In carcere per pranzare insieme, tra amici di Tino Veneziano Avvenire, 17 dicembre 2017 Lunedì 18 in nove Case circondariali chef stellati prepareranno un menù che sarà servito da testimonial del mondo delle spettacolo a 2.500 persone. In carcere con amicizia, per festeggiare insieme il Natale. “L’ALTrA cucina… per un pranzo d’amore” è un’iniziativa promossa da Prison Fellowship Italia Onlus, Rinnovamento nello Spirito Santo e Fondazione Alleanza del RnS per offrire a circa 2500 persone (tra detenuti, detenute, familiari e volontari) un pranzo natalizio preparato da Chef “stellati” e servito da testimonial del mondo dello spettacolo, musica, teatro, televisione. Giunto quest’anno alla sua quarta edizione come spiega l’Agenzia Sir, l’evento avrà luogo lunedì 18 dicembre in 9 Istituti penitenziari: Torino (Le Vallette), Ivrea, Verona, Milano (Opera), Roma (Rebibbia femminile), Casal del Marmo, Modena, Salerno e Palermo (Pagliarelli). Tra gli chef, Giancarlo Perbellini del Ristorante “Casa Perbellini” preparerà 250 pasti a Verona. 340 saranno i pasti preparati dallo chef Anthony Genovese del “Ristorante Il Pagliaccio - Roma per il carcere di Rebibbia. Sarà lo chef Matteo Baronetto del Ristorante “Del Cambio” a cucinare per 125 detenuti a Torino. Agostino Iacobucci, chef del Ristorante “I Portici - Bologna” cucinerà invece per 150 detenuti a Modena. Riconfermata anche la Casa circondariale di Salerno, dove sarà lo chef Antonio Pisaniello del “Ristorante Nunziatina - Caserta” a preparare 100 pasti. Un’ulteriore tappa prevista nella capitale, con lo chef Marco Moroni del “Ristorante Bistrot Bio - Roma” che cucinerà 90 pasti presso l’Istituto penale minorile di Casal del marmo. Si riconferma lo chef Carmine Giovinazzo, finalista di MasterChef e chef al Doc Taverna Gourmet a Piove di Sacco (Pd), presente quest’anno a Milano per preparare 150 pasti per i detenuti e i propri familiari. A Palermo, nella Casa circondariale Pagliarelli, 420 detenuti gusteranno i piatti dello chef Carmelo Criscione del Ristorante “Petit Cafè Nobel - Palermo”. Infine, Alberto Peveraro, docente dell’Istituto alberghiero di Biella preparerà 250 pasti ad Ivrea. “In carcere si può entrare in molti modi; a noi è chiesto di entrare da amici”, ha detto Salvatore Martinez, presidente (insieme a Prison Fellowship Italia) delle realtà promotrici dell’evento, Rinnovamento nello Spirito e Fondazione Alleanza. Ha poi ricordato come anche papa Francesco, molti anni fa, sia stato conquistato dal Rinnovamento carismatico in Argentina quando si accorse della sua forte vicinanza al mondo carcerario. L’idea che ci sia qualcuno che ci prenda per mano e che non ci faccia cadere nel peccato, che ci indichi la via del bene, è uno degli elementi portanti di un progetto chiamato “giustizia riparativa” e di un’organizzazione ecumenica che lavora in 136 Paesi del mondo Prison Fellowship International presente anche in Italia. “Lunedì, nel carcere - ha detto la conduttrice televisiva Licia Colò, che parteciperà all’iniziativa, durante l’incontro ti presentazione - spero di portare alcuni racconti sul mondo e sulla speranza perché è importante credere che si può sempre ripartire”. “Tra le più belle esperienze della mia legislatura, ormai al termine - ha affermato il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri, - ve ne sono molte legate al Rinnovamento, come quella del Pranzo di Natale a Rebibbia. È importante coinvolgere le Istituzioni con il volontariato, con il mondo della società civile che, di fronte a questi temi, non sempre è sensibile. Invece entrare nelle carceri, capire, confrontarsi, arricchisce davvero”. Riforma intercettazioni “blindata”, non passano le richieste delle procure di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 17 dicembre 2017 In settimana il varo del decreto. Il Governo blinda la riforma delle intercettazioni. La versione definitiva del decreto legislativo è all’esame domani del pre-consiglio dei ministri, dove potrebbero essere esaminati in prima lettura anche i decreti sul nuovo ordinamento penitenziario, e quindi ancora suscettibile di ultimi aggiustamenti. E tuttavia, nella bozza in entrata, si riscontrano alcune modifiche favorevoli soprattutto a un più pieno esercizio del diritto di difesa, sollecitate sia dalla Camera sia dal Senato, ma, nello stesso tempo, si è deciso di chiudere a una delle richieste di cambiamento più significative. Quella avanzata, nella forma più stringente possibile, la condizione, dal parere votato dalla commissione Giustizia del Senato, scritto dall’ex Pm di Articolo1-Mdp, Felice Casson. La richiesta di cambiamento rispecchiava le perplessità espresse in un documento congiunto, presentato giorni fa alle commissioni Giustizia di Camera e Senato in vista dei pareri, dai Procuratori della Repubblica dei principali tribunali del Paese (Roma, Milano Napoli, Torino, Firenze, Palermo). Uno dei principali profili critici messo in evidenza nel decreto approvato poche settimane fa in prima lettura dal Consiglio dei ministri era costituto dalla necessità di riconsiderare a distanza di tempo la rilevanza di una conversazione, che non sarebbe possibile se non con grandissime difficoltà una volta che nel verbale delle operazioni vengono indicati solo data, l’ora e il dispositivo sul quale la registrazione è avvenuta. Il concetto sul quale fare allora leva diventava quello della “manifesta irrilevanza”: delle sole conversazioni manifestamente irrilevanti si deve vietare la trascrizione; irrilevanti per le finalità delle indagini sia per l’oggetto sia per i soggetti coinvolti o irrilevanti perché riguardanti dati giudicati sensibili dalla legge. Da parte del ministero della Giustizia si è però ritenuto di non accogliere questa richiesta, mentre invece si è aperto a un irrobustimento del diritto di difesa, sollecitato sia dal parere approvato alla Camera sia da quello votato al Senato. In questa prospettiva allora, potrebbe essere rivista la scelta di attribuire al difensore, successivamente al deposito dell’ordinanza cautelare nella quale sono riprodotti solo i brani essenziali delle comunicazioni intercettate, unicamente un diritto di esame e non di copia dei verbali delle comunicazioni e conversazioni intercettate. Una compressione del diritto di difesa che ai parlamentari è apparsa ingiustificata. Anche perché non è bilanciata in maniera significativa da un rafforzamento importante dei diritti di privacy dei soggetti coinvolti nell’intercettazione: i difensori infatti possono in ogni caso diffondere la registrazione oppure provvedere in proprio alla trascrizione, facendo circolare il testo scritto. Proprio per queste ragioni allora, la richiesta che potrebbe essere accolta prevede che, al di fuori dell’incidente cautelare, dovrebbe essere consentito alla difesa di potere ottenere copia dei verbali delle intercettazioni delle quali è stata disposta la selezione. Whistleblowing senza vincoli di riservatezza di Riccardo Borsari Il Sole 24 Ore, 17 dicembre 2017 La legge 179 disciplina le tutele per chi segnala condotte illecite ai danni dell’ente e della società. La legge sul whistleblowing, la n. 179 del 30 novembre 2017, mira a tutelare il lavoratore (pubblico o privato, con i dovuti distinguo) che, venuto a conoscenza di irregolarità o illeciti sul luogo di lavoro, decida di segnalarli. La nuova disciplina, in vigore dal 29 dicembre, interviene su due fronti (si veda Il Sole24Ore del 15 dicembre). Da un lato, implementa la tutela già prevista per i dipendenti pubblici, ampliando le maglie dell’articolo 54bis del Dlgs 165/2001 introdotto nel 2012 con la legge 190; dall’altro, estende la tutela al settore privato, prevedendo nuovi oneri in capo agli enti che abbiano scelto di adottare i modelli di organizzazione e gestione (Mog) di cui al Dlgs 231/2001. Tra gli aspetti principali, la legge prevede che il dipendente pubblico che segnali (al responsabile anticorruzione, all’Anac o all’autorità giudiziaria ordinaria o contabile) condotte illecite conosciute in ragione del rapporto di lavoro non possa essere, per tale motivo, sottoposto a ritorsioni o a misure organizzative aventi effetti negativi, anche indiretti, sulle condizioni di lavoro. Dal punto di vista soggettivo, la legge allarga la tutela anche ai dipendenti degli enti pubblici economici, a quelli degli enti di diritto privato sottoposti a controllo pubblico, nonché ai lavoratori e ai collaboratori delle imprese che forniscano beni o servizi alla Pa; dal punto di vista oggettivo, essa riguarda, invece, le segnalazioni effettuate nell’”interesse dell’integrità” della stessa Pa. Inoltre, l’identità del segnalante non può essere rivelata ed è coperta da segreto nei modi e nei limiti previsti. Qualora, poi, venga accertata l’adozione di misure discriminatorie, o l’assenza di procedure per l’inoltro e la gestione delle segnalazioni, o l’adozione di procedure non conformi a quelle individuate nelle linee guida Anac, quest’ultima adotta, nei confronti del responsabile, sanzioni amministrative da 5mila a 50mila euro. Si evidenzia, infine, che ogni tutela per il segnalante è destinata a venir meno laddove sia accertata la sua responsabilità penale (anche con sentenza di primo grado) per calunnia o diffamazione (o, comunque, per reati commessi con la denuncia), ovvero la sua responsabilità civile, per lo stesso titolo, nei casi di dolo o colpa grave. Sul fronte privato, le novità attengono principalmente al contenuto obbligatorio dei Mog. Tra l’altro i modelli dovranno prevedere anche uno o più canali che consentano di presentare, a tutela dell’integrità dell’ente, segnalazioni circostanziate di condotte illecite e fondate su elementi di fatto precisi e concordanti di cui il segnalante sia venuto a conoscenza in ragione delle funzioni svolte; tutto ciò garantendo, anche con modalità informatiche, la riservatezza dell’identità del whistleblower. Oltre al divieto di atti di ritorsione o discriminatori nei confronti di quest’ultimo, i Mog dovranno poi prevedere adeguate sanzioni nei confronti non solo di chi violi le misure di tutela del segnalante, ma anche di chi effettui (con dolo o colpa grave) segnalazioni che si rivelino infondate. L’articolo 6, inoltre, sancisce la possibilità - per il whistleblower e per l’organizzazione sindacale da questi indicata - di denunciare l’adozione di eventuali misure discriminatorie all’Ispettorato nazionale del lavoro, per i provvedimenti di sua competenza. Infine, che, tanto per il settore pubblico quanto per quello privato (seppur nei limiti anzidetti), la nuova disciplina colpisce con la sanzione della nullità il licenziamento ritorsivo o discriminatorio del whistleblower, così come il mutamento di mansioni e qualsiasi altra misura ritorsiva o discriminatoria. La segnalazione effettuata nell’interesse all’integrità delle amministrazioni (pubbliche o private), nonché alla prevenzione e repressione delle malversazioni, costituisce giusta causa di rivelazione delle notizie coperte dal segreto d’ufficio, professionale, scientifico e industriale. Tale ultima disposizione non si applica, tuttavia, ai rapporti di consulenza o di assistenza, o nel caso in cui il segreto sia rivelato con modalità eccedenti rispetto alle finalità dell’eliminazione dell’illecito e, in particolare, al di fuori del canale di comunicazione specificamente predisposto a tal fine. Morte di Riina: abiti scuri e silenzio, il lutto dei boss in carcere al 41bis di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 17 dicembre 2017 Le reazioni alla notizia nei penitenziari. E alcuni detenuti non hanno ritirato il vitto. Il boss Vittorio Tutino, ancora fresco di ergastolo per la strage di via D’Amelio nel quarto processo Borsellino, s’è vestito a lutto, “con abiti di colore nero e scarpe nere”. Come lui il corleonese Rosario Lo Bue, recentemente condannato a 15 anni di galera; suo fratello Calogero fu il “vivandiere” arrestato con Bernardo Provenzano. Il giorno dopo la morte di Totò Rina, hanno voluto dimostrare così il cordoglio per la dipartita del “capo dei capi” di Cosa nostra. Un segno di rispetto che, in forme diverse, s’è esteso a molti altri detenuti, nelle sezioni speciali del “41 bis”, riservate a capi e gregari di mafia, camorra e ‘ndrangheta. Gli agenti del Gruppo operativo mobile della polizia penitenziaria hanno osservato con attenzione le loro reazioni, riversate in appunti che la Direzione dell’amministrazione penitenziaria ha trasmesso alla Procura di Palermo. Per verificare se, anche da questi piccoli indizi, si potessero cogliere eventuali segnali della “formazione di una nuova leadership” dentro Cosa nostra. Nel carcere de L’Aquila, dove si sono chiusi Tutino e Lo Bue, quando morì il padrino - un mese fa - era in corso una protesta con la “battitura” della sbarre tre volte al giorno, alle ore dei pasti. Ma il giorno in cui arrivò la notizia, la protesta fu sospesa, per rispetto. Inoltre i detenuti della “sezione rossa” non hanno ritirato il vitto passato dall’amministrazione, consumando ciascuno nella propria cella il cibo che aveva a disposizione. All’apertura dei cancelli blindati, alle 7 del mattino, normalmente i boss a si augurano il “buongiorno”, ma il 17 novembre non si sono salutati affatto. La stessa cosa ha fatto, a Novara, Tommaso Lo Presti, considerato il “reggente” della famiglia mafiosa palermitana di Porta Nuova, rimasto muto anche all’ora di pranzo e la sera, quando solitamente - secondo un rito che al “41 bis” aiuta a scandire il tempo che passa - ci si scambia il “buon appetito” e “buona sera”. Sempre a Novara un altro capo di rilievo, Vito Vitale da Partinico, già alleato dei corleonesi, al risveglio ha acceso la televisione e, appreso che Riina era morto, l’ha spenta e non l’ha più voluta vedere per tutta la giornata: “Tipico gesto di lutto familiare nelle regioni meridionali”, hanno annotato gli agenti del Gom. Nello stesso penitenziario, invece, altri reclusi di altra generazione, non hanno mostrato alcuna reazione. Per esempio Giuseppe Biondino, nipote diretto di Salvatore, l’autista di Riina che il 15 gennaio 1993 fu arrestato insieme al “capo dei capi”; il 17 novembre ha avuto un comportamento uguale a tutti gli altri giorni, “manifestando la diversità carismatica di attaccamento alle regole associative di Cosa nostra”. Al pari di Alessandro D’Ambrosio, della famiglia di Porta nuova, che ha salutato i compagni di sezione “come se nulla fosse”. Non sono state segnalate reazioni particolari di Leoluca Bagarella, il cognato di Riina rinchiuso a Sassari, e del figlio maggiore Giovanni, anche lui ergastolano al “carcere duro”. Così come tutte le relazioni arrivate dai reparti di Rebibbia, a Roma, riferiscono che “nessun commento” è stato pronunciato dai detenuti. Con l’eccezione del dialogo tra Gaetano Maranzano, boss del quartiere palermitano Cruillas, e l’imprenditore accusato di camorra Antonio Simeoli. Il quale alla distribuzione del vitto ha detto al siciliano: “Condoglianze Gaetà”. “Ma di che cosa?”, ha risposto quello. “È morto, l’ho sentito al telegiornale”. “Ma chi, u curtu? Non l’avevo sentito”, e ha riso, mostrando scarso interesse. Tornando a L’Aquila, ma nel reparto femminile, il colloquio ascoltato tra la camorrista Teresa De Luca e la ‘ndranghetista Aurora Spanò, ha avito toni esilaranti. “Stamattina ho avuto un brutto risveglio, è morto lo zio”, ha detto la prima. E l’altra: “Ti è morto lo zio e non dici niente?”. “Ma sei scema? L’ho saputo stamattina”. “E come hai fatto se la posta arriva al pomeriggio?”. “Madonna mia Aurò, non capisci niente. Non mi parlare che mi fai salire i nervi”. Un’altra detenuta calabrese, invece, Teresa Gallico, se l’è presa col permesso concesso ai parenti di Riina di stargli accanto nelle ultime ore di vita, “mentre a lei e ai suoi tre fratelli, quando morì suo padre, era stato negato”; la napoletana Raffaella D’Alterio “non ha fatto altro che dare ragione alla propria compagna”. Salerno: detenuto morto, il pm esamina le cartelle cliniche Il Mattino, 17 dicembre 2017 Il 48enne stroncato da un malore nel cellulare della polizia penitenziaria. Ancora non sono chiare le cause che hanno portato al decesso di Francesco Nisi, il 48enne originario di Castelcivita morto venerdì mattina nel cellulare della polizia penitenziaria mentre gli agenti lo stavano accompagnando ad effettuare una visita per una perizia psichiatrica. La salma per il momento resta sotto sequestro. Il pm Elena Cosentino la prossima settimana potrebbe disporre un esame autoptico, intanto si attende la formalizzazione di una eventuale denuncia da parte della famiglia. Il magistrato al momento sta anche studiando le cartelle cliniche dell’istituto penitenziario per cercare di capire di quali patologie soffrisse l’uomo. Insomma, bisogna capire se ci siano o meno responsabilità. Proprio di recente, difatti, due sanitari in servizio presso il carcere di Fuorni, sono stati rinviati a giudizio per un altro decesso “strano” avvenuto in carcere lo scorso anno. Francesco Nisi era in cella dallo scorso luglio quando, dopo l’arresto per estorsione nei confronti dei genitori, era evaso per quattro volte, a distanza di pochi giorni, dalla casa di cura La Quiete dove era stato ristretto ai domiciliari. L’altra mattina gli agenti della polizia penitenziaria lo stavano accompagnando a fare una perizia psichiatrica disposta dallo stesso giudice che, a luglio scorso, oltre cinque mesi fa, gli aveva dato i domiciliari al momento dell’arresto. Da tempo il suo legale di fiducia, l’avvocato Antonella Senatore, stava facendo pressioni con la direzione del carcere perché si attivasse la commissione Uvi che avrebbe dovuto stabilire il grado di capacità mentale del detenuto. Ma era stato deciso che lo stesso poteva seguire le terapie prevista anche da dietro le sbarre del carcere. A stabilire che Nisi aveva una situazione compatibile con il carcere era stato il medico interpellato dal direttore della casa circondariale. Questo, dietro istanza di interpello presentata dall’avvocato del detenuto, Antonella Senatore. L’atto di interpello dell’avvocato era volto a verificare la condizione di salute incompatibile con il regime inframurario. La relazione, mai ottenuta, sarebbe dovuta servire per sollecitare la riunione della commissione UVI, affinché relazionasse e servisse alla comunità che lo avrebbe dovuto prendere in cura. Forlì: il calvario di Marco Bondavalli tra celle, ospedali e perizie di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 dicembre 2017 Sono peggiorate le condizioni di salute di Marco Bondavalli, 40 anni, condannato definitivamente a 10 anni per un cumulo di pene per truffa. La sua patologia, la dumping syndrome, una sindrome debilitante che crea sudorazione, aumento dell’appetito, debolezza, fino a provocare lo svenimento, non gli dà via di scampo. Deve conviverci e può solo monitorarla attraverso una dieta ben specifica (importante per evitare infezioni all’intestino che possono essere letali) e cure che il carcere non può dare. Come se non bastasse, ha i reni compromessi e deve utilizzare il catetere. A questo si aggiungono le continue infezioni dovute a un virus che lo portano spesso a stati febbrili. La notte ha difficoltà a dormire. Anche i medici del carcere in cui si trova attualmente sono preoccupati. Ora è ristretto nel penitenziario di Forlì e viene monitorato costantemente, anche la direttrice lo va a trovare spesso. Gli operatori penitenziari lo assistono, gli stanno vicino, c’è una preoccupazione costante. Katia, la sorella di Bondavalli, è preoccupata, l’ultima volta che è andata a fargli visita con la madre si era impressionata. “Non riusciva più ad alzarsi da solo - spiega la sorella - e in pochi giorni era dimagrito di altri 9 kg”. L’unico rimedio è andare a casa, dove può avere la possibilità di fare una dieta adatta, di ricevere medicine giuste, di essere assistito. “I medici mi hanno detto - spiega ancora la sorella al Dubbio - che di certo non guarirà e comunque sia rischierà la dialisi. A casa può avere la possibilità di ritardarla, ma non di evitarla”. La decisione però spetta al tribunale di sorveglianza che ha rinviato più volte il verdetto. L’ultima volta i magistrati hanno rinviato l’udienza, perché non hanno ritenuto sufficiente la perizia del medico del carcere, ma ne hanno disposto una del perito del tribunale. Una perizia che è stata fatta solo qualche settimana fa ed entro 60 giorni il perito dovrà depositare la relazione. La data della prossima udienza è quindi ancora incerta. Il tempo scorre e Marco Bondavalli è allo stremo, ha una si- fisica precaria che si somma anche a quella psichica. Non chiede di essere liberato, ma di andare ai domiciliari per stare vicino a sua moglie e suo figlio. Solo a casa può essere seguito meglio, ricevere le cure giuste e l’alimentazione specifica per la sua patologia. Ripercorriamo brevemente la sua storia clinica. Bondavalli ha subito due interventi allo stomaco alcuni anni prima di essere arrestato. A causa di una complicanza delle operazioni, ha contratto la dumping syndrome. Quando era entrato nel carcere bolognese a luglio dello scorso anno, la sua malattia - secondo quanto denuncia la sorella del detenuto -, non era stata presa sul serio e dopo sei lunghi mesi, trascorsi con un catetere fisso e continue infezioni e svenimenti, era arrivato al punto di non riuscire più ad alzarsi dal letto della sua cella. A quel punto, il 9 febbraio di quest’anno, lo hanno ricoverato di urgenza in ospedale. Gli hanno diagnosticato una grave infezione giunta fino ai reni, mancanza di vitamine e una alimentazione poco appropriata. È rimasto lì per due mesi e mezzo, secondo i medici avrebbe dovuto subire un intervento e hanno consigliato di farlo operare dallo stesso specialista che l’aveva operato in precedenza all’ospedale di Reggio Emilia. A quel punto i familiari sono riusciti a farlo trasferire, il 19 aprile, nell’azienda ospedaliera reggiana. Il primario però non poteva operarlo subito perché i suoi valori erano ancora di molto oltre i limiti. Nel tempo, il 25 maggio, viene colto da uno choc settico, tanto da mettere in allarme i dottori che temevano non superasse la notte. Infatti - come si legge nel referto redatto dal dottor Stefano Bonilauri - Marco Bondavalli era stato trasferito presso il reparto di rianimazione. Dopo due giorni lo hanno dimesso e ritrasferito presso il reparto malattie infettive. Però la febbre continuava ad alzarsi e, effettuati vari esami, i medici hanno scoperto che aveva un virus contro il quale non è stata ancora trovata una terapia efficace. Nonostante ciò, il 28 luglio scorso, lo hanno dimesso e riportato in carcere a Bologna, ma la struttura penitenziaria non è dotata di un centro clinico ma sono di una sorveglianza medica h24. Eppure, sempre dal referto del dottor Bonilauri, viene confermato che Marco Bondavalli è affetto da disfagia e dumping syndrome post intervento e da un quadro infettivo da osservare e monitorare tramite trattamenti infettivologici. Il dottore si è inoltre raccomandato che il detenuto mangi correttamente, altrimenti si potrebbero creare infezioni all’intestino tali da essere letali. Nel frattempo l’udienza era stata fissata per il 31 ottobre scorso. Ma, come già detto, è stata poi rinviata a data da destinarsi, perché manca la perizia medico-legale. Marco Bondavalli dal carcere di Bologna è stato poi trasferito - ne aveva fatto richiesta per stare più vicino alla famiglia che vive a Ravenna - a quello di Forlì dove, almeno, viene monitorato più attentamente. Il resto della storia la conosciamo. Rischia la dialisi, può solo ritardarla stando ai domiciliari dove potrà ricevere cure più adeguate. Il diritto alla salute, in teoria, deve prevalere sulla condanna alla detenzione. La certezza della pena dovrebbe combaciare con la certezza del diritto. Un concetto ribadito ultimamente anche dal Garante nazionale dei diritti dei detenuti Mauro Palma, durante la conferenza stampa di mercoledì scorso indetta dal Partito Radicale sul caso Dell’Utri e per tutti gli altri detenuti che non si possono curare in carcere. “La pena è certa - aveva spiegato il Garante, ma l’esecuzione penale deve essere elastica”. Salerno: “Liberare la pena”: parte il progetto per la reintregazione dei detenuti salernotoday.it, 17 dicembre 2017 Si è tenuto ieri il convegno promosso dalla Caritas Diocesana, dal cappellano del Carcere, Don Rosario Petrone, parroco di San Eustachio Martire in Brignano, e dall’associazione “Migranti senza frontiere”. “Liberare la pena”: questo l’emblematico titolo del progetto presentato, ieri sera, presso la Colonia San Giuseppe, nell’ambito del convegno promosso dalla Caritas Diocesana, dal cappellano del Carcere, Don Rosario Petrone, parroco di San Eustachio Martire in Brignano, e dall’associazione “Migranti senza frontiere”. Destinatari del percorso, i detenuti e le persone in difficoltà sottoposte a misure alternative alla pena detentiva o messi alla prova: lo scopo è quello della riabilitazione e della re-inclusione sociale dei detenuti. “Il progetto nasce dalla volontà di rispondere alle esigenze dei detenuti che, spesso, vivono senza punti di riferimento, né speranze di miglioramento per il futuro - ha spiegato l’anima del progetto, il cappellano della Casa Circondariale di Salerno, Don Rosario Petrone - Da casi e necessità concrete, dunque, è nata l’idea di fornire una possibilità reale di recupero e reintegrazione per i detenuti e le loro famiglie”. Le azioni - Diverse le azioni messe in campo che sono state illustrate dal segretario Carlo Sica di Migranti senza Frontiere: il progetto, infatti, prevede attività di sensibilizzazione sulla tematica per le scuole e le comunità parrocchiali, nonché l’accompagnamento di detenzione domiciliare e l’housing sociale, presso la Domus Misericordiae sita a Brignano e poi assistenza, laboratori e, infine, i permessi premio con l’accoglienza presso la casa 70volte7, per consentire ai detenuti di poter trascorrere con i familiari il periodo di permesso ottenuto, supportati anche a livello psicologico, formativo, relazionale e spirituale. Ad intervenire alla presentazione, moderata dal presidente della Caritas Don Marco Russo, anche Samuele Ciambriello, Garante dei detenuti della Regione: “I detenuti devono perdere la libertà, non la dignità- ha osservato - La speranza, come diceva Sant’Agostino, ha due figli: l’indignazione e il coraggio. E oggi sembra manchino. Le carceri purtroppo hanno fallito: falliscono ogni volta che un detenuto torna in cella. E, peraltro, in carcere non finisce il camorrista, ma per lo più il tossicodipendente o gli arrestati per la legge Bossi-Fini. Necessitiamo di ponti e di figure sociali in grado di riabilitare il detenuto”, ha concluso. Firenze: trasformare spazi, così si ritrova la voglia di vivere dopo il carcere di Valeria Strambi La Repubblica, 17 dicembre 2017 Un gruppo di ragazzi usciti dall’istituto minorile lavora con studenti universitari reinventando ambienti. Reimmaginare gli spazi, ricostruirli, stravolgerli per far sì che non siano solo luoghi di passaggio. Alcuni detenuti dell’istituto minorile di Firenze (riaperto dopo una ristrutturazione durata tre anni), trasformeranno gli ambienti in cui si trovano a vivere ogni giorno in qualcosa di diverso. E lo faranno insieme a un gruppo di studenti dell’università. La biblioteca non sarà più un magazzino dove accantonare libri, ma potrà diventare una stanza colorata in cui organizzare incontri o spettacoli. Il cortile dirà addio alle sue sembianze asettiche per divenire punto di riferimento di tutti, luogo da vivere e condividere. Lo stesso accadrà a spazi pubblici esterni: piazze e giardini della città completamente “restaurati”. “I workshop partiranno a gennaio e dureranno fino a primavera - spiega Patrizia Meringolo, ordinaria di Firenze - saranno coinvolti minori in carcere o sottoposti a misure penali alternative e studenti che frequentano i corsi di psicologia, servizio sociale e scienze dell’educazione. Un’esperienza pilota che punta a favorire il senso di appartenenza alla comunità e ad allontanare ragazzi di diverse etnie e religioni che stanno attraversando situazioni difficili da quelli che possono essere comportamenti violenti. L’idea è far “manipolare” loro gli spazi in funzione socializzante, farli agire per la collettività migliorando le relazioni interpersonali e interculturali”. L’iniziativa, che sarà presentata martedì 19 dicembre nell’aula magna del dipartimento di scienze della formazione e psicologia (via Laura 48, ore 9), fa parte di un progetto più ampio che vede in prima linea l’università di Firenze, ma che coinvolge anche altri partner europei, la Fondazione Giovanni Michelucci e lo spin off d’ateneo LabCom. “Il progetto si chiama Prova (Prevention of violent radicalisation and of violent actions in intergroup relations) ed è finalizzato a prevenire la radicalizzazione violenta tra i minori in carcere - precisa Meringolo, che lo coordina - il rischio che giovani e giovanissimi si sentano socialmente esclusi e traducano lo spaesamento in comportamenti sbagliati e conflittuali è sempre più alto. Per questo occorre intervenire su più fronti. Accanto ai laboratori con i ragazzi abbiamo avviato degli incontri con gli operatori del settore, agenti di polizia penitenziaria e assistenti sociali, per approfondire i temi, capire cosa è la radicalizzazione violenta, come si previene, si riconosce e si affronta dal punto di vista psicologico”. Al termine di questa fase verranno coinvolti politici, assessori, consiglieri di quartiere, ma anche religiosi e funzionari per elaborare linee guida a livello locale e regionale: “Vorremmo trasformare questa esperienza in qualcosa da mettere a sistema - conclude Meringolo - la percezione di ingiustizia sperimentata dai minori può non farli sentire trattati come meritano. Questo può indurli a unirsi a gruppi radicali da cui si sentono attratti diventando ostili verso tutti gli altri gruppi sociali. Trovando le chiavi giuste possiamo però far tornare in loro il senso di appartenenza a una comunità”. Prato: la Uil-Pa denuncia “montagne di rifiuti e pozzanghere nel carcere” Il Tirreno, 17 dicembre 2017 Rifiuti gettati dai detenuti sotto le celle di media sicurezza, che si mischiano al guano dei piccioni. Altri rifiuti ingombranti accatastati a montagne per essere smaltiti, ma mancano i fondi per farlo. E poi cemento corroso che lascia spuntare le armature, pozzanghere sul camminamento, ambienti allagati. Sono solo alcuni dei problemi riscontrati dalla delegazione della Uil-Pa Polizia Penitenziaria, durante la visita di mercoledì all’interno della casa circondariale la Dogaia, per verificare lo stato dei luoghi e degli ambienti di lavoro del personale e dopo un’assemblea la Polizia penitenziaria. A darne notizia è il segretario generale Angelo Urso il quale aggiunge: “Durante l’assemblea sono emerse preoccupazioni circa le ripercussioni che i tagli operati di recente sulla pianta organica dell’istituto avranno sulle loro già precarie condizioni di lavoro, tanto più che l’attuale organico di Prato lo si può definire virtuale per effetto di 43 distacchi fuori istituto a fronte di 3 in entrata, praticamente su 308 unità in forza ne sono presenti 268 con la presenza di 590 detenuti. Non sono mancate, inoltre, discussioni vivaci rispetto al fatto che il recente riordino delle carriere non ha rispettato le promesse del governo e il rinnovo del contratto di lavoro dopo 8 anni non trova ancora soluzione. Altre lamentele hanno riguardato la sospensione, da mesi, dei lavori di ristrutturazione, imbiancatura e sistemazione degli alloggi in caserma”. Quanto ai rifiuti, la delegazione ha ricevuto assicurazioni da parte del direttore che i problemi verranno presto risolti mediante interventi già appaltati. “Il carcere di Prato è una polveriera - commenta Giorgio Silli, consigliere comunale Forza Italia - ma non è questa la città che doveva essere oggetto di rinforzi di organico promessi dalla sinistra in tutti questi anni? Invece, incredibile a credersi, accade il contrario: sono annunciati tagli al personale della polizia penitenziaria”. Trento: teatro in carcere, chiusura polemica. Il regista: umiliati e offesi dagli agenti di Erica Ferro Corriere dell’Alto Adige, 17 dicembre 2017 Amaro epilogo dopo la rappresentazione. Cutugno seccato: “Poteva denunciarlo”. Un accostamento apparentemente inconsueto, Amleto e Bukowski, ma anche un finale decisamente a sorpresa per “A nord di nessun sud”, lo spettacolo teatrale che ieri è andato in scena nel carcere di Spini di Gardolo: non tanto le lacrime negli occhi di un’attrice o la gioia esplosiva nello sguardo degli attori, quanto piuttosto l’applauso smorzato a metà dall’acceso diverbio tra l’ideatore e regista Emilio Frattini e il comandante della polizia penitenziaria Daniele Cutugno. L’uno ad accusare “alcuni agenti di abusi di potere e di un modo di controllare che ci ha offeso e umiliato come persone”, l’altro a sottolineare la “disponibilità costante della direzione” ma anche un “tempismo che è mancato”. Per il comandante e gli agenti presenti è un fulmine a ciel sereno. Il sipario si è appena - metaforicamente - abbassato, il teatro della casa circondariale è ancora immerso nell’emozione catartica delle parole e dei gesti. Il tono di Frattini si fa greve nel menzionare umiliazione e ostilità. “Abbiamo stabilito mesi fa il giorno e l’orario delle prove, i detenuti sono sempre arrivati con un’ora di ritardo - lamenta - qualcuno si è spinto a dire che invece di portarli a teatro si sarebbero dovuti mandare a spegnere gli incendi col corpo”. Accuse pesanti, incomprensibili. E Cutugno non ci sta: “Non tollero che si apostrofi tutto il personale in questo modo”. A smorzare i toni intervengono la garante dei diritti dei detenuti Antonia Menghini, lo psicologo Giuseppe Disnan, il sindaco Alessandro Andreatta deviando il discorso sui “suoni e i gesti del linguaggio teatrale” e sottolineando che “oggi (ieri, ndr) non si è rieducato o riabilitato solo qualcuno, ma tutti”. “Non ho mai avuto il sentore che stessero succedendo queste cose - spiega ancora Cutugno (Frattini denuncia, fra l’altro, che uno dei musicisti sarebbe stato minacciato, ndr) - ma accusare così vuol dire fomentare la popolazione detenuta a un confronto non educato con i poliziotti: abbiamo un ufficio preposto a ricevere le lamentele, se Frattini vi si fosse rivolto ci avrebbe dato la possibilità di condurre un’azione disciplinare o penale nei confronti dei responsabili”. La chiusura al vetriolo è di Frattini: “Quanto è successo è stata colpa di alcuni, non si devono offendere tutti e poi vendicare, come è già successo”. Il regista, tuttavia, decide di congedarsi con Jorge Luis Borges: “Il nostro meraviglioso compito - cita - è immaginare che esistano un labirinto e un filo”. Il burrascoso epilogo, tuttavia, non scalfisce l’emozione degli attori, detenuti e professioniste, che a Frattini tributano il merito di essere riuscito nel suo intento, ovvero aiutare, attraverso il teatro, a ritrovare l’autenticità del soggetto in quanto persona: “È stato coraggioso nel mostrarci l’altro lato di noi stessi - afferma Youssef Said - quello che possiamo diventare in futuro e che magari nel passato non è stato capito: speriamo di continuare di questo passo”. “Non avevamo la consapevolezza di essere così forti - sintetizza Pietro Di Maio, un fantastico Charles Bukowski - è solo grazie alla pazienza di Emilio e al nostro grande sacrificio”. Firenze: teatro in carcere, i detenuti in scena a Palazzo Medici Riccardi gonews.it, 17 dicembre 2017 Il Centro di Teatro Internazionale nell’ambito del Progetto Regionale “Teatro in carcere” e in collaborazione con Città Metropolitana di Firenze organizza lo spettacolo “La seduta spiritica” con la compagnia “Carpe Diem” dei detenuti della Casa Circondariale “M. Gozzini” di Firenze presso la Sala Pistelli, all’interno di Palazzo Medici Riccardi, il giorno domenica 17 dicembre 2017 alle ore 17. Ingresso su prenotazione (tel. 3475572347) da via Cavour, 3, dalle 16.30 alle 16.55 “La seduta spiritica” è un happening teatrale tratto dai testi di M. Bulgakov, J. Tardeu e i sonetti di W. Shakespeare. Creazione e Regia di Olga Melnik. Durata dello spettacolo: 60 min. Interpreti: Romana Rocchino Laura Bardelli Andrea Formigli Alessandro Vona Gianluca Camera Jiwen Yu Petros Bekele “Amami o odiami, entrambi sono a mio favore. Se mi ami, sarò sempre nel tuo cuore, se mi odi, sarò sempre nella tua mente”. (Sogno di una notte di mezza estate) William Shakespeare è stato un drammaturgo e poeta inglese, considerato come il più importante scrittore in lingua inglese e generalmente ritenuto il più eminente drammaturgo della cultura occidentale. Il poeta da una parte è figlio del Rinascimento in quanto nelle sue opere interpreta l’uomo che afferma se stesso, la propria creatività e razionalità (antropocentrismo) contro i limiti posti dalla realtà e dal destino; d’altra parte egli è anche esponente della nuova sensibilità del barocco in quanto evidenzia le lacerazioni di coscienza dell’individuo, l’incertezza degli ideali, la mutevolezza della sorte, il mistero insondabile della vita accompagnato da un senso di smarrimento esistenziale. Le opere di Shakespeare si interrogano quindi sull’identità dell’uomo, sull’assurdità della vita, sui misteri profondi e inconfessabili dell’animo umano, senza però giungere ad una verità unica capace di eliminare ansie e insicurezze. In Shakespeare troviamo poi un dubbio radicale, cioè se la vita, oltre ad essere breve, fragile e minacciata dalla continua presenza della morte, sia anche un sogno, un’illusione. L’idea di studiare i sonetti del poeta dopo 400 anni dalla sua morte, scoprendone una modernità sempre attuale, ha guidato il Centro di Teatro Internazionale nella messa in scena onirica, con la regia di Olga Melnik, di un lavoro teatrale dedicato, particolarmente, ai sonetti di W. Shakespeare. Brindisi: studenti e detenuti a confronto per promuovere i valori della convivenza civile brindisitime.it, 17 dicembre 2017 Lui ha solo 20 anni, si chiama Domenico ed è già padre di un bambino di 2 anni, secondo di quattro figli è cresciuto con un padre in carcere, un padre assente. La madre si prodiga per crescere bene questi figli ma prima il fratello maggiore e poi lui arrivano a fare gli stessi errori del padre.Ora la madre va in visita in tre carceri; è una donna disperata. Inoltre ha due figlie più piccole da accudire; “due brave ragazze” così le definisce Domenico. È solo uno dei tanti giovani ospiti del carcere di Brindisi che hanno partecipato al progetto ideato dall’Associazione Sociologia in Progress e Mondi Possibili destinato ai ragazzi della scuola media superiore. Partendo dai diritti e doveri degli studenti e dei detenuti in relazione ai rispettivi contesti di appartenenza si è discusso del regolamento scolastico e penitenziario con la possibilità per gli studenti e i detenuti di esprimersi nel merito. Dal confronto tra i due sistemi di regole che disciplinano il contesto scolastico e quello carcerario si è giunti ad individuare gli elementi comuni per giungere infine a delineare le regole basilari su cui si fonda la convivenza sociale e civile. I ragazzi delle scuole brindisine aderenti e i detenuti del carcere brindisino, si sono poi incontrati per scambiarsi sensazioni, storie, impressioni. Lo scopo del progetto curato dalla dott.ssa Maria Nimis sociologa-criminologa, con la collaborazione della dott.ssa Chiara Carrozzo, psicologa, della dott.ssa Angela Caniglia, pedagogista e della dott.ssa Nunzia Conte, sociologa, è quello di promuovere la legalità come valore positivo, attuare un intervento di prevenzione rispetto all’illegalità ed alla devianza, facilitare l’interiorizzazione dei valori che stanno alla base della convivenza civile, prestando attenzione ai personali comportamenti quotidiani all’interno della comunità di appartenenza, stimolare sia negli studenti che nei detenuti la consapevolezza che le norme non devono essere rispettate solo per evitare di incorrere in una sanzione ma che dal rispetto delle regole si ricavano evidenti vantaggi. Sono storie come quelle di Domenico che insegnano ed è proprio lui a spiegare perché ha sbagliato: “L’ho fatto perché non ho avuto un padre presente, un padre con cui identificarsi, che mi aiutasse a capire quando sbagliavo, che mi aiutasse ad allontanarmi da amici sbagliati. Gli amici? Erano vicini finché abbiamo commesso i reati insieme…ora non si vedono e non si sentono più! Con loro bighellonavo tutto il dì, saltando la scuola… mi sono fermato alla terza media”. Insieme a Domenico c’è anche Francesco 31 anni, diplomato, bravo a scuola, padre detenuto, molto contraddittorio nell’educazione del figlio perché a soli 2 anni gli compra una moto a benzina, a 15 anni una moto R1, lo veste da Diego e lo accontenta in tutto quello che il figlio gli chiede. Poi però vuole il rientro a casa alle 20 per cenare tutti insieme (e fin qui può anche andare bene) ma poi quando lui arriva a 16 anni non lo fa più uscire. Addirittura lo lega alla sedia per tenerlo a casa. Da qui la ribellione. Francesco ha iniziato a delinquere per apparire più forte del padre. Un padre che non parla ma comunica solo con le botte. L’unica volta che gli chiede di parlare lo fa poco prima che Francesco venga arrestato dicendogli chiaramente di sapere sia cosa avesse fatto che con chi; Francesco avrebbe preferito essere preso a botte da lui che non sentirgli dire questo. La madre è severa, gli è sempre vicina e ora, quando lo va a trovare non riesce a fare la forte come quando andava con lui a trovare il marito, ora quando vede il figlio piange e lui si vergogna di se stesso. La sorella è la persona che in questo periodo gli sta più vicino sebbene non fossero mai andati d’accordo da piccoli. Lei è una brava ragazza. Sono storie forti quelle che si intrecciano tra le quattro mura del carcere di Brindisi, storie a volte difficili da raccontare ma che insegnano molto a chi sta pagando per gli errori commessi, come Luca, 38 anni, ex dipendente Ilva, perde il lavoro e inizia a darsi alla bella vita. Donne, divertimento, vizi. “Se non mi avessero messo in carcere - dice - avrei continuato fino a 50 anni perché per me era diventato come un lavoro. Ora qui dentro capisco gli errori fatti, e sapere di dover diventare padre fra poco mi impone di diventare più responsabile, meno testa calda”. Storie diverse l’una dall’altra, storie di ragazzi vissuti in famiglie “malate”, ma anche storie di gente che ha commesso reati per altre ragioni, come Francesco 45 anni, persona rispettabilissima, lavoratore indipendente, comincia a delinquere perché l’attività non va più bene. In carcere incontra un professore che accompagna i ragazzi, suo cliente, e scoppia l’emozione, la vergogna, la tristezza. Ha un bambino di 9 anni che non sa dove sia il padre, crede che sia fuori per lavoro. Per ora non si sente di raccontargli la verità, ma lo farà quando lui sarà grande e potrà perdonarlo. E poi Nicola 39 anni, sconta un reato vecchio, del 2006. “Da quell’anno non ho più commesso nulla - racconta - lavoravo onestamente, ora ho perso tutto. Non dico che non debba pagare per gli errori fatti ma si dovrebbe pagare quando si commettono e non a distanza di 11 anni; è devastante”. E Daniele 20 anni, ha avuto amici sbagliati, si è fermato alla terza media e ora vorrebbe riprendere a studiare “Perché lo studio - dice - apre la mente e ti aiuta in ogni situazione”. Storie di chi vuol ripartire e vivere onestamente, diventando cittadini responsabili e rispettosi delle regole. Quella di oggi è stata la giornata conclusiva che ha visto di fronte le studentesse del Palumbo e alcuni dei detenuti che hanno aderito al progetto. Con loro anche le insegnanti e il funzionario giuridico-pedagogico della casa penitenziaria. Un progetto che insegna ai ragazzi le regole del vivere civile, dell’onestà, del rispetto. I detenuti, hanno scelto parole chiave a loro più care come dignità, libertà e vergogna. In contrapposizione quelle dei professionisti che hanno curato il progetto: giustizia, bellezza, passioni. Parole che segnano la via di partenza verso la rinascita Larino (Cb): detenuti chef e camerieri, l’incanto di una notte di sapori e sorrisi primonumero.it, 17 dicembre 2017 Gli studenti della sede carceraria dell’Istituto Alberghiero “Federico di Svevia” hanno accolto con professionalità ed entusiasmo i 180 ospiti che hanno partecipato all’evento nella casa circondariale di contrada Monte Arcano venerdì sera 15 dicembre. Menù all’insegna della genuinità e delicatezza, per una serata dal coinvolgente clima natalizio, un successo che si rinnova e cresce di anno in anno. Andrea, Alfredo, Giuseppe, Nunzio. Ottavio, Bruno, Gesualdo, Giovanni, Alfonso, Salvatore, Arturo, Mario, Luca. Solo alcuni nomi, per raccontare un’emozione. Una serata magica per dimostrare l’impegno, per vivere il calore del corridoio e della chiesa del carcere, popolati di ospiti, entusiasti e anche loro sempre con il sorriso sulle labbra, che non li abbandona mai, fino al termine della cena. Il Gran Galà di Natale consolida il suo successo: venerdì 15 dicembre 180 commensali hanno gustato i piatti preparati e serviti dai detenuti allievi della sede carceraria dell’Istituto Alberghiero “Federico di Svevia”, nel tepore ed entusiasmo di una coinvolgente atmosfera tipicamente natalizia. Divisa d’occasione con papillon rosso, cappello bianco per gli chef, professionalità, giusta concentrazione, per dare il meglio. Gli allievi hanno accolto gli ospiti all’ingresso della casa circondariale, per poi accompagnarli al buffet di benvenuto e ai tavoli addobbati ad arte e servire le singole portate con scioltezza, puntualità e precisione. Insalata variegata d’inverno con nodini della casa, timballo alla teramana con cuore di provola affumicata ed emulsione di basilico, brasato di lonza caramellata alla Tintilia. Contorno di radicchio stufato e millefoglie di patate con polvere di porcini. Bocconotto di sfoglia con pasticcera e frutti di bosco e cioccolatino artigianale. Una successione di prelibatezze nel menù, connubio perfetto tra tradizione, genuinità e delicatezza dei sapori, come messo in evidenza dagli stessi alunni che durante la serata hanno presentato al pubblico i singoli piatti, inframmezzati dagli interventi degli studenti dell’Istituto Agrario che hanno illustrato le tipicità dei prodotti coltivati all’interno della casa circondariale. A tarda sera, dopo il classico brindisi e la dolcezza del dessert, lo scambio dei saluti e degli auguri. Tutti insieme, nella chiesa, dove si leva un lungo applauso a conclusione di una serata indimenticabile. Per coloro che hanno già vissuto in passato l’esperienza giunta alla quinta edizione, e per gli allievi che per la prima volta hanno partecipato all’evento, si sono spesi fino all’ultimo nelle intense giornate dei preparativi, guidati dai docenti di Enogastronomia, di Sala e di Accoglienza turistica della sede carceraria dell’Ipseoa “Federico di Svevia”. Uno degli studenti prende la parola e ringrazia a nome dei compagni: “Abbiamo vissuto una grande emozione”. Lo stesso pensiero accompagna gli ospiti, fino all’ultimo cancello che li separa dall’uscita. Viterbo: la Comunità di Sant’Egidio offre il pranzo di Natale a 90 detenuti Ristretti Orizzonti, 17 dicembre 2017 Dopo il successo dell’iniziativa dello scorso anno la Comunità di Sant’Egidio, in collaborazione con la Direzione e tutte le realtà che operano all’interno dell’Istituto, apparecchiano nuovamente la tavola natalizia per un gruppo di circa 90 detenuti tra i più poveri.  Gli ospiti d’onore del pranzo infatti saranno proprio i reclusi, in particolare coloro che sono privi di risorse economiche e di riferimenti familiari. Festeggiare il Natale insieme vuole dire avvicinare la società civile e le istituzioni a chi è sottoposto a una pena detentiva e portare un segno di solidarietà nel periodo delle feste natalizie così duro se trascorso in carcere, lontani dagli affetti familiari.  Il pranzo si svolgerà nella sala teatro della Casa Circondariale. Il menù: lasagne fumanti, pollo e patate al forno, panettoni, dolci il tutto sarà rallegrato dalla musica e dalla compagnia degli assistenti volontari. Parteciperanno alcune Autorità del territorio: sarà presente Sua Eccellenza il Prefetto di Viterbo, Sua Eccellenza il Vescovo di Viterbo, il Garante Regionale dei detenuti, il Presidente del Tribunale di Viterbo, il Magistrato di Sorveglianza, il Presidente della Fondazione Carivit ed altre Autorità cittadine, con i quali la direzione dell’Istituto intrattiene proficui rapporti di collaborazione. L’evento accompagna la presenza di Sant’Egidio e delle altre realtà di volontariato durante tutto l’anno, con colloqui di sostegno, distribuzioni di generi di vestiario e per l’igiene personale, incontri di preghiera e di catechesi e, per i musulmani, incontri di preghiera con l’Imam. In questo spirito di famiglia si cercherà di non far sentire “ultimi” e dimenticati i detenuti ristretti presso la Casa Circondariale di Viterbo. Come lo scorso anno, alla realizzazione del pranzo di Natale, collaborano i volontari del Gavac e della Caritas avviando una tradizione natalizia all’interno di questo Istituto che tutti si augurano possa continuare nei prossimi anni. Il pranzo è reso possibile anche grazie all’impegno degli operatori della Polizia Penitenziaria e degli educatori. Si rinnova un doveroso ringraziamento a tutti gli assistenti volontari e tutti gli operatori, penitenziari e non, che renderanno possibile con il loro impegno e la loro collaborazione questo evento. Buon Natale a tutti! Scontro di inciviltà: ecco la politica dell’odio di Marco Damilano L’Espresso, 17 dicembre 2017 Insulti, violenze, minacce. E intolleranza verso le idee dell’avversario. Che diventa un nemico da distruggere. Così l’Italia va al voto nel modo peggiore. C’è un bene più prezioso della stabilità di un governo e anche, per fortuna, di una campagna elettorale vinta o persa che in democrazia dovrebbe essere la routine e non un giudizio di Dio? Sì, c’è, è la qualità del dibattito pubblico. La possibilità di riconoscere l’altro: un avversario da battere nelle urne, non un nemico da eliminare. Quando se ne parla appare una questione di educazione, di bon ton, di galateo, una roba da parrucconi, da bigotti custodi delle regole di buon comportamento. Ma non è così, non di mala educación qui si parla, e neppure soltanto dell’avvicinarsi della campagna elettorale. Perché c’è qualcosa di più inquietante e di più profondo. Un’intolleranza al pensiero altrui. Un’ostilità nei confronti di chi non fa parte della tua stretta cerchia dei veri credenti. Una sotterranea volontà di annientare il diverso, come dimostra anche il tentativo di assalto alle redazioni di Espresso e Repubblica del 6 dicembre ad opera di manifestanti del gruppo neo-fascista di Forza Nuova. Non preoccupano solo l’attacco, le maschere sul volto come gli attivisti di Anonymous, il megafono che fa subito anni Settanta, gli striscioni e i fumogeni, il vero simbolo di questa stagione perché tutto copre, confonde, occulta in una nuvola di confusione, ma soprattutto le parole spese nel comunicato pubblicato su Facebook con gli insulti (“infami, pennivendoli, diffusori del verbo immigrazionista”) e le minacce: “Roma e l’Italia si difendono con l’azione, spalla a spalla, se necessario a calci e pugni”. Propositi ribaditi l’11 dicembre, in occasione del presidio delle associazioni sotto la sede dei nostri giornali: “Le guardie dell’antifascismo di regime, nemici della patria e traditori, si sono date appuntamento... preferiamo prendervi a schiaffi nelle piazze piuttosto che doverci difendere dalle vostre calunnie”. L’annuncio di azioni violente sulla pagina fb di un’organizzazione che si definisce partito politico e che intende candidarsi alle elezioni. Si può tentare in modo rassicurante di isolare il fenomeno e di ridurlo a un gruppo di ragazzotti, al balzo sulla scena mediatica di un ormai attempato capo fascista, quel Roberto Fiore che nel 2006 aveva provato a entrare in Parlamento grazie all’accordo tra Alessandra Mussolini e Silvio Berlusconi, bloccato dalla reazione degli alleati del Cavaliere (Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini). E poi si può allargare la condanna al gruppo rivale di Forza Nuova, l’altra scheggia di estrema destra Casa Pound, il cui leader Simone Di Stefano meno di tre anni fa, il 28 febbraio 2015, salì sul palco di piazza del Popolo accanto a Matteo Salvini (oggi il leader leghista candidato premier lo dimentica e fa lo schizzinoso: “Io certi voti non li prendo”). Ma sarebbe un errore circoscrivere. Perché insulti, aggressioni, minacce, gli attacchi squadristi che escono dal virtuale e si fanno reali si muovono in un contesto accogliente per le loro scorribande, amichevole, friendly. Da mesi si rincorrono sul web e nei talk televisivi inviti ad asfaltare, cancellare, polverizzare, bruciare vivi gli esponenti di un altro partito. Si invoca la fine di Aldo Moro, rapito e assassinato nel bagagliaio di un’auto quarant’anni fa, ora per Matteo Salvini ora per Laura Boldrini, sul web o sulla prima pagina di una gloriosa testata, il Tempo di Roma, che un tempo fu soavemente diretta da Gianni Letta. Le testate reali contro un cronista delle Iene davanti alle telecamere del familiare di un clan mafioso a Ostia e gli inviti virtuali a masticarli e vomitarli da parte del fondatore del più votato partito politico italiano (stando ai sondaggi), Beppe Grillo e M5S. Non è finita, perché la delegittimazione reciproca rimbalza dalle piazze virtuali alle aule parlamentari, dalla base al vertice, dal basso - per così dire - verso l’alto, con la legislatura che si conclude nel peggiore dei modi, con lo spettacolo della commissione di inchiesta sulle banche che inghiotte e divora quel che resta della credibilità della Banca d’Italia, di un pezzo di magistratura (ad esempio la procura di Arezzo) e i partiti in campo interessati a distruggere ognuno per parte sua un pezzetto di istituzione pur di portare a casa un brandello di vittoria. E poi l’inchiesta sui carabinieri infedeli che truccano le carte sull’inchiesta Consip per incastrare Matteo Renzi. E quel magistrato consigliere di Stato che usa e abusa della sua posizione per organizzare corsi di formazione che con la scienza e il diritto hanno poco a che fare e che si sente come Albert Einstein, un genio incompreso. Sono situazioni lontane tra loro, a ciascuno il suo. A metterle insieme si rischia il generico, il mischione, il sospiro perbenista e snob per i brutti, sporchi e cattivi, il signora mia, in un annoiato tintinnar di posate. Ma nell’insieme ognuno di questi casi uniti dalle cronache e dai retroscena politici rappresenta un pezzo di fiducia che se ne va. E qualcosa di profondo che viene corroso. “Sento un rumore di denti di talpe che rodono incessanti le radici di molti alberi”, mi ha scritto qualche giorno fa uno degli osservatori più intelligenti e disinteressati che in passato ha ricoperto rilevanti incarichi governativi. Questo dovrebbe interessare tutti: le radici corrose. L’Italia ha vissuto albe elettorali molto più pericolose di questa. Nell’anno che viene, per dirne una, sarà ricordato il 18 aprile 1948, settant’anni fa. Uno scontro di civiltà vero, tra l’Occidente e il socialcomunismo, tra Dio e Stalin, il bene contro il male. Da un lato Togliatti, Nenni, Garibaldi, il vento del Nord, l’Armata rossa. Dall’altro gli americani, Pio XII, le madonnine in lacrime, De Gasperi, il manifesto dello scudocrociato della Dc ponte levatoio che si abbatte sulla masnada rossa: “Non si passa”. Walter Lippmann, il guru dei politologi americani, scrisse sul “New York Herald Tribune”: “Se l’Italia sarà il primo paese a diventare comunista, significherà una serie di lotte senza fine, irrisolvibili dalla diplomazia”. Come dire che dal voto degli italiani dipendeva la pace nel mondo. La classe dirigente dell’epoca, però, provava a tenere lo scontro nei binari della civiltà. Era riluttante a delegittimare il partito politico avverso, nonostante l’asprezza e la violenza della battaglia politica in un paese di frontiera nel tempo della guerra fredda, perché il processo di apprendistato democratico prevedeva esattamente il percorso opposto. Educarsi tutti insieme a convivere nella casa comune dello Stato democratico: cattolici e laici, liberali e comunisti. Oggi viviamo in un’epoca di debolezza della struttura statale e di dissolvenza dei partiti e degli altri canali di rappresentanza. E quelli che resistono non hanno alle spalle ideologie, progetti, identità, una visione delle cose, un’idea di politica. Preferiscono in gran parte carezzare l’elettorato per il verso del pelo, l’Italia del rancore di cui ha parlato l’ultimo rapporto Censis. Il rancore è la nuova ideologia. L’inciviltà non è l’incapacità di rispettare l’etichetta, ma il rifiuto dell’altro, per di più in nome di simboli posticci, di appartenenze virtuali. Il fumogeno da stadio è uno dei simboli di questa epoca perché disvela un dibattito collettivo ridotto a stadio, a curva degli ultras. Si va verso una campagna elettorale di ultras, in cui prevale l’odio per l’avversario piuttosto che l’amore per la propria squadra. E il frastuono dei cori assordante che copre le voci critiche o semplicemente disponibili a comprendere le ragioni degli altri. Un clima rafforzato dal virus proporzionalistico che trasforma il partito più vicino in nemico assoluto, che frantuma gli schieramenti, che esalta l’autoreferenzialità di un leader come Matteo Renzi, contento di essere rimasto quasi da solo, senza coalizione, e la sindrome di autosufficienza del partito in testa nei sondaggi, il Movimento 5 Stelle, orgoglioso di dichiararsi indisponibile a ogni alleanza, considerando tutte le altre forze politiche in blocco una malattia da estirpare.? Si possono inseguire le centrali straniere delle fake news, i punti che irradiano sulla rete la falsificazione e la mistificazione, la sfera di influenza di Putin che sostituisce quella antica sovietica. Denunciato ogni tentativo di manipolazione, chi fa politica, cultura, giornalismo ha poi però l’obbligo di seguire i fili, cercare di risalire alle radici dell’odio, comprendere perché intolleranza e violenza hanno ripreso diritto di cittadinanza in un paese democratico, perché l’inciviltà sembra prevalere sulla civiltà e contagiare tutto. Non basta condannare, indignarsi, organizzare manifestazioni e raduni antifascisti. Quando si sarà spenta quella che si annuncia come una delle più brutte e inutili campagne elettorali della storia repubblicana, destinata a non produrre alcun risultato, bisognerà riandare alle radici dello scontro di inciviltà. Per comprendere e raccontare cosa si muove nelle periferie e nelle frontiere del nostro Paese. Diradare i fumogeni. Bio-testamento, bene la legge: ora serve un’etica del controllo sulla vita e sulla morte di Astolfo Di Amato Il Dubbio, 17 dicembre 2017 Occorre farlo con serietà e tempestività proprio nel rispetto di quei diritti fondamentali che costituiscono una delle ispirazioni più importanti della legge. Il Senato ha approvato con una maggioranza schiacciante e trasversale la legge sul bio-testamento. Non sarà più necessario, di fronte a sofferenze indicibili, farsi trasportare in Svizzera per poter porre fine alla propria dolorosa esistenza. Sono principi di civiltà ed esigenze profonde di rispetto dell’uomo ad essere alla base di quella legge: così si spiega l’elevatissimo consenso alla approvazione non solo in sede parlamentare, ma anche nella pubblica opinione. Del resto, basta seguire anche solo poche battute del processo a Marco Cappato, che si svolge innanzi alla Corte di Assise di Milano, per non avere alcun dubbio sulla giustezza di quella legge. Le immagini della intervista a Dj Fabo, rilasciata a Giulio Golia delle Iene e proiettate in aula, suonano come un pesantissimo atto di accusa per non essere stata approvata prima quella legge. Nessun dubbio, perciò, sul fatto che l’approvazione della legge sul bio-testamento sia espressione di una maggiore civiltà raggiunta dalla società italiana. La chiarezza di questa premessa, tuttavia, consente di svolgere alcune riflessioni. La legge sul bio-testamento sposta, indubbiamente, un confine: quello di quanto della esistenza di ciascuno di noi appartenga anche agli altri e di quanto appartenga solo a noi stessi. Il tema è estremamente delicato ed è come se, in questo momento, le élite culturali volessero evitarlo per le implicazioni spinose che esso ha. L’evoluzione tecnologica, in tutti gli ambiti, sta ponendo e sempre di più porrà questioni che non possono non essere affrontate in una visione che tenga conto dell’intera collettività. La possibilità di intervenire sul dna, di effettuare “riparazioni” impensabili attraverso l’uso delle staminali, la possibilità di integrare la macchina nell’uomo (già vi sono esempi di cheap sottocutanei) aprono la prospettiva inquietante di dare la immortalità agli uomini o di creare super uomini. Tutto questo può essere relegato in una sfera meramente individuale? La nascita e la morte, l’attribuzione di super poteri o anche la possibilità di correggere deformazioni o di guarire malattie ritenute sinora inguaribili può essere demandato alla legge del mercato? Se, difatti, tutti i temi sopra indicati sono attribuiti alla sfera di disponibilità dell’individuo e, perciò, alle sue scelte, l’ineludibile sottointeso e che tutto questo appartiene al mercato. Del resto, lo stesso Dj Fabo si è rivolto al mercato per risolvere le sue sofferenze. Ecco, allora, che alla legge sul bio-testamento bisogna certamente plaudire. Ma con una riserva. Non può essere quella legge la breccia per una ulteriore apertura al mercato, che accentui ulteriormente la trasformazione dell’uomo in merce. Basta, al riguardo, pensare a quanto avviene in tema di procreazione. È necessario che, al più presto, si ponga mano alla elaborazione di un’etica del controllo sulla vita e sulla morte che le nuove tecnologie stanno offrendo. Non farlo, con serietà e tempestività, significherebbe annullare proprio il rispetto di quei diritti fondamentali che costituiscono una delle ispirazioni più importanti della benvenuta legge sul bio-testamento. Migranti. “Invisibili” in marcia a Roma: diritti e permesso umanitario di Carlo Lania Il Manifesto, 17 dicembre 2017 Chiedono di poter uscire dal cono d’ombra dove li hanno relegati il regolamento di Dublino e la volontà di rimandare a casa i migranti economici. Un cono d’ombra che li rende invisibili per tutti, non-persone per le quali non sono previsti diritti e quindi facili vittime di chi approfitta di loro sfruttandoli nei campi o nei cantieri. Almeno per un giorno, però, gli invisibili si sono presentati alla luce del sole e hanno chiesto rispetto, per loro e per i loro diritti violati. Sono venuti in tanti a Roma rispondendo all’appello lanciato dagli organizzatori della manifestazione “Diritti senza confini”. Si aspettavano 15 mila persone da tutta Italia, alla fine ne sono arrivate almeno 25 mila, anche da Berlino e Francoforte. Migranti africani, soprattutto, ma non solo. Ci sono anche rom, c’è il movimento per la casa e poi precari, studenti obbligati all’alternanza scuola-lavoro, i volontari di Baobab Experience. Tutti “invisibili” nella vita di ogni giorno ma visibilissimi ieri mentre, tra canti e musica, hanno sfilato per le vie più centrali della capitale. Una manifestazione carica di parole d’ordine politiche, ma anche gioiosa e pacifica che ha smentito le fosche previsioni della vigilia secondo le quali sarebbe stato alto il rischio di atti di violenza. Era stata la questura di Roma a lanciare l’allarme per la possibile presenza di infiltrati nel corteo. Ammesso che ci fossero, gli eventuali provocatori ieri non si sono visti. E non avrebbe potuto essere altrimenti anche grazie a un nutrito servizio d’ordine allestito dal sindacato Usb. “È la nostra giornata”, dice Aboubakar Soumahoro, portavoce della manifestazione, mentre guarda soddisfatto decine e decine di persone arrivare in piazza della Repubblica, punto di partenza del corteo. “Vedi oggi qui ci sono quelli che si sono visti respingere la richiesta di asilo e per questo adesso sono confinati nelle periferie, nei campi o vengono sfruttati nella grande distribuzione. Quella che stiamo facendo non è una guerra tra poveri, come vorrebbe chi ci contrappone agli italiani, ma la battaglia di tutti gli impoveriti, dei dannati della globalizzazione”. “Negative-basta, negative-basta”, urla mischiando francese e italiano una gruppo di ragazzi originari del Ghana. Il riferimento è all’esito negativo che tutti hanno ricevuto dalla Commissione ministeriale che ha esaminato le loro richiese di asilo. Per questo adesso chiedono di poter rimanere in Italia con un permesso umanitario, “un documento”, come lo chiamano, che consenta loro di non essere più invisibili. Invisibili come Diemaro, Bacary e Pirameba, senegalesi di 39, 42 e 20 anni arrivati a Roma da Foggia dove sopravvivono raccogliendo pomodori nei campi per 3 euro e 50 all’ora. “Anche a noi la commissione ha respinto la richiesta di asilo ma non possiamo tornare nel nostro Paese, abbiamo bisogno di un lavoro vero”, spiegano. Meno di un mese fa a Cona, in Veneto, i migranti ospitati nell’ex base militare trasformata in centro di accoglienza straordinaria hanno protestato contro le condizioni del centro camminando fino a Venezia in quella che è stata battezzata la “marcia della dignità”. Una cinquantina di loro ieri è venuta a Roma per questa nuova marcia che sembra tanto il tentativo di far nascere una qualche forma di organizzazione tra migranti. “Quello che abbiamo fatto a Cona è importante - spiega Alessandro, originario della Costa d’Avorio -. Dopo la marcia un centinaio di migranti è stato trasferito in altri centri, ma soprattutto è servito a farci vedere. Senza documenti non esisti, non lavori, non puoi avere una casa, sei condannato alla schiavitù”. “No alla Bossi-Fini, no alla Minniti-Orlando” dicono alcuni cartelli che accomunano un provvedimento del governo Gentiloni con la legge simbolo del centrodestra. Non si tratta di un caso isolato. Uno striscione appeso a piazza del Popolo, dove il corteo confluisce per poi finire, recita: “Mai con Renzi. Mai con Salvini. Respingiamoli”. Ma c’è anche ci chiede : “Basta soldi ai torturatori libici”. “Il 12 gennaio abbiamo chiesto un incontro al ministro Minniti per chiedergli cosa intende fare di tutte queste persone. Stiamo aspettando che ci risponda”, conclude Saumahoro mentre dal palco improvvisato sul cassone di un camion un oratore chiude la manifestazione salutando il “popolo meticcio e resistente”. Migranti. Ventimiglia, minori stranieri al freddo, abbandonati di Marina Della Croce Il Manifesto, 17 dicembre 2017 Lettera-denuncia delle Ong al prefetto. Anche ragazze con figli piccoli lasciate al Parco Roja senza assistenza. Le Ong che si occupano di migranti a Ventimiglia sono sul piede di guerra per la situazione di mancata accoglienza dei minori stranieri non accompagnati lasciati sul fiume Roja, al freddo, senza servizi, esposti a ogni tipo di abuso e hanno scritto al prefetto di Imperia Silvana Tizzano. “Ad oggi - si legge nella lettera firmata da Asgi, Intersos, Safe Passage, Terre des Hommes, WeWorld Onlus e Diaconia Valdese - non è stato comunicato se e quando verrà aperta una struttura ricettiva temporanea per minori stranieri non accompagnati a Ventimiglia, a più di quattro mesi dalla sospensione dei lavori decisa in seguito alla contestazione di alcuni cittadini in data 9 agosto 2017”. Sono 24 i minori stranieri non accompagnati, tra cui tre ragazze, ancora ospitati nella struttura per adulti nota come Parco Roja di Ventimiglia alla data dell’11 dicembre 2017. Si segnalano, inoltre 426 adulti, 9 donne sole e 30 nuclei familiari. “I numeri sono molto variabili: il 30 novembre erano presenti 38 minori - comunica l’Asgi, Associazione studi giuridici sull’immigrazione -. Esprimiamo pertanto forte preoccupazione per la situazione dei numerosi minori stranieri non accompagnati che si trovano al di fuori del sistema di accoglienza, sulle sponde del fiume Roja, vivendo in ripari di fortuna, privi di riscaldamento e di servizi igienici, senza accesso all’acqua potabile e al cibo, esposti ad abusi e violenze. Si è rilevata anche la presenza di ragazzine minorenni, spesso vittime di violenze sessuali, alcune con figli piccoli”. La legge italiana vieta espressamente il collocamento dei minori stranieri soli presso centri di prima accoglienza per adulti e impone l’obbligo di collocare in luogo sicuro il minore in stato di abbandono morale o materiale e non in locali insalubri o pericolosi. “Collocare i minori non accompagnati in un centro di prima accoglienza non esclusivamente dedicato a loro e non adeguato alla condizione di minorenni quale il centro Parco Roja - sottolineano ancora le ong - ovvero lasciarli privi di alcuna assistenza e accoglienza, rappresenta una grave violazione della normativa vigente”. “Purtroppo restano totalmente disattesi i precetti imposti dalla Convenzione sui diritti di fanciullo del 1989, che sancisce in tutte le decisioni che riguardano i minori il superiore interesse del fanciullo con carattere di priorità”, afferma Alessandra Ballerini, avvocato e consulente di Terre des Hommes. “In nessun modo può essere tollerata la violazione sistematica della dignità di questi minori”, insiste la legale. Migranti. Libia: al via le evacuazioni dai centri di detenzione di Alessandra Ziniti La Repubblica, 17 dicembre 2017 Ma in centinaia continuano a partire sui gommoni. Arrivato in Niger il primo aereo con a bordo 74 bambini e donne liberati dall’Unhcr nei centri di detenzione. Salvataggi a raffica delle navi delle ong nel Mediterraneo, 800 in salvo. I libici ne portano indietro altri 437. Dalla Libia continuano a partire sui gommoni nonostante le pessime condizioni meteo che mettono a rischio qualsiasi traversata, ma dalla Libia cominciano anche le prime evacuazioni verso paesi sicuri di migranti in condizioni particolarmente vulnerabili liberati dall’Unhcr dai centri di detenzione ufficiali. Più di 800 persone, in condizioni drammatiche, sono state soccorse nelle ultime 48 ore dalle due uniche Ong rimaste ad operare nel Mediterraneo, Proactiva Open Arms e Sos Mediterranèe, in 74 invece sono stati messi in salvo dalla prima missione aerea congiunta Unhcr-Moas che ieri ha portato in Niger 51 bambini, 22 donne e un uomo, tutti eritrei e somali, da mesi reclusi in un carcere nei pressi di Tripoli. Imbarcati su un aereo, sono atterrati a Niamey dove verranno ospitati in alcune comunità in attesa di essere ricollocati in Europa nei paesi che daranno la loro disponibilità. “Un’emozione profonda che toglie il fiato. In salvo dopo la Libia arrivano sicuri in aereo in Niger. Da qui la via di un paese sicuro dove ricostruire una lunga vita”, dice Carlotta Sami, portavoce dell’Unhcr che adesso lancia un appello alla disponibilità per altri 1.300 posti per proseguire velocemente con le evacuazioni come deciso nl vertice di Abdijan. “Per noi è la prima volta, speriamo di poter dare continuità ad un’operazione che ridà speranza e dignità alle persone”, dice Christopher Catrambone di Moas. La luce del telefonino di un migrante in una notte di bufera ha invece salvato le oltre 100 persone che erano ormai alla deriva su un gommone nel Mediterraneo, soccorso dalla Open Arms che, nelle ultime 48 or, ha preso a bordo 640 persone in ben dieci operazioni di soccorso continuative. Molti dei migranti visitati a bordo presentavano ustioni profonde perché bruciati dalla benzina presente nel fondo del gommone, moltissimi principio di assideramento per il freddo pungente. Altri 166, tra cui 43 donne, nove bambini sotto i 13 anni e 23 minori non accompagnati, sono stati invece soccorsi nelle ultime ore dalla nave Aquarius di Sos Mediterranèè ritornata in zona di ricerca e soccorso dopo aver sbarcato in Sicilia centinaia di altri migranti. A questi devono aggiungere i 437 portati indietro dalla Marina libica in tre diverse operazioni nelle ultime 24 ore. Lo ha reso noto alla Xinhua Al-Hadi Mohamed, rappresentante della Guardia Costiera e dell’Agenzia per la sicurezza portuale. “La Marina libica ha tratto in salvo 280 migranti illegali di diverse nazionalità araba e africana”, ha detto Mohamed, spiegando che il salvataggio è stato compiuto al largo delle città occidentali di Garrabuli e Zliten. I migranti, che viaggiavano su gommoni, sono stati trasferiti a Tripoli. La Marina libica ha quindi riferito di altri 157 migranti africani, tra cui donne e bambini, salvati in due operazioni al largo della costa occidentale della Libia. Messico. La legge sulla sicurezza è da Stato di polizia di Sara Volandri Il Dubbio, 17 dicembre 2017 Il via libera del Senato. Critiche durissime dell’Onu. Una legge da Stato di polizia che sembra uscita da un’altra epoca o da una nazione in guerra civile. Il Senato messicano ha infatti approvato ieri mattina, al termine di un lungo dibattito in aula, una controversa Legge di Sicurezza che istituzionalizza l’uso delle Forze Armate per compiti di polizia interna, malgrado le forti critiche formulate da Nazioni Unite, Organizzazione degli Stati Americani (Osa) e dalle principali organizzazioni di difesa dei diritti umani. Il ddl, approvato per 76 voti contro 44, con tre astensioni, deve ora essere esaminato dalla Camera dei Deputati. Giovedì scorso, in un’iniziativa senza precedenti, sette relatori e gruppo di lavoro dell’Onu hanno diffuso una lettera aperta nella quale esprimevano la loro preoccupazione per il fatto che “attribuisce alle Forze Armate un ruolo di direzione e coordinamento” e non più di mera assistenza nelle operazioni di sicurezza interna. È dal 2006, quando l’allora presidente Felipe Calderon dichiarò la “guerra totale” ai cartelli criminali, che le Forze Armate messicane partecipano in operazioni di polizia in Messico. Da allora, la Commissione Nazionale per i Diritti Umani (Cndh) ha ricevuto migliaia di denunce di abusi da parte dei militari rimasti del tutto impuniti (omicidi, sequestri, sparizioni di persone, se non casi di vera e propria tortura), ma allo stesso tempo il livello di violenza criminale nel paese è aumentato in modo vertiginoso, tanto da farne uno dei meno sicuri al mondo. Le statistiche sono d’altra parte agghiaccianti: solo nei primi dieci mesi del 2017 sono stati circa 24mila gli omicidi commessi nel paese sudamericano e l’insicurezza dilagante è senza dubbio la principale preoccupazione dei cittadini messicani. Iran. “L’Europa non abbandonerà Djalali al boia Vogliamo salvarlo” di Antonello Guerrera La Repubblica, 17 dicembre 2017 Il ministero degli Esteri Ue risponde all’appello di Repubblica per il ricercatore di Novara condannato a morte. I misteri di un “processo farsa”. “L’Unione europea segue con attenzione il caso di Ahmadreza Djalali. Lo abbiamo sempre portato all’attenzione delle autorità iraniane, anche nell’ultimo incontro di alto livello che si è tenuto qualche settimana fa. L’Ue si oppone con fermezza e decisione alla pena di morte in ogni circostanza. I diritti umani rimangono al centro delle nostre relazioni con l’Iran e continueremo ad affrontare le autorità di Teheran sul tema, anche per quanto riguarda i casi individuali”. Un portavoce dell’Alto rappresentate europeo agli Affari Esteri, Federica Mogherini, risponde così all’appello lanciato ieri su Repubblica dalla senatrice Elena Cattaneo e da Vida Mehrannia, la moglie del medico e ricercatore Ahmadreza Djalali condannato a morte in Iran per “spionaggio a favore di Israele” e “complicità nell’uccisione di quattro scienziati nucleari iraniani”. Anche il Ministero degli Esteri italiano sta seguendo con attenzione la vicenda: “È stata sollevata più volte”, dicono fonti della Farnesina, “anche in occasione della recente visita del ministro degli Esteri di Teheran, Zarif”. Per lo studioso iraniano, che ha lavorato per anni anche all’Università del Piemonte orientale a Novara, il tempo stringe: questa settimana la Corte Suprema di Teheran ha confermato la sua condanna a morte, dopo l’arresto nel 2016 in Iran e quello che molti familiari e attivisti hanno definito un “processo farsa”. Durante il “sommario, segreto e precipitoso” procedimento giudiziario, infatti, Djalali è stato privato di molti diritti. Come spiega l’ong Amnesty, innanzitutto i legali del ricercatore non sono riusciti a presentare la propria documentazione di difesa e le arringhe in sede di appello presso la Corte Suprema: “Dall’inizio di novembre, gli avvocati di Djalali hanno più volte contattato la Corte Suprema per capire a quale sezione fosse stata assegnata la richiesta di appello”, scrive Amnesty. Per settimane gli è stato detto che il caso non era ancora stato assegnato per l’esame e che avrebbero dovuto aspettare”. E invece, pochi giorni fa, l’improvvisa sentenza, a loro insaputa. Anche il verdetto della pena capitale contro Djalali pare lunare: in Iran non si applica per spionaggio, ma solo quando l’accusa è “diffusione della corruzione sulla Terra” (è l’articolo 286 del codice penale islamico), ossia quando l’imputato è considerato una serissima minaccia alla sicurezza nazionale. Che non pare proprio essere il caso di Djalali. Ma ci sono altri aspetti inquietanti. Dopo l’arresto nel 2016 e il trasferimento nella famigerata prigione di Evin (braccio 209, quello gestito dal Ministero dell’Intelligence), per sette mesi a Djalali è stato negato un avvocato dal procuratore Abolqasem Salavati (uno dei più severi in Iran), diversi legali scelti dall’imputato sono stati respinti dalla Corte e quello presente in aula durante il primo processo ha potuto parlare solo per pochi minuti. Inoltre, il ricercatore è stato spesso bendato e in isolamento in condizioni disumane. Non solo: a oggi, non è disponibile alcun documento scritto del processo, e nemmeno della sentenza. E quelle poche “prove” dello “spionaggio per conto di Israele” sarebbero, secondo una lettera che Djalali ha fatto filtrare di recente dal carcere, confessioni estorte dopo torture fisiche e psicologiche e ripetute minacce di morte verso la sua famiglia. Djalali ha sempre detto che l’ingiusto processo contro di lui ha un solo motivo: si sarebbe rifiutato di fare la spia al soldo di Teheran. E quindi la condanna a morte sarebbe una vendetta. “Questo processo si è svolto come si svolgono in tutti i Paesi autoritari”, spiega al telefono il senatore del Pd Luigi Manconi, che segue il caso di Djalali da molto tempo, “e lo dimostrano diversi elementi, come l’accusa alla base del processo. A Djalali sono stati negati i diritti umani fondamentali e non ci sono prove contro di lui, siamo totalmente nell’ipotetico”. Ora, nel torbido percorso giudiziario della sua incredibile vicenda, a Djalali rimarrebbero due strade per evitare il boia: chiedere al Ministero della Giustizia iraniano un riesame del caso. Oppure, ammettere le proprie colpe e invocare la grazia. Ma Djalali lo ripete da anni ormai: “Sono innocente”. Birmania. La campagna in nero per i giornalisti arrestati di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 17 dicembre 2017 Un gruppo di giornalisti birmani hanno annunciato che indosseranno magliette nere in segno di protesta per l’arresto di due giornalisti della Reuters accusati di aver violato segreti di Stato. Il Comitato per la Protezione dei Giornalisti Birmani ha dichiarato la detenzione dei colleghi “una minaccia alla libertà di stampa”, per questo la scelta di indossare solo T-shirt nere simbolo “dell’era oscura che avvolge il giornalismo”. “Invitiamo i reporter di tutto il mondo a prendere parte a questa campagna” è l’appello lanciato dal gruppo. Wa Lone, 31 anni, e Kyaw Soe Oo, 27 anni erano scomparsi martedì scorso dopo essere andati a cena con alcuni poliziotti alla periferia di Yangon. I due stavano lavorando a un reportage sulla crisi dei Rohingya. Il giorno dopo il ministero dell’Informazione birmano aveva diffuso una foto in cui i due colleghi apparivano ammanettati. L’accusa è di aver “ottenuto informazioni illegali e di essere pronti a condividerle con i media stranieri” Venerdì 15 dicembre il segretario di Stato americano Rex Tillerson aveva invitato le autorità birmane a rilasciare i due giovani: “La libertà di stampa è vitale per la transizione della Birmania e per la democrazia del paese. È il vero test per vedere se sono in grado di proseguire il percorso verso la democrazia” aveva detto Tillerson a margine del Consiglio di Sicurezza Onu. La stessa preoccupazione era stata espressa dal segretario generale dell’Onu Antonio Guterres, dal presidente del Parlamento Europeo Antonio Tajani e dai rappresentanti di Canada, Gran Bretagna, Svezia e Bangladesh. I due giornalisti rischiano fino a 14 anni di prigione. Le autorità birmane rifiutano di rivelare in quale prigione siano rinchiusi.