho chiamato la Banda della Scuola popolare di musica di Testaccio” Verona: risotto e brasato, Perbellini cucina per i detenuti Corriere di Verona, 19 dicembre 2017 Dopo aver abbattuto la barriera tra cucina e sala nel suo locale, ieri mattina lo chef bistellato Giancarlo Perbellini ha abbattuto una nuova barriera: è entrato nel carcere di Verona per un’iniziativa davvero speciale. Insieme alla sua “brigata” ha cucinato un pranzo gourmet per oltre un centinaio tra detenuti e detenute, familiari e volontari della Casa circondariale di Montorio, aderendo al progetto nazionale di solidarietà “L’ALT(r)A cucina...per un pranzo d’amore”. L’iniziativa promossa da Prison Fellowship Italia Onlus, Rinnovamento nello Spirito Santo e Fondazione Alleanza del RnS, giunta alla quarta edizione, porta nelle carceri italiane pranzi stellati preparati da grandi chef e serviti da testimonial del mondo dello spettacolo, offrendo ai detenuti una giornata particolare e diversa. Quest’anno l’evento si è svolto contemporaneamente in nove istituti penitenziari. “Abbiamo portato un sorriso al palato dei detenuti - ha dichiarato Perbellini -. È stata un’esperienza irripetibile. La brigata è stata fiera di far gustare la nostra cucina a persone molto meno fortunate di noi”. Per l’occasione lo chef scaligero ha proposto un menù composto dalle seguenti portate: Risotto con fondente di cipolla con emulsione di sottobosco, Guanciale di vitello brasato con porri fritti, e Mousse ai tre cioccolati. Tutte rigorosamente servite su stoviglie vere e non di plastica, per volere della direttrice Maria Grazia Bregoli. Salerno: a Fuorni un pranzo d’amore oltre le sbarre di Viviana De Vita Il Mattino, 19 dicembre 2017 Anche nei momenti più bui bisogna avere fede e sapere attendere: l’amore che ho ricevuto ha scaldato il mio cuore che era diventato gelido e mi ha fatto capire che non siamo mai soli”. È un professionista salernitano, detenuto nel penitenziario di Fuorni, a portare la sua testimonianza di “conversione” agli altri reclusi nel corso dell’iniziativa “L’altra cucina, per un pranzo d’amore”, che vede coinvolti nove penitenziari della Penisola e che, svoltosi ieri anche a Fuorni dove è giunto alla seconda edizione, ha visto seduti alla stessa tavola detenuti, artisti e volontari per un momento di gioia e di convivialità in occasione del Natale. In una lunga lettera letta da un volontario, il detenuto - ha partecipato al percorso di recupero rivolto ai reclusi ed ideato dal movimento cristiano “Rinnovamento nello Spirito Santo” - ha voluto condividere con tutta la comunità carceraria la sua esperienza di fede che gli ha cambiato la vita dando un senso anche al dolore per la “disavventura carceraria”. “Un giorno - ha raccontato un altro detenuto salito sul palco - ho letto in bacheca che era stato organizzato un percorso di rinnovamento spirituale per noi. All’inizio sono andato a quegli incontri con il solo obiettivo di farmi beffa dei volontari. In quel periodo non credevo più in nulla: l’amore che ho ricevuto, però, ha cambiato la mia vita”. “Vogliamo lanciare un messaggio di speranza - ha affermato il direttore del penitenziario Stefano Martone che, dallo scorso settembre e su impulso del cappellano, ha dato vita al progetto di rinnovamento spirituale - per tentare di abbattere il muro che separa i detenuti dal resto della comunità civile. Non abbiamo paura ad aprire il carcere a queste iniziative che suonano come una scommessa: chi ha sbagliato può effettivamente rinascere attraverso un percorso di redenzione”. “È un forte messaggio di speranza che, sullo sfondo del cattolicesimo, vogliamo lanciare a tutta la comunità carceraria - ha affermato Guzzo Amabile, presidente del Rinnovamento nello Spirito Santo - Ci rivolgiamo direttamente al detenuto: anche se hai sbagliato, ce la puoi fare”. Prima del pranzo, preparato dallo chef ?stellato? Antonio Pisaniello del Ristorante Nunziatina di Caserta i detenuti si sono ?scatenati? con il cantante Gianni Testa che ha fatto cantare a tutti le più belle canzoni di Gianni Morandi e Tiziano Ferro e si sono divertiti con la dirompente comicità dell’artista napoletano Marco Cristi che, in una delle sue gag, ha coinvolto anche due detenuti facendo inscenare loro una spassosa scena d’amore. La giornata è proseguita a tavola con un prelibato pranzo natalizio apparecchiato dai volontari in maniera degna di un cenone gourmet. È necessario uscire dal ciclo del rancore di Giuseppe De Rita Corriere della Sera, 19 dicembre 2017 Per un paio di settimane sono stati frequenti, nella dialettica sociopolitica, i riferimenti all’ipotesi che gli italiani siano rancorosi, che ispirino cioè una diffusa espressione di tale sentimento. Ora che l’onda della cronaca si è spostata verso altri temi, può essere utile ritornare sull’argomento e domandarsi cosa sia il rancore e da quale emotivo subbuglio provenga. Alcuni fra i lettori più attenti sono andati all’uopo a compulsare i nostri più storici dizionari, ma le loro definizioni del termine “rancore” non aiutano a capirne le origini professionali, quelle psicologiche ed antropologiche. Perciò mi sono andato a rileggere René Girard e la sua convinzione che “il rancore è il lutto di ciò che non è stato”: una definizione che permette di prendere concretamente atto delle sue diverse espressioni. Si può cioè prendere atto che il rancore è, per molti coniugi, il lutto di un matrimonio non realizzato; il rancore è, per molti diplomati e laureati, il lutto di un avanzamento sociale che non c’è stato; il rancore è, per molti impiegati, anche ad alto livello, il lutto di una carriera che non c’è stata; il rancore è, per molte fasce di marginalità sociale, il lutto di una integrazione sociale che non c’è stata; il rancore è, per molti imprenditori, il lutto di un mercato che non c’è stato. Si è diffusa molta frustrazione (e di conseguenza molto rancore) nella nostra società, purtroppo da tempo ferma e chiusa; ed è quasi inevitabile che gli interessati (singoli o categorie) imputino la loro non realizzazione alle distorsioni della struttura sociale e più ancora ai diversi meccanismi del potere, cioè a quella famosa “casta” che opera su tutto il sistema, ma che si ritrova in sedicesimo anche nelle più minute collocazioni di lavoro e di relazione sociale. Non può sorprendere allora il carattere ampio e diffuso del rancore in questo particolare periodo. Ma non si può al tempo stesso non notarne il carattere regressivo, visto che poggia su “ciò che non è stato”. In esso c’è poca speranza di futuro e troppa malinconia; per cui è impossibile costruirci propulsione in avanti e prospettico immaginario collettivo. Qualche forza politica cerca comunque, comprensibilmente, di cavalcare il rancore: in campagne d’opinione livide ed arrabbiate (contro la casta o contro gli immigrati); in agitate forme di populismo radicale (di anti-politica o di anti-Europa); o in forme di generico richiamo a tutti i frustrati del regno perché mettano fine alle ingiustizie che hanno subito in precedenza. Quanto potranno giuocare queste posizioni politiche nelle elezioni ormai alle porte? È probabile che esse abbiano un qualche peso, visto che veniamo da una lunga stagione di mobilitazione di massa sul rancore e sui sentimenti relativi (la rabbia, l’indignazione, l’invidia, la richiesta di livellamento). Ma c’è da pensare che tale formidabile stagione sia in calo di spinta elettorale; un calo che non si riscontrerà a pochi mesi, ma di cui si avvertono i sintomi significativi, come la constatazione che la forza politica che ha più innaffiato e coltivato il rancore collettivo stia tentando di giuocare la carta opposta: la felicità collettiva. Forse “annusa” che la futura sfida politica si giuocherà sulle sfide di aprire un ciclo nuovo, con una mobilitazione di massa che superi l’attuale appiattimento al presente e al passato. La lunga continuità del modello di sviluppo ci ha dato tutto; ma non è azzardato dire che una esperienza di nuovo ciclo (parola da tempo desueta) sarebbe cosa utile da tentare. Ius soli, digiuno contro la rinuncia e l’indifferenza di Luigi Manconi Il Manifesto, 19 dicembre 2017 Chi mi vuol bene mi segua. Ma anche chi non mi vuole bene, e persino chi mi detesta. Tutti coloro, insomma, che ritengono lo ius soli e culturae una legge saggia e ragionevole sono invitati a partecipare allo sciopero della fame che intraprendo da oggi. Digiuno che inizio oggi, martedì 19 dicembre, e proseguirò fino a quando ci sarà un’ora o un minuto di tempo per la discussione parlamentare. Non è affatto vero, infatti, che il tempo non ci sia. Quando c’è la volontà politica, il tempo si trova sempre. Si ha a disposizione un’intera settimana di lavoro parlamentare, prima del giorno di Natale, e si può ricorrere, come tante volte è accaduto, alle sedute notturne. Dunque, si può fare: e c’è una conferma limpida e recentissima. La legge sul biotestamento sembrava destinata, appena due mesi fa, a un’archiviazione definitiva, in attesa di tempi migliori. Si è manifestata, invece, una volontà politica, che è stata perseguita con determinazione, e che ha portato a un ottimo e insperato risultato. Non si è voluto fare altrettanto con la legge sulla cittadinanza, per calcoli piccini e per una inveterata codardia. Si è arrivati, così, agli sgoccioli di una legislatura che avrebbe potuto dare frutti migliori, ma che ancora, e nonostante tutto, lascia tempo e spazio - per quanto esili - a un ultimo tentativo. Guai a sprecarlo. Da qui la decisione dello sciopero della fame. È, il mio, un atto di testimonianza meramente simbolico? Non credo proprio. E non lo credo per due ragioni. La prima: perché il tempo e i numeri, come si è detto, ci sono. A patto, certo, che si abbia la volontà di perseguirli. E, dunque, questa opportunità, per quanto flebile, va verificata fino all’ultimo. Non farlo significa rendere ancora più grave e mortificante la sconfitta: non certo uscirne con eleganza. E va evitato, soprattutto, che il tema della cittadinanza venga archiviato - e affossato in un silenzio mediocre e in un fatalismo cinico. La seconda ragione che mi induce allo sciopero della fame nasce dal dolore recente per la morte di Alessandro Leogrande. In una delle sue pagine più belle, a conclusione de La frontiera, il giovane scrittore pugliese - di fronte al martirio di San Matteo del Caravaggio - parla dell’enigma del non agire. Quella sindrome, cioè, che produce rinuncia e indifferenza, impotenza di fronte all’ingiustizia e smarrimento morale. Un enigma terribile, abissale e, per certi versi, indecifrabile. Ma così gravido di conseguenze da indurre a considerare l’agire e l’azione politica, nelle forme oggi possibili, come la più ineludibile e urgente delle scelte. E la più razionale. Migranti. Dossier Onu: nel mondo sono 258 milioni, aumento del 49 per cento dal 2000 La Repubblica, 19 dicembre 2017 La rotta più seguita a dal Messico agli Stati Uniti, poi quella dall’India all’Arabia Saudita. Il sottosegretario delle Nazioni Unite: “Dati affidabili sono fondamentali proprio per combattere le percezioni errate sulla migrazione e per informare le politiche migratorie”. Circa 258 milioni di persone hanno lasciato i loro Paesi di nascita e ora vivono in altre nazioni con un aumento del 49 per cento rispetto al 2000, quando erano 173 milioni, e del 18 per cento rispetto al 2010, quando se ne contavano 220 milioni. A rivelarlo è il rapporto Onu sulle migrazioni internazionali pubblicato in occasione della Giornata internazionale dei migranti. Dai dati emerge che oltre il 60 per cento di tutti i migranti internazionali vive in Asia (80 milioni) ed Europa (78 milioni). Nel Nord America se ne contano 58 milioni, in Africa 25. Significativo come due terzi di questi emigranti viva nel 2017 in appena venti Paesi: il numero più elevato (50 milioni) si trova negli Usa, poi Arabia Saudita, Germania e Russia ne ospitano ciascuno attorno ai dodici milioni. Segue la Gran Bretagna con 9 milioni. L’Italia è all’undicesimo posto (dietro anche a Emirati Arabi, Francia, Canada, Spagna) con 5,9 milioni di migranti che vivono stabilmente sul territorio nazionale. Erano 2,1 milioni nel 2000. Il numero di rifugiati e richiedenti asilo, conteggiato nel 2016, è stato stimato in poco meno di 26 milioni di persone. La Turchia ne ospita la maggior parte (3 milioni), seguita da Giordania, Palestina, Libano e Pakistan. Nessuno Stati Ue, né gli Usa figurano nei primi posti di questa classifica. “Dati affidabili sono fondamentali proprio per combattere le percezioni errate sulla migrazione e per informare le politiche migratorie”, ha dichiarato il Sottosegretario generale per gli affari economici e sociali dell’Onu, Liu Zhenmin, citando i negoziati sul Global compact per l’immigrazione che sono stati abbandonati dagli Usa per volontà dell’amministrazione Trump. “Nel settembre 2016 - ricorda il rapporto Onu - tutti i 193 stati membri delle Nazioni Unite, compresi gli Stati Uniti sotto il presidente Barack Obama, hanno adottato la Dichiarazione di New York per rifugiati e migranti, nella quale si afferma che nessun Paese può gestire da solo la migrazione internazionale. Gli Stati hanno accettato di attuare politiche migratorie concordate e si sono impegnate a condividere più equamente l’onere di ospitare i rifugiati, hanno anche accettato di proteggere i diritti umani dei migranti e di contrastare la xenofobia e l’intolleranza verso i migranti. Hanno inoltre concordato di avviare un processo che portasse all’adozione di un patto globale nel 2018”. Il rapporto fa notare che “i migranti hanno contribuito alla crescita della popolazione in Nord America e Oceania e senza migranti la popolazione europea sarebbe diminuita dal 2000 al 2015”. E si rileva, ad esempio, che se l’Asia è il primo continente nel quale la gente lascia il proprio Paese (106 milioni su 258, primo Stato è l’India), il secondo è l’Europa (61 milioni). L’elenco delle prime nazioni di partenza - che vede anche Messico, Russia, Cina, Bangladesh, Siria, Pakistan e Ucraina - non annovera nazioni africane. Nell’intero continente, però, si stima abbiano lasciato il proprio Paese d’origine 36 milioni di persone. La rotta più seguita per i flussi migratori è quella che va dal Messico agli Stati Uniti (12,7 milioni di persone nel 201, erano 9,4 nel 2000), seguita a distanza da quella che va dall’India all’Arabia Saudita (3,3 milioni, erano 700mila). Spicca l’impennata, dovuta alla guerra, dei 3,3 migranti siriani che vivono in Turchia: una presenza che era pari a zero 17 anni fa. E anche in questo caso nessuna rotta, tra le prime 15 mondiali, conduce verso i Paesi Ue. Francia. La linea dura di Macron con i migranti, Associazioni umanitarie in allarme di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 19 dicembre 2017 In preparazione una legge su asilo e immigrazione: permessi concessi a partire dai paesi d’origine, respingimenti senza pietà per chi entra clandestinamente. Due circolari repressive del ministero degli Interni. Le ong aprono “gli stati generali della migrazione”. In tutta la Francia, si sono aperti ieri gli “stati generali della migrazione”, organizzati da 470 associazioni che si occupano di migranti e rifugiati. L’idea era venuta nel novembre scorso, quando le principali organizzazioni umanitarie hanno sbattuto la porta del ministero degli Interni, sordo alle richieste delle associazioni. L’obiettivo è aprire in Francia un ampio dibattito e anche mettere in luce le divisioni che stanno emergendo su questo tema all’interno della maggioranza del partito di Macron, République En Marche, dove un’ala rifiuta la “linea dura”. Queste organizzazioni si sono anche rivolte al Difensore dei diritti, Jacques Toubon, per chiedere un intervento e bloccare l’applicazione dell’ultima circolare del ministro degli Interni, l’ex socialista Gérard Collomb: istituisce delle “brigate mobili” con il compito di controllare nome e situazione delle persone ospitate negli alberghi sociali dalle organizzazioni umanitarie. L’accoglienza viene così sviata dal suo scopo iniziale e utilizzata come strumento per controllare i flussi migratori. Questa circolare del 12 dicembre fa seguito a un’altra, inviata il 20 novembre scorso ai Prefetti, a cui veniva chiesto un giro di vite sui respingimenti dei migranti a cui era stato rifiutato il diritto d’asilo. Il governo prepara una nuova legge sull’immigrazione e l’asilo per la prima metà del prossimo anno. Quel poco che è filtrato sta preoccupando le associazioni umanitarie. L’en même temps di Macron sul fronte dei rifugiati funziona così: la Francia sta accogliendo (con il contagocce) delle persone che arrivano direttamente da alcuni paesi africani e che hanno ottenuto l’asilo, mentre per chi è entrato clandestinamente e poi non ha avuto risposta positiva alla richiesta di asilo viene usata la mano di ferro. In altri termini, l’intenzione è dividere tra “buoni” e “cattivi” rifugiati, per liberarsi dei secondi, accogliendo meglio i primi. Si parla di raddoppio del periodo di ritenzione amministrativa (da 45 a 90 giorni), di “paesi terzi sicuri” dove potranno venire rimandati dei rifugiati rifiutati, di dimezzamento dei tempi (da un mese a 15 giorni) per presentare un ricorso in caso di rifiuto della domanda d’asilo. Domenica c’è stata una marcia al Col de l’Echelle, vicino a Briançon, per denunciare la tragedia dei migranti che cercano di passare a piedi dall’Italia alla Francia, oltrepassando montagne piene di neve. Nel 2016, la Francia ha ricevuto 85.244 domande d’asilo, in aumento del 6,5% rispetto all’anno precedente. Un po’ più di 20mila vengono accettate ogni anno, con una media un po’ inferiore al 30%. La principale nazionalità tra i richiedenti asilo è l’Albania (seguita da Afghanistan, Sudan e Siria) e il governo fa valere che questo paese è ormai “sicuro”. Sono i siriani che hanno maggiori possibilità di ricevere una risposta positiva. Macron aveva promesso, per la fine di quest’anno, che non ci sarebbe più stato nessuno a dormire in strada. I sindaci di alcune grandi città, tra cui Martine Aubry a Lille e Alain Juppé a Bordeaux, hanno denunciato la carenza di finanziamenti pubblici per prendersi cura dei migranti. Le associazioni temono che le intrusioni delle “brigate mobili” spingano sempre più migranti a vivere in strada, per paura delle denunce. Contemporaneamente, è la polizia ad agire, distruggendo sistematicamente gli accampamenti di fortuna, a Parigi come a Calais. Ma per la destra non basta: ieri, i Républicains hanno chiesto la fine dell’Ame, l’accesso gratuito alla sanità per i migranti. Turchia. Scarcerata dopo otto mesi la giornalista turco-tedesca Mesale Tolu Agi, 19 dicembre 2017 La traduttrice dell’agenzia di stampa Etha era in carcere da maggio con l’accusa di far parte di un’organizzazione terroristica di estrema sinistra. In prigione con lei anche il figlio di tre anni. I giudici hanno disposto la liberazione di altri cinque detenuti imputati per lo stesso processo. È stata liberata dopo otto mesi di detenzione, la giornalista turco-tedesca Mesale Tolu, traduttrice per la redazione esteri dell’agenzia di stampa Etha, in carcere da maggio con l’accusa di far parte di un’organizzazione terroristica di estrema sinistra (Mlkp). La decisione è stata presa da una corte di Istanbul, dinanzi la quale la giornalista è comparsa insieme agli altri sei detenuti perché imputati nello stesso processo. Alla fine dell’udienza cinque di questi sono stati rilasciati, dopo che altri otto imputati erano stati liberati lo scorso ottobre. Mesale Tolu ha sempre rigettato con forza l’accusa di far parte di un’organizzazione terroristica, basata sulla presunta partecipazione della Tolu a manifestazioni di stampo brigatista e funerali di membri del Mlkp. La giornalista, che aveva lavorato come corrispondente per l’agenzia di Etha, è stata detenuta presso la prigione femminile di Bakirkoy dove è stato portato anche il figlio di tre anni della donna. Scende così a 9 il numero di cittadini tedeschi detenuti in Turchia per motivi che Berlino ritiene puramente “politici”. Tra questi figura il corrispondente del quotidiano Die Welt, Deniz Yucel in carcere da gennaio. Bahrein. Noto difensore dei diritti umani detenuto rischia altri 15 anni di carcere globalvoices.org, 19 dicembre 2017 Nabeel Rajab è in prigione dal 13 giugno 2016 a causa delle sue attività legate alla difesa dei diritti umani. Attualmente sta scontando una pena di due anni per aver parlato ai media della situazione dei diritti umani in Bahrain. Inoltre è stato condannato ad un ulteriore periodo di detenzione per essersi espresso tramite Twitter. Rajab è Presidente del Bahrain Center for Human Rights (Bchr), direttore fondatore del Gulf Centre for Human Rights (Gchr), Vice Segretario Generale della Federazione Internazionale dei Diritti Umani (Fidh), e membro del comitato consultivo dell’area medio orientale e nordafricana di Human Right Watch (Hrw). Nel luglio 2002 fondò il Bchr con il suo collega Abdulhadi Al-Khawaja, condannato all’ergastolo per le sue attività legate alla difesa dei diritti umani. Il BHCR continua comunque ad operare fino ad oggi, nonostante la decisione delle autorità di chiuderlo nel novembre del 2004 e la detenzione dei suoi due fondatori. Quando esplose la rivolta popolare in Bahrainil 14 febbraio 2011, Nabeel Rajab era in prima linea come leader dei diritti umani. Quando le autorità arrestarono la maggior parte dei capi della sommossa, lui rimase l’unica voce fuori dalla prigione che veniva ascoltata da decine di centinaia di follower su Twitter e dal resto del mondo, rendendo pubbliche le gravi violazioni commesse dal governo che oppresse l’intera popolazione di fronte alle richieste di libertà, uguaglianza e giustizia sociale. Rajab sta pagando un caro prezzo per il suo coinvolgimento nella rivolta e per il suo attivismo per i diritti umani. È stato arrestato e imprigionato molte volte diventando vittima di vari tipi di minacce, molestie giudiziarie, campagne mediatiche diffamatorie, torture e divieti di viaggio. Il 10 luglio è stato condannato a due anni di detenzione, dopo esser stato accusato di aver diffuso “false notizie” durante alcune interviste televisive in cui parlò della crescente violazione dei diritti umani nel regno del Golfo. In quelle interviste Rajab parlò del divieto nei confronti di giornalisti e Ong di entrare in Bahrain e della mancanza di indipendenza giudiziaria. Il 22 novembre una corte di appello del paese ha confermato la sentenza. In un altro caso, Rajab sta scontando fino a 15 anni di prigione per aver criticato la partecipazione del Bahrain alla guerra condotta dall’Arabia Saudita contro i ribelli Houthi dello Yemen, e per aver parlato su Twitter delle torture che avvengono nel famigerato carcere “Jaw”. Per questo caso, Rajab avrebbe dovuto apparire di nuovo in corte il 31 dicembre 2017. Tuttavia, l’udienza si è svolta in maniera inaspettata il 5 dicembre, quattro settimane prima dalla data stipulata dalla corte. Il 3 dicembre, gli avvocati di Rajab sono stati informati dalla Corte che l’udienza sarebbe avvenuta il 5 dicembre, con la scusa che un testimone chiave del caso non sarebbe riuscito ad essere presente il 31 dicembre. Nonostante gli avvocati di Rajab abbiano protestato contro la decisione, l’udienza ha avuto comunque luogo il 5 dicembre ed è stata aggiornata al 7 dicembre. Rajab non ha potuto prendervi parte a causa del suo stato di salute. Venezuela. La strage dei bambini, centinaia stanno morendo di fame di Sara Gandolfi Corriere della Sera, 19 dicembre 2017 Inchiesta del “New York Times” in 21 ospedali. Manca latte in polvere e medicine. Le donne in fila per sterilizzarsi. Maduro continua a rifiutare l’aiuto internazionale. Sulle bare dei bambini, in Venezuela, si applicano delle ali in stoffa o cartone. Per farli volare fino in cielo, nel paradiso dove non si soffre più. E oggi il Venezuela è pieno di piccole ali che stanno portando via centinaia di neonati. Nel Paese, secondo le stime della Caritas, ci sono circa 280.000 bimbi denutriti, la maggior parte con poche settimane di vita, che potrebbero morire di fame nei prossimi mesi. Con l’acuirsi della crisi economica, l’aumento dei casi è diventato inarrestabile. E lo Stato li ignora. Il “Sistema de Vigilancia Alimentaria Nutricional del Instituto Nacional de Nutrición” sarebbe l’ente incaricato di raccogliere e divulgare i dati ma dal 2007 non pubblica più alcuna cifra e gli unici registri disponibili sono proprio quelli che elabora, con grande difficoltà, la Caritas. In ospedale - Il New York Times ha pubblicato un’inchiesta approfondita, frutto di un reportage a tappeto in 21 ospedali pubblici, in varie regioni del Venezuela. I reporter del quotidiano americano hanno intervistato decine di medici, che hanno confermato quello che il governo di Nicolás Maduro non vuole riconoscere (anzi, si ostina a negare). “I bambini arrivano negli ospedali in condizioni molto gravi di malnutrizione”, denuncia Huniades Urbina Medina, presidente della Società venezuelana di pediatria. La crisi che ha travolto il Paese dal 2014 dopo il crollo dei prezzi del petrolio, aggravata dalla pessima gestione dell’economia statalizzata, l’ondata di violenza e il gretto autoritarismo del governo hanno sprofondato nella miseria più nera le classi sociali meno abbienti ma anche quella che una volta si considerava piccola e media borghesia. La ministra “silurata” - Nove genitori su dieci, sempre secondo la Caritas, non sono più in grado di fornire ai propri figli il necessario quantitativo di calorie e principi nutritivi. Il latte in polvere e gli anticoncezionali sono diventati merce rara, introvabile perfino negli ospedali. Cresce il numero di neonati che muoiono se le madri non riescono ad allattarli al seno, e cresce il numero delle donne che fanno la coda fuori dai centri di sterilizzazione per non mettere al mondo altri bambini che non sono in grado di nutrire. L’ultimo rapporto del governo - dopo anni di silenzio - risale all’aprile di quest’anno quando sul sito web del ministero della Salute comparvero all’improvviso numeri agghiaccianti: tra il 2015 e il 2016 i decessi tra i neonati, confermavano i registri ufficiali, sono saliti del 30,12%. Tra le cause della mortalità figuravano setticemia, polmonite, difficoltà respiratorie: tutte probabili conseguenze di una alimentazione scarsa e carente degli elementi nutritivi necessari alla crescita. Dopo pochi giorni il presidente Maduro ha licenziato la ministra Antonieta Caporales, sostituendola con il più “fedele” Luis López Chejade. E di denutrizione non si è parlato più. Il rifiuto di Maduro - Maduro continua a rifiutare l’aiuto internazionale, negando che il Paese stia vivendo una crisi umanitaria. I medici intervistati dal New York Times raccontano un’altra realtà: nei 21 ospedali visitati, hanno contato complessivamente 2800 casi di denutrizione nell’ultimo anno, quattrocento di questi bimbi sono morti. “L’aumento deli pazienti malnutriti nel 2017 è stato terribile - dice la dottoressa Milagros Hernández dell’ospedale pediatrico di Barquisimeto -. I bambini arrivano con lo stesso peso e altezza di quando erano appena nati”. Questo tipo di denutrizione estrema è in genere la conseguenza di una guerra, di una carestia o di una catastrofe naturale. “Ma nel nostro Paese è direttamente correlata alla mancanza di beni primari e all’inflazione”. Inflazione che, secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale, potrebbe raggiungere il 2300 per cento nel 2018. I dottori censurati - Secondo le fonti citate dal New York Times, il governo tenta perfino di intimidire i medici, vietando di registrare la cifra dei bambini morti per fame. “In alcuni ospedali pubblici, la diagnosi clinica di denutrizione è stata vietata”, dice il dottor Huniades Urbina. Molti centri hanno cominciato a rifiutare i piccoli pazienti, perché non dispongono di latte in polvere o di farmaci adeguati. E così i genitori, nel disperato tentativo di salvare i propri figli, danno loro da mangiare miscele improbabili di latte intero, creme di riso e perfino thé. “Pasti” che possono diventare killer per organi ancora impreparati ad assorbire cibo da adulti. La disperazione di una madre - Jennifer Alfonsina, intervistata dai giornalisti di El Nacional nell’ambulatorio dell’Hospital de Niños a Caracas, racconta il suo calvario mentre la figlia di due anni continua a mordersi il polso. “Ha cominciato a perdere peso, non gattonava, non alzava la testa. Dormiva soltanto”. Per settimane, le ha dato da mangiare solo riso o yucca. Il controllo del cibo - Il 33 per cento della popolazione infantile del Venezuela, conferma la Caritas, presenta danni fisici e mentali irreversibili. D’altra parte la fame è un mezzo di controllo politico, feroce ma molto efficace. Nell’aprile 2016, Maduro ha infatti istituito i Comités Locales de Abastecimiento y Producción, responsabili di distribuire i pasti gratuiti ai meno abbienti. Una formula che crea dipendenza: se non assicuri fedeltà al governo, la tua famiglia patisce la fame. “Sono loro a decidere quando, dove e cosa mangerai”, conclude. Messico. Quella legge sulla sicurezza interna da non firmare di Riccardo Noury Corriere della Sera, 19 dicembre 2017 Il segretario generale di Amnesty International, Salil Shetty, ha scritto una lettera aperta al presidente messicano Enrique Peña Nieto invitandolo a non ratificare la Legge sulla sicurezza interna approvata venerdì scorso dal Congresso. A causa della definizione estremamente vaga e ampia di “sicurezza interna” e della conferma dell’impiego delle forze armate con funzioni di pubblica sicurezza, Amnesty International è convinta che la nuova legge perpetuerà la lunga serie di gravi violazioni dei diritti umani in corso in Messico, tra cui esecuzioni extragiudiziali, torture e sparizioni forzate. La strategia di impiegare l’esercito nelle strade del paese, adottata nell’ultimo decennio, ha dato risultati fallimentari in termini di riduzione della criminalità e ha reso il Messico uno stato sempre più violento. Il 2017 risulterà il più violento anno della presidenza di Peña Nieto e farà registrare il più alto livello di omicidi da almeno 10 anni a questa parte. Alla vigilia di un anno teso come quelli in cui solitamente si svolgono le elezioni presidenziali, se Peña Nieto firmerà la legge, i diritti umani di milioni di messicani saranno ulteriormente a rischio.