Natale da galera, Natale di ricordi e solitudine Il Mattino di Padova, 18 dicembre 2017 Il Natale di chi sta in carcere è fatto di ricordi e solitudine, ma anche per i famigliari le Feste sono fonte di sofferenza per l’assenza, ancora più pesante da sopportare, della persona cara. Se poi alla galera si somma una condizione di salute gravemente compromessa, allora davvero il Natale in carcere può essere il giorno più brutto della vita di un essere umano. Per questo, vogliamo pensare a questa scadenza che si avvicina con i ricordi di una persona detenuta, e poi con i ricordi della moglie di un detenuto, ma vogliamo anche sperare che chi in questo momento sta male, e senz’altro Marcello Dell’Utri è uno di loro, possa tornare a casa a curarsi, perché non è il carcere il luogo in cui si può affrontare una malattia grave con la speranza di farcela a sconfiggerla. Un Natale indimenticabile: l’ultimo insieme L’ultimo Natale insieme fu nel lontano 1993, sono passati ben 24 anni e nonostante sia un ricordo di quasi un quarto di secolo, è impresso nitidamente nella mia mente. Scrivo questo articolo al posto di mio marito, perché si sa che le donne hanno una memoria più lunga e si soffermano sui dettagli. Sono proprio i dettagli che io ricordo nitidamente; gli odori quell’atmosfera natalizia che regnava in casa, i gesti, le parole, e tutto ciò che da 24 anni, ogni Natale, mi accompagna. Può sembrare strano ma sono 24 anni che questi ricordi mi fanno forza e compagnia ogni 25 dicembre. Eravamo giovani, era il nostro secondo Natale insieme, eravamo una neo-famiglia, la vita sembrava solo sorriderci. Nostra figlia aveva appena 14 mesi, farfugliava e borbottava, riempiendoci di gioia coi suoi sorrisi. La nostra casa risuonava d’armonia tra una risata di nostra figlia e un abbaio del nostro cagnolone.  Il 25 Dicembre del 1993 me lo ricordo cosi: un tradizionale albero di Natale, lo avevamo scelto e addobbato insieme a mio marito. Ho impresso ancora nella mente quell’odore di abete che non ho più sentito da quando l’albero non lo abbiamo più fatto insieme.  Ricordo quando mio marito portò delle palline per l’albero esageratamente grandi, dalle dimensioni di un pallone SuperSantos, e sono 24 anni che per prime vengono appese.  Ricordo, come la tradizione calabrese vuole, il cenone del 24 dicembre, eravamo a casa dei miei suoceri, circondati da tutti i parenti. Era una tavola infinita, mia suocera da brava cuoca aveva cucinato di tutto e di più, rigorosamente a base di pesce come tradizione vuole.  Ricordo poi, quando siamo tornati a casa, abbiamo scartato i regali; era il primo regalo scelto da mia figlia, che ci aveva fatto capire benissimo cosa voleva: un bambolotto “spumone” famosissimo negli anni 90. La gioia e l’emozione nel vederlo fu unica, il papà glielo aveva fatto trovare sotto l’albero e lei scartandolo sprizzava felicità da tutti i pori, non se ne separò mai. Forse non l’ho più vista quell’emozione negli occhi di mia figlia nei Natali successivi mentre scartava i suoi regali.  Per l’occasione invece mio marito mi regalò un orologio, sperando forse che quel regalo mi aiutasse ad essere più puntuale, mentre io gli regalai un paio di bretelle, che chissà avrà modo di indossarle nuovamente!  Un Natale felice, è così che posso descriverlo. Non avremmo desiderato nulla di più. Tutto era perfetto e mai avremmo pensato che il destino ci avrebbe riservato un tale futuro. 24 Natali, trascorsi, ma non vissuti. 24 Natali volati via in un battito di ciglia.  Mi fa molto strano razionalizzare che sono passati tutti questi anni, perché a me sembra ieri quel 25 dicembre 1993. Mi rendo conto che il tempo è passato solo attraverso mia figlia, che oggi ha 25 anni e non più 14 mesi, perché dentro di me il tempo si è bloccato a quei momenti di totale armonia e felicità.  Ricordare quei giorni mi rende sempre felice.  Un po’ di quell’atmosfera natalizia, negli ultimi tempi, l’ho ritrovata nel carcere di Parma, dove grazie alla Direzione e alle associazioni di volontariato, ci regalano un pranzo, da poter trascorrere vicini, seduti fianco a fianco così da poter festeggiare insieme il Natale.  Tanti sono stati i giorni trascorsi lontani, e non so quanti ne dovranno passare ancora, ma lo stare lontani ci ha uniti ancora di più. Arriverà il Natale in cui saremo di nuovo insieme, in cui rifaremo l’albero, in cui festeggeremo l’uno a fianco dell’altra. Sarà un Natale migliore, perché stavolta festeggeremo con la consapevolezza di essere una vera famiglia che si ama, unita nel bene e nel male.  La speranza non mi abbandona mai, e come disse Charlie Chaplin “Il tempo è un grande autore, trova sempre il finale giusto”. Augurandomi che questo tanto atteso Natale, di nuovo insieme, sia il prossimo.  La moglie di un detenuto Il Natale di un tempo non c’è più Si avvicina un nuovo Natale, e i ricordi affiorano alla mente, i bei tempi passati, tempi felici e sgombri di affanni e di sofferenze. Questo è il ventiseiesimo che trascorro tra queste pareti di ferro e cemento, lontano dalla mia amata famiglia. Mi viene alla mente quando da ragazzo assieme ai miei amici andavamo a raccogliere o a rubare dei fasci di legna, che la gente teneva fuori della porta di casa o fuori del forno in attesa di accenderlo per infornare il pane. Li portavamo sul piazzale della chiesa, li accatastavamo per poi accenderli qualche minuto prima che la santa messa si concludesse. Tutto ciò veniva ripetuto per nove mattine e a mezzanotte della sera della vigilia del Santo Natale, come da tradizione che si tramandava da secoli. Ai tempi della mia giovinezza il Santo Natale era più sentito da tutti, dai ragazzini agli anziani. Ricordo che le persone emigrate in varie parti d’Italia per lavoro, nel periodo delle feste natalizie facevano migliaia di chilometri per rientrare al proprio paese per trascorrere il Natale con la famiglia. Ricordo in ogni casa gli abeti addobbati di palline scintillanti di splendidi colori e di torroni appesi ai loro rami, incartati con carta argentata o dorata, che facevano gola a noi bambini, che ogni tanto ne staccavamo qualcuno e lo mangiavamo di nascosto. Da ragazzo ogni anno aspettavo con ansia che arrivasse il periodo delle feste natalizie, poiché in tale occasione i miei genitori mi portavano dal sarto del paese e mi facevano cucire un pantalone di stoffa di fustagno, che mi doveva durare per l’anno intero. Di tanto in tanto la sera, dopo che andavo a dormire, una mia sorella prendeva il pantalone, lo lavava e poi lo metteva ad asciugarsi vicino al focolaio in modo che quando al mattino mi svegliavo lo trovavo asciutto. Posso dire che anche se mi dovevo vestire per un anno intero con lo stesso pantalone, mi sentivo ugualmente felice, perché ero libero di girovagare per la terra in cui sono nato e di trascorrere il Santo Natale con tutta la mia famiglia. Mentre oggi quelle tradizioni che si tramandavano da secoli vanno sempre più sparendo, ci sono famiglie che non si trovano più a consumare il cenone di Natale e a volte neanche si telefonano per scambiarsi gli auguri. Sono ventisei anni che trascorro il Natale nella sofferenza, con il pensiero che anche quest’anno a casa mia c’è una sedia vuota e che fin quando non si riempie, tutti i giorni e in particolare il Natale, darà dolore e tanta tristezza alla mia famiglia. Ma ci sono anche detenuti, che passeranno il Natale in carcere e stanno peggio di me perché sono malati. Penso a Marcello Dell’Utri, su cui in questi giorni sia i quotidiani che la televisione hanno sollevato un mare di polemiche, pro e contro il fatto che il detenuto Dell’Utri venga scarcerato per incompatibilità con il carcere, viste le patologie molto gravi di cui soffre. A mio modesto parere quando si tratta di salute, che si chiami Dell’Utri o altro, coloro che sono chiamati a decidere sulla sorte del malato dovrebbero verificare soltanto la gravità della patologia e una volta accertata mettere subito la persona nelle condizioni di potersi curare, fuori dal carcere. La nostra Costituzione all’articolo 32 parla chiaro “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”. Nei nostri istituti di pena si sente spesso di detenuti che muoiono per mali che dentro a un carcere non si possono curare, e non sempre chi deve prendere la decisione di scarcerare un ammalato ha il coraggio di farlo. Per ultimo, voglio ricordare che nel carcere di Parma c’è un detenuto classe 1927, cioè un novantenne ammalato e privo di memoria, perché non viene restituito alla famiglia? Che male potrebbe fare a quella età? Cosa aspettano a mandarlo a casa? Forse aspettano che tra qualche giorno muoia per poi consegnarlo cadavere alla sua famiglia? Io spero invece che questo Natale lo possa passare finalmente a casa. Antonio Papalia Intervista al ministro Orlando: “riforma delle carceri prima di Natale” di Gianluca Di Feo La Repubblica, 18 dicembre 2017 I testi dei Decreti attuativi sono da settimane a Palazzo Chigi e credo ci siano le condizioni per vararli prima di Natale. Ieri un tunisino è stato espulso dall’Italia. Nel penitenziario di Sollicciano aveva più volte minacciato gli agenti, vantandosi di essere un “terrorista”. E un anno esatto fa Anis Amri, un altro tunisino che aveva manifestato in prigione i primi segni di radicalismo islamico, si preparava a uccidere 12 persone a Berlino. In tutta Europa le carceri sono state la culla della violenza fondamentalista, ma il ministro della Giustizia Andrea Orlando ritiene che la nostra situazione sia meno allarmante. “Da noi le seconde generazioni di immigrati cresciute nel disagio sono meno numerose e questo si rispecchia anche nella situazione carceraria. Le persone monitorate sono 506, ma solo per 150 si ipotizza un alto rischio di radicalizzazione mentre le altre vengono tenute d’occhio anche dopo segnali minimi. Grazie poi al coordinamento del Casa, il Comitato di analisi strategica antiterrorismo, le informazioni della polizia penitenziaria vengono condivise con le altre forze dell’ordine per valutare al meglio le singole posizioni. In ogni caso, il rischio non deve essere sottovalutato”. Spesso alla radicalizzazione si arriva attraverso percorsi di disagio personale, come quello del ventenne Amri, e sotto la spinta di imam improvvisati o estremisti. “Abbiamo disposto un programma, confrontandoci con altri paesi europei, che va oltre il monitoraggio e prevede un intervento psicologico. I detenuti che provengono da paesi musulmani sono circa 11mila e, anche se solo meno del 5 per cento viene monitorato a vario livello, garantire il culto è un fattore decisivo. Sia per impedire che questo argomento venga usato dagli estremisti per fare proselitismo, sia per evitare che i riti siano officiati da imam senza controllo. In carcere le dinamiche sono le stesse del mondo esterno: il degrado sociale aiuta la devianza e la clandestinità nel culto contribuisce all’uso distorto della religione come propaganda d’odio”. Nel 2014 Matteo Renzi presentò la riforma delle carceri come un punto chiave del programma di governo. Lei poi l’ha portata avanti in solitudine: manterrà la promessa di vararla entro l’anno? “I testi dei decreti attuativi sono da settimane a Palazzo Chigi e credo ci siano le condizioni per vararli prima di Natale: sarà all’ordine del giorno in uno dei prossimi Consigli dei ministri”. Il concetto di fondo di questa riforma è meno carcere e più pene alternative… “Sì, viene valorizzato l’uso delle pene alternative durante l’esecuzione della condanna. Ma anche nel carcere si introduce maggiore responsabilizzazione: più occasioni di lavoro, di studio, di attività. Allo stesso tempo basta con gli automatismi: accedi agli sconti di pena e alle misure alternative solo se c’è un comportamento di responsabilità e segui percorsi di rieducazione”. Quali sono gli ostacoli? C’è un problema di fondi? “I fondi sono già stati accantonati con la legge di bilancio. Abbiamo aumentato gli agenti reclutandone circa 2000, ci dovrebbero essere assunzioni di operatori sociali. Quello che manca è un ripensamento organizzativo e culturale. Spesso si crede che il carcere efficiente sia quello dove non succede nulla, spingendo i detenuti a comportamenti passivi che sono il presupposto alla recidiva. Io credo invece in un penitenziario dove si innova, si sperimenta, ci si assumono delle responsabilità permettendo di rieducare”. Le forze politiche non sembrano molto interessate alla realtà dei penitenziari, salvo quando si discute di detenuti eccellenti… “La realtà del carcere non porta voti ed è spesso oggetto di banalizzazioni: è un grande luogo di esorcismo sociale; si pensa che una volta messa in prigione una persona, la società si è liberata del problema. Questo è uno strumento retorico, di propaganda, senza comprendere che un carcere che non rieduca genera insicurezza: la recidiva rappresenta anche un uso poco razionale delle risorse pubbliche perché così la detenzione diventa solo un intervallo nella carriere criminale. Insomma si tratta di un tema importante non seguito dal dibattito politico. Per fortuna ci sono eccezioni, non da poco: i Radicali, associazioni come Antigone. Credo che se si riuscirà ad arrivare all’approvazione della riforma molto lo dobbiamo all’attenzione del presidente emerito Napolitano, del Papa e del presidente Mattarella”. Siamo alle soglie della campagna elettorale, non teme che questa riforma che prevede la riduzione dell’uso del carcere possa venire fraintesa dagli elettori o impugnata dalla destra? “Dobbiamo fare lo sforzo di spiegare bene che stiamo costruendo un modello di pena che crea più sicurezza e che è più conveniente per tutti. L’esperienza della riforma degli istituti per minorenni ha raggiunto questo obiettivo: abbiamo un sistema con i tassi più bassi in Europa di recidiva. È un esempio che serve per raccontare quello che stiamo per fare in tutte le carceri”. Bambini, il diritto a giocare con papà in carcere vanityfair.it, 18 dicembre 2017 La partita di calcio dei bimbi con genitori detenuti è finita anche sul New York Times. In Italia sono 100mila i minori che vedono madre o padre solo ai colloqui in prigione. “Andate fuori dal carcere la mattina alle 8, c’è la fila dei bambini che entrano per vedere il papà o la mamma” Lia Sacerdote, presidente di Bambini senza sbarre, conosce questi bambini. Magari non tutti di persona (sono 100mila in Italia), ma sa le loro storie e sa che ognuno di loro si sente ingiustamente in colpa. Per mantenere il rapporto con i genitori questi bimbi hanno incontri, dalle 6 alle 8 ore al mese sono a disposizione. Non sempre però sono incontri semplici. I colloqui lasciano un ricordo freddo e sono molto impegnativi. Per portare fuori dal carcere un ricordo positivo Bambini Senza Sbarre organizza da alcuni anni la partita di papà, una partita di calcio organizzata all’interno delle carceri italiane per far giocare insieme padri e figli. L’iniziativa è stata raccontata anche dal New York Times. “La partita ha come centro il fatto che i bambini possano giocare con il papà ed è nata tre anni fa quando la Lega calcio B ha sostenuto un nostro progetto. Rappresenta l’eccezione della normalità” dice la presidente. Se la normalità fuori dal carcere è giocare con i propri figli, dietro le sbarre questa cosa diventa eccezionale. “È anche uno dei desideri che noi sentiamo più spesso esprimere e che lascia una sensazione positiva”. Dopo la partita del 5 dicembre l’associazione ha ricevuto un messaggio che diceva: “Non ho mai visto mio figlio sorridere così”. I bambini che hanno uno dei genitori in carcere lo sentono come un difetto. “Una conseguenza della cultura che c’è intorno al carcere. I bambini non lo dicono, non ne possono parlare altrimenti si sentono emarginati. Invece non è una colpa avere un genitore detenuto”. Lia Sacerdote è reduce da due giorni a Roma organizzati per la prima formazione pilota in Italia della polizia penitenziaria che accoglie i bambini in carcere. È parte di un protocollo presentato già nel 2014 al ministro Orlando. C’è una carta, un promemoria, che mette insieme tutte le regole per la tutela della genitorialità. I progetti di Bambini senza sbarre si uniscono a quelle di altri paesi europei, in una rete nata anni fa dall’iniziativa di Francia, Inghilterra e Italia. Fake news sul web, metà degli italiani è stata ingannata di Ilvo Diamanti La Repubblica, 18 dicembre 2017 Sondaggio: un quarto le ha pure rilanciate Gran parte degli italiani, ormai, si informa prevalentemente, se non solo, su Internet. E, in misura sempre più larga, attraverso i social-media. È ciò che emerge dall’indagine condotta da Demos-Coop nei giorni scorsi. Così, anche la disinformazione corre veloce, lungo gli stessi canali. Alle News si affiancano, talora si sovrappongono e si sostituiscono le fake-news. D’altronde, la Rete è accessibile a tutti. Uno strumento di comunicazione democratica. Fin troppo, forse. Perché tanto libero da essere poco controllato. Da ciò i problemi. Che da qualche tempo vengono sollevati e denunciati, come origine di interferenze che avrebbero condizionato avvenimenti internazionali e nazionali di grande importanza. Fra tutte: le elezioni americane, a favore di Trump. Ma avrebbero interferito, si è detto, anche su quelle italiane. In diverse occasioni. I responsabili sarebbero “produttori di fake”, che agiscono in alcuni luoghi protetti. Per prima la Russia. Tuttavia non avrebbero potuto condizionare gli orientamenti della società se non si fosse verificata, in pochi anni, una vera rivoluzione nelle pratiche e nei sistemi di informazione e di formazione dell’Opinione pubblica. Infatti, per informarsi, dieci anni fa, il 30% degli italiani (intervistati) utilizzava, ogni giorno, i quotidiani cartacei. Il 25% consultava internet. Oggi il rapporto si è rovesciato. In misura molto marcata. Il 63% si informa attraverso internet. Sempre più, anzi, soprattutto, attraverso lo smartphone. Il 58% di essi: è sempre connesso. Con il telefonino fra le mani. Dovunque. Solo il 17%, invece, si informa attraverso i giornali “di carta”. Questo “rovesciamento”, in effetti, si è consumato in un periodo molto breve. In particolare: negli ultimi anni. Il ricorso a internet, nel biennio 2014-15, era già salito quasi al 50%. Pressoché il doppio rispetto ai quotidiani di carta, nel frattempo scesi al 24-26%. Ma negli ultimi due anni il distacco si è accentuato ulteriormente. E oggi, nel 2017, è divenuto quasi un abisso: 63% su internet, 17% su carta. I giornali, cioè, continuano ad essere consultati. Ma in tempo reale, su internet. Gli altri media hanno tenuto le loro posizioni. La televisione: davanti a tutti gli altri. Consultata quotidianamente da oltre 8 italiani su 10. E quindi sempre importante, per (in)formare l’opinione pubblica. Poi la radio. Il medium che continua ad essere considerato più affidabile. Ma la rete ha occupato spazi sempre più ampi. In settori di popolazione sempre più estesi e trasversali. Fra i giovani e non solo. Utilizzando il traino dei Social Media. Destinati a divenire presto il crocevia di ogni comunicazione e di ogni informazione. (Lo documenta, in modo efficace, un recente studio di Vittorio Meloni, pubblicato da Laterza: “Il crepuscolo dei Media”). Così, le informazioni tendono a diffondersi e a venire diffuse in modo rapido. Anzi: im-mediato. Scavalcando mediazioni e media. Ma, di conseguenza, anche i controlli. Che vengono affidati agli stessi canali. La rete e social-media. Tutti, cioè, possono controllare tutti. E tutti, al tempo stesso, possono entrare nella rete. Introducendo e diffondendo informazioni. Immediate. Difficili da controllare. Anche perché, in rete, talora, anzi, spesso, la news, la novità, ha valore in sé. La verifica: verrà dopo. Perché domani è un altro giorno. Si vedrà. Così, oggi, metà degli italiani ammette di aver creduto “vera” una notizia letta su internet, che poi si è rivelata “falsa”. Ma solo il 22% afferma di non essere mai stato “ingannato”. In particolare: coloro che in rete ci vanno in modo saltuario. E, per questo, sono meno esposti ai messaggi che vi circolano. Tuttavia, internet non è solo il luogo dell’inganno, ma, per sua natura, anche della de-mistificazione. Dell’auto-controllo. D’altra parte, un italiano su tre (34%) considera Internet il canale dove l’informazione circola “più libera e indipendente”. Il 44% dichiara di avere fiducia, nella rete. Un dato in crescita di 7 punti, negli ultimi due anni, dopo un periodo di declino, successivo al 2013. Probabilmente dettato da giudizi e pregiudizi politici. Visto il collegamento immediato con il risultato del M5s alle elezioni politiche di quell’anno. Gli elettori dei 5s, peraltro, sono fra quelli che ammettono, in maggior misura, di aver creduto nelle “False notizie” che circolano in rete. Rilanciandole, a loro volta. Lo stesso si osserva tra i più giovani. Perché la confidenza con internet espone alle fake news. Ma, al tempo stesso, fornisce strumenti e competenze per farvi fronte. Prima degli altri. Così, se circa metà degli italiani sostiene di essere caduto nella trappola, per la precisione, nella “rete” delle fake news, quasi altrettanti riconoscono di averle riconosciute - e demistificate - con lo stesso - e “nello” stesso - mezzo. Cioè, in rete. Su internet. Il rischio maggiore, per questo, è che le voci infondate si riproducano con “altri media”. In particolare, la tivù. Il cui pubblico “esclusivo” è anche il meno attrezzato a riconoscerle. Comunque, a esercitare la “sfiducia preventiva”. Per questo motivo, mentre ci avviciniamo alla campagna elettorale, e anzi ci siamo già entrati, è meglio “diffidare”. Valutando con attenzione, quel che passa sulla rete. Ma anche in tv e sui media “tradizionali”. I quali, tradizionalmente, rilanciano - e amplificano - i messaggi che promettono più audience. Falsi o veri, si vedrà. Più avanti. Al tempo stesso, a maggior ragione, c’è bisogno di Osservatori che vigilino non solo sulla “Par condicio”, ma sulla “verità” delle news. Per evitare, oggi più che mai, di entrare in un clima d’opinione e, dunque, in un clima elettorale, inquinato. Da false notizie, falsi sondaggi, false rappresentazioni. Fino a produrre una fake campaign. Giovani e colti, ecco le prime vittime ci cascano di più grillini e forzisti, di Luigi Ceccarini Le bufale nello spazio pubblico non sono una novità. Ci sono sempre state. Ma oggi, con la pervasività dei social, le fake news sfidano la democrazia e la credibilità dell’informazione. Per questo nascono varie iniziative civiche, come il decalogo del Digital Transformation Institute, per affrontare il problema. Il ruolo delle fake news diventa sempre più insidioso nel processo di formazione dell’opinione pubblica (e della scelta di voto). In Italia sono diventate un argomento centrale in questo avvio di campagna elettorale. Del resto le vicende internazionali legate alla Brexit e alla elezione di Trump e il loro nesso con le fake news, per cui viene sospettato Putin, ha reso l’argomento di un’inedita importanza. A ciò si collegano questioni prettamente nostrane come il dibattito legato al Si/No-Vax oppure l’esito del referendum costituzionale di un anno fa, secondo alcuni viziati ad arte dalle fake news. La ricerca Demos-Italiani.coop permette di affrontare il tema con alcuni dati. Il 40% degli italiani, con 15 anni e più, afferma di avere incontrato “spesso o qualche volta” nel web notizie che si sono poi rilevate false. Il dato sale al 56% se si considera quanti hanno creduto “raramente” a queste notizie (ma le hanno comunque credute vere). Le fake news si sono propagate in rete e di rimbalzo nei media tradizionali, quindi nel dibattito pubblico Del resto, uno su dieci le aveva condivise prima di scoprirle. Si arriva al 23% con quanti affermano di averle sì condivise ma solo “raramente”. Credere nelle fake news e diffonderle si associa, ovviamente, ad un uso frequente della rete. Le hanno ritenute vere (“spesso o qualche volta”) il 40% degli utenti saltuari contro il 54% degli always-on in mobilità. Il dato cresce parallelamente per le condivisioni, dal 10 al 15%. Gli utenti dei social le condividono nel doppio dei casi (16% vs 8%) rispetto agli utenti senza un account social. Sono i giovani, tra 25 e 34 anni, ad avere creduto (63%) e condiviso (18%) maggiormente le fake news. Non si registra alcuna differenza di genere. Si tratta, poi, di soggetti con un alto livello di scolarizzazione; a ribadire quanto insidiose siano anche per internauti con maggiori risorse culturali. Qualche distinzione si registra invece tra i vari elettorati. Quelli del PD (33%) e della Lega (37%) affermano in misura minore di avere creduto in fake news. Più elevato è il dato tra i grillini (52%) e tra i forzisti (49%). Anche l’averle condivise riporta questa differenza. Da un lato gli elettori del PD, che affermano di avere condiviso inavvertitamente fake news nel 5% dei casi. Tra quelli del M5s il dato sale al 22%. Ma questo non riflette un differente orientamento verso la post-verità. Rimanda invece al profilo dei rispettivi elettorati: più o meno giovani, e più o meno utenti assidui della rete. Niente arresto per chi entra nei cantieri Tap, inammissibile l’emendamento del governo di Alessandro Trocino Corriere della Sera, 18 dicembre 2017 Boccia (Pd) dichiara inammissibile l’emendamento del governo. Plauso di M5S e di Liberi e Uguali. Ha avuto poche ore di vita l’emendamento presentato dal governo nell’ambito della legge di bilancio sul Tap (Trans Adriatic Pipeline), il contestato progetto di gasdotto con approdo nel Salento, che prevedeva l’arresto per l’ingresso non autorizzato nei cantieri. Il presidente e relatore della Commissione Bilancio, Francesco Boccia (dem pugliese, della stessa area politica di Michele Emiliano), l’ha giudicato inammissibile. Bocciatura salutata favorevolmente soprattutto dalla sinistra e dal Movimento 5 Stelle. Da tempo sindaci e popolazioni locali contestano il tracciato del gasdotto che dalla frontiera greco-turca attraverserà Grecia e Albania per approdare a Melendugno, in provincia di Lecce, permettendo l’afflusso di gas naturale proveniente dall’area del Mar Caspio in Italia e in Europa. Rotta alternativa a quella russa. Il clima di tensione ha suggerito al governo l’introduzione di un emendamento che equipara il Tap a un’opera di “interesse strategico nazionale”, con l’effetto di prevedere il carcere da tre mesi a un anno per qualunque intrusione nei cantieri. La richiesta è stata avanzata, a nome del governo, dal ministro del rapporto con il Parlamento Anna Finocchiaro, ma su idea del ministro dell’Interno Marco Minniti. La norma ha suscitato le proteste di Liberi e Uguali, del Movimento 5 Stelle e della sinistra Pd di Michele Emiliano. Qualche giorno fa il governatore pugliese aveva paragonato il cantiere Tap ad Auschwitz: “Hanno alzato un muro di cinta con filo spinato, è impressionante”. Erano seguite le scuse per il paragone improprio, ma la tensione non era scesa. Boccia spiega: “È una decisione che non ho preso a cuor leggero. Ma le regole si rispettano e questo emendamento era chiaramente illegittimo. Io credo, tra l’altro, che questioni come queste si risolvano con il confronto”. Soddisfatti per l’inammissibilità i Liberi e Uguali di Pietro Grasso: “L’emendamento militarizzava e criminalizzava il Salento per fare un favore a qualche spregiudicato imprenditore o multinazionale - spiega Nicola Fratoianni - Bene così. Evidentemente non tutti nel Pd hanno perso la testa”. Sulla stessa linea i M5S: “È inaccettabile che un’opera inutile, anzi dannosa come il gasdotto Tap - scrivono in una nota - venga inclusa tra quelle considerate strategiche. Sarebbe stato l’ennesimo abuso di una politica che scavalca le comunità locali in ossequio alle grandi lobby delle fossili”. Emiliano: “Manette esagerate. Io populista? No, domo gli spiriti guerrieri” di Alessandro Trocino Corriere della Sera, 18 dicembre 2017 Intervista a Michele Emiliano, presidente della Puglia. “Capisco le esigenze del ministro Minniti, ma militarizzare mezzo Salento avrebbe incendiato il clima, invece di raffreddarlo. Bene che sia stato bocciato l’emendamento del governo, ora sono pronto a incontrare il ministro dell’Interno e il premier Paolo Gentiloni”. Michele Emiliano, presidente della Puglia, nonché esponente di punta della minoranza del Partito democratico, ha alzato spesso la voce per la vicenda del gasdotto Tap in questi giorni. L’emendamento del governo che puniva con l’arresto chi fosse entrato nei cantieri è stato respinto. “Impuntarsi in modo muscolare sarebbe stata una leggerezza imperdonabile, un atto sbagliato. Nonché un errore tecnico, perché non c’entrava nulla con la legge di bilancio. E poi avrebbe trasformato il Tap in No Tap, il che è ridicolo, perché noi siamo favorevoli all’opera, non contrari”. Non c’è tensione? “No, era una trovata sproporzionata rispetto al clima reale che si vive in Puglia, che non è affatto teso”. L’altro ieri c’è stata un’aggressione al viceministro Teresa Bellanova. “Purtroppo sì, mi è dispiaciuto moltissimo che il viceministro sia stato contestato duramente dal sindaco. Bisogna stare attenti a non spostare il confronto dalla politica allo scontro fisico. L’emendamento sarebbe stato il detonatore della protesta. Forse serve qualche manifestazione in meno e qualche incontro di lavoro in più”. Lei è accusato di alimentare il clima di protesta. “Il confronto è sempre stato civile. E io ho dato la disponibilità al ministro Minniti a in- contrare lui e il premier insieme ai sindaci coinvolti per spiegare che, proprio come dice il ministro Calenda, se si tratta solo di un tubo, non c’è nessuna ragione per farlo arrivare nel posto sbagliato”. L’effetto Nimby, “non nel mio giardino”. “Non c’entra. Noi siamo a favore del gasdotto, ci serve per decarbonizzare l’Ilva. Ma su 900 chilometri di costa pugliese, forse ci può essere consentito di non far arrivare il gasdotto in uno dei parchi naturali più belli della Puglia e sulla più bella spiaggia dell’Adriatico. No?”. L’accusano di demagogia. Persino Andrea Orlando ha detto di non apprezzare troppo la sua “cifra” populista. “Sono un magistrato non un populista. E rispetto il programma di governo, che prevede lo spostamento dell’approdo del gasdotto di 30 chilometri, nel brindisino, dove non ci sono preoccupazioni ambientali e turistiche. Quanto a Orlando, quando farà il presidente della Puglia imparerà a domare lo spirito guerriero del Sud. Non è così facile come a La Spezia”. Prodi parla di “un’opposizione locale alimentata da spinte irrazionali”. “Prodi si rilegga i miei interventi e potrà verificare che siamo tutti favorevoli al gasdotto. Purché non arrivi in una zona pregiata”. Però lei, prima dell’infelice paragone del cantiere con Auschwitz, di cui si è poi scusato, ha accusato Calenda di essere servo delle lobby del carbone e del gas. “Calenda fa male alla nostra battaglia. Preferisco parlare con Gentiloni, di cui ho fiducia. Non con lui che, per quella ragione che accennava nella domanda, è una parte, un soggetto politico non terzo”. Lei ha accusato i renziani di “non ascoltare” e di essere “superficiali”. “Devo dire che in queste ore ho trovato ascolto e molta vicinanza nel Pd. Ho parlato poco fa con Renzi e credo che ascoltare dalla mia voce gli errori che sono stati compiuti potrebbe portare a una soluzione. E un incontro con Gentiloni e con Minniti, che ho sentito nei giorni scorsi, potrebbe portare alla pace sociale, senza bisogno dei soldati”. Orlando ha chiamato lei e Cuperlo a una battaglia comune nel partito. “Se io gli vado bene come compagno, lui mi va benissimo. Saremmo una coppia perfetta: lui si occuperebbe delle complessità del potere romano, io mi occuperei dei problemi della gente”. E Cuperlo? Anche lui fa parte della minoranza. “Lui sovrintenderebbe a tutti e due. Secondo la nota barzelletta sui magistrati che scrivono sentenze e sui pappagalli”. Toghe: il business dei corsi, aggirate le regole anti-furbi di Valentino Di Giacomo Il Mattino, 18 dicembre 2017 Giudici che svolgono corsi a pagamento per aspiranti magistrati, visto che l’accesso al concorso non avviene subito dopo la laurea. Una pratica che va avanti da anni e allunga i tempi di ingresso in magistratura ma sulla quale i riflettori sono stati puntati solo in seguito al caso del giudice Bellomo grazie alle “originali” richieste avanzate alle sue allieve, come l’obbligo del dress-code di gonne e tacchi a spillo. La giungla dei corsi per i giovani che si apprestano a sostenere l’esame per entrare in magistratura ha creato la proliferazione di decine di Srl che si occupano della formazione degli aspiranti magistrati, con un giro d’affari milionario che coinvolge gli stessi giudici. Uno spaccato della magistratura venuto fuori sui media solo di recente, ma nei palazzi romani la situazione nota. Già nel 2015 il Consiglio Superiore della Magistratura vietò ai giudici ordinari di svolgere questo genere di corsi attraverso una propria circolare, una delibera poi ulteriormente integrata lo scorso aprile in maniera stringente e lunga ben 21 pagine. Alcuni dei magistrati ordinari che tenevano i corsi avevano infatti preferito svolgere il concorso per entrare nella giustizia amministrativa, anche per evitare il rigido regolamento del Csm. Poi ci sono stati casi in cui i giudici hanno provato ad aggirare la circolare di Palazzo dei Marescialli, come avrebbe fatto il giudice Nalin implicato nella vicenda dei corsi organizzati da Bellomo e che ora è oggetto di un provvedimento disciplinare da parte del Csm che potrebbe costargli la radiazione. Ma il vero business è quello messo in piedi dai giudici amministrativi che non rispondono giurisdizionalmente al Csm, bensì al Consiglio di presidenza della Giustizia Amministrativa (Cpga), l’organo di autogoverno per i giudici del Consiglio di Stato e del Tar. Lo scorso luglio anche il Cpga guidato dal presidente Alessandro Pajno ha provato ad arginare il fenomeno attraverso una delibera di due pagine che ha fissato 5 punti cardine. “Il magistrato che intende assumere un incarico di docenza - recita il secondo comma della delibera - dovrà preventivamente attestare, con apposita dichiarazione scritta quali siano gli emolumenti pattuiti a titolo di compensi per l’attività svolta; che non sono previsti ulteriori compensi oltre a quelli pattuiti, nella forma di emolumenti o vantaggi economici comunque denominati, diretti o indiretti, anche per interposta persona”. In pratica dallo scorso luglio anche i giudici amministrativi saranno costretti a comunicare quanto guadagnano svolgendo le proprie lezioni agli aspiranti magistrati. Si tratta di una prima forma di regolamentazione nella giungla di questi corsi di preparazione ai concorsi, ma l’organo di autogoverno della giustizia amministrativa sembra non intende fermarsi. Venerdì scorso, nel corso dell’ultima riunione, la presidenza del Cpga ha deciso di affidare ad una delle commissioni il caso delle lezioni private. È in atto quindi un’ampia riflessione, ma che non si vuole affrontare sulla scia del clamore mediatico suscitato dal caso Bellomo. Un altro punto della circolare emanata dall’organo di autogoverno della giustizia amministrativa è dedicato poi al mercato indotto dei corsi privati, quello editoriale. “Il magistrato ‘ è scritto - deve indicare se i partecipanti ai corsi sono vincolati ad adottare manuali e testi di cui lo stesso magistrato sia autore”. Le attività imprenditoriali dei giudici erano quindi già tutte conosciute, resterà ora da capire se le regole saranno fatte rispettare in maniera tassativa. A Bellomo, ad esempio, è stato vietato già dallo scorso marzo di tenere lezioni. Per tutti gli altri il regolamento limita l’attività di insegnamento a 50 giorni l’anno. Giustizia alternativa ko. Calano domande e centri a cui affidarsi di Marzia Paolucci Italia Oggi, 18 dicembre 2017 La decima edizione del rapporto Isdaci su mediazione e arbitrato. Dal 2015 al 2016 calano le domande di giustizia alternativa ma anche i centri a cui affidarsi. I centri attivi nelle Adr, Alternative dispute resolution, servizi di giustizia alternativa in materia civile e commerciale, diminuiscono del 16% mentre le 275.137 domande di Adr riportano un calo del 4% rispetto alle 286.549 del 2015. Ma al calo assoluto si affianca anche la timida ascesa di altri istituti come quello della mediazione volontaria e di quella disposta dal giudice. È uno dei dati emergenti della decima edizione del rapporto sulla diffusione della giustizia alternativa in Italia presentato lo scorso 22 novembre dall’Istituto scientifico per l’arbitrato, la mediazione e il diritto commerciale. L’Isdaci ha mappato per il 2016, 901 centri complessivi di cui 694 organismi di mediazione, 8 camere di conciliazione, 139 camere arbitrali attive, 34 enti specializzati in negoziazioni paritetiche, 21 Corecom per le conciliazioni nel settore delle telecomunicazioni e 5 prestatori di servizio per la riassegnazione dei nomi a dominio in internet. Complessivamente regge bene il sistema camerale che resta un soggetto sempre presente, seppur in diversa misura in mediazioni, conciliazioni e arbitrati Mediazione. La domanda da un anno all’altro è diminuita del 6%, comunque tra i 694 organismi di mediazione, figurano 345 enti di natura privata, 143 espressione degli ordini professionali e 84 del sistema camerale. Ci sono poi 122 enti che sono stati iscritti ma al momento della stesura della ricerca, non risultavano ancora presenti nel sito del ministero della giustizia. Nel 2016 il numero di domande di mediazione registrate è stato di 183.977, in calo rispetto alle domande registrate nel 2015. Per quanto riguarda l’avvio della domanda, la mediazione obbligatoria prevista dall’art. 5, comma 1-bis, dlgs 28/2010 rappresenta il 79,6% del numero complessivo delle domande, meno dello scorso anno con l’81% delle domande, crescono invece la mediazione volontaria, quella disposta dal giudice che raggiunge l’11% dal 9,7 dell’anno scorso e la mediazione attivata in forza di clausola contrattuale allo 0,5%. Geograficamente, il 42,1% delle domande si concentra al Nord, il 21,2% al Centro, il 25,9% al Sud e il 10,8% nelle Isole. La materia oggetto del maggior numero di mediazioni risulta essere la contrattazione bancaria con il 20,5% del totale complessivo seguita dai diritti reali con il 14,4%, condominio e locazioni entrambi al 12 % delle domande, il risarcimento del danno da responsabilità medica 7%, i contratti assicurativi al 6,2%, le divisioni dei beni al 5,1%, le successioni ereditarie al 4,5%, i contratti finanziari al 3,2% e il comodato all’1,3%. Infine, il 12,5% delle domande risulta di “altra natura”. La durata media di una procedura è a 115 giorni qualora l’aderente sia comparso e sia stato raggiunto un accordo. Ma per le mediazioni gestite unicamente dagli organismi espressione del sistema camerale, la durata media di una procedura si accorcia a 51 giorni. Risulta in crescita, rispetto al 2015, la percentuale di adesione della parte chiamata in mediazione: 46,9% contro il 44,9%; contestualmente, è diminuita la percentuale di mancate adesioni che è al 50,4% contro il 52,7% del 2015. Sul territorio, per concentrazione di organismi, prima è Roma con 72 domande seguita da Napoli a 39, Milano 24, Salerno 19. Vengono poi Torino, Caserta e Palermo. Altre forme di mediazione differenziate per settore, hanno poi riguardato le fi gure del conciliatore bancario e finanziario, l’arbitro bancario finanziario, organismo indipendente attivato solo dal cliente dopo il reclamo, per controversie riguardanti operazioni e servizi finanziari di valore non superiore ai 100.000 euro e l’Ombusdman Giurì bancario sostituito dal 2017 dall’ Arbitro per le controversie finanziarie, gestito dalla Consob. Arbitrato. Sono state 708 le domande di arbitrato amministrato del 2016: il 10% in meno del 2015. Di queste, il 64%, 456 domande, sono state ricevute dalle camere arbitrali delle camere di commercio mentre 252 domande dalle camere arbitrali esterne al sistema camerale. Il 97% degli arbitrati è nazionale e gli arbitrati internazionali, 21 nel 2016, vengono gestiti esclusivamente dalle camere di commercio. Il 26% degli arbitrati è in materia societaria, il 21% immobiliare, il 20% in materia di appalti, il 9% commercio, il 2% finanziario e collaborazione/consulenza. Tra le istituzioni arbitrali delle camere di commercio, prima è Milano azienda speciale della Camera di commercio di Milano, Monza Brianza e Lodi, seconda istituzione arbitrale italiana e prima per numero di domande di arbitrato:134 nel 2016, + 2% rispetto al 2015. Segue Bergamo con 33 domande, Roma appena 18. Dipendente in carcere, sì al licenziamento per assenza ingiustificata se non avvisa subito responsabilecivile.it, 18 dicembre 2017 Sentenza della Corte di Cassazione n. 25150/2017. In caso di dipendente in carcere che non comunica la propria assenza al datore di lavoro, il licenziamento disciplinare per assenza ingiustificata è valido? La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 25159 del 24 ottobre 2017, ha stabilito che il licenziamento disciplinare è valido. La vicenda - Un lavoratore era stato arrestato e, a causa della carcerazione preventiva, si è assentato da lavoro senza dare comunicazione. Soltanto un mese dopo ha dato comunicazione all’azienda riguardo alla propria assenza. L’azienda aveva così comminato al dipendente un licenziamento disciplinare. Il licenziamento era stato motivato dall’azienda sulla base della “mancata tempestiva comunicazione ed ingiustificatezza dell’assenza a far data dal 2 giugno 2010 (conseguente lo stato di carcerazione preventiva del lavoratore)”. Il Tribunale di Padova aveva respinto la richiesta di reintegro del lavoratore, e la Corte d’Appello di Venezia aveva confermato la sentenza. Così il lavoratore si era rivolto in Cassazione. La sentenza della Corte di Cassazione - Secondo il ricorrente, in particolare, la Corte d’appello non avrebbe adeguatamente tenuto in considerazione il fatto che se il lavoratore si trova in regime di carcerazione preventiva non ha la possibilità di “chiarire con la direzione aziendale la sua posizione”, in quanto tale provvedimento restrittivo della libertà personale “impedisce contatti personali con l’esterno”. Di conseguenza, secondo il lavoratore, la carcerazione preventiva configura una “causa di impossibilità sopravvenuta temporanea della prestazione lavorativa”, che determina la “sospensione del rapporto di lavoro”, fino a quando “non cessi l’impedimento o l’azienda non dimostri che sia venuto meno il suo interesse alla prosecuzione del vincolo contrattuale”. Ma la Corte di Cassazione non ha accolto il ricorso del ricorrente, ritenendolo infondato. Dipendente in carcere che non comunica assenza è licenziabile - Secondo la Cassazione, infatti, l’art. 45 del R.D. n. 148 del 1931 sanziona con il licenziamento il lavoratore “arbitrariamente assente per oltre cinque giorni” e che, ai sensi dell’art. 21 del medesimo R.D., il lavoratore che si trovi nell’impossibilità di recarsi al lavoro ha l’obbligo “di avvisare senza indugio l’azienda”. “La carcerazione preventiva del lavoratore non può definirsi assenza arbitraria” e non consente “in linea di massima, all’imputato di avvisare senza indugio l’azienda della sua assenza”. Ma nel caso di specie era emerso che il lavoratore aveva reso noto all’azienda la sua assenza tramite il suo avvocato soltanto un mese dopo l’inizio della detenzione, “e dunque non tempestivamente”. Secondo la Cassazione, quindi, la non tempestività è in contrasto con l’art. 45 del R.D. n. 148 del 1931. Anche perché non era stata dimostrata l’impossibilità di avvisare prima. Niente automatismi sull’allontanamento dell’extracomunitario di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 18 dicembre 2017 Corte di giustizia europea sentenza 7 dicembre causa C 636 2016 Pastuzano. La decisione di allontanamento di un cittadino extra Ue, soggiornante di lungo periodo, applicata in modo automatico in seguito alla commissione di un reato e senza possibilità di ricorrere in sede giurisdizionale è contraria al diritto dell’Unione europea. Questo perché il diritto Ue richiede agli Stati membri di assicurare l’integrazione dei cittadini di Paesi terzi in possesso di tale titolo e di accertare caso per caso la necessità dell’espulsione. È la Corte di giustizia dell’Unione europea, con la sentenza depositata il 7 dicembre (causa C-636/16, Pastuzano), a bocciare le scelte nazionali che fanno scattare in modo automatico l’espulsione, malgrado il legame di lungo periodo tra Stato e cittadino extra Ue. La storia - Il rinvio pregiudiziale d’interpretazione è stato presentato a Lussemburgo dal tribunale amministrativo di Pamplona (Spagna), alle prese con una controversia tra un cittadino colombiano, titolare di un permesso di soggiorno di lungo periodo nel Paese, e le autorità spagnole che, dopo la condanna a due pene detentive di dodici e tre mesi, avevano provveduto al ritiro del permesso di soggiorno e deciso l’allontanamento. L’uomo aveva fatto ricorso al tribunale amministrativo contestando l’applicazione della misura automatica di allontanamento prevista nei casi di sanzioni penali e non amministrative. Una scelta contraria all’articolo 12 della direttiva 2003/109 relativa allo status dei cittadini di Paesi terzi soggiornanti di lungo periodo (recepita in Italia con decreto legislativo n. 3, dell’8 gennaio 2007), modificata dalla direttiva 2011/51, attuata con il Dlgs n. 12 del 2014. La norma, infatti, prevede che gli Stati membri possano decidere l’allontanamento del soggiornante di lungo periodo esclusivamente se costituisce “una minaccia effettiva e sufficientemente grave per l’ordine pubblico o la pubblica sicurezza” e soltanto tenendo conto di alcuni elementi come la durata del soggiorno sul territorio, l’età dell’interessato, le conseguenze anche per i suoi familiari, i vincoli con il Paese di soggiorno e, al tempo stesso, l’assenza di vincoli con lo Stato di origine. Valutazione caso per caso - La norma, quindi, impone una verifica concreta sull’effettività della minaccia e richiede una valutazione in ogni caso, sia quando il soggiornante sia destinatario di una sanzione amministrativa sia di una penale. Non solo. La Corte Ue chiede agli Stati di interpretare le norme della direttiva considerando l’obiettivo principale dell’atto che è “l’integrazione dei cittadini di Paesi terzi stabilitisi a titolo duraturo negli Stati membri”. È così indispensabile assicurare al destinatario del provvedimento di allontanamento una tutela rafforzata dinanzi alle autorità nazionali competenti. Questo - osserva la Corte di giustizia - impone una valutazione caso per caso alla luce degli elementi indicati nella direttiva che, d’altra parte, sono stati scelti anche per accertare il legame tra soggiornante di lungo periodo e Stato. Di conseguenza, la sanzione penale, anche privativa della libertà personale, non può automaticamente portare all’espulsione. È la stessa direttiva, inoltre, a richiamare, a tutela del soggiornante di lungo periodo, l’applicazione dei criteri fissati dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e ad assicurare l’accesso effettivo agli organi giurisdizionali. Penale-tributario con incursioni. Procedimenti autonomi ma condizionati reciprocamente di Stefano Loconte e Claudia Pavanello Italia Oggi, 18 dicembre 2017 L’oggetto della repressione penale e dell’azione accertativa si sovrappongono a scapito del contribuente. Per questa ragione la Guardia di finanza, con la circolare n. 1/2018, pur riconoscendo autonomia al procedimento penale rispetto all’accertamento e al processo tributario, esclude che il Fisco o il giudice tributario possano legittimamente superare la perentorietà del giudicato penale senza un valido motivo. Nel nuovo “Manuale operativo in materia di contrasto all’evasione e alle frodi fiscali”, contenuto nella circolare n. 1/2018 della Guardia di finanza, rilevanti sono le riflessioni poste in tema di doppio binario penale/tributario. La Gdf afferma che il sistema alla base dei rapporti fra i procedimenti “non è a compartimenti stagni”: ciò significa che riconoscere agli stessi piena autonomia, di fatto, non esclude che possano reciprocamente condizionarsi. Nella circolare, infatti, viene fatto rilevare come spesso si assista a una sostanziale sovrapposizione dell’oggetto della repressione penale da un lato e dell’azione accertativa dall’altro. Tutto ciò non senza conseguenze nei confronti del contribuente, che subisce l’applicazione del principio del doppio binario come una duplicazione vessatoria delle sanzioni irrogate a suo carico (in tal senso sul punto si è espressa anche la suprema Corte di cassazione con la sentenza, 23 maggio 2012, n. 8129). Questo è il riflesso della piena autonomia fra i procedimenti, riconosciuta con l’entrata in vigore del dlgs n. 74/2000 (“Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto”), che ha, ex multis, escluso l’efficacia vincolante del giudicato penale all’interno del procedimento tributario, come previsto dall’art. 20 del citato decreto. Il riconoscimento del cd. doppio binario penale/tributario, tuttavia, ha condotto a risultati prevedibili, non di rado mal tollerati dai contribuenti: se si ammette, infatti, che i procedimenti avanzino parallelamente, implicitamente si accetta la possibilità che gli stessi si concludano con soluzioni contrastanti o con una moltiplicazione delle sanzioni irrogate (è quanto emerge anche dal parere della Suprema corte nella sentenza, 28 marzo 2013, n. 37424). Al fine di scongiurare un mancato coordinamento tra i procedimenti e gli effetti negativi che ciò avrebbe sulla sfera del contribuente coinvolto, la Guardia di finanza, nella circolare in esame, allineandosi all’orientamento ormai consolidatosi in giurisprudenza (Cass., 28 giugno 2017, n. 16262; Cass., 13 febbraio 2015, n. 2938) specifica che il giudice tributario è investito del “potere-dovere” di tenere in considerazione le risultanze del giudizio penale. Se da un lato, infatti, gli viene riconosciuto il potere di ricostruire il fatto storico sulla base di una valutazione differente rispetto a quella compiuta in sede penale, dall’altro gli viene imposto che un cambio di rotta sia sostenuto da valide ragioni. A tal proposito, la linea di demarcazione è rappresentata dalla natura del giudicato penale. Se esso contiene una pronuncia perentoria, ovvero si esprime in maniera diretta sulla posizione giuridica soggettiva rilevata nell’azione di accertamento, sarà piuttosto difficile, secondo la Gdf, non riconoscere un vincolo di adeguamento in capo al giudice tributario in fase processuale. Ma, precisa la circolare, questo vincolo deve intendersi valido ancor prima del processo, già in fase di accertamento a carico dell’Amministrazione finanziaria. Viceversa, qualora manchi il carattere della perentorietà, sarà ben possibile che il giudice tributario si discosti dalle risultanze del giudicato penale e ricostruisca il fatto storico in maniera differente, a condizione naturalmente che a corredo del procedimento valutativo vengano offerte motivazioni e argomenti idonei a giustificare il superamento delle risultanze penali. Appare sempre più atteso un intervento del legislatore che regoli la materia. L’affermazione dell’autonomia dei procedimenti si è rivelata senza dubbio una conquista, vista anche la specificità degli scopi perseguiti nelle due differenti sedi: il recupero del gettito in sede fi scale, la punizione del reo in sede penale. Tuttavia, la questione, anche alla luce delle considerazioni della Guardia di finanza, appare ancora controversa. Commette truffa chi riscuote la pensione di persona deceduta e ne dichiara l’esistenza in vita di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 18 dicembre 2017 Corte di cassazione - Sezione II penale - Sentenza 5 settembre 2017 n. 40260. Integra il reato di truffa la condotta dell’imputato che, in qualità di delegato, riscuote indebitamente i ratei della pensione di pertinenza di una persona deceduta, nel caso in cui dichiari falsamente l’esistenza in vita dell’avente diritto. Così si è espressa la Cassazione con la sentenza n. 40260 del 2017. La dichiarazione “in positivo” circa l’esistenza in vita della persona che ha diritto alla pensione incide su una attività accertativa e di controllo affidata in tale ambito all’ente previdenziale, per cui la falsificazione di tale certificazione è idonea a integrare l’attività fraudolenta tipica della truffa in quanto insiste sui presupposti dell’erogazione che sono sottoposti ad attività accertativa e non meramente ricognitiva. Gli elementi distintivi tra le fattispecie criminose - La Cassazione, per corrispondere a doglianza della difesa, si diffonde sugli elementi distintivi tra la fattispecie criminosa di cui all’articolo 316-ter del Cp e quella di truffa aggravata, più grave, ritenuta in sentenza. Secondo la Corte, è ravvisabile, il primo reato in caso di indebita percezione della pensione di pertinenza di una persona deceduta, conseguita dal cointestatario del medesimo conto corrente su cui confluivano i ratei della pensione, che ometta di comunicare all’ente previdenziale il decesso del pensionato (in termini, sezione II, 23 ottobre 2013, Brunialti): ciò perché si è in presenza di una condotta puramente omissiva dell’agente; analogamente, si verte sempre in tema di indebita percezione di erogazioni pubbliche, pur in presenza di una falsa autocertificazione, qualora l’ente assistenziale non venga indotto in errore, perché chiamato solo a “prendere atto” dell’esistenza dei requisiti autocertificati e non a compiere una autonoma attività di accertamento (sezione II, 17 ottobre 2014, Ragusa). Al contrario, è ravvisabile la truffa, caratterizzata dall’induzione in errore, nel diverso caso in cui la condotta dell’agente incida sull’attività di verifica e valutazione affidata all’ente erogatore, che non si limiti alla mera “presa d’atto” dell’esistenza della formale attestazione del richiedente. Da queste premesse, nel caso di specie vi era la truffa aggravata, perché emergeva dalla sentenza impugnata che l’imputato si era presentato a riscuotere la pensione in qualità di delegato alla riscossione dell’avente diritto alla pensione, come tale sottoponendosi a identificazione in occasione di ogni erogazione e dichiarando ogni volta falsamente l’esistenza in vita del genitore: la dichiarazione “in positivo” circa l’esistenza in vita della persona che aveva diritto alla pensione aveva così inciso sulla attività accertativa e di controllo affidata in tale ambito all’ente previdenziale (al quale, infatti, venivano periodicamente comunicati d’ufficio i decessi) e la falsificazione di tale certificazione doveva dunque considerarsi idonea a integrare l’attività fraudolenta tipica della truffa in quanto insisteva sui presupposti dell’erogazione, sottoposti ad attività accertativa e non meramente ricognitiva. In definitiva, viene così ribadito quell’orientamento secondo cui la condotta descritta dall’articolo 316-ter del Cpsi distingue da quella prevista dall’articolo 640-bis del Cp per le modalità, giacché la presentazione di dichiarazioni o documenti attestanti cose non vere deve costituire “fatto” strutturalmente diverso dagli artifici e raggiri integranti la truffa, e si distingue altresì per l’assenza di induzione in errore dell’ente erogatore, giacché quest’ultimo è solo chiamato a prendere atto dell’esistenza dei requisiti autocertificati e non a compiere una autonoma attività di accertamento: in definitiva, nel reato di indebita percezione, l’erogazione non discende da una falsa rappresentazione dei suoi presupposti da parte dell’ente pubblico erogatore, che non viene indotto in errore perché in realtà si rappresenta correttamente solo l’esistenza della formale attestazione del richiedente (cfr. sezioni Unite, 16 dicembre 2010, Pizzuto, nonché Sezioni unite, 19 aprile 2007, Carchivi). Brindisi: storie dal carcere, il cappellano racconta la vita dietro le sbarre di Lucia Pezzuto brindisioggi.it, 18 dicembre 2017 “Piange dalla mattina alla sera, sta male, è pentito di quello che ha fatto ed è consapevole del dolore che ha procurato alla sua famiglia e a quella della vittima” così Don Nino Lanzillotti, cappellano della casa circondariale di Brindisi, descrive uno dei tanti detenuti che in questo momento si trovano nella struttura carceraria di Brindisi. L’uomo di cui racconta è accusato di omicidio volontario e la sua è una delle tante storie dietro le sbarre. Don Nino da poco più di un anno si occupa dei detenuti del carcere di Brindisi e da qualche mese ha anche assunto l’incarico di vice direttore della Caritas Diocesana. “Il rapporto con i detenuti non è semplice - dice - non è semplice perché ci vuole tempo per acquistare stima e fiducia. Ma sono persone che hanno bisogno soprattutto di essere ascoltate”. Attualmente Don Nino si occupa di circa duecento detenuti, non solo è accanto a loro ma, per quello che può, cerca di aiutare anche loro famiglie. “Quando un ragazzo entra in carcere- dice- inevitabilmente i rapporti con la famiglia diventano più difficili soprattutto se ci sono di mezzo i figli. Si cerca di tenere saldi i legami ma non è facile. Alla fine il detenuto si sente comunque solo”. Tra pochi giorni sarà Natale e la solitudine di cui parla Don Nino si farà sentire ancora di più, il carcere, si sa, è il luogo dove le persone pagano il loro debito con la giustizia ma è anche un luogo di recupero e riabilitazione. “Il futuro spaventa tutti qua dentro, soprattutto i più giovani- dice Don Nino- la paura è quella che una volta fuori di qui nessuno voglia avere a che fare con te, che nessuno voglia darti un’altra opportunità”. In carcere la soglia dell’età dei detenuti si è abbassata di molto, la fascia media della popolazione carceraria è compresa tra i 18 e i 24 anni. Molti di questi ragazzi con il passare del tempo acquisiscono consapevolezza dei loro errori e cercano in qualche modo il riscatto impegnandosi in attività di formazione, altri invece si chiudono nel silenzio e lì capisci che hanno fatto una scelta diversa. “Da quando sono qui è aumentato il numero dei giovani che partecipa alla messa - dice Don Nino - all’inizio erano meno di dieci. Oggi sono circa cinquanta. Partecipano volentieri, chiedono di poterti parlare e ascoltano i consigli. Tutto sommato non è male cinquanta su duecento, è un bel risultato. Mi dispiace, invece, quando ti rendi conto che c’è chi non è intenzionato a cambiare vita. Escono dal carcere dopo aver scontato la pena e li vedi tornare qualche settimana dopo perché hanno commesso di nuovo qualche reato”. I ragazzi che si trovano in carcere Don Nino li conosce tutti, alcuni ancora prima che finissero dietro le sbarre. “Una volta mi sono trovato faccia a faccia con un mio alunno, mi è dispiaciuto incontrarlo in carcere ma gli ho detto: hai visto cosa è successo, quante volte ti ho detto che saresti finito male. Lui mi ha sorriso. Qui la gente è chiusa in una cella per i motivi più disparati. C’è chi ha rubato per dare da mangiare ai figli, c’è chi ha usato violenza in un momento di rabbia, c’è chi è finito nella trappola della droga. Una cosa però tutti hanno in comune ed è la mancanza della famiglia. A questi ragazzi è mancato in qualche modo il sostegno della famiglia, per questo cerchiamo di aiutarli a riallacciare i rapporti con i parenti, soprattutto quando ci sono di mezzo i figli”. Nella politica del carcere l’incontro con i famigliari è uno dei momenti più importanti per questo all’interno della struttura c’è una sala anche per accogliere i bambini che incontrano i loro papà. In questi giorni Don Nino è impegnato nel raccogliere doni per questi bambini: “Chiedo una mano a chiunque voglia contribuire a regalare un sorriso a questi bambini. Cerchiamo di raccogliere un giocattolo per ciascun bambino affinché il giorno di Natale possa trovarlo sotto l’albero e pensare che sia un dono del suo papà, un abbraccio virtuale”. Chiunque voglia contribuire regalando un gioco può farlo rivolgendosi direttamente alla casa circondariale di Brindisi e chiedendo di Don Nino, il cappellano. Caserta: il riscatto dopo il carcere, dibattito in Curia Il Mattino, 18 dicembre 2017 Volontariato tra i detenuti, l’autore racconta esperienze e speranze. Oggi la presentazione del libro “E adesso la palla passa a me”, scritto da Antonio Mattone. Passione civile e solidarietà sono stati i motori che hanno spinto Antonio Mattone a riflettere su malavita, solitudine e riscatto nel carcere. Ne è nato un libro: “E adesso la palla passa a me”, che verrà presentato oggi presso la Curia Vescovile a piazza Duomo. Sono chiamati a discuterne con l’autore, il vescovo Giovanni D’Alise, Santi Consolo, capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Mauro Palma, garante nazionale dei detenuti e persone private della libertà personale, Raffaele Piccirillo, capo dipartimento affari giustizia, e la parlamentare Camilla Sgambato. Introduce e coordina il giornalista Luigi Ferraiuolo. “E adesso la palla passa a me” è la frase scritta da un detenuto in una lettera inviata all’autore. “Quando uscirò dal carcere la palla passa a me, come mi hai detto tante volte tu”. Antonio Mattone nel libro racconta 10 anni di esperienza vissuti come volontario all’interno del carcere di Poggioreale e di altri penitenziari italiani, attraverso gli editoriali pubblicati su Il Mattino. Gli articoli trattano dei problemi e delle vicende di cui tanto si è parlato in questi anni. Sovraffollamento, sicurezza della società, violenza, salute, Opg, diritti negati, volontariato. Un viaggio dove alla fine un dato sembra inconfutabile: umanizzare il carcere farà bene a chi è detenuto come a chi non lo è. Antonio Mattone è nato e vive a Napoli. Fin da giovane è impegnato nella Comunità di Sant’Egidio dove ha incontrato i bambini e gli anziani dei quartieri di Scampia, della Sanità e del Centro Storico. Dal 2006, visita ogni settimana i detenuti del carcere di Poggioreale, oggi intitolato a Giuseppe Salvia, e di altri penitenziari italiani. Ha partecipato come esperto agli Stati Generali dell’esecuzione Penale. Editorialista de “Il Mattino” sui temi sociali e del carcere, è direttore dell’ufficio di Pastorale Sociale e del Lavoro della diocesi di Napoli. Catanzaro: teatro in carcere, continuano i corsi di Mario Sei catanzaroinforma.it, 18 dicembre 2017 “Jonathan, liberi di volare, liberi di sognare” il progetto voluto dalla casa circondariale. “Senza Titolo” è il quarto lavoro per i detenuti del commediografo e volontario penitenziario Sei. Rocco, dopo lunghissimi anni di carcere, si è congedato dai suoi compagni nel migliore dei modi, su un palcoscenico, in veste di attore co- protagonista, nell’ultimo lavoro teatrale del commediografo Mario Sei, che da anni dirige due laboratori teatrali per detenuti-attori, nel carcere “Ugo Caridi” di Catanzaro. Rocco, dopo tanti, ma proprio tanti anni di carcere, raggiungerà la sua bellissima città di Napoli ed i suoi affetti, ma prima di congedarsi si è cimentato, per la prima volta in un’esperienza da attore significativa, unica, che porterà certamente con sé e ci auguriamo anche al di fuori delle mura carcerarie. “Jonathan, liberi di volare, liberi di sognare” è il Laboratorio Teatrale, fortemente voluto dall’amministrazione della Casa Circondariale, per volontà della direttrice Angela Paravati e che sta portando in scena, questo è il quarto lavoro, commedie scritte apposta per i detenuti da Mario Sei, volontario penitenziario, che tiene corsi di recitazione in due distinti circuiti penitenziari, di alta e media sicurezza. Rocco è uscito quindi di scena da uomo libero, ma anche da attore e da attore premiato; ed a premiarlo, sul palco del Caridi, è arrivato apposta il Sovrintendente del Teatro Politeama Gianvito Casadonte, già Patron del Magna Grecia Film Festival, che ha consegnato una targa, in cui non poteva mancare una celebre frase del commediografo per eccellenza, Eduardo De Filippo, “Il Teatro non è altro che il disperato sforzo dell’uomo di dare un senso alla vita”. Senso alla vita e senso al teatro in carcere se n’è dato parecchio in quelle circa due ore di “evasione” e, lo sforzo dei detenuti-attori si è visto tutto ed è stato ripagato nel migliore dei modi, attraverso applausi, risate e soprattutto emozione finale in un monologo che è un inno alla vita ed alla speranza, rafforzato anche dagli auguri natalizi portati, prima dell’inizio dello spettacolo dal giovane sacerdote Don Francesco Cristofaro, conduttore televisivo ed autore di libri intensi. Francesco Passafaro, direttore Artistico del Teatro Comunale, nonché presidente del Teatro Incanto, ha premiato il co-protagonista P.D. un poliedrico attore, capace di catturare l’attenzione del pubblico e di trascinarlo in un vortice di risate a crepapelle, un maggiordomo, fedele, nonostante le ristrettezze economiche al suo barone Don Oreste Ferramazza. Un testo ben strutturato, con battute esilaranti e con un linguaggio arzigogolato per i due co-protagonisti, in contrapposizione ad un linguaggio contemporaneo degli altri attori, che con grande disinvoltura ruotano attorno ai due mattatori e che alla fine, attraverso un toccante monologo di Rocco lascia, forse, l’amaro in bocca, ma anche una vera e propria lezione di vita. Partendo, infatti, dal titolo, anzi “Senza Titolo”, il testo ha voluto lasciare nei circa 200 detenuti del circuito di massima sicurezza e nei pochissimi ospiti, spunti di riflessione sull’esigenza incontrollabile dell’uomo in generale di giudicare, spesso “Senza Titolo”, senza conoscere, senza comprendere e senza chiedersi degli effetti catastrofici che la mancanza di sensibilità, la superficialità e la leggerezza nel giudizio, spesso lascia ferite profonde. Il testo rigorosamente in italiano, ha lasciato spazio anche al teatro napoletano con un susseguirsi di battute che ha divertito proprio tutti e la ristrettezza del protagonista, da intendersi come una sorta di parallelismo con la vita da recluso, è una sorta di purificazione, di castigo, di pentimento che può portare alla felicità, che non la si raggiunge, attraverso un titolo, uno status, ma solo attraverso la piena ricerca di sé e la piena consapevolezza dei propri errori e dei propri limiti. Foggia: il Natale dei detenuti, con il CSV volontari tra le sezioni delle Case circondariali Ristretti Orizzonti, 18 dicembre 2017 Già partiti alcuni dei progetti realizzati grazie ai due Avvisi per iniziative di solidarietà. “Particolare attenzione ai ristretti con scarsi riferimenti familiari e affettivi, tali da determinare una condizione di maggior solitudine o che versano in stato di profonda indigenza”. Non è facile raccontare i giorni di festa dietro le sbarre, ancora meno viverli. Per questo motivo, il CSV Foggia, nelle scorse settimane, ha pubblicato due avvisi per iniziative di solidarietà da realizzare negli Istituti penitenziari di Capitanata, con il sostegno della Fondazione dei Monti Uniti di Foggia. Il senso dell’iniziativa - “L’obiettivo - spiegano dal Centro Servizi al Volontariato - è stato quello di promuovere l’impegno delle associazioni di volontariato all’interno del carcere, al fine di contribuire alla finalità rieducativa dell’esecuzione della pena. L’idea è quella di fornire, attraverso il volontariato, un supporto concreto alla popolazione detenuta che trascorre le festività natalizie in carcere, con particolare attenzione ai ristretti con scarsi riferimenti familiari e affettivi, tali da determinare una condizione di maggior solitudine o che versano in stato di profonda indigenza”. Fondo solidale e clown dottori nel carcere di Foggia - Nella Casa Circondariale di Foggia, grazie all’ARCI Solidarietà, è stato istituito un fondo di solidarietà. Le risorse economiche messe a disposizione del CSV Foggia sono state depositate su un conto corrente dedicato dell’associazione che lo verserà al Carcere. Dal conto dedicato presso l’Ufficio Ragioneria della Casa Circondariale saranno movimentate, di volta in volta, le somme da destinare ai detenuti per i quali è riconosciuta, dal personale dell’Istituto, la necessità. “Il fondo - spiegano dall’associazione - è destinato a soddisfare bisogni primari che condizionano la qualità della vita dei detenuti in stato di grave indigenza, quali l’acquisto di farmaci di fascia C, pagamenti di ticket sanitari, telefonate ai familiari”. Presso lo stesso Istituto, a breve, i clown dottori de Il Cuore onlus realizzeranno un progetto finalizzato a favorire tra i detenuti e i figli una sorta di rieducazione affettiva e a sviluppare la genitorialità, assopita a causa delle lunghe separazioni. “L’inserimento dei Clown Dottori all’interno degli Istituti Penitenziari ha lo scopo di portare un effettivo supporto ai soggetti detenuti, che vivono in primis situazioni di solitudine familiare”, spiegano dal CSV Foggia. Ciascun clown dottore porterà con sé sia le competenze artistiche che le esperienze professionali. Zampognari e laboratorio d’arte a San Severo - Nel carcere di San Severo, invece, la Fidas Dauna Provinciale di Foggia ha organizzato il progetto “Zampogna e ciaramella, a spasso tra le vie della tradizione”. “L’iniziativa - sottolineano dall’associazione - è stata pensata per sensibilizzare alla donazione del sangue anche in un contesto difficile come quello carcerario”. Nello stesso Istituto penitenziario si è svolta l’attività dell’Ass. Superamento Handicap San Severo, intitolata “Handmade Christmas”, un laboratorio d’arte a tema natalizio. “I detenuti - evidenziano dal CSV Foggia - hanno realizzato alberi di Natale in miniatura che potranno regalare ai propri familiari, in occasioni delle festività. Un progetto che coniuga arte e trattamento”. Due giornate con papà detenuti e figli a Lucera - Infine, nella Casa Circondariale di Lucera, l’Ass. Lavori in Corso ha programmato l’iniziativa “Natale con i bambini”: due giornate dedicate ai figli che fanno visita al papà detenuto. “Quest’anno - precisano i volontari - la manifestazione si articolerà su due livelli: con i detenuti, in sezione per preparare l’evento e con i parenti, in visita per i colloqui natalizi”. I volontari aiuteranno i papà a riflettere sul proprio ruolo genitoriale e li aiuteranno a realizzare dei biglietti augurali da consegnare ai propri figli. All’interno del cortile dell’Istituto, dove i parenti sostano in attesa del colloquio, verrà realizzata una festa. I bambini potranno essere coinvolti in attività di animazione e aiutati a realizzare dei ‘lavoretti’ da donare al proprio papà: quando entreranno al colloquio, ci sarà lo scambio dei doni. Auguri e panettoni il giorno della vigilia - Gli avvisi per le iniziative di solidarietà in carcere, in occasione del Natale, rappresentano soltanto una delle azioni messe in campo dal CSV Foggia per promuovere il volontariato penitenziario, grazie al supporto della Fondazione dei Monti Uniti di Foggia. Come da tradizione, il giorno della vigilia di Natale, gli assistenti volontari dell’Istituto visiteranno tutte le sezioni, insieme con il cappellano, per portare gli auguri e una fetta di panettone. Augusta (Sr): il concerto di Natale conclude l’intensa attività del carcere del 2017 di Maria Grazia Morello webmarte.tv, 18 dicembre 2017 Il tradizionale concerto di Natale della Brucoli Swing band, diretta da Maria Grazia Morello, si è svolto ieri nell’auditorium “Enzo Maiorca” della Casa di reclusione. Il sipario si è aperto con l’omaggio iniziale a Lando Fiorini, recentemente scomparso che ha visto i detenuti della band intonare il brano “Roma nun fa la stupida stasera”, per poi dare prova delle loro doti canore con altri 19 brani classici e moderni, alcuni dei quali arricchiti da scenette ispirate al tema del brano. Col pezzo “Hallelujah” di Leonard Choen la Brucoli Swing band ha salutato il pubblico. Trecento spettatori hanno assistito al concerto, tra cui autorità civili e militari, rappresentanti di club services, volontari e studenti impegnati nel progetto di alternanza scuola lavoro. Il direttore del carcere, Antonio Gelardi ha evidenziato l’impegno di tutto il personale per la risuscita dell’ultimo evento di una serie di manifestazioni teatrali, canore, culturali e civiche del 2017, tutte condotte seguendo il filo conduttore dell’apertura al territorio. Il concerto verrà replicato per la popolazione detenuta e nei prossimi giorni per i familiari dei coristi, che potranno così trascorrere alcune ore insieme ai loro parenti in un contesto diverso da quello del reparto colloqui. Tra i principali eventi che si sono svolti all’interno della struttura carceraria nell’anno che sta per volgere al termine ricordiamo: attività di alternanza scuola lavoro con il II Istituto di istruzione superiore “Arangio Ruiz”; visite alla casa di reclusione di studenti universitari e scolaresche e gruppi scout e dibattiti con i detenuti; spettacoli teatrali recitati dai detenuti a cui hanno assistito le scuole. Nel 2017 il carcere ha firmato, inoltre, l’ampliamento della convenzione con il Comune di Augusta per lo svolgimento di lavoro gratuito da parte dei detenuti. Sono stati organizzati, altresì, incontri fra genitori e detenuti. Sono stati realizzati laboratori artigianali e di ceramica per detenuti e studenti del Liceo Megara; nell’anno in corso si è svolta la quinta edizione del festival di musica napoletana Brucoli Canta Napoli. E poi ancora hanno caratterizzato il 2017 il progetto “La scuola Va in carcere” con il liceo delle scienze applicate dell’Arangio Ruiz e lo spettacolo aperto al pubblico (La commedia degli errori di Shakespeare). La Casa di reclusione è stata allietata da spettacoli di canto estivi aperti al pubblico; dal recital degli attori Ficarra e Picone. La Troupe del TG 1 ha visitato il penitenziario e incontrato i detenuti per preparazione puntata speciale del telegiornale della prima rete della Rai che andrà in onda a gennaio. Il carcere ha ospitato la giornata conclusiva del progetto “Fare con meno” del Comune di Augusta con pranzo confezionato dai detenuti per i 100 partecipanti ai corsi formativi. Nel salone “Enzo Maiorca” si sono svolte anche presentazioni letterarie con l’associazione Naxos Legge e iniziative in occasione della giornata mondiale contro il femminicidio e la violenza di genere. Nei giorni scorsi è stato messo in scena lo spettacolo “Smile and Fly” dai detenuti e dai ragazzi del gruppo Icaro e gruppo sportivo disabili a conclusione dell’omonimo progetto. Sono stati inoltre organizzati dei momenti di apertura alla cittadinanza dedicati alla Polizia penitenziaria quali la partecipazione alla regata velica nel comprensorio della Marina militare, la partecipazione a tornei interforze e la partecipazione alla giornata della legalità promossa dal Comune di Augusta. È stato celebrato il duecentesimo anniversario della fondazione del corpo di Polizia penitenziaria alla presenza delle autorità cittadine. Altre attività di soccorso idrico e antincendio sono state svolte dalla Polizia penitenziaria nei periodi primaverili, estivo e autunnale. La giustizia internazionale, un’arma contro i dittatori di Emma Bonino Corriere della Sera, 18 dicembre 2017 La migliore “eredità” del Tribunale sulla ex Jugoslavia è che la responsabilità primaria di indagare e perseguire i crimini di guerra spetta agli Stati. Caro direttore, nell’editoriale “Giustizia che punisce solo i vinti” (Corriere, 14 dicembre 2017) Paolo Mieli ha criticato il bilancio del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia (Icty), a pochi giorni dalla cessazione delle sue attività, perché, a suo dire, ha solo indagato e perseguito i crimini commessi dalla parte perdente. La giustizia dei vincitori insomma, come successe con i processi di Norimberga e di Tokio dopo la seconda guerra mondiale. Questo è vero solo in parte: in realtà l’Icty ha indagato e, nella maggior parte dei casi, perseguito i responsabili di crimini di tutte le parti in conflitto. Certo, la percezione che alla barra siano andati soprattutto serbi o serbo-bosniaci è innegabile (anche se il suicidio del generale croato Slobodan Praljak mostra appunto il contrario), ma la ragione è che i tribunali internazionali guardano innanzitutto a coloro che hanno la maggiore responsabilità per i crimini più gravi, come nel caso dell’Icty. Dopotutto, il suo lavoro non era quello di riscrivere la storia, ma di rifletterla e di giudicare le responsabilità per le atrocità commesse, a partire da chi ha concepito e condotto l’ultima guerra “etnica” - si spera - della storia d’Europa. Ma anche se fosse vero che l’Icty ha perseguito principalmente i perdenti, suggerire che ciò non è “giusto”, e conseguentemente che non si è amministrata giustizia, è trascurare il fatto che l’Icty non è e non dovrebbe essere l’unico attore chiamato a giudicare i crimini commessi nell’ex Jugoslavia. È ora accettato, come norma di diritto internazionale, che la responsabilità primaria di indagare e perseguire crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio sia in mano agli Stati. Questa norma è alla base dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale attraverso il principio di complementarità, in cui la Cpi interviene solo se le giurisdizioni nazionali non sono disposte o non sono in grado di indagare e perseguire penalmente i reati stessi. Ciò significa che la giustizia penale per crimini di guerra e contro l’umanità dipende non solo da un tribunale internazionale come l’Icty, ma anche dai tribunali nazionali. È questa la migliore “eredità” del Tribunale penale internazionale: “Il completamento del mandato del Tribunale non è la fine della giustizia per crimini di guerra, ma l’inizio del prossimo capitolo. L’ulteriore responsabilità per i reati ora dipende interamente dalle magistrature nazionali nell’ex Jugoslavia. Migliaia di casi rimangono da elaborare, in particolare molti casi complessi contro i sospetti di livello medio e alto in tutti i paesi”, ha affermato il procuratore del Tribunale Serge Brammertz. Ciò richiede anche l’esame di altre giurisdizioni nazionali, come nei Paesi Bassi, che solo quest’anno hanno confermato la responsabilità dello Stato olandese per le vittime del genocidio di Srebrenica e casi di giurisdizione universale, come quelli effettuati in Germania. È questa rete complessa che determinerà, alla fine, se la giustizia è solo per i vinti. Resta da vincere, beninteso, la battaglia della effettiva pacificazione, evitando che criminali di guerra vengano trattati con tutti gli onori, da vivi o da morti, dalle comunità da cui provengono. Il fenomeno purtroppo, come Mieli ben sa, non è limitato alla sola ex Jugoslavia ed ha attraversato tutto il Novecento. Ma alla fine in tanti paesi ne siamo usciti. L’idea di giustizia penale internazionale, specie di questi tempi in cui la realpolitik sembra prendere sempre più il sopravvento sull’assunto che tutti, nel mondo, dovrebbero godere dei diritti umani fondamentali e poter vivere in uno stato di diritto che li protegga da guerre e altre atrocità, è un concetto preso di mira perché apparentemente poco efficace o, appunto, magari di parte. Ma stiamo attenti a non delegittimarlo, perché resta un formidabile deterrente per i tanti dittatori che, ovunque nel mondo, prendono in ostaggio sovente i loro stessi popoli, contando nell’assoluta impunità delle proprie azioni. Ho speso tante energie, con il partito radicale, con “Non c’è Pace Senza Giustizia”, per contribuire all’istituzione prima del tribunale ad hoc per la ex Jugoslavia, poi della Corte Penale Internazionale. Continuo a credere di aver fatto la cosa giusta. Paura dei migranti, non dell’euro. Ecco la benzina del populismo di Jacopo Iacoboni e James Politi La Stampa, 18 dicembre 2017 Inchiesta La Stampa-Financial Times: due terzi per la moneta unica, pure tra i grillini. Solo il 40% si vede multietnico. Dubbi anche tra gli elettori Pd sulle frontiere aperte. Il 41 per cento dei nostri lettori ritiene l’immigrazione più un’opportunità che una minaccia, ma ben il 38% una minaccia (o una preoccupazione), e il 21 ha un punto di vista neutrale, o incerto. Quasi il 40 per cento crede in un’Italia multi-etnica, ma il restante 60 per cento rifiuta questa idea, o almeno ha dei dubbi seri. Più che il no all’euro, un atteggiamento di crescente, forte chiusura sull’immigrazione. Secondo un’inchiesta del Financial Times-La Stampa, l’ostilità verso i migranti, e dubbi diffusi sul fatto che l’Italia possa diventare con successo una società multietnica, stanno dando benzina alle forze populiste molto più che la spinta a uscire dall’euro. A metà novembre La Stampa e il Financial Times hanno proposto ai lettori italiani di condividere con noi le loro idee su Europa e immigrazione. Abbiamo ottenuto più di 1100 risposte provenienti da tutto il Paese, moltissime dal Nord produttivo. L’inchiesta che vi proponiamo è stata un tentativo di raccontare - attraverso un campione non statistico, non si tratta di un sondaggio - il clima e i sentimenti diffusi tra i lettori della terza più importante economia europea, a pochi mesi dalle prossime elezioni politiche italiane - attese a marzo del 2018 - che potranno essere decisive per il futuro dell’Europa. Secondo gli ultimi sondaggi, il Partito democratico, il principale partito che sostiene la maggioranza di governo, guidato dall’ex premier Matteo Renzi, si trova davanti a una durissima sfida lanciata dal M5S, nato come forza anti-establishment, che oggi tenta di accreditarsi con ambienti di potere italiani, e viene spesso dato in testa, da diversi istituti; si assiste poi al ritorno del centrodestra di Silvio Berlusconi, che include però gli euroscettici della Lega di Matteo Salvini. Le risposte dei lettori mostrano in maniera chiara che l’insoddisfazione verso i migranti è un elemento molto più presente nella società italiana rispetto alla volontà di uscire dall’euro, o all’insoddisfazione per l’Europa. Più dei due terzi dei nostri lettori credono che l’Ue sia stata un aiuto per il Paese, e sono largamente contrari a un’uscita dall’Unione. Anche i sostenitori di M5S e Lega sono spaccati a metà su questo, e non sono affatto monoliticamente convinti della tesi no-Ue. Per esempio Giuseppe Di Martino, consulente informatico di Maiori, vota M5S perché “l’unico partito giovane e che antepone i fatti alle chiacchiere”. E però Di Martino è totalmente pro euro (“l’euro è una grande opportunità in quanto fornisce stabilità al nostro apparato economico e fa da cuscinetto ai repentini cambiamenti economici e finanziari; diversamente avremmo vissuto e intrapreso la stessa fine dell’Argentina e dell’attuale Venezuela”), e vuole accogliere gli immigrati: “Noi italiani siamo la società, il popolo, più “bastardo” che esista; un mix di geni e culture ereditate e assorbite nei secoli. Questo meccanismo sta continuando e ci porterà ancora una volta ad aggiungere cultura, tradizioni, ingegno alla nostra terra”. “Lasciare l’Europa sarebbe del tutto negativo e complicato, per il Paese, perché la classe politica sarebbe incapace di agire con efficienza su questo fronte”, dice Daisy Astrella, studentessa di scienze politiche a Torino ed elettrice del M5S. Francesco Preziosa, pensionato pugliese che vota per il Pd, aggiunge: “Credo sia meglio comunque esser parte di un’unità imperfetta, piuttosto che star soli e abbandonati, e pieni di debito com’è l’Italia”. Sull’immigrazione però le cose cambiano, e i punti di vista si mescolano. Il 41 per cento dei nostri lettori la ritengono più un’opportunità che una minaccia, il 38 una minaccia (o una preoccupazione), e il 21 ha un punto di vista neutrale, o incerto. Quasi il 40 per cento crede in un’Italia multi-etnica, ma il restante 60 per cento rifiuta questa idea, o almeno ha dei dubbi seri. Il disagio nei confronti degli immigrati è altissimo, com’era presumibile, tra i votanti della Lega, ma è assai rilevante che si registri un disagio non piccolo anche tra i sostenitori del Pd. Specie al Nord. Maurizio Sulig, ufficiale a riposo, elettore Pd, in provincia di Bolzano, argomenta così: “Temo che l’Italia stia gestendo male il fenomeno epocale ed ineludibile dell’immigrazione”. “Il problema sono le enormi differenze culturali tra l’Islam e l’Occidente”, osserva Stefano Vitali, dirigente di Torino, elettore Pd, nella fascia d’età tra 51 e 65 anni. “La storia ci insegna che la coesistenza è impossibile, che uno annienterà l’altro e, da quello che possiamo vedere oggi, la civiltà occidentale sarà distrutta. È alle nostre porte un nuovo, oscuro medioevo”. Claudio Morelli, dirigente d’industria, di Bergamo, molto stabile, che vota Forza Italia (“sono di destra senza per questo essere un sostenitore di estremismi. Mi ritengo un conservatore. Detesto la sinistra ideologizzata e il politicamente corretto”), riflette: “Credo poco nella multietnicità ma ancor meno nella multiculturalità. Perché? Mi pare che in Europa vi siano illuminanti esempi”. Valentino Massardi, pensionato, aveva una tipografia, a Puegnago sul Garda; vota Lega (anche se “non sono leghista e forse per la prima volta voterò per la Lega, ma solo per elezioni regionali eventualmente e per dare un segnale. Ho votato ai tempi per il partito socialista, e pure per il Pd sperando in Renzi. Comunque la Lega in una coalizione di centrodestra dovrà smorzare i suoi eccessi. Non voterò mai per i 5 stelle”). Ritiene che “l’immigrazione possa essere una necessità e una risorsa, ma l’Italia non è in grado di governarla efficacemente. Dove abito ora non ci sono rifugiati o altro. Nei paesi limitrofi c’è molto scetticismo e in alcuni insofferenza. A volte giustificata”. Il campione delle risposte che abbiamo ricevuto è orientato in prevalenza verso lettori che votano Pd (ma con quote molto significative di elettori degli altri partiti, M5S e centrodestra), e vive nelle regioni del Nord Italia, dov’è più forte l’economia produttiva del Paese. Naturalmente c’è anche chi dice che l’Italia dovrebbe uscire dall’Unione europea. O dall’euro tout court. “Da quando l’euro è arrivato in Italia, i prezzi di qualunque cosa sono schizzati e il mio salario è rimato congelato per otto anni. Non arrivo alla fine del mese, ho un figlio di cui occuparmi, e a cui vorrei assicurare una vita sicura e dignitosa”, spiega Sofia Tatu, elettrice M5S, insegnante di sostegno di ragazzini con disagi mentali a Bologna. È emerso più volte, nel corso della nostra inchiesta, un sentimento di ansia per il futuro economico dell’Italia. “Non penso che avrò una pensione, ci sono troppi pochi giovani, e non abbastanza soldi”, osserva Diego Renzi, studente di filosofia in Abruzzo, e sostenitore del M5S. “Se le cose non cambiano, e non solo in Italia, le cose non andranno bene”. Non è sentimento isolato. Molti dei nostri lettori pensano che le due elezioni che hanno sconvolto il mondo nel 2016 - la Brexit e l’elezione di Donald Trump in America - siano state qualcosa di assai negativo. Angela Merkel, nonostante tutte le sue difficoltà, appare loro il leader in cui riporre la maggior fiducia. Al confine austriaco aspettando le barriere. “Ora fermeremo noi i migranti” di Fabio Poletti La Stampa, 18 dicembre 2017 Il nuovo governo dell’Austria annuncia maggiori controlli nella zona del Brennero per fermare i migranti che arrivano dall’Italia. Il gigante in divisa bianca da chef che al Gasthaus Alte Post ti rifila un espresso da schifo guarda l’orizzonte geopolitico: “L’Europa non esiste: è solo quella delle banche e delle monete”. “E visto che ha fallito in tutto siamo costretti a difenderci da soli. Se ne parla da due anni ma di controlli al Brennero non ce ne sono. Speriamo che questi facciano qualcosa”. “Questi” sono il nuovo governo blu nero austriaco, che mixa i popolari di Sebastian Kurz dell’Oevp e la destra nazionalista che di più non si può di Heinz-Christian Strache del Fpö. Insieme si sono mangiati Vienna e in Europa c’è più di un brivido. Qui a Gries am Brenner, 1.300 abitanti e 6 chilometri dopo il confine tira tutta un’altra aria. Da qui sono passati Carlo Magno, Goethe, Mozart e buona parte dei 150mila migranti richiedenti asilo che nel 2015 sono entrati in Austria. L’ex cancelliere Werner Faymann aveva promesso sfracelli. “Questi” li faranno e al confine metteranno i militari a far la guardia. Attorno a un giro di birra al bar attaccato alla stazione di servizio Eni-Gutmann sono in sei. Cinque giurano di non parlare italiano. Un Andreas coi baffoni sibila: “Siete voi giornalisti che buttate benzina sul fuoco. C’è stata una elezione democratica con partiti democratici. Il popolo ha deciso che adesso toccava a loro. Vediamo cosa sapranno fare”. Peter con la divisa dei pompieri fa lo scettico magari per bilanciare: “Fino ad oggi c’è stata una classe politica mediocre. In Austria i politici sono tutti uguali. Temo che alla fine non ci sarà grande differenza”. Fine delle dichiarazioni. Indicando la porta, il benzinaio invita ad uscire. Se le domande si fanno troppo pressanti c’è sempre la via di fuga di scuotere la testa facendo finta di non capire. Qui in paese alle presidenziali dell’anno scorso il candidato Fpö Norbert Hofer prese il 68,1% dei voti. Quasi 20 punti in più di quanto prese a livello nazionale precludendogli la presidenza. Più che le sparate populiste e talvolta antisemite, qui hanno fatto presa quelle contro i migranti. Al Brenner Hütte sullo stradone principale dove spillano birra anche se fuori nevica e il termometro segna -2 il tiro al bersaglio all’italiano è fin troppo facile: “È anche colpa vostra se siamo messi così. Voi fate entrare tutti senza controllo. Se sono troppi c’è il rischio che vada di mezzo anche la nostra cultura. Qui parliamo tedesco e mangiamo wurstel di maiale. E vogliamo continuare a farlo senza problemi”. È difficile immaginare un melting pot di popoli e culture in questo florido paesino a 1100 metri sul livello del mare che da 2 secoli vive per altro di migrazioni. Quelle dei turisti che vengono a dormire qui prima di dare l’assalto alle piste. Marianna, un’italiana che vive appena al di là del confine, seduta allo Sport Caffè con le tendine di pizzo, assicura che questo è un paradiso: “La vita costa molto meno che in Italia. Sono gente tranquilla che non vuole problemi. Io della politica me ne sbatto ma comprendo le loro paure. Le migrazioni non finiranno mai e l’Europa non sa come affrontare il problema. Magari basterebbe costringere le multinazionali a pagare le tasse in Africa per farli vivere meglio”. Di marce neonazi è improbabile che ne facciano a Gries am Brenner. Girando per il paese dove alle 6 e mezzo c’è già il coprifuoco si intuisce che qui non è che si facciano tante dispute ideologiche. Le paure dell’Europa di una deriva di destra e xenofoba non sono le loro. Anche se i migranti sono solo di passaggio i numeri di Vienna rimbalzano con fragore. Gli stranieri sono il 9% i musulmani dichiarati il 5%. L’Austria tutta insieme fa nemmeno 9 milioni di abitanti. In Ungheria le frontiere sono chiuse col filo spinato. La via verso il Nord passa per forza da qui. Lo Stato centrale si è fatto carico di accogliere e sostenere i migranti ma adesso la possibilità che al Brennero arrivino le barriere metalliche e i presidi militari è più concreta. Anche se nessuno può immaginare cosa voglia dire mettere un tappo a questo valico dove passano 70 mila veicoli al giorno. Lo chef gigante del Gasthause Alte Poste dà voce alla maggioranza che ha portato destra e populisti al potere: “L’Austria è troppo piccola per accogliere tutti quanti”. Regole democratiche, tra Ue e Polonia è finito il tempo di mediare di Paolo Valentino Corriere della Sera, 18 dicembre 2017 La recente riforma del sistema giudiziario varata dal governo nazional-conservatore, che di fatto elimina l’indipendenza della magistratura mettendo giudici e Corte di Cassazione sotto il diretto controllo dell’esecutivo. Il nuovo premier polacco, Mateusz Morawiecki aveva già lasciato il Consiglio europeo, venerdì scorso, quando i capi di Stati e di governo hanno discusso in via informale della Polonia. Un altro segnale che tra Varsavia e Bruxelles il tempo delle mediazioni è finito e la strada a verso uno scontro senza precedenti è aperta. Per la prima volta nella storia della Ue, la Commissione si appresta ad attivare contro un Paese membro la procedura prevista dall’articolo 7 dei Trattati, per “grave violazione dei principi dello Stato di diritto”. Pomo della discordia, la recente riforma del sistema giudiziario varata dal governo nazional-conservatore polacco, che di fatto elimina l’indipendenza della magistratura mettendo giudici e Corte di Cassazione sotto il diretto controllo dell’esecutivo. Approvate dall’Assemblea nazionale, le due leggi dovrebbero essere promulgate dal presidente della Repubblica Andrzej Duda la prossima settimana. Se così fosse, e le dichiarazioni di Morawiecki a Bruxelles non lasciano dubbi in proposito, la Commissione avrebbe già deciso di proporre al Consiglio la messa in stato di accusa della Polonia, ai sensi del primo comma dell’articolo 7. Per confermarla occorre il voto di quattro quinti degli Stati membri, dopo quello del Parlamento europeo, una maggioranza considerata possibile tanto più che sia la cancelliera Merkel, sia il presidente Macron hanno detto di appoggiare la linea della Commissione. Sarebbe un decisivo salto di qualità, nella battaglia contro i populismi e le sedicenti “democrazie illiberali”: mai uno Stato della Ue è stato messo in mora per il mancato rispetto delle regole democratiche. Più difficile sarà arrivare alla sospensione dei diritti di voto della Polonia, prevista dal secondo comma dell’articolo 7, per la quale è necessaria l’unanimità del Consiglio. Il premier ungherese Viktor Orban (chi se no?) ha già annunciato il suo veto. Egitto. Al Sisi: “su Regeni risultati definitivi”, nuovo vertice tra procure di Giuliano Foschini La Repubblica, 18 dicembre 2017 Incontro al Cairo tra Minniti e il presidente egiziano. I timori che il caso stia indebolendo il regime. Secondo Amnesty International tre persone ogni giorno spariscono nel nulla per mano del regime di Sisi. “Risultati definitivi” dice il presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi. È così che l’Egitto si impegna, per l’ennesima volta, a consegnare la verità sulla morte, il sequestro e la tortura di Giulio Regeni, il ricercatore italiano ammazzato in Egitto il 2 febbraio del 2016. Lo ha fatto ieri per la voce del suo presidente che ha incontrato al Cairo il ministro degli Interni italiano, Marco Minniti. Il numero uno del Viminale ha chiesto all’Egitto, alla presenza del nostro ambasciatore Gianpaolo Cantini, un impegno, questa volta definitivo e non più negoziabile, sull’omicidio Regeni. E Sisi sembrerebbe non essersi sottratto: già da qualche settimana negli uffici ministeriali egiziani cominciavano a dire che “la morte del ricercatore italiano sta diventando un problema politico troppo grande per noi per poterlo non risolvere”. Il riferimento è alla politica estera, seppur l’atteggiamento degli altri Stati, in particolare quelli europei, è stato fino a questo momento assolutamente remissivo. Ma soprattutto a quella interna: Giulio è conosciuto in tutto l’Egitto e sta diventando un simbolo di tutti i desaparecidos, quelle tre persone che ogni giorno, secondo Amnesty International, spariscono nel nulla per mano del regime di Sisi. “Da parte nostra - ha scritto ieri il presidente egiziano in un comunicato al termine dell’incontro con Minniti - c’è la forte volontà di conseguire risultati definitivi nell’inchiesta sull’omicidio Regeni attraverso la prosecuzione della cooperazione giudiziaria tra la procura di Roma e la procura generale egiziana”. Una collaborazione che dovrebbe trovare una forma nei prossimi giorni quando è previsto al Cairo un nuovo incontro tra il sostituto procuratore Sergio Colaiocco e il procuratore generale egiziano Sadek per un nuovo scambio di documenti e informazioni. La maggior parte delle promesse fatte nei mesi scorse sono rimaste tali: il Cairo si era impegnato per esempio a provare a recuperare le immagini delle telecamere, inizialmente sovrascritte, del circuito interno della metropolitana del Cairo dove Giulio sarebbe entrato prima i sparire nel nulla. Ma quei nastri si aspettano da più di un anno, senza fortuna. Di contro la magistratura italiana, grazie al lavoro dei carabinieri del Ros e a dei poliziotti dello Sco, ha fatto dei passi in avanti importanti nelle indagini grazie all’analisi di alcuni documenti arrivati dal Cairo. Sono ancora da esaminare quelli consegnati 48 ore fa dall’Egitto alla difesa di Regeni che l’avvocato Alessandra Ballerini, appena rientrata dal Cairo, ha messo a disposizione della procura di Roma affinché siano analizzate dagli inquirenti. Data la mole, sicuramente non si tratta dell’intero fascicolo. E probabilmente gran parte dei documenti sono quelli già in possesso dei magistrati italiani. Comunque, si vedrà nelle prossime settimane. “Il ministro Minniti - scrive in un comunicato la presidenza egiziana al termine degli incontri - ha ringraziato per le dichiarazioni fatte dal Presidente sulla determinazione dello Stato egiziano di arrivare alla più completa verità”. “Va bene così”, dice anche il portavoce di Amnesty International, Riccardo Noury. “Ogni passo in avanti è una buona notizia. Ma è necessario vigilare sul fatto che non sia la solita presa in giro. A Sisi deve essere chiaro che questa è l’ultima chiamata”. L’omicidio Regeni era il primo punto nell’agenda dell’incontro tra Minniti e Sisi. Si è parlato però anche di Mediterraneo: il numero uno del Viminale aveva incontrato in settimana Farraji, Haftar e il re di Giordania, Abdallah bin al Hussein, per discutere del caso Libia, in particolare sulle emergenze migranti e terrorismo. Sisi si sarebbe detto pronto a sposare la road map dell’Onu che prevede le elezioni del 2018 per uno stato unico in Libia. Obiettivo del Viminale è anche concordare un piano collettivo per stroncare i trafficanti di uomini e impedire che la Libia, visto quanto sta accadendo in Siria, diventi la nuova casa del Califfato. Iran. Il ricercatore Djalali confessa: “Sono una spia”. Lavorò a Novara Corriere della Sera, 18 dicembre 2017 Il medico che lavorò anche in Italia era stato arrestato a Teheran ad aprile 2016 e condannato a morte a ottobre. Ora la confessione in tv. Ahmadreza Djalali, il medico arrestato in Iran nel 2016 con l’accusa di spionaggio e condannato a morte a ottobre, ha “confessato” in tv di aver spiato il programma nucleare di Teheran per conto di una nazione europea, senza nominare quale. L’attività di spia in cambio della cittadinanza europea - Il presentatore tv, tuttavia, ha citato il Mossad, mentre scorrevano le immagini dei documenti svedesi dell’uomo e del Colosseo: Djalali, 45 anni, ricercatore al Karolinska Institute di Stoccolma, ha infatti trascorso un periodo in Italia. In cambio della sua attività di spia, ha spiegato lui stesso, avrebbe ottenuto la cittadinanza di un Paese europeo. Il racconto in tv - Il medico ha raccontato di aver iniziato a lavorare con alcuni scienziati americani e europei dopo la laurea. Poi di essere stato contattato da un operativo chiamato “Thomas” e di aver iniziato a collaborare sotto copertura con un servizio di sicurezza europeo. “Mi chiedevano informazioni sulle attività iraniane e le persone che lavoravano ai progetti nucleari” ha detto. Nel servizio tv si raccontava anche che l’uomo ha incontrato “almeno 50 volte” gli 007 stranieri e che è stato pagato 2.000 euro a incontro. Tra le informazioni richieste, ha proseguito la tv, anche quelle sul conto di Masoud Ali Mohammadi e Majid Shariari, due scienziati nucleari iraniani assassinati nel 2010. La mobilitazione - Per salvare salvare Djalali dalla condanna a morte, era nata una vera e propria mobilitazione internazionale con cui si erano raccolte oltre 220mila firme ed era stata avviata un’azione per il medico. I figli di Djalali, che vivono con la madre in svezia, si erano rivolti anche a Papa Francesco chiedendo di non “lasciarlo morire in tv”. Egitto. Shawkan, 1.600 giorni in detenzione preventiva. “Reato”? Giornalismo di Riccardo Noury Corriere della Sera, 18 dicembre 2017 Anche l’udienza numero 40, in programma ieri, del maxi-processo contro 739 imputati iniziato il 12 dicembre 2015 al Cairo è stata rinviata. Degli imputati fa parte, unico giornalista, Mahmoud Abu Zeid detto Shakwan, in condizioni di salute sempre più precarie. Shawkan è stato arrestato il 14 agosto 2013 mentre si trovava, per conto dell’agenzia fotografica Demotix di Londra, in piazza Rabaa al-Adawiya, al Cairo, a documentare il violentissimo sgombero di un sit-in della Fratellanza musulmana. Fu un massacro con centinaia e centinaia di morti in un solo giorno. Shawkan rischia una condanna all’ergastolo per questo lungo elenco di pretestuose accuse: “adesione a un’organizzazione criminale”, “omicidio”, “tentato omicidio”, “partecipazione a un raduno a scopo di intimidazione, per creare terrore e mettere a rischio vite umane”, “ostacolo ai servizi pubblici”, “tentativo di rovesciare il governo attraverso l’uso della forza e della violenza, l’esibizione della forza e la minaccia della violenza”, “resistenza a pubblico ufficiale”, “ostacolo all’applicazione della legge” e “disturbo alla quiete pubblica”. Il suo “reato” è solo quello di aver fatto il suo lavoro. Si chiama giornalismo. La prossima udienza si terrà il 23 dicembre, quando Shawkan avrà raggiunto il 1600° giorno di detenzione in attesa di processo.