La doppia pena di ammalarsi in carcere di Giovanni Fiandaca Il Mattino, 16 dicembre 2017 Il caso dell’Utri ripropone il tema di una detenzione rispettosa della dignità. Il caso Dell’Utri prospetta problemi e solleva interrogativi che, trascendendo la vicenda specifica, hanno una portata generale. Sulla base di quali criteri periti e magistrati verificano se vi sia compatibilità o incompatibilità tra la condizione patologica di un detenuto e la sua permanenza in carcere? In punto di stretto diritto, questa verifica dovrebbe prendere le mosse dai principi ormai più volte affermati dalla Corte costituzionale, dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo e dalla stessa Corte di Cassazione. In particolare si fa riferimento a una duplice angolazione visuale di una adeguata tutela del diritto fondamentale alla salute (che la Costituzione impone di garantire senza discriminazioni tra cittadini liberi e soggetti reclusi!) e del divieto costituzionale di trattamenti inumani e degradanti. Orbene, sulla base di queste premesse, la Cassazione sostiene che l’incompatibilità con il regime carcerario può derivare non soltanto da una malattia grave che comporti un pericolo per la vita del detenuto, ma da qualsiasi quadro morboso (o stato di deterioramento fisico) tale da determinare un abbassamento di quella soglia di dignità umana che deve essere rispettata anche all’interno del carcere. Sicché, il giudice di merito non deve accertare soltanto se il detenuto possa essere efficacemente curato senza sospendere la pena detentiva: egli è anche tenuto (in linea teorica) a compiere una valutazione della condizione complessiva della persona reclusa, che come tale trascende l’aspetto strettamente medico e implica la ulteriore verifica, se la reclusione provochi una sofferenza di intensità eccedente rispetto a quella normalmente insita nello stare in carcere. Certo, l’osservanza dei principi suddetti non può per altro verso far trascurare eventuali esigenze di tutela della sicurezza connesse alla possibile persistenza della pericolosità di un recluso pur ammalato e al paventato perdurare di suoi legami con ambienti criminali: ma, come la stessa Cassazione avverte, la persistente pericolosità, lungi dal poter essere presunta, va accertata sulla base di precise circostanze di fatto e tenendo appunto conto del sopravvenuto stato patologico e di ulteriori elementi personali quali ? non ultima ? la condizione di anzianità o vecchiaia. Di tutti questi principi e criteri che effettivo uso si fa nei diversi casi? Purtroppo, tra principi e prassi concreta (come deduco anche dalla mia esperienza di garante siciliano dei diritti dei detenuti) non di rado vi è più divario che concordanza. Tendenzialmente, la magistratura di sorveglianza propende per una concezione restrittiva dell’incompatibilità, facendo prevalere esigenze punitive e di sicurezza; e, specie di fronte a soggetti coinvolti nel crimine organizzato, essa mostra un atteggiamento di pregiudiziale diffidenza circa la veridicità delle perizie e consulenze tecniche, nel sospetto che i medici avallino patologie fittizie. Mentre, dal canto loro, i periti possono in effetti soggiacere per un verso alla pressione anche implicita derivante dalle aspettative di mafiosi insofferenti alla galera e, per atro verso, alla preoccupazione di essere sospettati di eccessiva compiacenza da parte dell’autorità giudiziaria. Due contrapposte pressioni, queste, che possono incidere sull’obiettività del giudizio clinico. A ciò si aggiunga che non sempre i giudici sono in grado di controllare, per ovvi limiti di competenza, la fondatezza tecnica degli assunti peritali. Se per tutte queste ragioni è scontato un margine più o meno ampio di discrezionalità, è anche vero che alcune motivazioni giudiziarie non reggono al vaglio di una critica rigorosa. Tra le motivazioni criticabili, rientra anche quella di recente prospettata per mantenere lo stato detentivo di Marcello Dell’Utri, a dispetto della grave patologia cardiaca, del sopravvenuto tumore alla prostata, dell’ipertensione arteriosa e del glaucoma bilaterale. Si è genericamente obiettato, nell’ambito dei primi commenti, che i giudici romani non hanno mostrato senso di umanità, che si sono accaniti punitivamente nei confronti di un politico condannato per collusioni con la mafia e per giunta restio a collaborare con la giustizia nonché amico di Berlusconi, che hanno riproposto il carcere come vendetta o hanno assecondato pulsioni moralistico-populistiche. Non è escluso che abbia inciso, anche inconsciamente, un po’ di tutta questa eterogenea ed irrazionale miscela. Ma ad apparire criticabile è proprio l’esplicito impianto tecnico della decisione, come emerge dalla sua parte conclusiva: nella quale si afferma che Dell’Utri deve rimanere in prigione perché (oltre a soffrire di patologie controllabili e fronteggiabili anche nello stato detentivo: ma fino a che punto è davvero così?) con le sue capacità intellettive “perfettamente integre” e in considerazione della sua età (?!), “pur in presenza del descritto quadro diagnostico, la pena può assumere il suo carattere rieducativo”. Orbene: è costituzionalmente corretto affermare in tal modo la priorità della finalità rieducativa della pena (che peraltro non può in linea di principio essere autoritativamente imposta ma, in ogni caso, presuppone la previa adesione psicologica del condannato) nei confronti di una persona non solo affetta da patologie così rilevanti da metterne in forse una lunga permanenza in vita, ma per di più giunta ad una età talmente avanzata (76 anni) da far apparire quantomeno problematica una rieducazione proiettata in una esistenza futura da vivere ancora fuori dalle mura carcerarie? Piuttosto, proprio se si tiene conto dell’età e della condizione complessiva di Dell’Utri, la pena carceraria - diversamente da quanto il tribunale ha opinato - finisce con l’esibire, più che un credibile carattere rieducativo orientato al futuro, il vecchio volto di una retribuzione rivolta al passato. Se così è, risulta avvalorato il dubbio che nel caso Dell’Utri (e lo stesso può accadere in casi simili) possano incidere sulla decisione giudiziaria pregiudizi e fattori eterogenei di condizionamento, non esplicitati in sede motivazionale, che si sovrappongono ai principi costituzionali e alle regole giuridiche in senso stretto. Tutto ciò non può non riproporre la grande questione del modello di cultura giudiziale che predomina oggi nella magistratura e del tipo di formazione tecnico-culturale che ai magistrati viene impartita. Il senso dell’Italia per l’architettura carceraria di Valentina Silvestrini artribune.com, 16 dicembre 2017 Ripensare gli spazi destinati alla reclusione è un obiettivo non ancora raggiunto dall’Italia. Eppure le idee e gli spunti non mancano. Sono trascorsi dieci anni dall’inaugurazione del Giardino degli Incontri nel carcere di Sollicciano, l’ultima opera cui si lega il nome di Giovanni Michelucci, entrata in funzione postuma. “Furono alcuni detenuti che proposero di progettare dentro il carcere un giardino per la città”, raccontò l’artefice della stazione ferroviaria di Santa Maria Novella a Firenze in un’intervista concessa a Paese Sera nel 1986. “Così nacque quella esperienza che considero tra le più belle e significative della mia vita”. Nonostante le lungaggini burocratiche che accompagnarono il processo edificatorio, la realizzazione del nuovo padiglione, destinato ai colloqui con le famiglie e dotato di un’area verde, resta una delle rare testimonianze positive di ripensamento dello spazio destinato alla reclusione: un processo ancora disatteso dal nostro Paese. Aperto nel 1983 ma progettato nel decennio precedente da Andrea Mariotti, Gilberto Campani, Piero Inghirami, Italo Castore, Pierluigi Rizzi ed Enzo Camici, il carcere di Sollicciano esprimeva i requisiti della Riforma dell’ordinamento penitenziario (1975), concepita per superare i modelli carcerari basati sul concetto di isolamento dalla società. La struttura, nella periferia ovest di Firenze, ricorre allo schema planimetrico denominato “a palo telegrafico”, fra le tipologie carcerarie più ricorrenti su scala nazionale, ritenuta idonea a “generare un asse viario in grado di favorire le relazioni di interscambio fra le varie attività svolte all’interno”. L’idea del Giardino fu alimentata dalla volontà, espressa dai detenuti attraverso la stesura di bozze progettuali, di superare i vincoli presenti negli spazi destinati ai colloqui e dal desiderio di attivare una forma di “apertura” verso la città. A ribadire il valore di quell’esperienza, che permise ad alcuni detenuti in semilibertà di operare con i collaboratori di Michelucci negli spazi della Fondazione intitolata al grande architetto, è oggi Alessio Scandurra. Responsabile, con Michele Miravalle, dell’Osservatorio adulti sulle condizioni di detenzione dell’Associazione Antigone - realtà attiva dagli Anni Ottanta nella promozione del dibattito sul modello di legalità penale e processuale del nostro Paese e nella divulgazione di informazioni sulla realtà carceraria nazionale - Scandurra è stato raggiunto da Artribune in seguito alla pubblicazione del XIII Rapporto sulle condizioni di detenzione, redatto dagli osservatori di Antigone. Dal suo punto di vista, l’Italia appare afflitta da una cronica carenza di concorsi di progettazione in questo specifico settore, con la conseguente scarsa adozione di idee innovative: il risultato è uno scenario pressoché immobile. I dati del Rapporto fissano a quota 191 le carceri attualmente in uso. Di queste, 15 sono state costruite prima del 1700; 3 tra il 1770 e il 1799; 21 tra il 1800 e il 1899; le restanti 152 risalgono all’intervallo compreso tra il 1900 e l’anno in corso. Siamo dunque di fronte “a un patrimonio vecchio, quando non vecchissimo”, afferma Scandurra. “Al di là dello stato di manutenzione e della data di costruzione, l’aspetto più allarmante è l’incapacità di questi edifici di rispondere alle esigenze attuali. Anche quelli ultimati più di recente, spesso però progettati molti anni prima, risalgono a una stagione in cui l’emergenza era la criminalità legata al terrorismo interno e alla lotta armata”. Per quei bisogni, dunque, si avanzavano soluzioni specifiche, considerate oggi inadatte di fronte al quotidiano disagio del sovraffollamento. Come indica il Rapporto, la situazione si attesta sulle “56.436 presenze del 30 aprile 2017, con una crescita di 1.524 detenuti in un semestre. Si tratta di un aumento tutt’altro che trascurabile. Anzitutto perché conferma una tendenza all’aumento dei numeri che avevamo già registrato nei mesi precedenti, ma soprattutto perché questa tendenza viene consolidata e appare in progressiva accelerazione”. A finire sotto la lente di ingrandimento, oltre alla capacità di assicurare garanzie minime nei singoli istituti - dai 3 mq individuali alle aree verdi, dagli spazi utilizzabili per attività lavorative al corretto funzionamento degli impianti - sono i percorsi e, soprattutto, le qualità intrinseche dei manufatti edilizi. “Da solo, il detenuto spesso non può spostarsi da una zona all’altra. Deve essere accompagnato anche a causa dei vincoli architettonici”, prosegue Scandurra. “Se avessimo carceri diverse, naturalmente nel rispetto delle esigenze di controllo visivo, si potrebbe conseguire anche una sorta di risparmio in termini di gestione del personale addetto. Inoltre, soprattutto gli edifici ultimati tra gli Anni Ottanta e i primi Anni Novanta, dimostrano sorprendenti segni di usura che inducono a mettere in discussione le qualità edificatorie”. Un’analisi a parte, infine, meriterebbero gli istituti cosiddetti storici sia in uso, sia dismessi nel corso del Novecento e confluiti nel patrimonio immobiliare del Demanio. “Se facessimo un giro nei centri storici delle nostre città analizzando le ex carceri, rischieremmo di imbatterci in edifici rimasti vuoti, sottoutilizzati, abbandonati. Un esempio interessante arriva dalla Toscana, dal recupero delle Murate di Firenze, un caso riuscito di intervento pubblico che oggi ospitano case popolari, spazi pubblici, culturali e commerciali”. Come sottolineato dall’architetto Alice Franchina, proprio nel Rapporto, indagare la dimensione spaziale del carcere implica sempre il coinvolgimento di una pluralità di aspetti: “Lo spazio non si dà in sé, ma come espressione di un’idea, e in particolare di un’idea di relazioni tra cose: dunque, da una parte, lo spazio del carcere e per il carcere dipenderà dall’idea della pena che si vorrà perseguire; dall’altro esso sarà il contesto nel quale nuove e inedite relazioni potranno instaurarsi”. E, dunque, il destino delle nostre carceri è inevitabilmente influenzato dal Paese che intendiamo diventare. La legge leghista contro il rito abbreviato? Un ritorno pericoloso al codice Rocco di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 16 dicembre 2017 La proposta di Nicola Molteni, che ha fatto litigare Forza Italia e Carroccio, abolendo una giustizia più veloce nel caso dei reati più gravi intacca proprio la certezza del diritto. Matteo Salvini si è arrabbiato perché non è stato possibile approvarla. Ma molto di più si sarebbero arrabbiati, se la legge fosse stata approvata, tutti coloro che hanno a cuore lo Stato di diritto e il giusto processo. Che dovrebbe essere anche veloce, come ci rimprovera costantemente l’Europa. Parliamo della proposta di legge del deputato della Lega Nicola Molteni che vuole eliminare il rito abbreviato per chi è accusato di aver commesso i reati più gravi. Una proposta che, dopo un passaggio morbido e indolore alla Camera (con l’astensione di Forza Italia), è planata al Senato in un fine di legislatura affollato di leggi ormai trasmesse al cassetto, mentre le forze di governo puntavano tutte le loro fiches sul “fine vita” approvato con larga maggioranza giovedì sera. La “Legge Molteni” è decisamente una proposta di propaganda elettorale e di ritorno ai principi del codice Rocco. Un passo indietro di 30 anni che oltre a tutto ha anche qualche profilo di incostituzionalità. Propone che per una serie di gravi reati non sia possibile applicare il giudizio abbreviato, uno dei cinque riti alternativi al giudizio ordinario previsti dal codice di procedura penale del 1989. Un deciso scivolone sul piano della civiltà giuridica, apparentemente un grido di dolore in difesa delle vittime, un allarme sociale contro gli sconti di pena che i riti alternativi prevedono a determinate condizioni. La Lega, impegnata in questi giorni anche per la modifica della normativa sul diritto di difesa, cioè di una norma ben funzionante emanata dal ministro leghista Castelli, ha lanciato lo slogan “se sbagli paghi” e ha preso di mira proprio il rito abbreviato, cioè quello che, come dice la parola stessa, consente di arrivare a una decisione certa in tempi molto rapidi proprio per quei reati che per la loro gravità comportano in genere tempi lunghissimi e rischi concreti di prescrizione. Così, nelle scorse settimane, quando la riunione dei capigruppo del Senato non ha messo all’ordine del giorno la Legge Molteni, ha pensato di proporre una corsia preferenziale e farla approvare in sede deliberante direttamente dalla commissione giustizia. Una procedura applicabile solo con l’unanimità dei consensi di tutti i partiti. È stato a questo punto che il senatore Giacomo Caliendo, un vecchio guerriero garantista di Forza Italia e il senatore Carlo Giovanardi del gruppo Ala hanno dato parere contrario e hanno fatto saltare il progetto. Sono stati subito accusati di “ipergarantismo”. Un complimento. Se due senatori esperti si sono messi di traverso, viene il fondato sospetto che la proposta avesse ampie possibilità di diventare legge. E questo apre pensieri pessimistici sia sui partiti come il Pd che alla Camera l’avevano già votata che della stessa Forza Italia che si era limitata all’astensione. Solo chi non ha letto e studiato può pensare di tornare al codice Rocco, abolendo la possibilità di accesso al giudizio abbreviato proprio per quei reati più gravi che comportano spesso indagini lunghe e complesse, tempi eterni e costi per la comunità. Ricordiamo brevemente in che cosa consiste: è un giudizio semplificato che consente all’imputato di godere della riduzione di un terzo della pena senza arrivare al dibattimento e senza testimonianze, ma solo sulla base dei risultati ottenuti dalle indagini di polizia. La prima conseguenza è la compressione dei diritti di difesa previsti dall’art. 24 della Costituzione. Proprio per questo motivo la rinuncia viene compensata con la riduzione della pena. Si tratta quindi più di giustizia bilanciata che non di privilegi concessi a chi ha commesso gravi reati. I vantaggi per la comunità e anche per le parti lese consistono nel fatto che ci sia la certezza del diritto, che i tempi siano rapidi e che si eviti la prescrizione, che si limitano i costi della giustizia. A chi obietta che comunque ci sarà per un assassino per esempio una condanna a 20 di carcere invece che 30 si può solo ricordare che la funzione rieducativa della pena (valore costituzionale) non ha senso se non esiste oltre alla certezza anche un termine, un fine pena. Altrimenti tanto varrebbe tornare alla pena di morte. E si spera che nessuno abbia anche questo retro-pensiero. Pignatone: “in Italia la giustizia è strumento di lotta politica” di Franco Stefanoni Corriere della Sera, 16 dicembre 2017 Il Procuratore di Roma: “Da noi l’avversario non è un naturale interlocutore come vogliono le regole della democrazia, ma è un ostacolo da abbattere”. “Il nostro è un Paese estremamente diviso, estremamente impegnato in contrasti politici, economici, sociali: la giurisdizione non solo risente di questo, ma le indagini e i processi diventano strumento di questo”. Lo ha affermato il procuratore della Repubblica di Roma, Giuseppe Pignatone, intervenendo al convegno “Giustizia penale e informazione giudiziaria” organizzato dall’Università di Firenze. Citando una recente intervista a Luciano Violante, Pignatone ha detto che “il problema consiste nelle caratteristiche peculiari della nostra lotta politica senza regole, senza limiti, senza attenzione per l’interesse generale: l’avversario non è un naturale interlocutore come vogliono le regole della democrazia, ma è un ostacolo da abbattere”. Pignatone ha parlato anche dell’inchiesta Consip. “La consegna di atti dell’inchiesta Consip agli organi di informazione è un reato e come tale va punito. La procura sta facendo un serissimo tentativo di trovare il responsabile o i responsabili ma è obiettivamente molto difficile”. Salerno: detenuto 48enne muore sul cellulare della Polizia penitenziaria di Petronilla Carillo Il Mattino, 16 dicembre 2017 Muore sul cellulare della Polizia penitenziaria mentre lo stanno accompagnando ad effettuare una perizia medica. È accaduto ieri mattina a Francesco Nisi, 48 anni, originario di Castelcivita e detenuto a Fuorni. L’uomo era in cella dallo scorso luglio quando, dopo l’arresto per estorsione nei confronti dei genitori, era evaso per quattro volte, a distanza di pochi giorni, dalla casa di cura La Quiete dove era ai domiciliari. Ieri mattina gli agenti della polizia penitenziaria lo stavano accompagnando a fare una perizia psichiatrica disposta dallo stesso giudice che, a luglio scorso, gli aveva dato i domiciliari al momento dell’arresto. Da tempo il suo legale di fiducia, l’avvocato Antonella Senatore, stava facendo pressioni con la direzione del carcere perché si attivasse la commissione Ubi che avrebbe dovuto stabilire il grado di capacità mentale del detenuto. Ma era stato deciso che lo stesso poteva seguire le terapie prevista anche da dietro le sbarre del carcere. A stabilire che Nisi aveva una situazione compatibile con il carcere era stato il medico interpellato dal direttore della casa circondariale. Questo, dietro istanza di interpello presentata dall’avvocato del detenuto, Antonella Senatore. L’atto di interpello dell’avvocato era volto a verificare la condizione di salute incompatibile con il regime inframurario. La relazione, mai ottenuta, sarebbe dovuta servire per sollecitare la riunione della commissione UVI, affinché relazionasse e servisse alla comunità che lo avrebbe dovuto prendere in cura. Ora la famiglia cerca chiarezza e risposte ad una morte inaspettata. Anche per capire se ci siano stati nei giorni precedenti situazioni che avrebbero dovuto comportare un approfondimento clinico delle sue condizioni di salute. Ieri pomeriggio l’esame esterno della salma, nella giornata di oggi il pm Carmela Polito dovrebbe decidere se rilasciare il corpo oppure incaricare un medico legale di eseguire l’autopsia. Sulla questione è intervenuto anche Samuele Ciambriello, garante regionale dei detenuti. “Nel rispetto dei limiti della mia azione e delle prerogative della magistratura - dice il garante regionale - intendo approfondire le dinamiche di queste due morti, quella di Salerno ieri e un’altra di Benevento per suicidio. È necessario e urgente rafforzare li servizi di salute mentale e potenziare il lavoro di equipe multidisciplinare. Dobbiamo lavorare tutti affinché le articolazioni psichiatriche non diventino dei mini-Opg”. Benevento: tragedia in cella, confermato il suicidio Il Mattino, 16 dicembre 2017 L’autopsia effettuata, all’ospedale Rummo dal medico legale Emilio D’Oro, sul corpo del detenuto trovato privo di vita nella cella del carcere di contrada Capodimonte ha confermato l’ipotesi del suicidio. Vincenzo Guerriero, 38 anni, si è impiccato nella tarda serata di mercoledì nel bagno della cella utilizzando il cordoncino di una tuta. Il magistrato della Procura della Repubblica di Benevento Assunta Tillo ha disposto l’autopsia, che ha confermato l’ipotesi del suicidio. Il medico legale tenuto conto che procederà a ulteriori accertamenti riferirà alla Procura entro novanta giorni. Il detenuto doveva scontare l’ergastolo per un omicidio avvenuto nel 2006 a Castellammare di Stabia. Era stato arrestato insieme ad un complice l’anno seguente e poi condannato nel 2009. Era pertanto da diversi anni detenuto nell’istituto di pena beneventano. Le sue condizioni mentali avevano spinto i responsabili del carcere a collocarlo in un apposita sezione riservata a coloro che hanno delle patologie mentali. Il gesto estremo è stato improvviso perché negli ultimi giorni, a dire dei preposti alla sezione, non aveva manifestato segni che potessero far presagire la decisione di porre fine alla sua esistenza. In precedenza nel corso di questo 2017 nell’istituto di pena beneventano c’erano stati altri tentativi di suicidio, sempre neutralizzati dall’intervento della polizia penitenziaria. Nei giorni scorsi era venuto alla ribalta della cronaca anche un caso di violenza, di cui era rimasto vittima un detenuto ad opera di un compagno di cella. Da qui l’emissione di un ordinanza di custodia cautelare per il presunto autore della violenza. Napoli: Secondigliano, i familiari dei detenuti “per i colloqui sette ore di attesa” di Giuliana Covella Il Mattino, 16 dicembre 2017 Sette ore di attesa, esposti al clima gelido di questi giorni e costretti a sostare in un’area dove la pulizia è scarsa. A descrivere il calvario dei familiari in visita ai detenuti del carcere di Secondigliano è G.R., un cittadino che attraverso una lettera aperta alla direzione del penitenziario denuncia le condizioni di disagio vissute dai parenti dei reclusi. “Lo scorso 8 dicembre - spiega - erano le 6.55 quando siamo partiti da casa mia al centro storico. Dopo due anni sono ritornato in quella specie di Lazzaretto che è il carcere di Secondigliano a trovare mio nipote. A partire dalle 11, orario in cui sono arrivato insieme a mia sorella e alla moglie di mio nipote, abbiamo superato il primo ostacolo dopo circa tre ore rimanendo alle intemperie, oltre che accanto alla sporcizia che ci circondava”. Ma stando alla testimonianza dell’uomo, una volta entrati, il calvario non si è esaurito lì: “abbiamo fatto altre tre ore di fila, sempre scomodi e in mezzo alla sporcizia. E infine abbiamo avuto un’ora di colloquio”. Un’odissea durata sette ore: “siamo usciti dal carcere alle 17.55, infreddoliti e stressati, oltre che digiuni. Senza contare che insieme a noi c’erano anche tanti minori, donne incinte e anziane”. Alla luce dell’esperienza vissuta G. si rivolge direttamente alla direzione dell’istituto di pena: “Ho avuto modo, considerato il lungo tempo di attesa, di riflettere su come potrebbe essere semplice organizzare un’attesa meno lunga e, soprattutto, più civile. Il primo errore che la direzione del carcere commette credo sia concettuale. Cioè considera il tempo dal punto di vista del detenuto che, avendo da scontare diversi anni di carcere, non bada al tempo impiegato per un semplice colloquio, mentre chi viene ai colloqui magari chiede un permesso al lavoro o a scuola, nel caso dei minori”. La seconda considerazione di G. riguarda l’area antistante l’ingresso della casa circondariale: “prima dell’entrata c’è un ampio slargo vuoto, tanto che vi possono parcheggiare migliaia di auto e rimane ancora tanto spazio. Ebbene vi potrebbe essere la possibilità di dare in convenzione 200 o 300 metri quadri, per allestire un punto ristoro consentendo a centinaia di familiari, che non sono colpevoli di nulla, tranne essere parenti dei carcerati, di aspettare il loro turno in maniera più civile. Restando al caldo d’inverno e al fresco d’estate, potendo mangiare se ne ha voglia, prendersi un caffè o utilizzare servizi igienici puliti. Purtroppo tutto ciò non avviene al carcere di Secondigliano e di questo come cittadino mi vergogno enormemente”. Pozzuoli (Na): Orlando presenta il progetto della maison Marinella per le detenute di Anna Paola Merone Corriere del Mezzogiorno, 16 dicembre 2017 Il ministro della Giustizia presenta il progetto della maison Marinella nel penitenziario di Pozzuoli. “Non mi sento di dire che Gomorra è una brutta pagina per Napoli. La differenza è però che qui tentiamo di dare una risposta fattiva, nel nome della qualità. Che parte da Napoli e punta al recupero della legalità”. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando parla del progetto che ha portato nel carcere di Pozzuoli un laboratorio di cravatte della maison Marinella. In mattinata è stato nella casa circondariale per visitare gli spazi dove è stato allestito un polo artigianale nel quale le detenute, sotto la guida di due lavoranti dell’atelier, hanno imparato a realizzare cravatte destinate a doni istituzionali e al personale della polizia penitenziaria. “Che a questo punto è la più elegante del mondo” celia Orlando, ricordando che oltre a Marinella sono coinvolti nel progetto Tod’s, Brunello Cucinelli e Zegna. Maurizio Marinella rivendica il primato del Mezzogiorno. “Impossibile resistere alla tentazione di sottolineare che siamo stati i primi. Il Sud ha battuto il Nord. Ed essere coinvolti in questo progetto è una grande emozione” dice rivolgendosi ad un parterre composto soprattutto da magistrati, nel salone degli affreschi del museo della maison in piazza Vittoria. Con Orlando, l’assessore regionale Chiara Marciani ed Enzo Moretta, presidente dell’ordine dei dottori commercialisti, Marinella firma un protocollo di intesa che fa seguito a quello che ha portato il savoir faire della maison in carcere. Un accordo in base al quale viene costituito un consorzio del quale faranno parte le detenute una volta uscite dal carcere, per mettere a frutto le competenze acquisite. “Si tratta di un progetto importante - sottolinea Orlando - perché il lavoro nelle carceri, non seriale, va aumentato. A prevenzione della recidiva. Il carcere é un luogo dove si può investire, il modello di altri Paesi è significativo, ed esperienze come queste possono essere moltiplicate. La riforma del sistema penitenziario è un tema molto importante dove abbiamo lavorato bene. E bene si è lavorato per questo progetto che, come mi ha detto il giovane Alessandro Marinella, è stato un investimento anche e soprattutto emotivo”. La previsione è di produrre 8mila cravatte l’anno corrispondenti a commesse per 60 mila euro. Si sofferma sulle ricadute pratiche del progetto Santi Consolo, capo del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, che sottolinea il coinvolgimento di aziende di alta gamma per l’iniziativa e il sostegno dell’ordine dei commercialisti che al progetto ha offerto consulenza e strumenti tecnici. Poi due detenute, in rappresentanza di tutte le altre, consegnano regali a Consolo e Orlando. Cravatte realizzate nel laboratorio di Pozzuoli. Quella per il ministro è di un colore rosso brillante, con una piccola fantasia. “Non saranno mica quelle della penitenziaria” scherza, prima di guardare un video che in quattro minuti racconta il laboratorio nel carcere e intreccia la speranza all’asprezza della detenzione. Occhi lucidi e applausi. Cassino (Fr): nel carcere nasce lo Sportello per i diritti dei detenuti di Teresa Valiani Redattore Sociale, 16 dicembre 2017 Sottoscritto il protocollo d’intesa tra l’istituto e l’università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale. Anastasìa: "Iniziativa che rafforza il sistema di garanzia dei diritti in un carcere che sta soffrendo molto il ritorno del sovraffollamento penitenziario. Spero di poter diffondere esperienze di questo genere in tutti gli istituti della Regione". Nasce lo Sportello per i diritti dei detenuti, dopo la firma del protocollo d’intesa tra carcere e Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale - Dipartimento di Economia e Giurisprudenza. A dare la notizia, dai social, il garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasìa. “Il protocollo sottoscritto oggi - spiega il garante a Redattore Sociale - consentirà alle persone detenute di avere un primo orientamento sui loro diritti attraverso una costante presenza in carcere di una equipe qualificata di docenti, tutor e studenti di giurisprudenza. Quando, all’esame dei singoli casi, dovesse emergere la necessità di un intervento istituzionale del Garante, i responsabili universitari del progetto potranno mettersi immediatamente in contatto con il mio ufficio”. Il Protocollo ha il fine di “supportare l’attività di monitoraggio e analisi del Garante presso la Casa Circondariale San Domenico di Cassino con i mezzi, le risorse e le competenze della Università attivabili attraverso uno “Sportello per i diritti” - si legge nel documento. Favorire l’effettività dei diritti e delle opportunità riservate alle persone in stato di detenzione. Promuovere il maggior collegamento tra i detenuti stessi e gli ambiti istituzionali preposti al trattamento penitenziario e al successivo reinserimento nella vita sociale. Rendere disponibili per i docenti e per gli utenti dell’Università occasioni di apprendimento e di esperienza professionale. Formare "operatori per i diritti" dei detenuti, selezionati sia tra i frequentanti dei corsi post-universitari (che riconoscerebbero a tale attività lo status di “tirocinio” essenziale al conseguimento dei relativi titoli di studio), sia tra detenuti dello stesso Istituto di Cassino”. “Si tratta - prosegue Stefano Anastasìa - di una iniziativa che rafforza significativamente il sistema di garanzia dei diritti in un istituto che sta soffrendo molto il ritorno del sovraffollamento penitenziario (oggi erano 140 i detenuti oltre la soglia regolamentare, alcuni dei quali alloggiati nel terzo letto a castello). Considerata la delicatezza del momento e la prossima approvazione dei decreti delegati di riforma dell’intero ordinamento penitenziario, spero di poter diffondere esperienze di questo genere in tutti gli istituti della Regione”. “Abbiamo accettato con grande entusiasmo il progetto dello Sportello sui Diritti proposto dal Garante - commenta l’avvocato Sarah Grieco, tra i responsabili dello Sportello. Anzi ringrazio personalmente Stefano Anastasia per aver pensato al nostro ateneo. Si tratta indubbiamente di una sfida completamente nuova ma siamo pronti a metterci in gioco per consentire ai nostri studenti di poter toccare con mano la difficile realtà carceraria. E al tempo stesso per fornire un supporto concreto ai detenuti e al garante stesso. Il carcere deve aprirsi alla società e questa è un’ottima occasione per tutta la nostra comunità”. Fossano (Cn): la Garante “il 50% dei detenuti più trasferiti è di origine straniera” di Agata Pagani targatocn.it, 16 dicembre 2017 La Garante delle persone ristrette Rosanna Degiovanni ha relazionato al Comune: i detenuti stranieri, avendo spesso pochi contatti all’esterno, sono quelli più facilmente spostabili. Lo scorso martedì 12 dicembre la garante delle persone ristrette nella libertà personale del Comune di Fossano ha relazionato di fronte ai gruppi consiliari riuniti in Commissione Politiche Sociali. Dalla relazione emerge una popolazione di 94 detenuti di cui 48 stranieri e 46 italiani a fronte di una capienza di 133 posti. La Casa di reclusione di Fossano è a custodia attenuata, ovvero i detenuti sono inviati a Fossano se devono scontare pene brevi o se la pena è giunta verso la fine, è dunque molto frequente il ricambio e i dati di popolazione sono molto variabili. A costituire il maggior flusso sono gli stranieri che a Fossano superano con il loro 50% la media nazionale del 36,5% e che sono i detenuti maggiormente spostati. Nei trasferimenti, infatti, vengono tenuti in considerazioni i legami con la famiglia e spesso i detenuti stranieri non ricevono visite avendo le famiglie lontane. Due sono i reati che hanno la maggior frequenza: la produzione e il traffico di sostanze stupefacenti, le rapine e i furti. Tra i 94 ristretti, tutti con sentenza definitiva, coloro che godono di benefici sono 24 (1 semilibero, 3 ammessi al lavoro interno, 12 al lavoro esterno e 8 permessanti). Le 13 persone che lavorano all’esterno sono impiegate in diverse strutture: 7 allo Sfap (Scuola di formazione per il personale dell’Amministrazione penitenziaria) a Cairo Montenotte, 4 alla Cascina agricola Pensolato di Sant’Antonio Baligio, 1 al Centro ippoterapico, e 1 come volontario alla Caritas. Viceversa le 3 persone impiegate in lavori all’interno si occupano di attività a carattere prevalentemente domestico nella zona non detentiva. Una costante difficoltà, che crea anche qualche preoccupazione ai detenuti, è la difficoltà di individuare progetti lavorativi che rappresentino una certa continuità, i posti di lavoro, sia all’esterno che all’interno sono infatti limitati e vincolati a progetti non sempre ripetuti con continuità. Il detenuto impiegato alla Caritas sta oggi lavorando proprio alla ricerca e stesura di bandi destinati a creare opportunità lavorative da estendere a chi gode dei benefici dell’Articolo 21. Ad oggi l’organico della Casa di Reclusione a custodia attenuata di Fossano prevede, oltre alla figura del Direttore, 3 educatrici e 1 psicologa per l’area trattamentale e per l’area della sicurezza 79 Agenti di Polizia Penitenziaria di cui 10 impiegati in attività amministrative. Per quanto riguarda l’Uepe (Ufficio Esecuzione penale esterna) di Cuneo a cadenza settimanale c’è un’assistente sociale che costituisce il tramite tra il carcere e le famiglie dei ristretti. I ristretti che non godono di benefici vengono impiegati in vari tipologie di attività lavorative domestiche assegnate in base ad una graduatoria e con il sistema della turnazione mensile (addetti alle pulizie, alla distribuzione pasti, alla lavanderia, lavapiatti). Solo alcuni lavori hanno una durata maggiore o sono fissi in quanto richiedono delle specifiche competenze (lo scrivano, addetti alla cucina, ai conti correnti, all’ufficio spesa, al magazzino, alla manutenzione della struttura). Coloro che sono in possesso di attestati di specializzazione hanno la precedenza sugli altri. Si tratta in ogni caso di posti molto ambiti soprattutto da quando la normativa ha previsto un sostanziale aumento della retribuzione di queste attività. A fine pena, infatti, al detenuto viene richiesto di corrispondere allo Stato un contributo per le spese di mantenimento sostenute. L’attività lavorativa interna e quella esterna permettono, oltre a contribuire al mantenimento delle famiglie, a iniziare la restituzione di questo debito che ogni detenuto, al momento del ritorno in libertà, ha nei confronti dello stato. L’istituto dispone di una biblioteca, locale costituito da due spazi ampi e luminosi aperti quotidianamente con una discreta scelta di libri. Ho messo in contatto la Biblioteca Civica con il carcere a cui sono stati forniti un buon numero di testi. Il servizio continuerà anche per l’anno prossimo. I ristretti possono praticare attività sportiva presso una piccola palestra fornita di alcuni attrezzi per esercitazioni individuali e nel grande cortile passeggi per attività sportive e di gruppo all’aperto come calcio, tennis, calcetto, pallavolo, ping pong e corsa. In collaborazione con il SERT di Savigliano da alcuni anni è attivo un corso per prevenire le dipendenze (alcol, droga, gioco d’azzardo) Sono inoltre attivi: un corso di disegno settimanale per 10 iscritti; un corso di teatro settimanale per 13-14 partecipanti; un corso di lettura quindicinale con 12 partecipanti. Questi corsi sono gestiti da volontari che hanno presentato un progetto in collaborazione con l’area educativa. L’istituto dispone anche di un teatro con una capienza di circa 70/80 posti, recentemente oggetto di un restauro i cui lavori sono stati tutti eseguiti dai ristretti, e di un aula per attività musicale dotata di alcuni strumenti, ma da inizio anno non è più attivo alcun corso, da quando cioè la volontaria che se ne occupava ha lasciato l’incarico. “Essendo questa attività di grande beneficio per i ristretti ed avendo io stessa avuto molte richieste affinché venisse ripresa, mi sono occupata di interessare la Fondazione Fossano Musica, tramite il Direttore Gianpiero Brignone - ha spiegato Rosanna Degiovanni -. Nell’incontro tenutosi a fine ottobre, al quale hanno partecipato anche la capo area educativa e la psicologa, abbiamo constatato la sua disponibilità e da subito ipotizzato vari e possibili percorsi coinvolgenti docenti dell’Istituto Baravalle. È di questi giorni la notizia che il Cda della Fondazione ha approvato il progetto “Musica in carcere” che ha ottenuto un finanziamento di € 2.000 dalla Fondazione CRT per 80 ore di attività a partire da gennaio 2018”. Anche per il corrente anno l’attività del garante è stata impostata e portata avanti su due fronti in modo parallelo. Sul fronte interno con la presenza bi-settimanale in istituto per colloqui individuali su esplicita richiesta dei ristretti, per visite nelle sezioni o negli spazi comuni in particolari occasioni, per incontri con la direzione e gli operatori. “In totale ad oggi ho effettuato 64 visite e tenuto 150 colloqui con 60 detenuti. Le problematiche che mi sono state sottoposte si possono riassumere in: difficoltà nella comunicazione e relazione con alcuni operatori, sia dell’area trattamentale che della sicurezza, esiguità di opportunità lavorative interne e quindi di un sussidio economico non comprensione dei meccanismi e dei criteri utilizzati nella graduatoria per l’impiego in attività lavorative /lamentele su disparità di trattamento tra ristretti e tra italiani e stranieri, la mancanza di risposte a istanze e domande di permessi da parte della Magistratura di Sorveglianza / risposte che giungono dopo un tempo di attesa eccessivo, troppe ore di permanenza nelle celle e limitate occasioni di socialità, impossibilità a rinnovare la patente di guida, problemi per ottenere sussidi di disoccupazione dall’Inps, difficoltà a trovare una sistemazione all’esterno dove essere accolti per poter ottenere i benefici di pene alternative, difficoltà ad incontrare i familiari perché troppo lontani o indigenti, richieste di aiuto rispetto alla propria situazione giudiziaria. Il quadro complessivo delle richieste tocca diversi aspetti delle criticità del sistema dell’esecuzione penale in Italia, dei quali ci occupiamo come garanti in sede di coordinamento sia regionale che nazionale perché necessitano di azioni programmatiche e congiunte. Per quanto è nelle mie facoltà personali e per quello che il ruolo istituzionale mi consente ho sempre cercato di perorare le cause, ritenute fondate, sia presso la direzione o presso i responsabili delle aree interessate, sia attraverso contatti diretti con la Magistratura di Sorveglianza e l’Ordine degli avvocati della provincia di Cuneo”. Un obiettivo raggiunto è quello del nuovo regolamento interno all’Istituto. Con il passaggio alla custodia attenuata, nel 2015, avrebbe dovuto essere modificato il regolamento con un cambiamento sostanziale del numero di ore dei detenuti a celle chiuse. La normativa, infatti, prevede che siano al massimo 8 le ore in cui i detenuti di un carcere di questo tipo devono restare nelle proprie celle a porte chiuse, mentre il vecchio regolamento prevedeva un’apertura dalle 8.30 alle 19. Il 23 ottobre scorso è entrato in vigore il nuovo regolamento che prevede le celle aperte fino alle 22. Entro le 20 i detenuti devono rientrare nell’area abitativa, ma possono restare nei corridoi e comunicare tra loro. Mancano ancora gli spazi di socializzazione, ma un ulteriore miglioramento è stato determinato dalla sorveglianza dinamica. Non c’è più l’agente al piano fisso, ma, grazie all’uso di videocamere, i detenuti possono avere una maggiore autonomia. Gli agenti percorrono l’area detentiva in gruppo e ne garantiscono la sicurezza. “Questa minore presenza degli agenti ha permesso ai detenuti di rilassarsi nei momenti di condivisione e sono già diminuiti gli episodi di tensione” Non ha viceversa ancora visto la luce il progetto per uno “sportello di orientamento legale” che possa supportare i ristretti impossibilitati a permettersi un legale qualificato, coloro che faticano a districarsi nelle maglie del sistema giudiziario e chi si trova alle prese con complicate questioni personali da risolvere. Sono stati fatti tutti i passaggi lunghi e necessari con la collaborazione del Garante regionale, dell’Ordine degli avvocati e della Camera Penale, nonché del precedente Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria. Sul fronte esterno con la collaborazione e partecipazione al gruppo di lavoro finalizzato all’individuazione di possibili situazioni alternative alla detenzione e/o al reinserimento per detenuti in uscita con la Caritas diocesana, le associazioni Cultura dal basso e Noialtri e il Cnosfap nella definizione dei progetti Manuattenzioni, Cascina Pensolato e Museo Social. Progetti che hanno preso avvio a partire dal gennaio scorso con Manuattenzioni e a marzo con Cascina Pensolato. Progetti, specie quest’ultimo, in fase di ulteriore sviluppo e che potrebbe vedere la partecipazione di altri possibili soggetti partner e il coinvolgimento oltre a un maggior numero di persone ristrette anche di altre fasce svantaggiate della popolazione (in particolare portatori di handicap fisici e psichici, disoccupati, immigrati). “Ho contribuito inoltre alla promozione ed organizzazione di eventi all’interno dell’Istituto su tematiche culturali che, oltre a costituire un momento di svago e riflessione per i ristretti, sono anche stati un’occasione di incontro ravvicinato tra il “dentro” e il “fuori” tra fossanesi e cittadini “temporanei” di Fossano” ha continuato la garante riferendosi agli incontri con Elvio Fassone e Marco Malvaldi, all’incontro dedicato a Caravaggio e a Cinedehors. All’incontro in Sala Rossa di martedì hanno presenziato la presidente del Consiglio comunale Rosita Serra, il capogruppo del PD Paolo Lingua, i consiglieri di maggioranza Marina Eandi, Diego Castellino e Marisa Isoardi e i consiglieri di minoranza Gianfranco Dogliani e Antonio Vallauri. Reggio Calabria: il Garante dei detenuti “basso il rischio di radicalizzazione nelle carceri” di Giusy Mauro calabriapost.net, 16 dicembre 2017 Il problema della radicalizzazione è un fatto che riguarda non solo i paesi arabi ma anche e, soprattutto, i Paesi europei, il nostro compreso. Un fenomeno, quello della radicalizzazione, che risulta difficile da prevenire ed intercettare sul territorio ma non nelle carceri dove, l’alto numero di detenuti a maggioranza mussulmana giunti nel nostro paese da clandestini, porta a pensare che il rischio di conversione e successiva radicalizzazione sia più alto. Tale rischio, è stato oggetto di una ricerca conoscitiva, condotta su tutto il territorio italiano commissionato dal dipartimento di amministrazione penitenziaria e dal Garante dei diritti dei detenuti. Questa mattina, a Palazzo San Giorgio nel Salone dei Lampadari, i due responsabili della ricerca, rispettivamente Garante dei diritti dei detenuti dei Comuni di Reggio Calabria e Brescia, Agostino Siviglia e Luisa Ravagnani, hanno presentato i risultati di questa indagine conoscitiva. All’incontro con la stampa, hanno preso parte, anche la direttrice della Casa Circondariale di Arghillà, Maria Carmela Longo e il sindaco Giuseppe Falcomatà. Una ricerca durata due anni e che ha interessato, da nord e sud, circa 175 detenuti, 165 di religione mussulmana e 10 di religione diversa come campione di controllo. Al gruppo di intervistati, tutti uomini, è stato sopposto un questionario con delle domande specifiche che riguardavano: nucleo familiare, religione, adattamento con la cultura italiana, ecc. “Ciò che è emerso - ha dichiarato Ravagnani - è che la possibilità di radicalizzazione in una condizione di disagio o discriminante, come è quella della detenzione, non viene avvertita dagli intervistati come un rischio”. Altro importante dato che merita di essere messo in evidenza, spiega Ravagnani, “sono le dinamiche o, i pericoli, che queste persone considerano come induzione alla radicalizzazione. Ecco, ciò che è emerge è, sicuramente, il dato discriminatorio. Una discriminazione che risulta essere sentita più all’interno dell’istituto di detenzione che al di fuori”. Ovviamente, come ha sottolineato la direttrice Longo, “le difficoltà di lingua, culturali, di comprensione delle regole vigenti nel nostro Paese, sono tra i principali ostacoli al processo di integrazione di queste persone”. La situazione, comunque, conclude il garante è da “monitorare costantemente”. For freedom of religion, questo il titolo del progetto, è da considerare come “un ulteriore elemento che certifica come la nostra cotta sul tema dell’accoglienza - ha dichiarato Falcomatà - è un attività, una rivoluzione culturale che si sta portando avanti nella città e che serve anche sotto profilo della sicurezza. Un approccio culturale di conoscenza e consapevolezza ed il progetto va in questa direzione”. Pesaro: il Garante dei detenuti “carcere strapieno, sezione sex offender la più affollata” Corriere Adriatico, 16 dicembre 2017 Colloqui con oltre 25 detenuti, tutti ansiosi di parlare con il garante Andrea Nobili. Nei giorni scorsi la tensione tra il personale di polizia penitenziaria e la direzione della casa circondariale di Villa Fastiggi, ieri la visita dell’Ombudsman su richiesta di carcerati. “Ho parlato con 25 detenuti tra uomini e donne - spiega Nobili all’uscita del carcere - le criticità che ci sono a Pesaro ci sono e sono le stesse che caratterizzano molte carceri della regione e italiani. Anche se qui ho notato una presenza maggiore di difficoltà. In questo momento c’è sovraffollamento. Da giugno a oggi il numero dei detenuti è cresciuto. In particolare a Pesaro la sezione dei sex offender ha un indice importante di sovraffollamento”. I sindacati Osapp e Sappe parlavano di “un carcere allo sbando a causa di una struttura che non è più in condizione di gestire le troppe tipologie di detenuti, con una presenza di soggetti dalla personalità particolarmente violenta, senza alcuna possibilità di diversa collocazione all’interno dell’Istituto”. Nobili non entra nella questione, ma aggiunge: “Tra le altre situazioni notiamo una presenza di cittadini stranieri provenienti dal Nord Africa, forse a Pesaro in percentuale il numero è il più alto delle Marche. È chiaro che per affrontare problematiche che nascono dal multiculturalismo è necessario intervenire con mediatori culturali. Un’esigenza reale. Così come occorre rispondere alla presenza soggetti con tossicodipendenze che non sono pochi e alla presenza di persone con problemi psicologici-psichiatrici”. Ferrara: Consiglieri comunali in carcere, per ascoltare le necessità dei detenuti estense.com, 16 dicembre 2017 Esponenti del Consiglio comunale hanno risposto all’invito della Garante dei detenuti. Ieri mattina (15 dicembre) un gruppo di consiglieri comunali si è recato alla Casa circondariale di Ferrara, dopo aver risposto all’invito della Garante dei diritti delle persone private della libertà personale Stefania Carnevale. Erano presenti il presidente del consiglio comunale Girolamo Calò e i consiglieri Ilaria Baraldi, Davide Bertolasi, Leonardo Fiorentini, Paola Peruffo e Alessandro Talmelli. La delegazione ha visitato con cura numerose sezioni detentive trattenendosi anche nella biblioteca, nelle aule scolastiche, nelle aree dedicate alla cucina e alle visite mediche. Durante la visita i consiglieri hanno potuto ascoltare le richieste dei detenuti e confrontarsi con il personale di polizia penitenziaria, dell’area sanitaria e di quella pedagogica, soffermandosi sulle questioni in cui la politica locale può essere maggiormente coinvolta: la formazione scolastica e professionale, il diritto alla salute, le questioni legate al rinnovo dei documenti, le difficoltà legate al reinserimento sociale dei condannati che terminano di scontare la loro pena. Attenzione e ascolto sono stati rivolti anche ai problemi del personale: dalle carenze di organico ai bisogni di formazione e sostegno avvertiti anche da chi lavora nella Casa circondariale. Le occasioni di contatto diretto della politica locale con il mondo del carcere vanno incentivate per diverse ragioni. Da un lato la possibilità di conoscenza non mediata dei luoghi di restrizione della libertà e delle attività che vi si svolgono può essere d’ausilio alle istituzioni per attuare interventi consapevoli in questo settore così rilevante e complicato. Dall’altro, la presenza dei rappresentanti politici può rappresentare per i detenuti un importante segnale di attenzione e di ascolto, in grado di incentivare la fiducia in quel sistema di regole che sono chiamati a riconoscere e rispettare. Napoli: carceri e disagio psichico, il 20 dicembre un convegno organizzato dal garante di Maria Beatrice Crisci ondawebtv.it, 16 dicembre 2017 “La salute mentale nelle carceri campane: fotografia in bianco e nero”. È questo il tema del convegno in programma il 20 dicembre alle ore 9 si terrà nell’Aula del Consiglio Regionale della Campania. “C’è un sommerso delle patologie psichiche nelle carceri campane che bisogna far emergere per porre fine allo stato di disagio e di abbandono in cui versano i detenuti e per creare delle strutture che siano vero e reale superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari”. Così ha sottolineato il Garante dei Detenuti della Regione Campania, Samuele Ciambriello. Secondo i dati della Società Italiana di Medicina e Salute Penitenziaria nel 2016 oltre 40mila detenuti soffrono di un disagio psichico, un disagio che può assumere anche forme molto gravi, come depressioni e psicosi, e che può portare anche a gesti estremi o a comportamenti autolesionistici - ha spiegato Ciambriello - che ha aggiunto: “nel solo 2017 sono stati 50 i suicidi nelle carceri di tutta Italia, 4 nella nostra Regione (1 Santa Maria C.V., 2 Poggioreale, 1 Avellino); nel 2016, in Campania abbiamo registrato 770 episodi di autolesionismo, 87 tentati suicidi, 2 suicidi, una escalation di disperazione e di morte che ha tra le sue cause la mancanza di strutture ed assistenza adeguata per questi detenuti che hanno patologie così gravi”. “A quasi 40 anni dell’approvazione della legge Basaglia che dispose la chiusura dei manicomi, la legge 81 /2014 ha dato avvio alla definitiva chiusura degli Opg, avviando l’apertura delle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems). In Campania - ha proseguito - sono stati definitivamente chiusi gli Opg di Napoli e di Aversa e sono state attivate 6 Articolazioni psichiatriche e 4 Rems che, però - ha sottolineato - sono insufficienti, se si pensa che a Napoli non ce n’è ancora nemmeno una. Inoltre, le Rems presenti in Campania sono strutture piccole, che possono ospitare un massimo di 20 persone, distribuite sul territorio, pensate come luoghi di cura e reinserimento sociale, luoghi che dovrebbero accogliere solo autori di reati giudicati infermi o semi-infermi di mente, ma anche socialmente pericolosi e non adatti a soluzioni totalmente restrittive - ha evidenziato Ciambriello, che ha avvertito: “nella realtà dei fatti, corriamo il rischio che esse diventino dei nuovi piccoli manicomi”. “Dopo un primo e lungo giro di visite in tutti gli istituti e le Rems della Campania, ho deciso di organizzare, quale primo evento pubblico del mio mandato, questo incontro sul tema della salute mentale - ha sottolineato Ciambriello - per mettere in connessione amministrazione penitenziaria, aziende sanitarie locali, la Regione Campania, i volontari del terzo settore, con la consapevolezza che la chiusura degli Opg è solo il primo passo verso una reale riforma della questione “salute mentale e carcere”. Al convegno parteciperanno, tra gli altri, il Presidente del Consiglio Regionale della Campania, Rosa D’Amelio, il Presidente della Commissione Regionale Sanità, Raffaele Topo, la Presidente della Commissione speciale Trasparenza, Valeria Ciarambino, il Provveditore regionale Amministrazione Penitenziaria della Campania, Giuseppe Martone, i magistrati di sorveglianza, Amirante, De Micco e Puglia e il direttore generale dell’Asl Napoli 1 centro Mario Forlenza, Franco Corleone, già commissario unico per il superamento degli Opg, le conclusioni sono del Sottosegretario di Stato alla Giustizia, Gennaro Migliore. Volterra (Pi): “Cene galeotte”, ai fornelli l’ex detenuto ora è uno chef di Laura Montanari La Repubblica, 16 dicembre 2017 C’è uno chef speciale stasera ai fornelli del carcere di Volterra per la cena galeotta natalizia. Si chiama Pierino Rosace ed è uno che ha imparato a cucinare da detenuto proprio nel carcere di Volterra: “Torno lì, ma non ci devo pensare altrimenti mi emoziono”. Quando ha finito di scontare la pena ha aperto un ristorante a Gioia Tauro. Del passato non vorrebbe parlare, ma poi è il passato che si fa strada nelle parole: “Non so cosa proverò quando passerò un’altra volta la porta e sarò lì dentro, da uomo libero. Preferisco non pensarci, sennò mi emoziono, mi agito”. La porta è quella del carcere di Volterra, un indirizzo che non si dimentica se lo hai vissuto sulla pelle con il nastro dei giorni che scorrono dritti come i corridoi. Se quelle stanze le hai viste dalle inferriate, dalle finestre con le sbarre, dagli orari scanditi per tutte le cose del quotidiano. Pierino ha vissuto lì. Ma questa è una pagina che ha voltato perché stasera lui tornerà in cucina con il cappello da chef. Sarà come una ripartenza, un podio, una battaglia vinta. Li preparerà Pierino Rosace i piatti che inaugureranno la nuova edizione delle "Cene galeotte" nel carcere di Volterra, una iniziativa che va avanti dal 2006, progetto realizzato dalla Casa di Reclusione con la supervisione artistica del giornalista Leonardo Romanelli (istruzioni su come partecipare su www.cenegaleotte.it, costo 35 euro, prenotazioni tel. 055.2345040) e grazie alla partecipazione di Unicoop Firenze che fornisce gli alimenti. Si comincia con la cena di Natale e con un cuoco speciale. Quarantanove anni, sposato e con due figli, Rosace oggi ha un ristorante a Gioia Tauro dove lavora tutta la famiglia, la Trattoria di Vico Scuro. “Quando mi hanno chiamato per chiedermi se volevo preparare una cena galeotta d’istinto ho detto sì”. I pensieri sono venuti dopo: “Certo, mi rigiro nel letto e penso: davvero ho detto sì? Mi concentro sul menù: antipasti calabresi, pasta con la ‘nduja e maiale nero di Calabria con patate. Non penso ad altro”. L’appuntamento con la cena galeotta natalizia è per stasera (le altre riprenderanno a marzo). Rosace è entrato in carcere che aveva 27 anni e ne è uscito 12 anni dopo, nel 2011, non dice per quali reati, ma precisa: “Non erano delitti di sangue”. Era comunque nel reparto di massima sicurezza. L’incontro con i fornelli è stato per caso: “A Volterra avevo preso il diploma di geometra con il massimo dei voti, facevo anche teatro con Armando Punzo… poi un giorno un ispettore mi ha chiamato per dirmi chiede se avessi voluto lavorare in cucina. La cucina in carcere è un posto delicato, ci sono etnie diverse, tradizioni da rispettare, è un posto in cui ci sono i coltelli… Però io ho accettato e mi sono appassionato”. Il destino di Pierino Rosace, prende così la strada della ristorazione: “Ho imparato molto in carcere e da tante persone, certe ricette le ho imparate da un boss della Locride”. Naturalmente non dice quale. Non sempre i ricordi si possono chiamare per nome. Bergamo: il vino dei detenuti all’ex carcere, per celebrare le "Vite in libertà" di Fabio Cuminetti bergamopost.it, 16 dicembre 2017 “Chi apre la porta di una scuola chiude una prigione”. Un aforisma attribuito a Victor Hugo che si applica perfettamente alla storia di Valelapena, vino prodotto con le uve coltivate dai detenuti all’interno della casa di reclusione Giuseppe Montaldo di Alba (Cuneo, nel cuore delle Langhe), imbottigliato dagli studenti dell’Istituto Enologico Umberto I, sempre ad Alba. L’evento all’ex carcere di Sant’Agata. A questa bottiglia virtuosa spetta l’apertura, oggi, venerdì 15, alle 18 all’ex carcere di Sant’Agata (Città Alta), della prima edizione di Vite in libertà - Tra agricoltura e utopia, tra cultura, bisogni e diritto alla felicità, una fiera di produttori di vini e cibi genuini organizzata dal Circolo Maite con il patrocinio del Comune di Bergamo. Si comprano e degustano i prodotti degli espositori presenti e ci si diverte. La manifestazione raccoglie piccoli produttori che puntano sulla qualità e sul rispetto per l’ambiente e per il territorio, con una distribuzione diretta e partecipata al di fuori dei grandi supermercati. Un’occasione, inoltre, per presentare progetti sociali importanti, come quelli appunto che nascono all’interno delle carceri. O nei territori palestinesi occupati. Il vino Valelapena prodotto dai detenuti della Casa Circondariale Giuseppe Montalto di Alba e vinificato ed imbottigliato dagli studenti dell’Istituto Enologico Umberto I di Cuneo. L’etichetta del formato magnum l’ha realizzata in esclusiva il fumettista Giampiero Casertano, autore per serie popolari quali Martin Mystère e Dylan Dog. Il tema. Non solo stand di vignaioli e aziende agricole, però, ma visite guidate, aperitivi, concerti e appuntamenti teatrali. Il tutto “costruito intorno a un filo conduttore comune - dicono gli organizzatori, quello della vite (la pianta) e delle vite (delle persone), che incontra il tema della convivialità, intesa come momento libero e condiviso di consumo dei prodotti della vite e del recupero del territorio come approccio alla coltivazione, rispettoso e partecipato, sganciato dalle logiche della grande distribuzione. La vita delle persone recluse come contrapposizione tra libertà e prigioni, la libertà di re-inventarsi e darsi nuove possibilità all’interno del carcere, e di re-inventare il modo di vivere gli spazi”. Gli appuntamenti. Oggi, venerdì 15, c’è l’aperitivo Liberi di Gusto (ore 18) già anticipato in apertura. Il vino Valelapena accompagnerà i prodotti da forno realizzati nella casa circondariale di Bergamo grazie al progetto Dolci Sogni Liberi della Cooperativa Calimero in collaborazione l’Associazione Carcere e Territorio. Domani, sabato 16, aprono gli stand. Per accedere agli spazi è richiesto un contributo di 5 euro con in omaggio il calice ufficiale dell’iniziativa per degustare i vini in vendita. Alle 19 è previsto l’Aperitivo Sotto Assedio, con la presentazione del progetto di rilancio della Cantina Cremisan, che comprende i vigneti di Beit Jemal e vuole contribuire al miglioramento delle condizioni di vita della popolazione”. Teatro. “Fine pena: ora”. Il giudice e l’assassino, il racconto di una vita di Gianfranco Capitta Il Manifesto, 16 dicembre 2017 “Fine pena: ora”, con la regia di Mauro Avogadro, affronta il problema bruciante dell’ergastolo. Ispirato al reale carteggio tra un magistrato e un recluso, interroga le certezze della democrazia. Il tema della durata della condanna all’ergastolo, con il suo inappellabile “fine pena mai”, torna di drammatica attualità con la campagna proposta su questo giornale Digiuna per la vita, rilanciata nello scorso fine settimana da un toccante e molto argomentato articolo di Maria Luisa Boccia. Per una volta, è confortante che una delle massime istituzioni teatrali nazionali, il Piccolo di Milano, presenti in fortunata coincidenza uno spettacolo che con il proprio pensiero e il proprio linguaggio, tocca proprio quell’aspetto della convivenza “civile”. Uno spettacolo che riporta una vicenda reale, ma curiosa e insolita: la corrispondenza epistolare, e quindi la conoscenza sempre più profonda, instauratasi tra un detenuto condannato all’ergastolo per una serie di reati, e il giudice stesso che quella pena gli aveva appena inflitto. Il giudice è Elvio Fassone, magistrato torinese, che poi ha deciso di pubblicare quel fitto carteggio da Sellerio, con il titolo significativo Fine pena: ora, ovvero l’espressione che il detenuto gli grida rabbiosamente il giorno in cui tenta il suicidio. Quel libro è arrivato ora in scena, con la regia di Mauro Avogadro, e lo stesso titolo “Fine pena: ora” (al Piccolo Grassi di via Rovello, repliche fino al 22 dicembre). Ed è uno spettacolo davvero impressionante, per la bravura dei due attori che rendono il problema bruciante e vicino, senza nasconderne i momenti di furia e quelli di coinvolgente dolcezza, in un percorso che dura ben ventisei anni. Sergio Leone è il giudice, con i suoi dubbi e i suoi slanci, sobrio ed efficace anche se fa trasparire la stranezza e la curiosità di quell’iniziativa “postale”; Paolo Pierobon dà grinta straordinaria a quel condannato a morte vivente, che colorisce (lui di origine veneta) di un dolorante, puntiglioso accento (e anche dialetto) siculo. Forte è l’oppositività che ne risalta, uno scontro ad altissima temperatura che pian piano si scoprirà contenere al suo interno una intesa (se non proprio un affratellamento) di due figure antitetiche della nostra società, il giudice e l’assassino, e quindi il galeotto, che secondo il banale senso comune verrebbe difficile accostare, mentre in questo dialogo a distanza ognuno dei due scopre una insospettabile ricchezza di “umanità” (con un’ombra di schematismo nella drammaturgia firmata da Paolo Giordano). Con una scansione quasi cinematografica nella scena parallela di Marco Rossi, la regia di Avogadro sottolinea tempi, immagini e parole di quell’avvicinamento, prima circospetto, sempre contraddittorio, infine straordinario. L’uomo recluso ripercorre grazie a quelle lettere la propria storia, di formazione e di deformazione; davanti a se stesso (e al magistrato, e ora al pubblico) si giudica e si comprende fino in fondo, in una lunghissima presa di coscienza. Un processo che non è estraneo anche all’altro personaggio, che trova l’occasione per mettere a nudo le certezze dei suoi studi e della sua professione, che poi dovrebbero essere la base della convivenza in democrazia. Sulla quale quella condanna all’ergastolo apre una ferita che non si rimargina. Libri. "Dall’omertà ai social. Come cambia la comunicazione della mafia", di Enzo Ciconte liberainformazione.org, 16 dicembre 2017 Un libro sulla mafia che mancava, scritto da uno dei maggiori storici del fenomeno: perché per capire le mafie bisogna saper ascoltare i silenzi. Enzo Ciconte analizza pregiudizi e luoghi comuni spiegando che si sta passando dall’omertà delle prime generazioni alla comunicazione social delle più recenti, fuori e dentro le carceri, con un’attenzione particolare all’espansione della ‘ndrangheta al nord e all’estero. L’analisi si apre agli aspetti di economia, politica e società con i nuovi ruoli delle donne e dei social network. “Dall’omertà ai social” arriva in libreria a inizio dicembre mentre televisioni e giornali raccontano la vicenda dei commenti di cordoglio per la morte di Totò Riina postati su Facebook, e le polemiche per l’immagine pubblicata dalla figlia del “capo dei capi” (una ragazza che mima il gesto del silenzio con scritto sul dito davanti alla bocca “shhh”). Solo pochi giorni prima, a Ostia, un post Facebook aveva portato all’aggressione di un inviato del programma Nemo da parte di un esponente del clan Spada, che sempre su Facebook ha poi giustificato l’aggressione. “Gli uomini della mafia”, scrive Enzo Ciconte, “hanno scoperto Facebook, WhatsApp, i social network per comunicare. Perché lo fanno? Perché i pilastri culturali sui quali hanno costruito la loro fortuna non reggono più. E allora hanno bisogno di mandare i loro messaggi, vecchi o nuovi che siano, con modalità moderne, che le nuove generazioni sanno padroneggiare. Gli strumenti usati sono nuovi, i messaggi un po’ meno”. "Dall’omertà ai social. Come cambia la comunicazione della mafia", di Enzo Ciconte. Edizioni Santa Caterina, Pavia 2017. pp. 184, euro 18. Solo la cultura può spezzare la spirale distruttiva del rancore di Chiara Montefrancesco Quotidiano di Puglia, 16 dicembre 2017 Non è bella la fotografia dell’Italia scattata dal Censis nel suo ultimo rapporto (e ben rappresentata da Fabio Calenda su questo giornale qualche giorno fa)! Lo spaccato sociale che ne vien fuori è triste. Sfiducia e negatività dominano i sentimenti dei più. La politica ne esce con le ossa rotte. Anche la ripresa economica (dimostrata dai consumi in crescita e dall’occupazione certo ancora in larga misura precaria, ma in aumento) molti stentano a percepirla. Addirittura la negano. Eppure c’è. E se la manovra attualmente in discussione in Parlamento non solleva proteste e contestazioni selvagge è soltanto grazie ad un Pil che cresce, e più di quanto tutti si aspettavano in Italia e fuori. Anche i rapporti Svimez e degli altri istituti meridionali confermano che sì, il Mezzogiorno ha preso una bruttissima botta negli anni tra il 2008 ed il 2014, ma dal 2015 in avanti mostra un dinamismo nuovo che fa ben sperare. L’agricoltura nelle sue forme familiari, moderne e rispettose dell’ambiente e della biodiversità, sempre più, richiama giovani pieni di progetti innovativi. Anche l’industria ha ripreso a marciare. Per non parlare del turismo che ha autostrade davanti a se, che aspettano solo di essere percorse. Già, ma che cosa può significare in concreto la sollecitazione a sottoporre a un processo di negoziazione collettiva anche gli algoritmi che regolano le piattaforme tecnologiche? E a quali componenti del mondo del lavoro intende rivolgersi? Sotto la definizione generale di “capitalismo delle piattaforme” finiamo per rubricare un po’ tutti i fenomeni economici del nostro tempo, raggruppando assieme i colossi digitali e le società di servizio minori. Il rischio è di parlare, indistintamente, delle imprese che stanno sotto l’acronimo di Gafa (Google, Apple, Facebook, Amazon) e le piccole organizzazioni ultra-snelle che si occupano di recapitarci la pizza a casa. Le prime rappresentano le imprese più ricche e capitalizzate al mondo: il Gafa più Microsoft capitalizzavano a settembre la cifra, difficile anche da pensare, di tremila miliardi dollari (e si tratta di un valore già superato perché da allora a oggi Wall Street ha continuato a correre). È una concentrazione di ricchezza con cui il mondo deve ancora imparare a fare i conti, tanto grandi sono le novità che essa presenta. Consideriamo soltanto la questione fiscale: soltanto adesso si stanno muovendo i primi passi nella direzione di far valere l’imposizione anche nei confronti di imprese che si sono rivelati abilissime nell’arte di eludere i vincoli della tassazione a ogni latitudine. Per quanto riguarda i problemi del lavoro, poi, il tema appare ancora più complicato. Anzitutto perché stiamo discutendo di organizzazioni che non producono oggetti, ma servizi (il marchio Apple, ricordiamolo, si applica a dispositivi tecnologici che vengono fabbricati in Cina, non negli Stati Uniti, a dispetto di Donald Trump, il quale vorrebbe che si producessero là). In secondo luogo, perché hanno bassa intensità di lavoro. Soltanto Amazon dispone di una presenza radicata a livello internazionale perché è, in primo luogo, un sistema logistico di consegne a domicilio. Non a caso, l’azione sindacale ha posto nel mirino Amazon perché è la società che ha il profilo meno lontano dalle imprese tradizionali e dunque appare vulnerabile all’arma dello sciopero, come è successo con l’agitazione nel giorno del “Black Friday”, quello che registra un picco dell’attività Financo lo sviluppo legato alla digitalizzazione dell’economia, all’applicazione dell’intelligenza artificiale ai processi produttivi, sta dando i suoi risultati. Insperati. Si diceva che il tessuto meridionale non era pronto! Le cose dimostrano il contrario. Una quota rilevante della nuova occupazione viene da lì! E allora? Perché questa percezione diffusa, soprattutto sui social, della negatività? Le foto di un’Italia arrabbiata risentono di qualche distorsione, magari legata all’uso di qualche lente-obiettivo eccessivamente macro che trascura i contorni, il contesto? O forse il clima da campagna elettorale che ormai dura da troppo tempo distorce l’approccio alla realtà e ne falsa la stessa percezione? Sono dubbi legittimi che scontano peraltro anche una lettura della realtà senza sfumature. In bianco e nero. Di colore nemmeno a parlarne. D’altra parte se la comunicazione dei Capi di Stato per decisioni con ricadute importanti, se non tremende, sui popoli e addirittura sull’intera umanità, avviene con i Twitter da 140 caratteri, se l’aumento dei caratteri di Twitter a 280 viene presentato come rivoluzionario, se i comuni mortali sui social, da Facebook in avanti, si rapportano con, e a, gli altri prevalentemente con le immagini ed i simboli, se la parola diviene sempre più rara e l’articolazione del pensiero praticamente è scomparsa, è ovvio che rimane solo il giudizio in bianco e nero. Non solo il colore ma anche le sfumature scompaiono! Gli immigrati? Tutti cinici approfittatori che rubano la vita ed i soldi agli italiani! E sono ricettacolo di terroristi per di più! Tap? È come Auschwitz! Ed il Gran Sasso come Fukushima! E la crescita del Pil? Frutto del caldo. L’Europa? Nido dei poteri forti e degli speculatori internazionali! L’Euro? La corda al collo che ci impicca! I politici? Tutti interessati alle poltrone! Le Istituzioni? Tutte mafia e corruzione o, al massimo, zavorre burocratiche! Ovviamente le cose non stanno così. C’è un sacco di gente che lavora e si impegna con passione per questo paese. E lo fa andare avanti. In famiglia, al lavoro, in fabbrica ed in ufficio, nelle istituzioni e dappertutto. Ci sono una miriade di Comuni che fanno il loro dovere. E bene. E ci sono politici e partiti, ministri e Istituzioni nazionali e locali che operano con passione e dedizione pur tra mille difficoltà. Ma allora, ancora una volta, quale, la ragione di questa deriva disfattista? Forse abbiamo perso l’abitudine a ragionare, ad approfondire le cose. A vederle nelle loro molteplici sfaccettature. I giudizi tranchant sono più sbrigativi e fanno più effetto. D’altra parte qualcuno, che si occupa del destino della nostra lingua, ha provato a saggiare la capacità degli italiani di comprende- commerciale. Ma anche qui siamo ai primi passi, compiuti peraltro da una forma di mobilitazione collettiva che è quella classica della rappresentanza sindacale. Un caso analogo, per certi versi, a quello che ha appena interessato i piloti di Ryanair, cui è andato un primo successo, dal momento che Michael O’Leary, il fondatore della compagnia, ha per la prima volta accettato il principio del confronto sindacale. Accanto all’universo delle maggiori piattaforme tecnologiche, vi è quello minore dei servizi che costituiscono l’arcipelago vasto e indefinito della “gig economy”. E siamo dinanzi a una realtà ancora più complicata e contraddittoria perché il mondo del lavoro è quello frantumato dei tanti lavori discontinui, privi di regolarità, che fuoriescono da un’identificazione precisa. È il mondo di cui recentemente sono diventati l’emblema i “riders”, cioè i “ciclo-fattorini”, quelli che svolgono la loro mansione spostandosi all’interno delle città a cavallo delle loro biciclette per effettuare le consegne. Sono lavoratori giovani che sempre più spesso vediamo nelle vie delle città europee e che si muovono pere la stessa nella forma scritta. Il risultato è noto ed è preoccupante, se non disastroso. Più o meno il 70% degli italiani hanno difficoltà a capire una frase complessa, ossia una frase che, oltre al soggetto, verbo e complemento oggetto, comprenda una subordinata. Sai, quelle frasette che metti tra virgole, per meglio esplicitare un concetto! Se vai sui social e ti imbatti in qualcuno che stigmatizza la scarsa cultura o la scarsa dimestichezza di qualche personaggio politico con l’italiano, la storia o la geografia, la scienza o l’economia, noti che il povero malcapitato viene sommerso da un fiume di commenti, scomposti e raffazzonati, a difesa dello sgrammaticato o dell’ignorante. Forse i social ed i politici ignoranti e sgrammaticati stanno sdoganando l’ignoranza stessa e il convincimento sempre più diffuso che lo studio non serve. E allora viva l’ignoranza e la sgrammaticatura ovunque si annidino. E se conquista la politica, meglio. Finalmente non dovremo sentirci inferiori rispetto agli Statisti, ai capi di governo, ai ministri di un tempo! Siamo tutti ignoranti e tra ignoranti. E quindi siamo tutti uguali e tutti in grado di fare i sindaci, i presidenti del consiglio o i ministri dell’economia (come una volta tutti potevano fare gli allenatori di calcio). Una volta l’ignoranza faceva paura e provocava vergogna, ma ispirava voglia di istruirsi e di mandare a scuola i figli! Oggi la si esibisce con sfrontata arroganza! Chissà, forse quei 250.000 giovani, per il 40% laureati, che negli ultimi dieci anni hanno lasciato questo Paese, lo hanno fatto, più o meno inconsapevolmente, anche per sottrarsi al ricatto sfrontato dell’ignoranza che invece devono subire, con tutto il resto, i loro coetanei rimasti in Patria! Forse bisogna ripartire dal recupero dei fondamentali della cultura, della lingua, dalla scuola, della scienza, per ricostruire questo Paese! Oggi è il tempo degli arrabbiati, di quanti vogliono farla pagare comunque a qualcuno, che preferiscono una foto, o, al massimo, una frase ad effetto (di quelle che girano su Facebook), un insulto, per comunicare. Forse, semplicemente, perché mancano degli strumenti per produrre un discorso critico articolato. La cosa peggiore è che la politica, certa politica che si annida ovunque, insegue e adotta rabbia e voglia di farla pagare. E asseconda, anzi alimenta quella rabbia e quella voglia. Ma è cattiva politica. Tornare a Don Milani e all’imperativo di sapere e conoscere per farsi rispettare e per rappresentare con dignità sé e gli altri? Tornare alla politica che deve selezionare i migliori per governare questo Paese? È indispensabile! Ma è indispensabile che già oggi onestà e sapere tornino a camminare insieme! Che anche la comunicazione a tutti i livelli torni a mostrare le sfumature ed i colori di una realtà che, con tutti i limiti, i difetti, gli errori, corre con le gambe di tanta, tantissima gente che, tutti i giorni, lavora per consolidarla e liberarla da quei limiti, difetti ed errori, per farla diventare migliore. Forse è tempo che quella tanta, tantissima gente che corre e fa correre l’Italia, si faccia sentire e restituisca il giusto contesto a quelle foto in negativo che danno un’immagine distorta e parziale, che non fa giustizia dei processi e delle dinamiche positive che percorrono l’Italia. In attesa del ritorno di nuove generazioni che rimettano sapere e cultura alla base del loro impegno e, perché no, delle loro ambizioni. I loro riferimenti sono app che servono a indirizzarli verso i luoghi dove sono chiamati a prestare il loro servizio. Con l’azienda che li impiega intrattengono un rapporto individualizzato e la remunerazione dipende dal numero delle consegne. Negli ultimi mesi, è stato avanzato il sospetto che le app siano tutt’altro che neutrali: insomma, i riders sarebbero discriminati in base a fattori quali la prontezza a effettuare il servizio e la celerità. Un rider che rifiuta certe consegne o che ci mette troppo tempo per farle sarebbe scartato rispetto ad altri più efficienti; peggio ancora, poi, se ha avuto parte in manifestazioni di protesta. Tali pratiche tuttavia sono state smentite da una società come Foodora. È possibile introdurre il principio della tutela sindacale in un ambito come questo? Secondo molti, “contrattare l’algoritmo” sarà pure un bello slogan, ma che si stenta a tradurre nella realtà. Per alcuni (per esempio per la cooperativa Smart) la soluzione è un’altra e sta, in un certo senso, nel recupero delle origini mutualistiche dell’organizzazione dei lavoratori. La via per la tutela di lavoratori come i riders starebbe non tanto in un vero e proprio sindacato (che nessuno riesce a immaginare), ma nella creazione di cooperative aperte in grado di offrire loro alcune garanzie (come un minimo di ore di occupazione, copertura assicurativa, ecc.). È una via che è stata sperimentata in qualche parte d’Europa, ma che si è scontrata con una legislazione del lavoro in cui i riders sono trattati come lavoratori autonomi a tutti gli effetti. In mercati del lavoro che sono caratterizzati da forti asimmetrie fra domanda e offerta, pensare a soluzioni sindacali classiche sembra improbabile, appunto per la fragilità e la discontinuità delle prestazioni di lavoro. La tutela dei riders non può essere affidata semplicemente al metodo della contrattazione, perché non esistono le condizioni per quest’ultima. Dunque, ha senso rispolverare la lezione storica del mutuo soccorso. Esso non basta comunque per risolvere l’altro grande nodo che sollevano le piattaforme digitali: un controllo sui singoli lavoratori molto più capillare rispetto a quello del taylorismo di una volta. In una società che, attraverso il sistema dei Big Data, tende a tracciare tutti i nostri comportamenti, anche come consumatori, questo è il versante più delicato. Biotestamento. Finalmente i giudici non decideranno della mia esistenza di Matteo Mion Libero, 16 dicembre 2017 Vivo, moribondo o decrepito temo i magistrati perché frequento i tribunali e li conosco bene: si salvi chi può! Ben venga quindi la legge sul biotestamento che sottrae l’ultima parola alle toghe e ci consente la libertà di crepare a piacimento. Veniamo al mondo senza che sia statuito per sentenza e gradiremmo andarcene con le stesse modalità. I più cattolici rimarranno attaccati all’ossigenatore sino alla fine, gli altri prenderanno commiato dopo l’ultimo bicchiere. Ammesso e non concesso che il giusto e l’ingiusto siano di questo mondo, ognuno stabilirà il proprio fine corsa rendendo conto alla propria coscienza e non all’anticamera del Padreterno, cioè la magistratura. Fino ad oggi il doppio vaglio sul fine vita era affidato in primo grado al giudice in carne ed ossa delle Corti e a quello più etereo dei cieli in appello. Con la nuova legge ognuno sarà padrone del proprio exitus e se un laico creperà in violazione di qualche dogma, risponderà solo alla propria coscienza. Non è certo cosa da poco. Qualsiasi reato e qualsiasi pena si estinguono con la morte del reo, quindi, una volta trapassati all’aldilà come ci pare, siamo fuori giurisdizione. Rispondiamo solo al tribunale di Dio, ma almeno ci evitiamo i carichi pendenti degli uffici giudiziari. Requiescat in pacem è il precetto divino e noi altro non chiediamo che un eterno riposo senza scocciature per l’anima dopo l’indigestione di terrena noia. Il mondo globalizzato ha tolto ogni valore alla resistenza ideologica contro la scelta di un’eutanasia programmata visto che con quattro spicci si può morire a piacimento in Svizzera e semmai a processo per favoreggiamento finisce l’accompagnatore e non il defunto. Ben vengano quindi le nuove disposizioni libertarie, ma non dimentichiamo che in caso di contrasti interpretativi tra parenti sul biotestamento del proprio caro, la questione torna alla magistratura ordinaria e bisogna pure pagare bolli e tassa di registro sulla decisione riguardante la nostra pellaccia usurata. Se non altro il giudizio divino è gratuito, quello terreno è cervellotico e costoso. Finalmente il Parlamento si è ricordato che la morte non è di destra o di sinistra e nemmeno del parroco, ma è l’estremo vagito di esistenza di ognuno di noi. Cotidie morimur scriveva Seneca: la vita e la morte meritano identico rispetto. E noi laici preferiamo andarcene in modo consapevole e silenzioso. Tunisia. Lina Ben Mhenni “porto i libri in carcere, per combattere i terroristi” di Laura Cappon Donna Moderna, 16 dicembre 2017 L’attivista tunisina Lina Ben Mhenni ha raccolto oltre 35.000 volumi e li ha donati a 15 penitenziari nel suo Paese. “La cultura” spiega “è il primo antidoto al fondamentalismo”. Portare i libri in carcere per combattere il radicalismo. È l’idea di Lina Ben Mhenni, attivista politica tunisina di lungo corso nonostante i soli 34 anni. Ha raccolto più di 35.000 volumi con i quali ha arricchito le biblioteche di 15 penitenziari tunisini, ossia la metà di quelli presenti nel Paese. L’iniziativa, partita da un post sul suo blog A Tunisian girl e condivisa sulle sue pagine social che contano centinaia di migliaia di follower, è sfociata in una catena di volontariato diffusa in tutto il Paese e oggi va avanti con successo anche grazie all’aiuto della World Organization Against Torture. “L’idea mi è venuta 2 anni fa, mentre seguivo un progetto di cineforum all’interno delle carceri” racconta Lina. “Durante le proiezioni ho avuto l’occasione di visitare le biblioteche. Erano quasi vuote e i funzionari non avevano i fondi per comprare altri libri. Ne ho discusso a lungo con mio padre, un ex prigioniero politico che nei suoi anni di reclusione aveva persino scioperato per avere la possibilità di leggere in cella. Così abbiamo stretto degli accordi con le amministrazioni che ci hanno permesso di iniziare a rifornire le loro biblioteche”. Per Lina non si tratta di un’operazione benefica fine a se stessa, ma di un antidoto autentico alla radicalizzazione, che secondo tutti gli analisti è un rischio concreto per i detenuti tunisini. Il Paese è infatti il maggior esportatore di foreign fighters: da 3.000 (stime del governo) a 6.000 tunisini (stime Onu) negli ultimi anni si sono uniti al Califfato in Libia, Siria e Iraq. Ma in seguito alle sconfitte militari subite dall’Isis in quei Paesi molti di questi combattenti stanno tornando in patria, creando instabilità politica. Le strutture carcerarie sono oggi al 217% della loro capacità e, spiegano gli esperti, gli oltre 1.600 uomini già reclusi per terrorismo entrano in contatto con altri detenuti, in condizioni igienico-sanitarie precarie e in un contesto in cui gli abusi della polizia restano spesso impuniti. “A causa della legge sull’uso di droghe leggere (una norma draconiana riformata solo lo scorso aprile, ndr) molti detenuti sono giovanissimi, studiano ancora e hanno bisogno anche di libri scolastici” continua Lina, che conosce bene le battaglie civili in Tunisia, tanto da essere stata candidata al Nobel per la Pace nel 2011 per il suo impegno nella rivoluzione. Ma la rivolta che ha rimosso il dittatore Ben Ali, di cui cade l’anniversario il 14 dicembre, è stata solo l’inizio di un lungo e travagliato percorso. “L’approccio per cui la sicurezza del Paese passa per l’arresto o la persecuzione dei presunti terroristi e delle loro famiglie non è efficace” osserva Lina. “Fino a quando il governo non capirà che l’estremismo va combattuto alla radice, offrendo alternative anche culturali e di pensiero, non ci sarà alcun miglioramento per la Tunisia”. Medio Oriente. “Giorno della collera”, uccisi quattro palestinesi di Michele Giorgio Il Manifesto, 16 dicembre 2017 Centinaia i feriti, tra i quali anche un poliziotto israeliano accoltellato da un palestinese. Gli scontri più gravi a Gaza. La Turchia intanto preme per il riconoscimento dello Stato di Palestina. Donald Trump ha calpestato il diritto internazionale e incendiato il Medio Oriente con il suo riconoscimento di Gerusalemme capitale di Israele. E dopo tutto questo il suo vice, Mike Pence, la prossima settimana andrà al Muro del Pianto nel settore est, arabo, occupato della città non in visita ufficiale bensì “in forma privata”. Scagliano la pietra e poi nascondono la mano. I padroni del mondo non hanno un briciolo di coerenza. Pence lunedì aveva anche rinviato il suo arrivo a Gerusalemme a causa delle proteste scatenate dalla dichiarazione di Trump, dando come motivazione ufficiale il voto al Senato Usa sulla riforma fiscale. L’incendio intanto si allarga. La “giornata della collera” proclamata dai palestinese nel venerdì delle preghiere islamiche si è conclusa con tre palestinesi uccisi dai militari israeliani, due a Gaza e uno in Cisgiordania. Morto anche un quarto palestinese, Mohammed Aql, ad al Baloua, alla periferia orientale di Ramallah. Dopo aver accoltellato e ferito a una spalla un ufficiale della guardia di frontiera israeliana, gli altri militari gli hanno sparato tre colpi a freddo, mentre si allontanava. I palestinesi parlano di una esecuzione a sangue freddo e in rete è virale il video che mostra l’accaduto. Gli israeliani da parte loro denunciano che Aql indossava una cintura esplosiva (ben visibile nelle foto pubblicate da molti siti), tuttavia ieri sera non era ancora chiaro se fosse vera o finta. Il tributo di sangue più alto l’ha pagato ancora una volta Gaza dove nei giorni scorsi erano già stati uccisi due palestinesi dal fuoco dei soldati, lungo le linee di demarcazione tra Israele e Gaza. Altri due palestinesi erano morti nei raid aerei compiuti dall’aviazione israeliana dopo il lancio di razzi palestinesi. Ieri sono stati colpiti alla testa ed uccisi, Ibrahim Abu Thuraya, 29 anni, e Yusef Sukkar, 32 anni, quando migliaia di manifestanti si sono avvicinati alle barriere di confine. I feriti sono stati decine, 164 secondo i dati forniti dal ministero della sanità palestinese. Abu Thuraya era un disabile, ferito in un passato bombardamento israeliano aveva perduto le gambe ed era confinato su una sedia a rotelle. Violenti sono stati gli scontri in Cisgiordania dove Basel Ibrahim è stato colpito durante una manifestazione ad Anata da proiettili esplosi dai soldati. Manifestazioni sono avvenute alla periferia di Nablus e in molti altri villaggi e cittadine cisgiordane, come non avveniva da anni, e questo - mentre tanti ripetono che non ci sarà una nuova Intifada palestinese - indica che la mossa unilaterale di Donald Trump su Gerusalemme ha messo in moto una reazione popolare largamente spontanea, con un coinvolgimento minimo dei partiti e dei movimenti politici tradizionali. L’Autorità Nazionale del presidente Abu Mazen ha deciso di frenare solo in parte la rabbia popolare pur sapendo che questa rivolta a bassa intensità potrebbe trasformarsi da una palla di neve in una valanga capace di travolgerla. Spontanee e sempre più ampie sono pure le proteste a Gerusalemme Est. Ieri la polizia israeliana non ha posto limiti all’ingresso dei palestinesi sulla Spianata della moschea di al Aqsa ma ha transennato e blindato tutta l’area della Porta di Damasco, l’ingresso principale della città vecchia. Poi, una volta terminata la preghiera di mezzogiorno, non ha disperso spesso con brutalità e qualche pestaggio gruppetti di palestinesi che inneggiavano a “Gerusalemme araba” e premevano sugli sbarramenti. I fatti più gravi nella città vecchia sono avvenuti, ancora una volta, davanti alla IV Stazione di via Dolorosa. Gli agenti, non appena il corteo uscito dalla Spianata ha cominciato a premere sullo schieramento di polizia, sono intervenuti con spintoni e colpi contro i dimostranti. E non si sono mostrati “bendisposti” neanche con i giornalisti presenti. Scene di violenza che si sono ripetute pochi minuti dopo alla Porta di Damasco, in seguito alla chiusura temporanea dell’uscita dalla città vecchia ordinata dalla polizia. Non si conosceva ieri sera il numero dei feriti palestinesi a Gerusalemme Est. Tra i contusi ci sono alcuni poliziotti. Resta movimentata anche la scena diplomatica. La Turchia, tra i Paesi più critici della dichiarazione di Donald Trump, ha fatto sapere che chiederà alle Nazioni Unite di annullare il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele annunciato dalla Casa Bianca. E in caso di fallimento, ha aggiunto, si rivolgerà direttamente all’Assemblea Generale. Il presidente turco Erdogan ha anche annunciato iniziative a favore del riconoscimento internazionale dello Stato di Palestina. Ankara, come il Libano, ora sostiene di voler aprire un’ambasciata a Gerusalemme Est, capitale della Palestina. Noi con Djalali, che non deve morire in Iran di Elena Cattaneo La Repubblica, 16 dicembre 2017 Ahmadreza Djalali, ricercatore iraniano, sta per essere giustiziato. Dal 2016 è detenuto a Teheran, accusato di spionaggio; gli appelli per la sua liberazione sono caduti nel vuoto. È stato messo a morte nonostante abbia sempre rivendicato la propria innocenza. Ci sono forti sospetti che il suo diritto alla difesa sia stato calpestato e che i suoi avvocati non siano riusciti a presentare l’appello, spiazzati, loro per primi, dalla decisione della Corte suprema di confermare la condanna. La mobilitazione per salvare Djalali ha coinvolto le diplomazie di Italia, Svezia e Belgio, Paesi con le cui università il ricercatore ha collaborato, 75 premi Nobel e le principali associazioni per i diritti umani; al Senato, con Luigi Manconi e Elena Ferrara, abbiamo presentato un’interpellanza urgente sulla vicenda, sottoscritta da 130 senatori; alla Camera l’onorevole Pia Locatelli e oltre 50 colleghi hanno investito il governo del tema. Il viceministro Mario Giro ha ribadito l’impegno costante sul caso. La petizione per Djalali su Change.org ha più di 260.000 firme. La Federazione italiana diritti umani ha lanciato un appello all’Unione europea affinché vengano richiesti all’Iran, al più alto livello diplomatico, chiarezza sul caso e un giusto processo. Quanto fatto a tutti i livelli non è bastato: Djalali deve morire. Ma oggi è ancora vivo, ha 46 anni, una famiglia, due figli, è uno scienziato conosciuto e rispettato che dedica la vita alla medicina dei disastri. È probabile che questi siano gli ultimi giorni utili per scongiurare un’esecuzione che getterebbe cupe ombre sulla collaborazione scientifica tra i Paesi del mondo libero e l’Iran. Come possono Università ed Enti di ricerca continuare a collaborare con l’Iran nonostante il rischio che i propri ricercatori siano parimenti arrestati, senza prove e senza garanzie processuali? Nella persona di Djalali, l’intera comunità scientifica e la stessa libertà di ricerca sono sotto attacco. Nulla sarà possibile senza un impegno politico internazionale più risoluto di quello che finora è stato. Per questo mi rivolgo all’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri, Federica Mogherini, affinché, in forza di quello spazio di libertà che l’Europa rappresenta nel mondo, si rechi di persona in Iran, ad accertare la sorte di Djalali, esigendo quella trasparenza e quel rispetto dei diritti umani fondamentali che finora sono mancati. Da rappresentanti di uno Stato democratico non possiamo permettere che un uomo venga giustiziato sulla base di accuse che ha sempre negato, senza conoscere le prove che hanno portato alla condanna, senza la possibilità di un appello, senza un giusto processo. Valutare di sospendere la partecipazione del nostro Paese ad accordi che facilitano l’interscambio accademico tra Italia e Iran sarebbe doveroso: il ripristino dei diritti umani e civili di tutti i "Djalali" dev’essere una condizione necessaria perché l’Italia, insieme ai Paesi coinvolti, prosegua il rafforzamento delle relazioni con l’Iran. Stati Uniti. I quadri dei detenuti di Guantánamo in mostra a New York rivistastudio.com, 16 dicembre 2017 Acquarelli, dipinti a olio, sculture: una mostra raccoglie le opere realizzate dai carcerati di una delle prigioni più tremende del mondo. In un articolo del New Yorker Alexandra Schwartz racconta le storie di alcuni detenuti di Guantánamo, tra cui quella di Djamel Ameziane, arrivato al centro di detenzione di Guantánamo Bay poco dopo la sua apertura, all’inizio del 2002. Cittadino algerino, Ameziane aveva lasciato il suo paese all’inizio degli anni novanta, durante la guerra civile, e cercato rifugio prima a Vienna, dove lavorava come chef, poi a Montreal e infine in Afghanistan. Quando gli Stati Uniti, nel 2003, invasero il Paese, Ameziane cercò di attraversare il confine con il Pakistan, ma fu catturato da un gruppo di cacciatori di taglie e consegnato all’esercito americano per cinquemila dollari. A Guantánamo fu messo in isolamento e torturato. Non è mai stato accusato di un crimine e i suoi avvocati hanno insistito: è stato vittima delle circostanze. Nel 2008, teoricamente, il suo rilascio è stato autorizzato, ma lui non aveva nessun posto dove andare. Gli Stati Uniti volevano rimandarlo in Algeria, lui temeva per la sua sicurezza. Insomma, senza aver mai commesso nessun crimine, colpevole soltanto di aver cercato di salvarsi la vita, Ameziane è rimasto in carcere dieci anni: gli ultimi cinque li ha passati a dipingere acquarelli. Questa è solo una delle storie raccontate da Alexandra Schwartz nel suo articolo, che in realtà non è un’inchiesta sulle storie dei detenuti di Guantánamo, ma la recensione di una mostra, quella che inaugurerà a gennaio a New York al John Jay College of Criminal Justice e riunirà tutte le opere pittoriche realizzate dai prigionieri, sia quelli ormai liberi che quelli ancora incarcerati. C’è sicuramente qualcosa di molto importante in questi disegni, pitture, acquerelli e sculture. È toccante pensare che i detenuti di uno dei carceri più tremendi del mondo abbiano trovato rifugio tra i pennelli e i fogli di carta: ma ancora più toccante è notare come molte delle loro opere siano dedicate al mare e a tutto quello che rappresenta. Non per niente la mostra si intitola “Ode to the Sea: Art from Guantánamo Bay”.