Diritti (e doveri) effettivi: il carcere come risorsa per più coesione sociale di Renato Balduzzi Avvenire, 15 dicembre 2017 La cronaca di questi mesi ci ripropone il tema della funzione della pena e della compatibilità tra tutela dei diritti fondamentali e condizione carceraria. In alcune discussioni non traspare tuttavia una sufficiente consapevolezza della portata necessariamente generale delle proposte avanzate: non ci possono detenuti di serie A e detenuti di serie B, quello che viene chiesto per uno deve valere per tutti, a parità di situazioni e presupposti. In queste settimane poi, l’attesa dei decreti legislativi, attuativi della legge delega n. 103/2017, aggiunge interesse al tema. Proprio in questa materia, è stato presentato ieri (all’Università di Roma 3 dal prof. G.M. Flick, dall’avvocato De Federicis e da chi scrive) il volume, curato da Marco Ruotolo e Silvia Talini, “I diritti dei detenuti nel sistema costituzionale”: un libro con finalità sia scientifiche sia didattiche, nel quale gli autori, in larghissima parte giovani studiosi, aiutano il lettore a muoversi in un mondo complesso, evitando semplificazioni e ideologismi preconcetti. Filo rosso del libro è la proposta di far entrare dentro all’universo carcerario e al diritto che lo regola, quello penitenziario, il diritto costituzionale: inteso non solo, secondo la nota immagine di Santi Romano, come tronco dal quale si dipartono i diversi rami del diritto, ma proprio come linfa che li penetra dall’interno, il cui nucleo è costituito dalla nozione di dignità umana, mai scalfibile né incrinabile, che costituisce l’identità di una collettività organizzata. Si tratti della tutela della salute o dell’accesso all’istruzione, della libertà religiosa o del diritto-dovere del lavoro, dell’esercizio di libertà collettive o della riservatezza delle comunicazioni, la prospettiva da perseguire dovrebbe essere quella di rendere effettive le regole costituzionali e legislative: è allargando le tutele, con le cautele e la prudenza che le situazioni esigono, che si può vincere il rischio di recidiva e dare un significato reale alla funzione rieducativa della pena. Così pure, è dando alla magistratura di sorveglianza risorse e attenzione che potrà ancor di più rappresentare un raccordo tra amministrazione penitenziaria e detenuti, a vantaggio di tutto il corpo sociale (e forse il Csm potrebbe rinnovare il monitoraggio delle buone prassi organizzative nei rapporti tra tale magistratura e gli istituti di pena). Infine, accanto ai diritti, i doveri, che nella prospettiva della Costituzione hanno carattere orizzontale e solidale: la loro declinazione può rafforzare una condivisa cultura della pena in senso costituzionalmente orientato, così da trasformare il carcere da luogo da rimuovere, o le cui problematiche siano da delegare solo a specialisti, in una risorsa per più coesione sociale. Oltre il 75% dei detenuti convive con disturbi mentali di Valentina Stella Il Dubbio, 15 dicembre 2017 Per Luciano Lucanìa, Presidente della Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria “la perdita improvvisa di libertà e la detenzione incidono sulla psiche”. Ha fatto tappa questa settimana al carcere romano di Rebibbia il “Progetto insieme - Carcere e salute mentale”, un’iniziativa nazionale che mira a far luce sulle condizioni dei detenuti con disturbi mentali (depressione, disturbi della personalità e disturbi psicotici) e a migliorare la loro gestione. Il progetto, patrocinato dal ministero della Salute, è promosso dalla Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria, dalla Società Italiana di Psichiatria e dalla Società Italiana di Psichiatria delle Dipendenze, e ha coinvolto diverse figure che operano dentro le car- ceri per sviluppare un nuovo Percorso Diagnostico Terapeutico Assistenziale (Pdta) per la gestione e il trattamento dei detenuti che soffrono di malattie mentali. Dietro le sbarre la prevalenza dei disturbi mentali è nettamente più alta rispetto alla popolazione generale. Le stime indicano infatti come il 4% dei detenuti sia affetto da disturbi psicotici contro l’1% della popolazione generale; la depressione colpisce invece il 10% dei reclusi contro il 2-4%. A far paura sono anche le cifre dei disturbi della personalità con cui convive il 65% dei reclusi, una percentuale dalle 6 alle 13 volte superiore rispetto a quella che si riscontra normalmente (5-10%). “In carcere le malattie mentali hanno un’alta prevalenza: si stima - spiega Andrea Fagiolini, Direttore della Clinica Psichiatrica e della Scuola di specializzazione in Psichiatria dell’Università di Siena - che oltre il 75% dei detenuti convivano con un disturbo mentale. Questo perché se da un lato molti disturbi psichiatrici possono associarsi con un’alta prevalenza di reati, dall’altro la carcerazione e l’ambiente carcerario possono essere fonte di stress che può portare in casi estremi anche al suicidio. Di fronte a questo scenario è importante aggiornare i protocolli di intervento e i relativi prontuari terapeutici delle carceri italiane, incorporando le strategie e trattamenti che oggi abbiamo a disposizione, inclusi i farmaci antipsicotici long acting di nuova generazione”. “La perdita improvvisa di libertà e lo shock derivante dalla detenzione - commenta Luciano Lucanìa, Presidente della Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria - sono tutti traumi che incidono sulla psiche dei detenuti, che non sempre hanno la forza interiore di reagire. Da non sottovalutare poi l’impossibilità di comunicare con l’esterno: si passa da un “fuori” che oggi è caratterizzato da comunicazione immediata e social, ad un “dentro” il carcere, dove la persona si trova improvvisamente tagliata fuori dal mondo, senza possibilità di parlare con amici e parenti, senza cellulare o internet. Così i suoi contatti sono limitati ai colloqui con il proprio avvocato, con la famiglia e a qualche programma televisivo. Si tratta di esperienze che a livello psichico possono lasciare segni molto forti, trasformando il carcere in luogo dove possono nascere ed esplodere problematiche di tipo psichiatrico”. Riabilitazione dei detenuti, l’esempio virtuoso degli orti sociali di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 dicembre 2017 Tante attività rivolte ai reclusi: dal Trentino alla Lombardia e alle Marche. La riabilitazione e l’abbattimento della recidiva passa anche attraverso l’orto. In diversi istituti penitenziari, grazie a vari protocollo d’intesa siglati con diverse aziende o cooperative sensibili al recupero dei detenuti, da qualche anno si dà ai ristretti la possibilità di gestire autonomamente la coltivazione dell’orto. Tante sono le attività operative che prevedono la formazione dei detenuti attraverso corsi su orticoltura, apicoltura, produzione della birra, gestione di uliveti e tanto altro. Ad esempio, presso la Casa di reclusione di Ancona “Barcaglione” l’orto “sociale” triplica l’esperienza già avviata dal 2014. Il progetto, promosso dalla Regione Marche con il Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria Emilia Romagna - Marche, per favorire l’inserimento lavorativo di persone in esecuzione penale o ex detenuti, verrà esteso anche alle carceri di Ancona “Montacuto” e Ascoli Piceno. Lo prevede un protocollo d’intesa approvato dalla Giunta regionale che sarà sottoscritto, nelle prossime settimane, con il Provveditorato. “La Regione ha iniziato, da diversi anni, un percorso di sperimentazione dell’agricoltura sociale per valorizzare la multifunzionalità dell’azienda agricola - evidenzia la vice presidente Anna Casini, assessore all’Agricoltura. Una diversificazione che coinvolge gli orti biologici scolastici, la longevità attiva in ambito rurale e gli istituti penitenziari. La positiva esperienza di rieducazione e di formazione dei detenuti del carcere di Barcaglione verrà ora estesa ad altre due strutture di detenzione marchigiane. L’agricoltura rappresenta, infatti, un’ottima opportunità rieducativa, in quanto la persona ha un rapporto diretto con il prodotto del proprio lavoro e la verifica del risultato è immediata, contrariamente a quanto avviene con lavori ripetuti, automatici e standardizzati”. L’organizzazione delle attività di formazione dei detenuti e dei tutor, l’assistenza tecnica e operative nella gestione degli orti saranno curate dall’Assam, l’Agenzia per i servizi agricoli della Regione. Altri esempi non mancano. Tra le mura della Casa circondariale Spini di Gardolo (Trento) sorge un terreno di 9000 mq chiamato non a caso “Galeorto”. Si tratta di una iniziativa promossa dalla cooperativa sociale La Sfera. L’esperienza, nata nel 2015 e proseguita nel 2017, ha visto diversi detenuti impegnati nel coltivare le ampie aree verdi presenti all’interno della struttura. I prodotti principali sono lo zafferano, erbe medicinali, ma anche cavoli che diventano crauti per il mercato della filiera equosolidale. Ora la sfida prefissata da La Sfera è quella di “uscire” dal carcere, per esempio trovando spazi esterni coltivabili a orto su cui permettere di lavorare detenuti in Articolo 21, ovvero in esecuzione penale esterna. D’altronde la coltivazione di “orti urbani” stanno prendendo piede in Italia da tempo, ecco perché ora approda anche nelle carceri. In Toscana, ad esempio, si sperimenta con frutta e verdura. A ottobre è stato siglato un accordo tra il Comune e la Casa di reclusione di Volterra, per consentire ai detenuti di curare una produzione ortoflorovivaistica destinata alla cucina. “Grazie al lavoro congiunto della direzione del carcere - da cui è partita l’idea progettuale - e dell’assessorato alle politiche sociali - commenta il sindaco Buselli -, abbiamo potuto intercettare i finanziamenti legati al bando e avviare un percorso improntato alla realizzazione di orti in città e sul territorio”. La direzione della Casa di reclusione mette a disposizione del progetto, per un periodo di cinque anni, le fasce di terreno nell’area del Vecchio forno, oltre ai due appezzamenti destinati all’orto interno del progetto “L’Orto, luogo di incontri e di vita”. Le aree saranno così destinate alla produzione orticola e florovivaistica; la casa di reclusione prenderà in carico il materiale, gli utensili e le attrezzature acquistate e provvederà alla realizzazione del progetto che sarà finanziato dall’ente Terre regionali Toscane con il cofinanziamento dell’Amministrazione comunale. Ad esempio c’è anche il carcere di Monza con un orto biologico inaugurato quest’anno. Parliamo di un progetto ideato e sostenuto dall’Associazione Una Monza Per Tutti, presieduta da Anna Martinetti, e reso possibile grazie alla collaborazione delle istituzioni (ministero della Giustizia) e della Direzione del carcere che ha dato la possibilità ai detenuti di impegnarsi nell’attività. L’iniziativa ha l’obiettivo di aiutare persone che hanno commesso reati e che stanno scontando una pena di reinserirsi nella società acquisendo nuove competenze. Oltre a essere un prezioso strumento di riscatto e reinserimento per i detenuti, l’orto biologico ha anche una finalità benefica perché i prodotti vengono consegnati al Banco Alimentare che li dona alle famiglie monzesi bisognose. “ALTra Cucina”, chef stellati preparano pranzo natalizio per 2.500 detenuti di 9 carceri agensir.it, 15 dicembre 2017 “L’ALTrA cucina… per un pranzo d’amore” è un’iniziativa promossa da Prison Fellowship Italia Onlus, Rinnovamento nello Spirito Santo e Fondazione Alleanza del RnS per offrire a circa 2500 persone - tra detenuti, detenute, familiari e volontari che presenzieranno - un pranzo natalizio preparato da Chef “stellati” e servito da testimonial del mondo dello spettacolo, della musica, del teatro, della televisione. Giunto quest’anno alla sua quarta edizione, l’evento avrà luogo lunedì 18 dicembre presso 9 Istituti penitenziari: Torino (Le Vallette), Ivrea, Verona, Milano (Opera), Roma (Rebibbia femminile), Casal del Marmo, Modena, Salerno e Palermo (Pagliarelli). Tra gli chef, Giancarlo Perbellini del Ristorante “Casa Perbellini” preparerà 250 pasti a Verona. 340 saranno i pasti preparati dallo chef Anthony Genovese del “Ristorante Il Pagliaccio - Roma per il carcere di Rebibbia. Sarà lo chef Matteo Baronetto del Ristorante “Del Cambio” a cucinare per 125 detenuti a Torino. Agostino Iacobucci, chef del Ristorante “I Portici - Bologna” cucinerà invece per 150 detenuti a Modena. Riconfermata anche la Casa circondariale di Salerno, dove sarà lo chef Antonio Pisaniello del “Ristorante Nunziatina - Caserta” a preparare 100 pasti. Un’ulteriore tappa prevista nella capitale, con lo chef Marco Moroni del “Ristorante Bistrot Bio - Roma” che cucinerà 90 pasti presso l’Istituto penale minorile di Casal del marmo. Si riconferma lo chef Carmine Giovinazzo, finalista di MasterChef e chef al Doc Taverna Gourmet a Piove di Sacco (Pd), presente quest’anno a Milano per preparare 150 pasti per i detenuti e i propri familiari. A Palermo, nella Casa circondariale Pagliarelli, 420 detenuti gusteranno i piatti dello chef Carmelo Criscione del Ristorante “Petit Cafè Nobel - Palermo”. Infine, Alberto Peveraro, docente dell’Istituto alberghiero di Biella preparerà 250 pasti ad Ivrea. I pm sulla trattativa Stato-mafia: “istituzioni tradite dal patto con i clan” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 15 dicembre 2017 Palermo, la requisitoria dopo 4 anni di udienze. “Dietro la retorica della lotta alla mafia senza cedimenti è emersa un’altra verità: la fermezza è stata tradita, e una parte importante e trasversale delle istituzioni, spinta da esigenze egoistiche, politiche e di potere contrabbandate da ragion di Stato, ha cercato e trovato il dialogo e un parziale compromesso con Cosa nostra, sottotraccia e clandestino”, accusa il pubblico ministero Roberto Tartaglia. Dopo quattro anni e mezzo e 202 udienze, il processo sulla presunta trattativa Stato-mafia ha imboccato la dirittura d’arrivo, con l’avvio della requisitoria che tra circa un mese si chiuderà con le richieste di condanna degli imputati. “Si tratta di un processo che incrocia una parte significativa della storia d’Italia, tra la metà degli anni Ottanta e le stragi del 1992-93”, spiega il pm che quando scoppiarono le bombe di Capaci e via D’Amelio era un bambino di dieci anni. Al suo fianco ci sono i colleghi che prenderanno la parola nelle prossime udienze: Nino Di Matteo, che nel ‘92 aveva appena indossato la toga, Francesco Del Bene che frequentava l’università e Vittorio Teresi che già lavorava in Procura con Falcone e Borsellino. Tre generazioni di magistrati schierate per sostenere l’atto d’accusa più arduo: una commistione tra boss, carabinieri e politici che nella stagione dei kalashnikov e del tritolo avviarono “una mediazione occulta che ha realizzato i desideri più arditi di Cosa nostra, al di fuori di ogni legalità”. I pm sono convinti di aver dimostrato, nel corso di un lungo e spesso dimenticato dibattimento, la responsabilità degli imputati. Provenzano e Riina sono morti, Mannino è stato assolto in primo grado con il rito abbreviato; restano gli altri boss Bagarella, Cinà e Brusca, l’ex senatore Marcello Dell’Utri (malato nel carcere dove sta scontando la pena per concorso in associazione mafiosa) e i tre ex ufficiali dell’Arma Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni. Poi ci sono Massimo Ciancimino accusato di concorso esterno e calunnia, e l’ex ministro Mancino di falsa testimonianza. Ma oltre che nel giudizio su Mannino, ancora provvisorio, i pm - sempre gli stessi - hanno già perso in altri processi collegati, dove Mori era imputato per la mancata perquisizione del covo di Riina nel 1993 e il mancato arresto di Provenzano nel ‘95: assoluzioni definitive. Memore di quelle sconfitte, l’accusa invita i giudici della corte d’assise a non guardare singolarmente gli elementi di prova, ma a valutarli in una ricostruzione unitaria che parte dalle condanne definitive nel maxiprocesso voluto da Giovanni Falcone, prosegue con gli omicidi e le bombe del 1992-1993 e si chiude con gli attentati falliti nel ‘94, mentre l’Italia transitava dalla prima alla seconda Repubblica: “Non si tratta di opacità o negligenze investigative scollegate tra loro, ma di un unico disegno in cui il ricatto di Cosa nostra al governo, per farlo recedere dal contrasto netto alla mafia, è stato rafforzato dai mediatori occulti, come fossero complici oggettivi di un’estorsione”. Riina, non c’è più, e ieri la corte ha disposto l’acquisizione del certificato di morte. Ma in questo processo il “capo dei capi” continua a parlare attraverso i suoi colloqui intercettati in carcere nel 2013. Quando diceva, ad esempio: “Io al governo gli dovevo vendere i morti, gli davo i morti”. Chiosa il pm Tartaglia: “In questa frase c’è l’essenza della trattativa. La mafia faceva le stragi per avere un corrispettivo, e gli imputati delle istituzioni ne sono stati la cinghia di trasmissione”. Processo Eternit, reato declassato: “no all’omicidio volontario” Il Manifesto, 15 dicembre 2017 La Cassazione derubrica l’accusa alla Eternit. La Cassazione ha modificato la fattispecie da “dolo” a “colpa cosciente”. Protesta dei familiari delle vittime. Ora il processo è a maggior rischio di prescrizione, ma l’ex pm Guariniello invita a non essere pessimisti. Non c’è giustizia per le vittime dell’Eternit. La Corte di Cassazione ha, ieri, rigettato i ricorsi della procura e della procura generale di Torino contro la sentenza del Gup Federica Bompieri che, nel novembre del 2016, aveva riqualificato il reato contestato all’unico imputato, il magnate svizzero Stephan Schmidheiny, da omicidio volontario a omicidio colposo con colpa cosciente. Una decisione da cui era scaturito un conseguente spacchettamento del processo in quattro tronconi distinti, poiché, venendo meno l’ipotesi dolosa, cadeva anche la formula della continuazione dei reati contestati. La prima sezione della Cassazione è la stessa che tre anni fa cancellò il maxi-processo Eternit che aveva condannato in appello Schmidheiny a 18 anni di carcere. Il reato di disastro ambientale fu, però, considerato prescritto. Il caso oggi in questione è, invece, il cosiddetto “Eternit Bis” riguardante la morte di 258 persone, ex lavoratori e cittadini, avvenuta tra il 1989 e il 2014 a causa dell’amianto lavorato negli stabilimenti della multinazionale. Inchiesta per cui Raffaele Guariniello, prima di andare in pensione, decise di formulare l’accusa di omicidio doloso aggravato. Casale Monferrato, la città martire con i suoi 2.200 morti di mesotelioma e asbestosi, subisce un nuovo duro colpo. “Che ci sia stato il dolo lo sanno anche i gatti, lo dimostrano i documenti rivenuti nell’inchiesta, la multinazionale conosceva i rischi e nascose intenzionalmente le prove”, commenta amaro Bruno Pesce dell’Afeva (Associazione familiari vittime amianto), uno dei leader della lotta contro la fibra killer, in pista da almeno 40 anni in questa infinita battaglia. Non ha perso la speranza: “Ora si riparte con quattro processi, l’importante è che vadano avanti e magari si moltiplichino. La decisione del Gup torinese era stata discutibile, mi auguro che in questa sentenza della Suprema corte ci sia solo un motivo procedurale. Se un sistema giudiziario non è in grado di sanzionare ufficialmente situazioni simili significa che esiste un problema democratico”. Ora il processo sarà diviso in quattro filoni e altrettanti sedi, con allungamento dei tempi e il rischio prescrizione, la paura più grande, in agguato Vercelli ha competenza su Casale, Reggio Emilia su Rubiera, Torino su Cavagnolo e Napoli, dove il pm ha chiesto l’imputazione di omicidio volontario, su Bagnoli. A Vercelli toccherà il compito più arduo, visto che dei 258 fascicoli totali 243 riguardano Casale. “Questo ufficio non si tira certo indietro, insisterò su un adeguamento del personale”, ha dichiarato, Pier Luigi Pianta, il procuratore capo del Tribunale di Vercelli. La difesa di Schmidheiny è soddisfatta. “Avevamo eccepito l’inammissibilità dei ricorsi e la Corte ha deciso in questa direzione”, ha detto l’avvocato Astolfo Di Amato. Di tutt’altro parere Massimiliano Gabrielli, legale dell’Anmil: “Quando un’organizzazione imprenditoriale continua consapevolmente a far soldi sulla pelle della gente bisogna parlare di omicidi volontari, senza se e senza ma. Ci aspettavamo quindi che la Cassazione applicasse semplicemente la legge, senza scivolare sulle difese tecniche e fare l’ennesimo regalo al miliardario Schmidheiny”. Ezio Bonanni, uno degli avvocati di parte civile annuncia: “Ricorreremo alla Corte di Strasburgo per mancata tutela dello Stato italiano nei confronti delle vittime”. L’ex pm Raffaele Guariniello non è, invece, drastico: “La decisione della Cassazione non deve scoraggiare, si faranno comunque quattro processi contro l’Eternit, cosa che in altri Paesi è impensabile. La colpa cosciente resta un reato grave che comporta una pena rilevante, come nel caso Thyssen. Quanto alla prescrizione è un rischio sempre presente, ma si è tracciata una strada, che è andata avanti”. Caso Dell’Utri. La vera giustizia fa convivere pietas e legge di Claudio Brachino Il Giornale, 15 dicembre 2017 La metafora non è nuova, ma il fatto che l’abbiano usata in molti, anche titolati, vuol dire che ha una sua efficacia prospettica. Vorrei tornare sulla vicenda Dell’Utri con lo sguardo di un marziano sceso sulla Terra dopo aver stabilito il Contatto con i nostri codici, linguistici e politici. Lette le notizie, il nostro alieno scrive ai suoi: “Che pianeta è questo che nega a signore di una certa età, con gravi problemi di salute generale, in più con un tumore alla prostata, il diritto di lasciare il carcere per curarsi in condizioni più umane?”. Dalla navicella ricordano che la storia si svolge in Occidente, in Italia, in un Paese di diritto, in un Paese con solide radici cristiane. Dov’è finita allora la Pietas, si chiede il marziano, e la Legge e la Pietas non possono convivere? La Legge del resto non è del tutto oggettiva, ha una dimensione storica, contestuale e interpretativa. Vuol dire che sono gli uomini a farla, ma anche ad applicarla, con diverse sfumature etiche e filosofiche pur sempre nei confini del sacrosanto, se non santo, principio di uguaglianza che vale per tutti i cittadini. La Pietas non è solo un dono divino, ma si applica per estensione al rapporto con gli altri, con l’Altro, dove l’Altro non è solo il diverso, il migrante, il diversamente posizionato, diciamo così, nella sfera dei diritti. L’Altro è anche la persona nella sua essenza, che soffre per le malattie e si spaventa di fronte alla morte potenziale. Quando poi l’alieno scopre che ad alcuni il diritto, quello di curarsi in ospedale o ai domiciliari, anche se condannati, viene dato e ad altri no, decide di lasciare il pianeta Terra o, comunque, il pianeta Italia. Alla ricerca di mondi dove la Giustizia si toglie la benda davanti al dolore, se alcune condizioni vengono ovviamente rispettate: gravità della malattia, mancanza del pericolo di fuga etc. Come vedete, e qui parlo io che marziano ancora non sono, non sono volutamente entrato nel merito giudiziario e giuridico della vicenda Dell’Utri. Sempre in termini di prospettive, basta guardare il gigantesco iceberg morale di questi giorni. Il nostro alieno non conosce le finezze della nostra retorica applicata alla politica. La metonimia, lo scambio della causa con l’effetto, è uno degli artifici comunicativi del potere. Il sacrificio di Dell’Utri rivela in controluce la punizione di Berlusconi. Forse è solo un effetto ottico, ma tutta questa breve riflessione è incentrata sul punto di vista, sullo sguardo. Ora basta non voltare la testa dall’altra parte e farci sommergere dalla vergogna. Campania: il Garante dei detenuti “bisogna liberarsi della necessità del carcere” di Marco Martone scrivonapoli.it, 15 dicembre 2017 Samuele Ciambriello, Garante dei detenuti della Regione Campania, è intervenuto in collegamento telefonico alla trasmissione radiofonica “Oltre l’ostacolo”, andata in onda sulle frequenze di Radio Svago Web. Ciambriello ha parlato della delicata condizione dei detenuti in Campania, dando anche alcuni allarmanti dati. Proprio in questi giorni Ciambriello è stato in visita al carcere di Bellizzi Irpino, dove nel 1984 aveva lavorato come volontario assieme a monsignor Riboldi, creando una cooperativa che si occupa di detenuti politici e comuni. L’emergenza carceri è un dramma di difficile soluzione, come si esce dalla fase di stallo in cui si trova la Campania? “Noi siamo convinti che alla persona che sbaglia vada tolto il diritto alla libertà, non quello alla dignità. In tal senso è indispensabile che il carcere sia un luogo a misura d’uomo, in grado di reinserire i detenuti nella società, altrimenti è un fallimento”. I dati a sua disposizione non sono confortanti. “Se pensiamo che l’80 per centro delle persone che esce dal carcere vi fa ritorno, vuol dire che così come è strutturato non serve. A questo si aggiunga che non tutti quelli che entrano in carcere sono colpevoli. Molti escono senza aver subito neanche il processo di primo grado, poi chiedono un risarcimento per ingiusta detenzione. Lo scorso anno oltre 1000 detenuti in Italia e circa 300 a Napoli hanno chiesto e ottenuto un risarcimento. Un tema sulla giustizia, questo, che riguarda tutti”. Cosa fare allora? “Per evitare che tante persone vadano in prigione, bisogna liberarsi della necessità del carcere. Cominciare, ad esempio, con i lavori socialmente utili, utilizzare maggiormente lo strumento degli arresti domiciliari. C’è un altro dato allarmante che voglio far conoscere. Tra immigrati e tossicodipendenti in Campania, quasi il 60 per cento sono in carcere. Con la legge Bossi-Fini sugli immigrati e Fini-Giovanardi sulle tossicodipendenze, abbiamo messo in carcere tante persone anche per piccoli reati. Oggi si va in carcere per gli assegni a vuoto, per non aver pagato gli alimenti dei figli, per cavalli di ritorno, per reati amministrativi, questo si può evitare o no?. E c’è un altro dato sorprendente. Tra i settemila detenuti nella regione Campania, nemmeno il 5 per cento è accusato di reati legati alla camorra al 416 bis. I veri delinquenti della malavita organizzata stanno fuori. Dato che deve far riflettere. Abbiamo aperto le porte del carcere a tante questione pensando che sia quella la risposta al bisogno di sicurezza, ma non è così purtroppo”. Che ricordo ha di monsignor Riboldi? “Quando l’ho incontrato ho visto un pastore i cui abiti puzzavano delle sue pecore. Viveva l’umanità del suo popolo, del suo gregge, della sua diocesi. Era una persona i cui gesti e le cui parole erano una scintilla, un lievito. Noi abbiamo bisogno di questi uomini di chiesa, e anche nella classe medica, intellettuale e politica. Abbiamo bisogno non di chi vive di politica ma di chi vive per la politica. Abbiamo bisogno di preti che tutto il giorno operano per una chiesa dei poveri e per i poveri”. Campania: il Garante “c’è un sommerso delle patologie psichiche nelle carceri” ottopagine.it, 15 dicembre 2017 Ciambriello: “Bisogna porre fine allo stato di disagio e di abbandono in cui versano i detenuti”. “C’è un “sommerso” delle patologie psichiche nelle carceri campane che bisogna far emergere per porre fine allo stato di disagio e di abbandono in cui versano i detenuti e per creare delle strutture che siano vero e reale superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari”. È quanto ha affermato il Garante dei Detenuti della Regione Campania, Samuele Ciambriello, presentando, stamani, in conferenza stampa, il convegno che, il 20 dicembre 2017 alle ore 9,00, si terrà nell’Aula del Consiglio Regionale della Campania, sul tema “La salute mentale nelle carceri campane: fotografia in bianco e nero”. “Secondo i dati della Società Italiana di Medicina e Salute Penitenziaria nel 2016 oltre 40mila detenuti soffrono di un disagio psichico, un disagio che può assumere anche forme molto gravi, come depressioni e psicosi, e che può portare anche a gesti estremi o a comportamenti autolesionistici - ha spiegato Ciambriello” - che ha aggiunto: “nel solo 2017 sono stati 50 i suicidi nelle carceri di tutta Italia, 4 nella nostra Regione (1 Santa Maria C.V., 2 Poggioreale, 1 Avellino); nel 2016, in Campania abbiamo registrato 770 episodi di autolesionismo, 87 tentati suicidi, 2 suicidi, una escalation di disperazione e di morte che ha tra le sue cause la mancanza di strutture ed assistenza adeguata per questi detenuti che hanno patologie così gravi”. “A quasi 40 anni dell’approvazione della Legge Basaglia, che dispose la chiusura dei manicomi, con la legge 81/2014 si è dato avvio alla definitiva chiusura degli Opg e all’apertura delle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems). In Campania - ha proseguito - sono stati definitivamente chiusi gli Opg di Napoli e di Aversa e sono state attivate 6 Articolazioni psichiatriche e 4 Rems che, però, - ha sottolineato - sono insufficienti, se si pensa che a Napoli non ce n’è ancora nemmeno una. Inoltre, le Rems presenti in Campania sono strutture piccole, che possono ospitare un massimo di 20 persone, distribuite sul territorio, pensate come luoghi di cura e reinserimento sociale, che dovrebbero accogliere solo autori di reati giudicati infermi o semi-infermi di mente, ma anche socialmente pericolosi e non adatti a soluzioni totalmente restrittive” - ha evidenziato Ciambriello, che ha avvertito: “invece, nella realtà dei fatti, corriamo il rischio che esse diventino dei nuovi piccoli manicomi”. “Dopo un primo e lungo giro di visite in tutti gli istituti e nelle Rems della Campania, ho deciso di organizzare, quale primo evento pubblico del mio mandato, questo incontro sul tema della salute mentale - ha sottolineato Ciambriello - per mettere in connessione Amministrazione penitenziaria, Aziende sanitarie locali, la Regione Campania, i volontari del terzo settore, con la consapevolezza che la chiusura degli Opg è solo il primo passo verso una reale riforma della questione salute mentale e carcere”. Al convegno parteciperanno, tra gli altri, il Presidente del Consiglio Regionale della Campania, Rosa D’Amelio, il Presidente della Commissione Regionale Sanità, Raffaele Topo, la Presidente della Commissione speciale Trasparenza, Valeria Ciarambino, il Provveditore regionale Amministrazione Penitenziaria della Campania, Giuseppe Martone, i magistrati di sorveglianza, Amirante, De Micco e Puglia e il direttore generale dell’Asl Napoli 1 centro Mario Forlenza, Franco Corleone, già commissario unico per il superamento degli Opg. Le conclusioni saranno del Sottosegretario di Stato alla Giustizia, Gennaro Migliore. Benevento: 38enne condannato all’ergastolo si impicca in cella di Rosaria Federico Cronache della Campania, 15 dicembre 2017 È morto suicida nel carcere di Benevento dove era detenuto da circa 10 anni il giovane boss del clan D’Alessandro di Castellammare, Vincenzo Guerriero. Aveva 38 anni e stava scontando la pena dell’ergastolo come mandante dell’omicidio di Pietro Scelzo ucciso la sera del 18 novembre 2006 mentre rincasava nella zona di santa Caterina con le pizze calde da consumare con la famiglia. Guerriero all’epoca era considerato il reggente del clan D’Alessandro con la detenzione di tutti gli esponenti della famiglia di Scanzano. Il giovane boss aveva deciso di uccidere Scelzo, ex affiliato ai D’Alessandro, in quanto quest’ultimo uscito di galera grazie all’indulto appena due mesi prima era passato tra le fila degli scissionisti di Santa Caterina insieme con gli ex cutoliani degli Scarpa-Omobono che si erano organizzati e avevano dichiarato guerra alla “famiglia” stabiese. Il giovane boss deceduto nel carcere di Benevento già allora era molto “attenzionato” dalle forze dell’ordine che gli avevano piazzato una cimice sotto il balcone di casa per controllare i suoi traffici di droga. Quella sera la cimice lo tradì perché gli investigatori ascoltarono in diretta l’ordine di uccidere che Guerriero diede al killer, Pasquale Rapicano. Alla scena del delitto tra l’altro assistete da un balcone di fronte alla casa di Scelzo un giovane disabile, che poi si scoprì era un cugino di Guerriero, che alla vista del delitto si rivolse alla madre esclamando “mà ci sta ‘o muort nderr”. L’intercettazione e il racconto del ragazzo servirono a risolvere in breve tempo il delitto e portarono alla condanna all’ergastolo nel 2009 per Guerriero e Rapicano. Forlì: l’associazione “Con...tatto” celebra il decennale di attività forlitoday.it, 15 dicembre 2017 L’impegno dei volontari è anche testimoniato dalla vicepresidenza di Simone Magnani nella Consulta della Legalità promossa dal Comune di Forlì. I volontari dell’Associazione “Con...tatto Onlus” si sono ritrovati nei giorni scorsi per festeggiare il decimo anniversario di fondazione e per fare il punto sulle molte attività, finalizzate a promuovere la solidarietà sociale, ispirate ai valori della Costituzione e alla Carta Universale dei Diritti dell’Uomo. Grazie alla constante collaborazione con la casa circondariale di Forlì, le istituzioni locali, le scuole e gli enti di formazione, le tante associazioni sul territorio, “Con…tatto” ha potuto realizzare molti progetti a sostegno delle persone, tra i quali Spazio Famiglie, Teatro in Carcere, Sportelli di ascolto verso detenuti e detenute, partecipazione alla Consulta della Legalità. Fiore all’occhiello dell’associazione è il laboratorio semestrale Teatro in Carcere, condotto da Sabina Spazzoli e dai volontari, che sostengono lo sforzo comune di detenuti e studenti (Liceo Classico Monti Cesena) nello sviluppo di capacità attoriali e nel mettere in scena ogni anno uno spettacolo aperto al pubblico. Grazie anche a questo cammino, da quest’anno Sabina Spazzoli ha assunto la presidenza del “Coordinamento Teatro Carcere” della Regione Emilia Romagna. Lo “Spazio Famiglie” fornisce un sostegno alla genitorialità ed affettività del nucleo familiare, in un piccolo edifico all’interno delle mura del carcere, animato da volontari formati sulle normative e le prassi che regolano i diritti/doveri di familiari e detenuti. Un momento accogliente, dal punto di vista emotivo e strettamente pratico, in attesa dei colloqui con i familiari detenuti, alternato a feste mensili per i più piccoli in collaborazione con i volontari “Vip ViviamoInPositivo”. Lo Sportello d’ascolto in sezione femminile, ed attività simili nelle altre sezioni, incentiva capacità di comunicazione e di relazione, con attività culturali, scrittura creativa, cineforum e accompagnamento all’esterno di detenuti in permesso. I temi della legalità e della responsabilità sono al centro di tutte le iniziative di “Con…tatto”, attraverso percorsi di in-formazione nelle scuole superiori e per cittadini, volontari e operatori, sul funzionamento della giustizia penale, sull’esecuzione della pena e sui diritti fondamentali. L’impegno dei volontari su questi principi è anche testimoniato dalla vicepresidenza di Simone Magnani nella Consulta della Legalità promossa dal Comune di Forlì. Milano: la pasta senza glutine dei detenuti e il “pellet” che dà lavoro a 50 licenziati di Silvia Morosi Corriere della Sera, 15 dicembre 2017 Il 14 dicembre giornata di dibattito sul futuro del settore, alla luce delle novità dei Decreti del Terzo settore. Il presidente di Cgm, Granata: “La Riforma apre ad altri mondi, dobbiamo fare squadra”. L’assessore Tajani: “Milano diventi laboratorio di sperimentazione per innovare in queste realtà”. Il titolo non è scelto a caso: “Anno uno”. Perché la riforma del Terzo settore, sempre in attesa dei decreti attuativi, ha segnato il punto e a capo per la storia dell’impresa sociale in Italia. “Già con le cooperative sociali siamo stati per anni una grande forza. Ma la riforma apre a mondi più vari e non strettamente legati al welfare tradizionale. Questo passaggio ci consentirebbe davvero di diventare motore del Paese”. Ne è convinto Stefano Granata (in foto), presidente di Cgm, il più grosso raggruppamento di imprese sociali in Italia (con quasi 800 iscritti e 63 consorzi). Ma il lavoro da fare è parecchio: aspettare i decreti attuativi, anzitutto, fare rete superando steccati, inventare una sinergia virtuosa fra mondi non ancora abituati a lavorare insieme e trovare strumenti finanziari innovativi di sostegno. Di questo si comincia a ragionare giovedì 14 a Milano, durante un evento organizzato appunto da Cgm insieme a Social Impact Agenda, all’associazione Innovare per Includere e al settimanale Vita. Spiega Granata: “Abbiamo cercato di mettere insieme rappresentanti di tutti gli ambiti di produzione e di realtà diverse per capire come procedere. Partiamo dall’esistente e ci chiediamo come possiamo crescere insieme”. L’esistente è un settore che, come confermano sia i dati del Censimento delle istituzioni non profit dell’Istat, ha mostrato negli anni una dinamica straordinaria, in particolare durante la crisi economica. Per questo, per valorizzare ciò che già esiste, durante la giornata si confronteranno alcune esperienze innovative di imprese sociali, nel corso del dibattito moderato dal direttore di Vita, Riccardo Bonacina. Il contesto - Parlarne a Milano non è causale: “La nostra città potrebbe diventare laboratorio di sperimentazione per imprese ad alto impatto sociale impegnate anche in nuove produzioni”, spiega Cristina Tajani che oltre ad essere vicepresidente di Innovare per Includere è anche assessore all’Innovazione a Milano. E la sua amministrazione sta avviando il progetto Open Care, “perché le nuove tecnologie possono diventare uno strumento di cura, coinvolgendo chi si occupa di disabilità o di assistenza a distanza”. Certo, poi c’è la questione delle strade di finanziamento possibile: Fondazione Cariplo, ha cominciato a studiare e promuovere iniziative legate al tema del welfare di comunità. Ma molte idee arrivano anche dall’osservatorio di Social Impact Agenda, come racconta nell’intervista qui sotto la presidente Giovanna Melandri. Ad Aversa - Chi dice che le fattorie possono stare solo in luoghi isolati e di campagna? Perché non realizzarne una in città? Da queste due semplici domande, nel 2005 è nata la Fattoria Sociale “Fuori di Zucca”. La realtà si sviluppa nel cuore del parco della Maddalena, negli spazi dell’ex Ospedale psichiatrico di Aversa, e si estende per 19 ettari. Il consorzio mira a contribuire a una crescita civile del territorio, sostenuta dalla cultura dell’inclusione e della legalità, attraverso la creazione di attività di economia sociale sostenibili che creano lavoro dignitoso per le persone in difficoltà. “Siamo una cooperativa di tipo B che si occupa dell’inserimento lavorativo delle persone svantaggiate, soprattutto attraverso l’agricoltura sociale e biologica”, spiegano. “Sentiamo forte la responsabilità di tramandare la tradizione rurale della storica Campania Felix, ma anche i moderni metodi agricoli e le nuove attività produttive, per restituire dignità e valore alle persone attraverso la creazione di economia sociale. Educhiamo al rispetto dell’ambiente e della scelta consapevole dei prodotti locali”. In Valtellina - Pasta, senza glutine, oltre le sbarre. Nell’estate 2016 è iniziata la fase di preparazione del progetto “Pastificio 1908”, grazie alla collaborazione tra la Cooperativa Sociale Ippogrifo e la Casa Circondariale di Sondrio, supportate da Confartigianato, BIM, Fondazione Pro Valtellina e Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria di Milano. Piano piano si sono avviati i primi contatti con l’Associazione Italiana Celiachia (Aic) e si è passati all’acquisto dei primi macchinari, “poi nel gennaio 2017 lo chef gluten-free Marcello Ferrarini ha organizzato il corso di formazione all’interno della Casa Circondariale”. L’idea è stata quella di dare vita a “un’esperienza virtuosa di laboratorio educativo e produttivo per le persone detenute nel e per il territorio”. Dando seguito al principio del reintegro, con la creazione all’interno del carcere di situazioni positive, analoghe a quelle esistenti all’esterno: “Un laboratorio di produzione artigianale di pasta senza glutine, fresca e secca. Un progetto radicato nel territorio, perché il carcere è parte della comunità ed è un luogo dove è possibile realizzare un prodotto di qualità”. A Mantova - Una sfida che coniuga sostenibilità economica, sociale, industriale e ambientale. La raffineria IES, attiva nella zona di Mantova dal 1950, a fine 2013 ha deciso di dismettere la raffinazione del greggio, aprendo una profonda crisi aziendale e lasciando senza lavoro molti operai. Grazie all’accordo con il Ministero, è nato “Sphere 2020”, un progetto volto alla reindustrializzazione, bonifica dell’area e produzione di pellet e phytoremediation, con l’impiego di 50 persone fuoriuscite. A guidare l’iniziativa la “Cop 21”, Cooperativa Sociale di Tipo B, costituita ad hoc e partecipata da 31 ex lavoratori e altri soci sovventori. Oggi la Cooperativa ha 13 soci lavoratori tra cui tre soggetti svantaggiati (Legge 381/91) ed entro fine anno assumerà e ammetterà a soci altre 18 persone che già hanno formalizzato l’impegno a versare 9.000 euro di capitale proprio a cui si aggiungono i 6.000 che IES versa come incentivo alla auto-imprenditorialità. “Ci rivolgiamo non solo alle fasce deboli di cui si occupa tipicamente una Cooperativa B, ma anche a giovani mantovani in cerca di un lavoro stabile e sostenibile”. Da Berlino - Mettere in contatto i cittadini italiani e i richiedenti asilo, promuovendo l’accoglienza domestica diffusa. Con questo obiettivo nel 2014 è stata realizzata la piattaforma “Refugees Welcome”, ideata da un gruppo di berlinesi. L’idea è quella di far incontrare chi fugge da guerre e povertà, e approda in Europa in cerca di una nuova vita, e chi vuole mettere a disposizione una stanza nella propria abitazione. Il progetto nel 2015 è arrivato anche in Italia con “Benvenuti rifugiati - Refugees Welcome Italia”. Si tratta di “promuovere l’ospitalità in famiglia dei rifugiati: un modo per conoscersi, superare pregiudizi e costruire insieme una società attiva, inclusiva e solidale”, dicono i responsabili. L’accoglienza in famiglia è un momento decisivo del percorso verso la piena autonomia, e aiuta a conoscere più velocemente il contesto del Paese ospitante. Il rifugiato attiva, ad esempio, più facilmente una rete di rapporti sociali: migliora la conoscenza della lingua, investe in un proprio progetto di vita, riprende a studiare, cerca di trovare un lavoro. L’accoglienza in famiglia fa bene a tutti: “Chi ospita in casa un rifugiato diventa un cittadino più consapevole e attivo”. Pozzuoli (Na): intesa sulla formazione in carcere, detenute realizzeranno cravatte labitalia.it, 15 dicembre 2017 “Il recupero della legalità passa attraverso la formazione professionale e il lavoro, strumenti fondamentali non solo a garanzia della sicurezza sociale ma anche come elementi cardine a prevenzione della recidiva. I commercialisti offriranno una formazione professionalizzante che permetterà l’inclusione sociale: in questo contesto i professionisti istruiranno i rudimenti di impresa, analizzando i processi base di una qualsiasi attività di produzione con corsi ed assistenza specifica”. Lo ha detto Vincenzo Moretta, presidente dell’Ordine dei dottori commercialisti e degli esperti contabili di Napoli, annunciando il protocollo di intesa per la formazione professionale all’interno degli istituti di pena come modello per l’inclusione sociale che verrà siglato da ministero della Giustizia, Regione Campania, E. Marinella Srl / Maumari Srl e Ordine dei dottori commercialisti e degli esperti contabili di Napoli. Il progetto sarà presentato domani, presso l’istituto penitenziario di Pozzuoli, alla presenza del ministro della Giustizia, Andrea Orlando, del capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Santi Consolo, e del Cavaliere del lavoro Maurizio Marinella. Un nuovo modello per implementare e valorizzare il lavoro all’interno delle carceri e per sostenere le azioni di reinserimento sociale delle persone detenute: questo lo scopo del progetto che ha portato alla creazione del laboratorio di sartoria artigianale all’interno della casa circondariale femminile di Pozzuoli per il confezionamento di cravatte in dotazione al Corpo di Polizia penitenziaria e di un numero predefinito da usare come cadeaux istituzionali. Il marchio E. Marinella, rappresentante dell’eccellenza sartoriale italiana nel mondo, ha accolto l’invito del ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria a sostenere il progetto fornendo mobilio e macchinari per la realizzazione del laboratorio tessile all’interno della Casa Circondariale e ha messo a disposizione anche l’esperienza delle maestre artigiane più esperte del proprio laboratorio, che hanno periodicamente incontrato le detenute per permettere loro di svolgere un’attività formativa-lavorativa nel corso del periodo di permanenza all’interno dell’istituto penitenziario. Il progetto si inserisce nella prospettiva della valorizzazione del lavoro penitenziario, uno dei temi affrontati dagli Stati generali dell’esecuzione penale, voluti dal ministro Orlando, nella consapevolezza che il recupero della legalità passa anzitutto attraverso la formazione professionale. La Struttura organizzativa di Coordinamento delle attività lavorative, istituita nell’ambito dell’Ufficio del capo del Dipartimento, presieduta da Donatella Rotundo e coordinata da Serena De Nitto, ha dato vita a un progetto ambizioso che vede protagoniste diverse realtà aziendali che hanno messo a disposizione il proprio know how nelle carceri. Grazie alla collaborazione con E. Marinella, le detenute hanno imparato a produrre cravatte che andranno in uso all’interno dello stesso ministero della Giustizia, per sostenere la politica di spending review condivisa dalla pubblica amministrazione. “Siamo orgogliosi - spiega Maurizio Marinella - di essere pionieri, assieme al ministro della Giustizia, della sperimentazione di un modello innovativo di formazione artigianale e reinserimento sociale alla cui visione ho subito aderito, grazie al presidente Santi Consolo e al Dap. Stiamo lavorando da mesi con entusiasmo e senso civico. Inoltre, sono onorato di poter contribuire con il nostro design alla realizzazione delle cravatte istituzionali destinate alla Polizia Penitenziaria”. “Il laboratorio di sartoria è stato realizzato grazie alla convinta e preziosa collaborazione del marchio E. Marinella, che ha accolto l’invito dell’amministrazione penitenziaria a collaborare per la creazione della sartoria, mettendo a disposizione gratuitamente e ai soli fini sociali il proprio know how”, dichiara il capo del Dipartimento, Santi Consolo. “Il lavoro penitenziario - aggiunge - va implementato con progetti di qualità e con il sostegno del mondo imprenditoriale esterno. Questa è la strada da seguire, se vogliamo realmente abbattere la recidiva. La scelta di vita nella legalità deve affermarsi durante l’esecuzione della pena, in continuità e accoglienza nell’ambiente libero. Il lavoro e la formazione sono strumenti formidabili per il riscatto sociale del singolo e per la sicurezza dell’intera collettività”. Milano: dal carcere minorile “Beccaria” arrivano i panettoni del riscatto di Giulia Argenti La Repubblica, 15 dicembre 2017 Si chiamano Buoni Dentro e li producono i ragazzi del carcere minorile che si stanno costruendo un futuro. Per tutti è il dolce simbolo del Natale. Per Khalefa, o come lo chiamano qui Pesciolino, è molto di più. È un piccolo passo verso il riscatto e la conquista di un posto nella società. “Ci ho lavorato per dieci mesi” dice con orgoglio, indicando le confezioni di panettoni esposte in un banco nella sede del tribunale per i Minorenni di Milano, in via Leopardi 18. Qui, sono in vendita i panettoni realizzati dai ragazzi dell’Istituto penale minorile Beccaria, insieme a maestri pasticcieri, nel laboratorio di panificazione attivo nella struttura. Un’iniziativa promossa dal tribunale per i Minorenni, in collaborazione con il Beccaria, il Centro giustizia minorile e la cooperativa Buoni Dentro, che gestisce anche un panificio, Pezzi di pane, che impiega alcuni giovani detenuti, sempre guidati da un fornaio esperto. “Un giorno una signora è entrata nel nostro panificio e uno dei ragazzi che era lì le ha aperto la porta per aiutarla - racconta Claudio Nizzetto, responsabile di Buoni Dentro -. Lei è rimasta sorpresa: “È la prima volta che mi succede” ci ha detto. È in momenti come questi che capisco che forse, il lavoro che stiamo facendo con la cooperativa può davvero aiutare i ragazzi nel loro percorso di reinserimento nella normalità”. E nella stessa direzione va anche la scelta di vendere i panettoni all’interno del tribunale. L’iniziativa prosegue oggi, il 18 e il 20 dicembre, dalle 9.30 alle 13. Khalefa è uno dei ragazzi che ha lavorato duramente nel laboratorio del Beccaria: “Ci ho messo del tempo per imparare tutti i passaggi - racconta - ma con un po’ di pratica sono riuscito, ricordavo le dosi a memoria. Di solito eravamo in tre a impastare insieme a Giorgio, il maestro pasticciere, ma capitava anche che fossi da solo insieme a lui. Quelli erano i momenti migliori”. E i peggiori? “Quando infornavamo: bisognava aspettare un bel po’ prima che si cuocessero e mi annoiavo molto. Sono un tipo iperattivo, odio stare fermo” dice sistemandosi i capelli tirati indietro con il gel. E infatti oltre al laboratorio di pasticceria Khalefa fa anche giardinaggio e teatro, tutte attività organizzate all’interno del carcere: “Venerdì c’è il nostro spettacolo finale, io ho un monologo - rivela soddisfatto. Non so ancora quale sarà la mia strada, ma il laboratorio di pasticceria mi ha aiutato molto. È un lavoro che richiede tanta responsabilità, devi dimostrare di essere davvero affidabile”. E l’obiettivo, infatti, è quello di “costruire una rete di alternative per permettere ai giovani detenuti di reinserissi nella società - spiega Francesca Perrini, direttore del Centro di giustizia minorile. Perché, come i panettoni che preparano sono buoni dentro, ma vogliamo farli diventare anche buoni fuori”. Un percorso che secondo la psicosociologa Franca Manoukian, che ha partecipato alla presentazione dell’iniziativa, “è possibile solo se tutti, dalle istituzioni ai cittadini, si impegnano per ampliare la rete di solidarietà”. Acquistare i Buoni Dentro è un contributo importante: “I prezzi sono molto competitivi, un chilo costa circa 21 euro e ci sono molti gusti, dal classico al cioccolato e pere, al fichi e glassa” dice Tullia, una delle volontarie che si occupa della vendita. Anche per chi non ama uvetta e canditi, dunque, non ci sono scuse. Milano: i regali prodotti in carcere... biscotti, guanti, borse di Elena Gaiardoni Il Giornale, 15 dicembre 2017 “Buoni dentro” sono i panettoni prodotti dai ragazzi del Beccaria insieme agli chef. Una palla di vetro sull’albero di Natale. Nulla di più trasparente. Nella visione di un carcere sempre più trasparente, senza mura e barriere, visibile dall’esterno, spopolano quest’anno i prodotti realizzati negli istituti di pena. In occasione di queste festività, nel Tribunale per i minorenni di Milano c’è una vendita straordinaria dei panettoni Buoni Dentro prodotti dai ragazzi del Beccaria insieme a maestri artigiani. “È la dimostrazione che può uscire qualcosa di bello da questi giovani che hanno infranto la legge, ma che sono dotati di potenzialità positive a condizione che abbiano una buona rete sociale intorno” commenta Maria Carla Gatto, presidente del Tribunale per i minorenni. Il progetto “Buoni dentro” è stato possibile grazie al Centro Giustizia Minorile, l’Ipm Beccaria, l’ufficio Servizio Sociale Minorenni, la cooperativa Buoni Dentro. Per quanto concerne invece altri progetti che coinvolgono i carcerati in lavori attraverso i quali i detenuti ritrovano fiducia e credibilità in se stessi, in via dei Mille numero 1 all’angolo con piazzale Dateo al Consorzio Vialedeimille è stato realizzato un mercatino natalizio con ogni genere di regalo. “In questi giorni siamo impegnati nella ricerca di piccoli pensieri per i nostri cari dichiara l’assessore alle Politiche per il Lavoro, attività produttive e commercio Cristina Tajani. Qui possiamo trovare oggetti originali e di qualità che coniugano innovazione tecnologica e maestria artigianale. La collaborazione tra imprese ristrette e imprenditori che scelgono di produrre all’interno delle carceri consente di ampliare i percorsi di riqualificazione professionale per i detenuti aumentandone le competenze tecniche. Invito i milanesi a considerare questi manufatti come una valida alternativa ai classici regali”. Dai prodotti alimentari come vini, marmellate, panettoni, cioccolata, a quelli che riguardano il vestiario come grembiuli gourmet, borse, accessori in cashmere, per arrivare ai decori casalinghi come corone dell’avvento, runner, calendari, cartoline, fiori, piante: sono questi i doni che si possono acquistare in viale dei Mille. Sono regali buoni e che fanno bene. Buoni perché realizzati da persone che attraverso il lavoro si stanno scommettendo su un nuovo futuro. Fanno bene perché rimettono in moto l’economia carceraria, creando energie virtuose che, attraverso il lavoro, prevengono il rischio di una recidiva nel crimine. Sono implicati tutti gli istituti carcerari milanesi e cooperative e realtà che lavorano all’interno. Dolci, biscotti, pane fresco sono prodotti dal carcere di Opera insieme alla cooperativa In Opera. Cartoline d’auguri e calendari escono dalla tipografia nel carcere di Bollate. T-shirt, felpe, guanti da forno sono della storica cooperativa Alice che gestisce le sartorie nel carcere di San Vittore, Bollate, Monza e coordina una rete di laboratori in altri istituti penitenziari italiani. Roma: si chiama “Bread”, è una birra prodotta da detenuti con il pane avanzato di Ilaria Giupponi Corriere della Sera, 15 dicembre 2017 Recuper-Ale, la birra che recupera il cibo, ma anche le persone. È questa la nuova sfida dei ragazzi di Equoevento, la Onlus di quattro ragazzi romani che ricicla le eccedenze dei fastosi catering di eventi mondani per redistribuirle a mense e centri di accoglienza (equoevento.org). Ora arriva Bread, la birra fatta dal pane avanzato: a finire nella spazzatura ogni giorno infatti, è un terzo di quello prodotto. Ma ciò che rende la bevanda al luppolo ancora più preziosa, è che Bread verrà interamente lavorata e prodotta da detenuti inseriti in un percorso di reinserimento sociale. La fortunata idea nasce dall’incontro di Equovento con Semi di Libertà, un progetto di inclusione che forma le persone recluse nel carcere di Rebibbia a diventare mastri birrai. “Vale la pena” (www.valelapena.it), questo il nome del birrificio e dell’etichetta, che conta già 16 diversi tipi di buonissima birra (tra i quali Fa er bravo, Amarafemmena e Gattabuia, rispettivamente bionda, ambrata e scura), ora produrrà anche Bread, la prima birra di Recupera-Ale. “Permettendo di dare una seconda chance al pane e alle persone”, commentano gli organizzatori. “Il fine”, spiega al Corriere il presidente di Semi di Libertà, Paolo Strano, “è quello di contrastare le recidive, che arrivano al 70 per cento tra chi non gode di misure alternative”. La birra è stata presentata ufficialmente qualche giorno fa alla serata di gala e beneficienza organizzata all’Hilton di Roma, fra i partner di Equoevento. A fare da madrina alla serata, il cui ricavato servirà per la cena di Natale di Sant’Egidio, Erminia Ferrari Manfredi, vedova di uno dei volti più amati della comicità romana, Nino. Sulmona (Aq): Ministro Fedeli “educazione nelle carceri per il rispetto delle differenze” abruzzoweb.it, 15 dicembre 2017 “Avvierò, a cominciare dal carcere di Sulmona, una campagna di educazione nelle carceri per il rispetto delle differenze etniche, religiose, politiche e anche di condizione personale. Perché le differenze sono un valore e una risorsa”. Lo ha detto il ministro dell’Istruzione Valeria Fedeli, partecipando al convegno sul pensiero del primo ministro della Pubblica Istruzione dell’Italia Unita Francesco De Sanctis “Coscienza critica dell’Italia unita”, che si è tenuto, nel carcere di Sulmona (L’Aquila), nell’ambito del bicentenario della nascita dello studioso. “Ricordando il ministro Francesco De Sanctis che ha puntato sul valore ovunque e per tutti della cultura, dell’istruzione e della formazione”, ha aggiunto il ministro Fedeli - significa rinnovare e far conoscere un pensiero, un ministro un politico che ha puntato molto su quello che è, straordinariamente un valore attuale: puntare su cultura, istruzione e formazione anche per chi è recluso per saper guardare oltre le sbarre e quindi affrontare la propria condizione, la propria responsabilità”. Inoltre “in occasione del 70 esimo anniversario dell’entrata in vigore della Carta costituzionale della Repubblica distribuiremo a tutti gli studenti e le studentesse di ogni ordine e grado una copia della Costituzione per far leggere, conoscere, approfondire, ovviamente a seconda del grado e del percorso scolastico, il dibattito dei padri e delle madri della Costituzione che hanno costruito quelle sintesi fondamentali, soprattutto dei primi articoli della Carta”. “Presenteremo l’iniziativa in una scuola di periferia di Roma insieme al presidente della Corte Costituzionale - ha dichiarato ancora la Fedeli - perché oltre a dire qual è il valore di questo percorso c’è anche un accordo per un protocollo sottoscritto con il presidente della Corte Costituzionale che metterà a disposizione delle scuole tutti i giudici della Consulta per approfondire sia la funzione della Corte Costituzionale, sia dell’insieme delle leggi che in attuazione dei principi della nostra Costituzione hanno migliorato le condizioni di vita, di lavoro della cittadinanza del nostro Paese”. Larino (Cb): fondo per borse-lavoro e tirocini formativi ai detenuti cblive.it, 15 dicembre 2017 “Le reali condizioni di quanti vivono negli Istituti di pena non sono forse note a tutti: la reclusione impedisce spesso alla società intera di avere piena consapevolezza delle povertà di tante persone che avendo commesso reati vivono periodi, più o meno lunghi, lontani dalle loro famiglie che spesso subiscono conseguenze molto dolorose, economiche e psicologiche; le nostre coscienze sono certamente interpellate a mostrare attenzione e offrire risposte concrete con generosità”. Con questa riflessione la Diocesi di Termoli-Larino, già da tempo e in vari modi attivamente presente verso questa realtà, promuove un Fondo di sostegno a favore dei detenuti della Casa Circondariale di Larino finalizzato a sostenere tirocini formativi e borse-lavoro, in collaborazione con il direttore dell’Istituto, Rosa La Ginestra. Domenica 17 dicembre 2017, terza domenica di Avvento, tutte le comunità parrocchiali, movimenti, gruppi e associazioni ecclesiali sono invitate a condividere una concreta testimonianza di fraternità: quanto raccolto nelle celebrazioni parrocchiali sarà destinato al sostegno concreto dei detenuti. L’invito è rivolto a tutti, alla società intera, perché ci si apra alla condivisione con quanti vivono una particolare condizione di povertà, e inoltre sentono la responsabilità per le loro famiglie non raramente in condizioni di estremo bisogno. Oltre alla raccolta-fondi le comunità parrocchiali autonomamente possono decidere di raccogliere anche beni di prima necessità (per esempio prodotti per l’igiene personale e abbigliamento) che verranno gestiti dal Cappellano, don Marco Colonna, e dal gruppo dei volontari che da anni con grande generosità esprimono vicinanza e solidarietà concreta ai detenuti di Larino. Un’iniziativa importante che si inserisce nella più ampia azione di solidarietà che comprende l’ascolto, l’accoglienza, l’ospitalità concreta, l’affiancamento e la relazione come elemento fondamentale di aiuto anche alle famiglie, spesso trascurate o dimenticate. Roma: “Guardiamo Oltre”, il 18 dicembre il rapporto Antigone sulle carceri minorili nelpaese.it, 15 dicembre 2017 Il prossimo 18 dicembre a Roma, a partire dalle ore 11.00 presso il Cesv, in via Liberiana 17, si terrà la conferenza stampa di presentazione di “Guardiamo Oltre”, 4° Rapporto di Antigone sugli Istituti di Pena per Minorenni. A distanza di due anni dal precedente e nel momento in cui il governo è impegnato nella scrittura dei decreti delegati alla riforma dell’ordinamento penitenziario, “vogliamo fare il punto sulla detenzione minorile nel nostro paese, così come emersa dalle visite effettuate dal nostro Osservatorio”. Verranno illustrate in esclusiva storie, dati, numeri e mostrate immagini video degli Ipm in Italia. Durante la conferenza stampa sarà anche presentato un nuovo sito realizzato da Antigone e dedicato esclusivamente alla giustizia minorile, nel quale confluiranno tutti i precedenti rapporti, insieme a schede relative agli Ipm, video, gallerie fotografiche e approfondimenti sul tema. Alla conferenza stampa parteciperanno: Patrizio Gonnella (Presidente Antigone), Susanna Marietti (Coordinatrice Nazionale Antigone), Alessio Scandurra (Responsabile Osservatorio Antigone sulle Condizioni di Detenzione), Francesco Cascini (Presidente della Commissione per la riforma dell’ordinamento penitenziario minorile), Mauro Palma (Garante Nazionale dei Diritti delle Persone detenute o Private della Libertà Personale) e Concetto Zanghi (Responsabile Sezione Statistica del Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità). Cassino (Fr): l’Itcg “Medaglia d’Oro” sfida i detenuti per una partita a calcetto frosinonetoday.it, 15 dicembre 2017 Sfida di calcetto tra studenti e detenuti della Casa circondariale cittadina nella convinzione che lo sport sia un tassello fondamentale per l’aggregazione e la crescita dei ragazzi. Dopo l’escursione sui sentieri di Montecassino e la partecipazione alla conferenza delle Universiadi di Napoli, l’Istituto Tecnico Commerciale per Geometri “Medaglia d’Oro” di Cassino si appresta ad un’altra importantissima iniziativa sportiva: nella giornata di oggi, giovedì 14 dicembre, l’Itcg sarà nella Casa circondariale di Cassino per una partita a calcetto con i detenuti. Le parole del prof. Calce - L’iniziativa è a cura dei professori Vincenzo Rega e Carmine Calce: entrambi saranno della partita insieme al dirigete scolastico Marcello Bianchi. Il professor Calce, che è anche il presidente del Centro Universitario Sportivo della città martire, già in altre occasione con una delegazione dell’ateneo ha organizzato tali iniziative nel carcere. “È un modo originale - spiega il docente - per farci gli auguri di Natale e far trascorrere delle belle giornate all’insegna dello sport ai detenuti della casa circondariale di Cassino. Non si tratta di eventi fini a se stessi ma che ormai sono consolidati nel tempo”. Il commento del preside Bianchi - A rafforzare il concetto espresso dal professor Calce è il preside Marcello Bianchi, che sarà della partita. E che argomenta: “L’Istituto Tecnico Commerciale per Geometri “Medaglia d’Oro” di Cassino è una scuola che è ormai un punto di riferimento del territorio e si è sempre distinta in vari settori. Puntiamo molto sullo sport perché è un tassello fondamentale per la crescita dei ragazzi. Lo sport - dice Bianchi - ha delle regole molto importanti, che rappresentano dei valori. Bisogna far capire ai nostri studenti che infrangere le regole significa infrangere dei valori per questo abbiamo fortemente voluto questa iniziativa nella casa circondariale”. Ma le iniziative sportive dell’Itcg non finiscono qui: a breve sarà organizzato una sorta di triathlon scolastico ovvero un torneo tra tutte le scuole medie del territorio con partite di tennis tavolo e di scacchi. E in futuro non sono escluse altre grandi iniziative sempre a carattere sportivo. Intanto quest’oggi I ragazzi del “Medaglia d’Oro” dovranno farsi valere sul campo del “San Domenico”. Civitavecchia (Rm): “Risveglio”, la vita del carcere raccontata dai detenuti di Elena Paparelli vociglobali.it, 15 dicembre 2017 La cinema-terapia è una terapia psicologica, nata dallo psicoterapeuta statunitense Gary Salomon, che considera la valenza terapeutica della visione di un film che, in qualche modo, rappresenta sullo schermo il disagio di chi guarda. Liberare le emozioni attraverso l’abbattimento di ogni filtro fra sé e la storia raccontata, e lasciarsi coinvolgere dalla narrazione che riproduce, frammento dopo frammento, le nostre inquietudini: in una parola, entrare più profondamente nel cuore del proprio malessere e ripercorrerne il sentiero serve ad aumentare la consapevolezza del proprio sentire, utile a trovare la strada per la guarigione. Se poi la cinema-terapia non si limita alla visione di un film, ma mette direttamente in scena la propria condizione di disagio, l’effetto, va da sé, è potenziato. È quanto è successo con il film “Risveglio” con la regia di Pietro Benedetti, che interpreta anche il protagonista: dal laboratorio “Un cielo fra le sbarre” realizzato con 37 detenuti del nuovo Istituto penitenziario di Civitavecchia. Ne è nata una pellicola che racconta, dal di dentro, la vita della prigione in una quotidianità passata fra la condivisione di un caffè, una partita di carte o di pallone. La condizione di costrizione fisica, affettiva e intellettuale viene “riscattata” dall’elaborazione della propria esperienza tradotta in una storia costruita collettivamente: due incontri a settimana per un totale di 5 ore a settimana e 20 ore al mese; un progetto importante che ha visto i detenuti protagonisti di un laboratorio di 5 mesi e mezzo per 100 ore complessive divise in laboratorio di scrittura, recitazione, ripresa video, montaggio, creazione di colonne sonore e confezione del prodotto finale. Un work in progress che ha messo al centro del progetto l’ascolto dinamico come motore della produzione di storie, delle proprie storie, da condividere anche con un pubblico, quello che sta oltre le sbarre. Il film - 56 minuti - realizzato grazie alla collaborazione fra la Casa circondariale di Civitavecchia e l’Associazione culturale Real Dreams, inizia raccontando l’amicizia fra chi è entrato in carcere per sbaglio pur essendo innocente - Pietro Benedetti, che è anche il regista del film - e chi sta scontando una pena. L’esperienza della detenzione crea molto presto un clima di familiarità e supporto fra i detenuti, e il protagonista, inizialmente preda della disperazione, si sente “integrato”. Davide Boninsegna, dell’Associazione culturale Real Dreams, che del film ha curato il montaggio e la sceneggiatura, ci racconta come è andata. “Essenzialmente - spiega a Voci Globali - la sceneggiatura l’ha scritta Pietro Benedetti con i detenuti durante il laboratorio. Da loro Pietro ha saputo tirar fuori le loro sensazioni e i loro sogni, che sono stati usati per confezionare la storia. La conoscenza detentiva vissuta in prima persona è stata indispensabile per raccontare la vera vita di un detenuto senza cose inventate, ma fedeli alla realtà”. Rispetto alle immagini del carcere a cui siamo abituati - quelle cioè che ritraggono un’istituzione fatta di soprusi e violenze - in questo film si sottolinea l’aspetto di umanità e collaborazione fra i detenuti. “Sentendo parlare i detenuti che hanno partecipato al laboratorio credo siano davvero solidali anche nell’affrontare la vita carceraria ogni giorno” - dice Davide. “E comunque, parlando nello specifico del nostro film hanno tutti mostrato un fervido interesse e una grande partecipazione. Vedendoli così attivi e propositivi viene proprio da pensare che occorrerebbe trovare le chiavi giuste per ‘toccarli’ adeguatamente in modo da trasformare il carcere in un luogo di vera rieducazione”. Da un punto di vista stilistico si è scelto di tenere la telecamera piuttosto ferma, senza troppi primi piani, con stile il più possibile documentaristico. L’effetto “realtà” funziona, non c’è bisogno di enfasi per far arrivare lo spettatore “dritto” al problema. “Esattamente, niente fronzoli, ma il più possibile vicini alla realtà di vita del carcere”, conslude Davide. E la colonna sonora è davvero in linea con il lavoro: “Viva” di Enrico Capuano, che dà il titolo anche al suo ultimo lavoro discografico prodotto da Blond Records. “Razzismo ieri e oggi”, di Nicolò Bonacasa, Le radici storiche di un fenomeno pernicioso recensione di Salvatore Vento Il Manifesto, 15 dicembre 2017 Il libro di Nicolò Bonacasa, “Razzismo ieri e oggi” (De Ferrari Editore, pp. 534, euro 24), ci permette di ampliare l’orizzonte storico di un fenomeno d’estrema attualità. Il razzismo viene definito una “malattia” che percorre la storia dell’umanità e che si manifesta in vari modi: dalle persecuzioni contro singoli individui o gruppi sociali considerati diversi e inferiori rispetto al “noi” del gruppo dominante, sino alle guerre di sterminio praticate nel corso dei secoli. Il razzismo contemporaneo è palesemente legato ai flussi migratori dai paesi più poveri a quelli più ricchi ed è destinato a provocare reazioni di rigetto tra gli strati popolari, come fra l’altro era già avvenuto nel passato per l’emigrazione italiana verso altri paesi europei e le Americhe. L’autore sottolinea il continuo ribaltamento di posizioni tra persecutori e perseguitati. L’intolleranza si manifesta anche in certi settori che consideriamo tradizionalmente pacifisti, contrastanti i libri sacri di tutte le confessioni religiose che proclamano la pace tra i popoli e l’amore verso il prossimo. Le radici di tale fenomeno sono più antiche di quanto appaiano oggi; già nella gloriosa Atene della polis e della nascita del pensiero politico, si stima che tra il V e IV secolo a.C. gli schiavi superassero il numero delle famiglie residenti. Altrettanto nella Roma imperiale, dove gli schiavi, che non erano considerati uomini, venivano venduti all’asta nei pubblici mercati. Niente di diverso intorno alla scoperta dell’America che fu duramente pagata dagli indigeni, come denunciava lo stesso Bartolomé de Las Casas. L’arrivo di Cristoforo Colombo con le sue caravelle il 12 ottobre 1492, e le successive spedizioni al servizio dei reali di Spagna, segnarono l’inizio dello sterminio per i popoli nativi. Negli Stati Uniti - dalla dichiarazione d’indipendenza in poi - gli scontri tra il nuovo Stato e le popolazioni indigene furono caratterizzati da continui massacri e nel 1883 la Corte Suprema riconosceva “un indiano d’America come uno straniero”. In epoca a noi contemporanea Bonacasa descrive i casi del genocidio in Cambogia negli anni Settanta e quello in Ruanda nel 1994. I militanti del Partito comunista cambogiano, detti Khmer rossi, diretti da Pol Pot, sterminarono oltre un milione e mezzo di persone. Tra le vittime vanno annoverate i monaci buddisti (su 70mila ne sopravvissero soltanto 2mila) e i musulmani, che rappresentavano le due principali religioni professate nel paese. In Ruanda (in passato colonia belga) in appena cento giorni di scontri interetnici furono massacrate oltre 800mila persone, soprattutto di etnia Tutsi, cui si aggiungono alcuni milioni di rifugiati nei paesi confinanti (Burundi, Tanzania, Congo). Gli organismi internazionali assistettero impotenti. Infine arriviamo ai flussi migratori e alla conseguente diffusione dell’ideologia razzista. In questo caso, l’autore parte da un’analisi della povertà che riguarda circa tre miliardi di persone nel mondo, di cui mezzo miliardo in Africa. Un nuovo concetto, per capire il mutamento dell’immaginario collettivo su questi temi, è quello chiamato “razzismo istituzionale” che coinvolge i rappresentanti delle autorità (forze di polizia, amministratori locali, addetti ai pubblici servizi); è di carattere sotterraneo e non viene mai esplicitato, ma si evidenzia in certe pratiche discriminatorie. I respingimenti dei migranti provenienti da diversi paesi sub sahariani imbarcati in Libia, e attuati nel 2009 dal governo Berlusconi, rientrerebbero, secondo Bonacasa, in questa casistica. Il biotestamento è legge. Possibile il “no” alle cure di Mariolina Sesto e Lucilla Vazza Il Sole 24 Ore, 15 dicembre 2017 Con il via libera del Senato nello stesso testo uscito dalla Camera (180 sì, 71 no e 6 astenuti), il biotestamento è legge. La norma che consente al malato terminale di rifiutare le cure passa grazie all’insolito asse tra Pd, M5S e sinistra e spacca il mondo cattolico. Divisa al suo interno persino l’Associazione medici cattolici (Amci) con il vicepresidente che preannuncia una “forte obiezione di coscienza” e la sezione milanese della stessa associazione che prende posizione in favore della legge. Fortemente contrari i vescovi che la ritengono una norma “inadatta ai sofferenti”. Esulta il premier Paolo Gentiloni: “Quella del Parlamento è una decisione che fa fare un passo avanti a tutti in termini di civiltà per il Paese e di dignità per la persona umana”. E si intestano la vittoria anche Matteo Renzi e Luigi Di Maio. Si espongono anche i presidenti delle Camere Laura Boldrini e Pietro Grasso. Quest’ultimo si proietta in avanti sperando si trovi una finestra per approvare “lo ius soli”. In Parlamento a scagliarsi contro la legge sono soprattutto i cattolici di Idea con Eugenia Roccella e Gaetano Quagliariello che intravedono nella possibile sospensione di idratazione e alimentazione “la “via italiana all’eutanasia”. Una tesi rigettata dal ministro della Salute Beatrice Lorenzin che, pur non scaldandosi per questa legge esclude che si configuri come una prima tappa verso l’eutanasia: “Avrei preferito che ci fosse stato il modo di trovare soluzioni a delle problematiche tecniche e questo purtroppo non c’è stato. Ritengo però che ora che è stata approvata la legge si debba rafforzare ancora di più il rapporto tra medico e paziente perché non dobbiamo creare alcun meccanicismo” commenta. Sul fronte opposto i Radicali, con Emma Bonino e Mina Welby presenti ed emozionati al momento dell’approvazione. Così come Beppino Englaro, il padre della giovane Eluana, rimasta in stato vegetativo per oltre 17 anni: “Non dovrà esserci mai più una tragedia nella tragedia come quella di Eluana - commenta -: questo è un giorno importante per i diritti e le libertà di tutti”. La nuova legge riguarda la vita di tutti, giovani e meno giovani. Il testamento biologico non è un atto obbligatorio, è sempre revocabile e modificabile. È un ampliamento delle libertà personali in direzione di una piena autodeterminazione anche in tema di salute. L’invecchiamento della popolazione italiana è un dato di fatto strutturale. Gli italiani vivono e vivranno sempre più a lungo, ma con più anni di invalidità, come ha spiegato l’Organizzazione mondiale della sanità. Un Paese vecchio è più esposto a malattie neurodegenerative e a demenze. Già oggi un milione di italiani è affetto da Alzheimer e altre malattie che portano alla perdita delle facoltà cognitive. I numeri sono destinati a triplicarsi nei prossimi 40 anni. Un boom di pazienti non più in condizioni di decidere sul proprio fine vita. Chi deciderà per loro quando sarà il momento? La legge serve a questo. La norma, nelle intenzioni di chi l’ha scritta, rinsalda l’alleanza tra medico e paziente, perché porta chiarezza sul da farsi quando le chance di guarigione sono finite. E una cornice di regole gioverà all’organizzazione sanitaria, come spiega Francesco Ripa di Meana, presidente Federazione Italiana Aziende Sanitarie ed Ospedaliere: “Indicazioni certe porteranno più fiducia nella relazione medico-paziente e questo farà bene al clima in corsia. I medici ogni giorno operano delle scelte, davanti a un biotestamento potranno farlo con più serenità”. Per questo la leader degli ordini dei medici (Fnomceo), Roberta Chersevani, ha chiarito che nella legge si ritrovano principi che derivano dallo stesso Codice deontologico dei camici bianchi, che non sono chiamati a dire no alla vita, ma a evitare l’accanimento terapeutico. Fatta salva l’autonomia del medico che può fare obiezione di coscienza. Proprio su questo diritto del medico, la legge entra nel dettaglio per evitare ciò che succede da 40 anni con l’applicazione della legge 194 sull’interruzione di gravidanza, dove l’obiezione di coscienza è diventato il grande ostacolo all’erogazione dei servizi in tutto il Paese. “La regolamentazione del fine vita è l’ideale completamento delle legge sulla donazione dei trapianti che ha fatto fare un balzo in avanti alla cultura dei diritti e inserito un principio di solidarietà” ha commentato Giuseppe Vanacore, presidente dell’associazione dei pazienti dializzati e trapiantati (Aned). Il biotestamento è legge. Da Coscioni a Dj Fabo, vinta una battaglia durata quindici anni di Eleonora Martini Il Manifesto, 15 dicembre 2017 In piazza Montecitorio esultano i protagonisti della lunga lotta per il diritto a scegliere come morire. Englaro: “Mai più un’altra Eluana”. I medici cattolici: “Obiezione di coscienza”. Quando il cartellone dei voti elettronici del Senato si illumina di verde lasciando il rosso in una piccola porzione di spazio - che tradotto in numeri significa 180 favorevoli, 71 contrari e 6 astenuti, insieme all’applauso liberatorio sfuggono anche le lacrime. Dalla tribuna del Senato dove hanno atteso il voto definitivo alla legge del testamento biologico, Emma Bonino, Mina Welby, Filomena Gallo e gli altri leader dell’Associazione Luca Coscioni raccolgono così il primo frutto di una ultra decennale battaglia di cui sono stati antesignani e protagonisti assoluti insieme a Marco Pannella. Al loro fianco ci sono Carlo Troilo, fratello di Michele, i familiari di Luca Coscioni, la compagna di Mario Monicelli, la figlia di Carlo Lizzani e le mogli di Giovanni Nuvoli e Luigi Brunori, testimoni di un passaggio in qualche modo epocale per il nostro Paese che non sarebbe stato possibile senza il loro coraggio e quello dei loro cari defunti. Con un’accelerazione impressa - oltre che da motivi di equilibri politici - dalla toccante odissea di Dj Fabo che ha dovuto chiedere aiuto a Marco Cappato per andare in Svizzera a suicidarsi, si conclude così una via crucis durata almeno una quindicina d’anni e che ha seminato molto dolore. Fuori, in Piazza Montecitorio dove è possibile manifestare, insieme a Marco Cappato e ai Radicali italiani a festeggiare l’arrivo del nuovo diritto ci sono centinaia di cittadini comuni ed esponenti del Pd, del M5S, di Mdp, di Sinistra italiana e perfino del centrodestra, di quella maggioranza trasversale cioè che ha tenuto - improvvisamente, e dopo anni in cui una legge sul fine vita seppur così minima sembrava un obiettivo quasi irraggiungibile - anche all’urto dei voti segreti imposti agli emendamenti. Il testo licenziato ieri in via definitiva dal Senato era rimasto congelato in commissione Sanità dal 20 aprile scorso, quando era stato approvato dalla Camera. Ma il parto di una legge sul fina vita è stato lungo e doloroso, iniziato nel 2003 con una lettera di Piergiorgio Welby al Comitato nazionale di bioetica, passato attraverso le forche caudine del decreto del governo Berlusconi che nel 2009 tentava di fermare la morte liberatoria di Eluana Englaro (allora il Senato promise una legge entro trenta giorni, ma non se ne fece nulla) e continuato nel 2011 con il primo tentativo di normare le “Dichiarazioni anticipate di trattamento” - non vincolanti e senza alcun registro - poi affossate. Da allora in poi sono state 16 le proposte di legge depositate in materia, la prima di senso compiuto portava la firma del senatore dem Ignazio Marino, allora presidente della commissione Sanità. Emma Bonino, che del Senato fu vicepresidente dal 2008 al 2013, ricorda tutto, compresi gli “insulti”, di quel “dibattito insopportabile sul caso di Eluana Englaro che mi toccava presiedere”. E “quanto tempo, quanta fatica per arrivare a una legge di umanità - perché questo è - però quando si riesce a far sì che le istituzioni ascoltino… sono emozioni importanti - afferma l’ex ministra degli Esteri parlando alla piccola folla in piazza Montecitorio -. Ma proprio perché è un piccolo passo avanti, da qui dobbiamo trovare la forza per gli altri passi che ancora restano da compiere”. E sono tanti, perché il testo che norma le Disposizioni anticipate di trattamento (nell’articolo 4, il cuore della legge composta da otto articoli) lascia fuori una larga fascia di malati che ambiscono a una morte dignitosa e senza dolore ma che non dipendono da una macchina. Nel primo articolo della legge appena varata si affronta il nodo del consenso informato stabilendo -punto importante - che “il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura”; il secondo promuove la terapia del dolore e vieta l’accanimento terapeutico; il terzo considera l’applicazione delle norme su minori e incapaci; il quinto approfondisce il senso della relazione medico-paziente e della “pianificazione condivisa delle cure” attraverso anche la figura del fiduciario. Ma è nel quarto che si esprime la possibilità di ricorrere alle Dat “in previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi e dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle scelte”. Le Dat, nelle quali è possibile “rifiutare in tutto o in parte qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario”, comprese la nutrizione e l’idratazione artificiali, vanno depositate presso un notaio o presso il comune di residenza che provvederà ad inserirle nel registro regionale. È prevista la figura di un fiduciario, in mancanza del quale, nel caso fosse necessario, il giudice tutelare potrebbe nominare un amministratore di sostegno. Il comma 5 spiega che “il medico è tenuto al rispetto delle Dat, le quali possono essere disattese, in tutto o in parte, dal medico stesso, in accordo con il fiduciario, qualora esse appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistano terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita”. In sostanza si aprono le porte all’obiezione di coscienza. E infatti accanto alle prevedibili reazioni di sdegno del mondo ultracattolico - in particolare quelle della Cei che parla di “legge preoccupante che presenta un percorso eutanasico” - va segnalata la preoccupante presa di posizione dell’Associazione Medici cattolici italiani (tranne la sezione di Milano dell’Amci che si pone in dissenso al presidente nazionale) che prevede “una forte probabilità di ricorso all’obiezione di coscienza”. Previsione purtroppo non fantasiosa. Motivo per il quale si può solo sperare che abbia ragione Beppino Englaro quando esulta pensando a sua figlia e dice: “Da oggi mai più un’altra Eluana”. Migranti. In Ue è dialogo tra sordi: da Italia e Germania critiche a Tusk di Ivo Caizzi Corriere della Sera, 15 dicembre 2017 I Paesi dell’Est danno 36 milioni per la Libia, ma rifiutano le quote. Brexit, via alla fase 2. Nel Consiglio dei 28 capi di Stato e di governo dell’Ue è stata di nuovo bloccata la proposta italiana di quote obbligatorie di ripartizione dei rifugiati e di riforma del Trattato di Dublino, che ora assegna i profughi al Paese di primo arrivo penalizzando principalmente Italia, Grecia e Spagna. I capi di governo dell’Est del gruppo di Visegrad, l’ungherese Viktor Orban, lo slovacco Robert Fico, il polacco Mateusz Morawiecki, e il ceco Andrej Babis, appoggiati informalmente da vari Stati del Nord, hanno mantenuto la loro netta opposizione in un incontro con il premier Paolo Gentiloni prima del summit a Bruxelles. L’unico risultato è stato un mini-finanziamento (36 milioni) per difendere le frontiere in Libia, che i quattro est-europei hanno promesso per ribadire di voler partecipare a interventi di solidarietà solo fuori dall’Ue. In sostanza ha prevalso l’opposizione dura anticipata dal presidente del summit Ue, il polacco Donald Tusk, nonostante le richieste italiane siano state ancora appoggiate da dichiarazioni pubbliche della cancelliera tedesca Angela Merkel, che ha auspicato “soluzioni basate sulla solidarietà all’interno dell’Europa” perché “il sistema di Dublino non funziona”. Il presidente francese Emmanuel Macron si è offerto di mediare per “arrivare a risultati nel 2018”.Ma Gentiloni ha ammesso che i quattro di Visegrad si trovano “quasi agli estremi opposti sulla dimensione interna” rispetto alla linea italiana, che considera le “quote obbligatorie” di rifugiati “il minimo sindacale per l’Ue”. Il presidente dell’Europarlamento Antonio Tajani, ascoltato all’inizio del summit, ha contestato l’ennesimo rinvio su Dublino sostenendo che “l’Europa non può rimanere bloccata dai veti perché i cittadini non capirebbero”. Tajani, ricordando il ruolo co-decisionale degli eurodeputati (con il Consiglio dei governi), ha chiesto di votare “a maggioranza qualificata come prevedono i Trattati” (e non all’unanimità) in modo da superare i veti degli Stati dell’Est. Merkel, Macron e Gentiloni hanno promosso l’approvazione della cooperazione permanente strutturata “Pesco”, fase iniziale della difesa militare comune, che fa stimare risparmi fino al 30% della spesa nazionale nel settore (se in futuro si riuscisse a completarla). Venticinque Paesi membri hanno condiviso i primi 17 progetti militari. Via libera anche alla proposta tedesca di far estendere in gennaio le sanzioni alla Russia per l’occupazione della Crimea. Il summit si è proseguito nella notte sulla proposta belga di contestare il presidente Usa Donald Trump per il suo riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele, che ha riacceso le tensioni in Medio Oriente. La responsabile Esteri Federica Mogherini ha ribadito la posizione unitaria dell’Ue su “Gerusalemme, capitale di due Stati, Israele e Palestina”. La premier britannica Theresa May doveva poi garantire come vincolante l’accordo in tre punti sulla prima parte della Brexit, nonostante la sconfitta in Parlamento a Londra abbia indebolito la sua autonomia negoziale a vantaggio dei deputati. Oggi, dopo l’Eurosummit alle 8 del mattino sull’Unione monetaria, nel successivo vertice a 27 sulla Brexit (senza il Regno Unito) dovrebbe arrivare il via libera alla seconda (e più difficile) fase di trattativa sui rapporti commerciali. “Non vedo l’ora di discutere della relazione speciale e ambiziosa, che voglio costruire con l’Ue in futuro”, ha dichiarato Theresa May. Migranti. Dopo avere allontanato le Ong, la Libia abbandona i “soccorsi” di Nello Scavo Avvenire, 15 dicembre 2017 Le autorità di Tripoli rinunciano a sorvegliare le acque internazionali. Prima ne rivendicavano il pieno controllo. È ufficiale: la Libia rinuncia ai soccorsi in mare al di fuori delle acque territoriali. Il dietrofront di Tripoli è stato comunicato all’Organizzazione marittima internazionale quattro giorni fa. Dopo mesi di polemiche e intimidazioni a mano armata contro le Ong che si spingevano fino al confine delle 12 miglia marittime, Tripoli riconosce di non essere in grado di presidiare la zona di ricerca e soccorso (Sar) rivendicata dallo scorso luglio, in concomitanza alla stretta sulle operazioni delle organizzazioni non governative. Il segretariato dell’Organizzazione marittima in alcuni documenti afferma che la missiva del governo di transizione “ritira la precedente notifica ufficiale”, datata 10 luglio 2017. In quella circostanza Tripoli aveva fatto sapere di essersi riappropriata dell’area Sar stabilita all’epoca di Gheddafi. Tanto che le cartine adoperate dalla missione europea “EuNavFor Med (Sophia)”, riportano quale unica zona Sar libica proprio quella risalente all’epoca del dittatore e poi confermata dal governo riconosciuto di Sarraj. L’Organizzazione marittima internazionale è una convenzione autonoma dell’Onu. I paesi membri si impegnano a prevedere e rispettare degli standard riguardanti la navigazione. Del board di direzione fa parte anche un ufficiale della Marina Italiana. Fino a luglio le operazioni di ricerca e soccorso avvenivano in un’area al limitare delle acque territoriali di Tripoli. “Noi vogliamo mandare un chiaro messaggio a tutti coloro che infrangono la sovranità libica e mancano di rispetto per la Guardia costiera e la Marina”, aveva detto il portavoce delle forze navali Ayub Qassem, riferendosi in particolare alle Ong. L’area prima rivendicata e ora oggetto di rinuncia si estende fino a circa 180 chilometri dalla costa, a metà rotta tra Lampedusa e Tripoli e quasi a ridosso delle acque maltesi. Il generale Abdelhakim Buhaliya, comandante della base di Tripoli, dove vive praticamente da asserragliato il presidente Sarraj, aveva tuonato: “Nessuna nave straniera ha diritto di entrare senza espressa richiesta delle autorità libiche”. Una decisione che aveva provocato diversi incidenti, con le navi delle Ong allontanate a colpi di mitra, altre volte sequestrate per ore. In almeno un caso si è sfiorato lo speronamento. A causa della Sar libica, il centro di coordinamento dei soccorsi di Roma - che da alcuni mesi si appoggia ad una struttura congiunta italo-libica presso la nave della Marina italiana ‘Tremiti’ ormeggiata a Tripoli - in diverse occasioni aveva prima inviato le Ong a salvare i migranti, ma poi le aveva fermate in attesa delle motovedette libiche. La rinuncia di Tripoli, a questo punto, lascerà scoperto un ampio tratto di mare che i trafficanti di uomini hanno più volte dimostrato di poter attraversare pressoché indisturbati. La notizia, ottenuta da Sergio Scandura di Radio Radicale e confermata ad Avvenire da diverse fonti, è destinata a cambiare ancora una volta lo scenario nel Mediterraneo, a pochi giorni dalla scadenza degli accordi di transizione. Due giorni fa Amnesty International ha accusato i governi dell’Ue, e in particolare l’Italia, di essere “consapevolmente complici delle torture e degli abusi su decine di migliaia di migranti detenuti dalla autorità libiche”. Una denuncia che Tripoli ieri ha definito “molto esagerata”. Al contrario “siamo molto soddisfatti dell’aiuto che stiamo ricevendo dall’Italia per migliorare le condizioni nei campi di detenzione”, ha detto il ministro degli Esteri libico Mohamed Taher Siala. Nelle stesse ore si è appreso che la Russia è pronta a sostenere l’allentamento dell’embargo sulle armi per la Libia. La minaccia, perciò, è che dai soccorsi agli accordi politici il tavolo rischia di saltare. Myanmar. Msf: “in un mese il massacro di 6.700 rohingya in Myanmar” di Emanuele Giordana Il Manifesto, 15 dicembre 2017 L’Ong umanitaria Msf con indagine dai campi profughi in Bangladesh rivede le stime sulle morti della minoranza musulmana a settembre nello stato birmano del Rakhine. Non sono stati 400 i morti dell’ultimo pogrom scatenato in Myanmar contro la minoranza musulmana dei rohingya. In un mese, dal 25 agosto al 24 settembre 2017, sono morte per cause violente nello Stato birmano del Rakhine almeno 6.700 persone tra cui 730 bambini al di sotto dei 5 anni. Dei 9mila morti stimati (per difetto) durante l’esodo verso il vicino Bangladesh, molti sono probabilmente stati uccisi dalla fame e dalle malattie ma oltre 6mila - e cioè uno ogni cento per i 647mila fuggiti oltre confine - sono stati vittime di violenza. Lo dice un rapporto-indagine di Medici senza frontiere, un’ong che ha seguito la vicenda rohingya anche quando non era esplosa in tutta la sua brutalità. Secondo le stime più prudenti, dice Msf, dei 9mila decessi il 71,7% dei casi è stato causato direttamente dalla violenza e in un solo mese 6.700 tra uomini e donne hanno perso la vita colpiti da armi da fuoco (69% dei casi negli adulti; 59% nei bambini), bruciati vivi nelle loro case (9% negli adulti; 15% nei bambini), per violenti percosse (5% negli adulti; 7% nei bambini) e per l’esplosione di mine (2% nei bambini). È un quadro ancora più oscuro rispetto a quanto sapevamo anche perché documentato da un’organizzazione umanitaria neutrale e che ha ricavato i numeri del dramma - per il quale sono già stati usati i termini genocidio, pulizia etnica, apartheid - da migliaia di interviste, racconto di una fuga imposta da incendi, stupri e, come ora sappiamo, da una ritorsione che aveva evidentemente lo scopo di fare piazza pulita e spingere chi partiva a non fare più ritorno. Ed è in questo quadro oscuro che, entro gennaio, dovrebbe ricominciare il rimpatrio dei profughi rohingya, secondo un accordo firmato tra il governo di Dacca e quello birmano. Accordo su un ritorno impossibile come hanno già certificato Amnesty International e Human rights watch e su cui ora anche Msf esprime dubbi: la firma di un accordo per il ritorno dei rohingya tra i governi di Myanmar e Bangladesh è stata prematura, dicono i Medici senza frontiere, perché i profughi non possono essere costretti a ritornare in Myanmar e la loro sicurezza e i loro diritti devono essere garantiti prima che qualsiasi piano di rientro venga preso seriamente in considerazione. Anche la Croce Rossa fa il punto della situazione dall’altra parte della frontiera e cioè sul luogo del futuro rimpatrio. Dominik Stillhart, che dirige le operazioni nel Rakhine del Comitato internazionale (Icrc) - una delle poche agenzie internazionali autorizzate - sostiene che la tensione tra i pochi musulmani ancora residenti e la maggioranza buddista è ancora molto alta. Così che l’aspetto del Rakhine, nelle zone rohingya, è simile a quello di un paesaggio senza vita: tensione elevata, paura e negozi chiusi in una situazione normalizzata. “La situazione nel Rakhine settentrionale si è definitivamente stabilizzata, ci sono incidenti molto sporadici, ma le tensioni sono enormi tra le comunità”, dice l’inviato di Icrc. Una situazione normalizzata per gli ormai solo 180 mila rohingya rimasti in Myanmar, a fronte di una stragrande maggioranza che ha cercato salvezza in Bangladesh da un Paese dove vivevano oltre un milione di rohingya e che ora ne vede solo un sesto rimanere nel paese accanto a un gruppo di sfollati dalle precedenti operazioni militari e rinchiusi in campi profughi. L’ultima di queste operazioni, la più violenta, è iniziata dopo l’attacco che il gruppo armato di difesa dei rohingya (Arsa) aveva compiuto contro obiettivi militari in agosto. Accusato di terrorismo, il gruppo è stato oggetto di una caccia all’uomo che è però servita ad allestire un esodo di massa della piccola comunità musulmana. Tutto ormai documenta che non fu un semplice caso di paura diffusa ma il frutto di un’operazione determinata a cacciare per sempre chi viene definito “bengalese immigrato”. La comunità internazionale non ha fatto molto, se non col ricorso a misure deboli e di facciata. In prima linea in difesa dei rohingya si è schierata l’Onu, quindi le associazioni della società civile e papa Francesco. Ma per ora tutto quel che ne è uscito è un accordo per il rientro su cui gravano troppi dubbi. Rafforzati oggi dai numeri terribili documentati da Msf. Sud Sudan. Quattro anni di guerra: un bilancio disastroso di Riccardo Noury Corriere della Sera, 15 dicembre 2017 Oggi ha inizio il quinto anno di conflitto armato nel Sud Sudan. Dal 15 dicembre 2013 decine di migliaia di persone sono state uccise e altre migliaia hanno subito violenza sessuale. Gli sfollati sono quasi quattro milioni. Questi quattro anni di conflitto hanno avuto un impatto devastante sulla popolazione civile. Migliaia di uomini, donne e bambini sono stati sottoposti ad atti di violenza inimmaginabili, compresa la violenza sessuale, da parte sia delle forze governative che di quelle dell’opposizione, in alcuni casi equivalenti a crimini di guerra o crimini contro l’umanità. Nella regione di Equatoria Amnesty International ha verificato che il governo e l’opposizione hanno bloccato le forniture di cibo, hanno sistematicamente saccheggiato il cibo dalle abitazioni e dai mercati e preso di mira chiunque attraversasse la linea del fronte portando con sé anche la minima scorta di cibo. L’uso del cibo come arma di guerra ha causato una situazione d’insicurezza alimentare che riguarda ormai 4.800.000 persone. Nel corso del conflitto giornalisti, difensori dei diritti umani e sostenitori dell’opposizione sono stati intimiditi, arrestati arbitrariamente e in alcuni casi torturati mentre agli operatori umanitari è stato impedito di portare avanti il loro lavoro. Amnesty International ha sollecitato un’iniziativa forte e coordinata da parte degli stati africani e della comunità internazionale per porre fine alla sofferenza della popolazione sudsudanese. È necessario imporre un embargo sulle armi rispetto a tutte le parti coinvolte, pretendere dal governo e dall’opposizione che le agenzie umanitarie distribuiscano senza alcun ostacolo cibo e medicinali e adottare misure concrete per fornire giustizia alle vittime di gravi violazioni dei diritti umani, soprattutto attivando finalmente la Corte ibrida per il Sud Sudan. Spagna: migranti in carcere protestano per scarso cibo ed espulsioni Ansa, 15 dicembre 2017 Incidenti nel centro Malaga II, dove sono rinchiusi 600 algerini. Proteste e incidenti per l’inizio delle espulsioni e la scarsezza di cibo nel carcere Malaga II di Archidona, (Andalusia), che da tre settimane ospita quasi 600 migranti, per far fronte all’emergenza provocata dall’aumento degli sbarchi sulle coste spagnole. Secondo fonti di polizia citate dai media, gli episodi avvenuti ieri sono stati isolati e non hanno provocato feriti; mentre alcune Ong per l’assistenza ai migranti assicurano che si sono registrati atti vandalici, a seguito della “deportazione” di alcuni degli immigrati, in prevalenza algerini, nel Paese d’origine, cominciata martedì. Fonti del ministero degli Interni, citate da El Pais, confermano che non ci sono stati feriti e che non è stato necessario impiegare “agenti antisommossa”. Sono 577 i “sin papeles” rinchiusi dal 20 novembre nel centro penitenziario riconvertito dal ministero degli Interni in un improvvisato centro di detenzione per immigrati (Cie). Ieri, una quarantina di algerini su due autobus sono stati trasferiti a Valencia per essere espulsi su ferry in Algeria, a detta della Piattaforma Cittadina contro il Cie di Archidona, che associa attivisti e Ong del settore. “Siamo stati informati che è arrivato nel centro penitenziario il console dell’Algeria con alcuni legali per distribuire documenti, presumibilmente ordini di espulsione, che sono stati fatti firmare ai migranti nonostante non ci fossero traduttori presenti”, sostiene il portavoce della piattaforma, Dani Machuca. “È vergognoso, visitiamo ogni giorno il centro penitenziario e le condizioni dei migranti sono deplorevoli. Soffrono il freddo, la fame per i pasti scarsi e i familiari sono divisi e sorvegliati a vista dagli agenti antisommossa”, ha spiegato un altro portavoce, Rubem Quirante, in dichiarazioni ai media. La decisione di utilizzare il centro penitenziario Malaga II, non ancora inaugurato, per ospitare i migranti ha suscitato nelle ultime settimane dure critiche, denunce, interrogazioni parlamentari e la condanna dei vescovi spagnoli. Una pratica “assolutamente illegale, sia per la Legge sugli Stranieri che per la normativa europea”, per la Caritas e le ventidue Ong e associazioni per i diritti umani - fra le quali l’Asociacion Pro Derechos Humanos di Andalusia, la Federazione Sos Racismo, Medicos del Mundo o la Red Española de Inmigracion y Ayuda al refugiato - che l’hanno denunciata al Difensore del Popolo. In segno di protesta, il movimento cittadino e le Ong riunite nella Piattaforma contro il Cie hanno indetto una nuova mobilitazione per domenica a mezzogiorno, che partirà dalla piazza di Archidona per raggiungere il carcere di Malaga II. Stati Uniti. L’Onu denuncia: le torture a Guantánamo non si fermano sputniknews.com, 15 dicembre 2017 I detenuti del carcere speciale americano a Guantánamo vengono ancora torturati. Lo ha affermato l’autore del rapporto speciale delle Nazioni Unite Nils Melzer, segnala l’agenzia Reuters. Melzer ha ricordato che l’ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama aveva vietato “metodi perfezionati di interrogatorio” nel gennaio 2009. Tuttavia nessuno dei precedenti casi di tortura è stato preso in considerazione dalla magistratura e le vittime degli abusi non hanno ottenuto alcun risarcimento. Secondo Meltzer, anche ora gli agenti della Cia ricorrono a metodi violenti e brutali contro i detenuti. In particolare il discorso riguarda il cittadino pakistano Ammar al-Balushi. È accusato dalle autorità statunitensi di aver aiutato i terroristi che hanno perpetrato gli attacchi dell’11 settembre 2001, di ave avuto legami con Osama bin Laden e di aver pianificato l’attacco al Consolato Generale americano a Karachi. La prigione di Guantánamo è un centro di detenzione speciale per le persone sospettate dalle autorità statunitensi di crimini gravi, principalmente di terrorismo e di partecipazione in guerre dalla parte del nemico. Si trova nella base militare americana a Cuba. Il 21 gennaio 2009 il presidente degli Stati Uniti Barack Obama aveva firmato il decreto per smantellare la prigione. La struttura doveva essere chiusa entro un anno. Tuttavia la decisione del presidente non è stata eseguita e la prigione continua a restare aperta. Iraq. 38 detenuti giustiziati nel carcere di Nassiriya Askanews, 15 dicembre 2017 Trentotto detenuti condannati a morte per “terrorismo” sono stati giustiziati nel carcere iracheno di Nassiriya: lo hanno reso noto fonti del Consiglio Provinciale locale. Si tratta del più alto numero di esecuzioni in Iraq dopo le 42 effettuate lo scorso 25 settembre nello stesso carcere. Secondo quanto reso noto dalle autorità locali le condanne - che devono essere ratificate in ultima istanza dal Consiglio presidenziale - sono state eseguite alla presenza del ministro della Giustizia, Haidar al-Zameli: i detenuti “appartenevano ad al Qaida e allo Stato Islamico, ed erano stati condannati per attività terroristiche”. Iraq. Soldati britannici condannati per crimini di guerra interris.it, 15 dicembre 2017 L’Alta Corte del Regno Unito: abusi sui prigionieri, violata la Convenzione di Ginevra. L’Alta Corte britannica ha riconosciuto la responsabilità di militari del Regno Unito per crimini di guerra compiuti durante la guerra in Iraq. Il verdetto - riporta il Guardian online - si riferisce a quattro denunce relative a casi di maltrattamento di prigionieri iracheni, ma potrebbe estendersi ad altre centinaia di vicende giudiziarie ancora aperte nei confronti di soldati di Sua Maestà dislocati in Iraq all’epoca dell’occupazione anglo-americana del Paese. Abusi - Stando ai giudici, i militari coinvolti in questi quattro casi hanno violato la Convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra e detenuti civili (nessuno dei quali risultato “coinvolto in attività terroristiche o accusato di porre alcuna reale minaccia alla sicurezza”, stando alle parole del giudice relatore Leggatt) in condizioni crudeli e disumane. Mentre il ministero della Difesa si è macchiato anche di violazione dello Human Rights Act del 1998, la legge britannica per la tutela dei diritti umani, nell’organizzazione delle strutture detentive seguita all’invasione del 2003. Macchia d’olio - Già 10 giorni orsono, la Corte penale internazionale aveva concluso che vi fossero “basi ragionevoli” per perseguire per crimini di guerra militari britannici reduci dall’Iraq. Ma la pronuncia dell’Alta Corte londinese è destinata, potenzialmente, ad avere effetti più concreti se verrà invocata come precedente per altre 628 cause aperte nel Regno Unito nei riguardi di militari impegnati in Iraq. Ulteriori 331 casi, ricorda il Guardian, sono stati invece chiusi attraverso transazioni extragiudiziali con il pagamento complessivo di risarcimenti governativi pari a 22 milioni di sterline. Gli avvocati della difesa hanno salutato la sentenza odierna come una rivincita contro “la campagna diffamatoria” rilanciata negli ultimi tempi in Gran Bretagna, ai danni di molti protagonisti di denunce sul dossier iracheno, da ambienti “politici, militari e media”. Un portavoce del ministero della Difesa ha viceversa cercato di minimizzare l’accaduto in questi termini: “Il nostro personale militare ha servito con grande coraggio in Iraq, spesso in situazioni estremamente difficili: prendiamo atto del verdetto della Corte secondo cui questi quattro detenuti non sono stati trattati come avrebbero dovuto e e ne stiamo studiando le motivazioni”.