Notti senza acqua nelle carceri italiane di Stefano Liburdi Il Tempo, 14 dicembre 2017 Circolare Dap. Interrotta l’erogazione idrica nelle celle dalle 23.00 alle 5.30. Il provvedimento partirà a gennaio. A ogni detenuto una tanica con 20 litri. L’emergenza idrica arriva nelle carceri e a pagarla, neanche a dirlo, saranno i detenuti. Quasi fosse una pena accessoria da aggiungere a quella stabilita da un tribunale, chi si trova a scontare la pena detentiva, vedrà interrotta dal prossimo gennaio l’erogazione di acqua nelle ore notturne all’interno della propria cella. La circolare che sta provocando il malcontento dei detenuti e di chi vive il carcere, è stata redatta dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria alla fine del mese di novembre a firma del direttore del Dap Santi Consolo e stabilisce la chiusura dell’erogazione idrica “in via sperimentale” dalle ore 23.00 alle ore 5.30. La Circolare è stata indirizzata a tutti i direttori delle carceri e ha il fine di evitare “ulteriori dispersioni e contenere i consumi” e di conseguenza, ci si augura nel provvedimento, permetterà di raggiungere “rilevanti economie di risorse finanziarie da destinare al rifacimento delle reti idriche interne, avviando un circuito virtuoso di ulteriore abbattimento dei costi e dei consumi idrici”. Esclusi dal provvedimento i “reparti sanitari con degenze, articolazioni per la salute mentale e reparti di lavorazione con particolare consumo d’acqua”. Si salva anche il personale della polizia penitenziaria. Ad ogni detenuto sarà però fornito un contenitore di acqua con una capienza massima di 20-25 litri da utilizzare come “riserva idrica”. Dunque, calcolando una media di quattro persone a cella (ma in alcune sono parecchie di più) si può arrivare ad avere quattro contenitori con una capienza totale di 80-100 litri di acqua da consumare nelle ore notturne. È normale pensare che in questo modo lo spreco di acqua sarà ancora più elevato, tenendo inoltre conto che nel periodo invernale il consumo di questo bene prezioso risulta, dati alla mano, notevolmente ridotto. Con una lettera datata 31 agosto, è stato informato del provvedimento anche il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Mauro Palma. “Ho risposto al Dap con una lettera il 5 settembre scorso” ha detto Palma contattato da Il Tempo. Nella risposta il Garante ha espresso (tra lo stupore di molti) il suo parere favorevole al Dap: “Rappresento la mia comprensione sulla necessità di risolvere la problematica realizzando anche maggiore economia ambientale. Tuttavia ritengo che l’interruzione notturna temporanea dell’erogazione idrica dalle 24 alle 6 (l’orario inizialmente previsto n.d.r.) possa essere ridotta dalle ore 0.30 alle 5.30”. Poi a voce, Palma ha esortato il Dap: “Ovviamente bisognerà fornire una riserva di acqua per la notte”. Il Garante però la Circolare non l’ha mai vista: “Non so come poi l’abbiano fatta e se sono state seguite le mie indicazioni sugli orari. Ho solo ricevuto la telefonata di un provveditore che mi informava del documento”. Dunque a un problema di cui nessuno nega l’esistenza, cioè le reti idriche vecchie e la dispersione di acqua, si risponde con un provvedimento che va a danno dei soli detenuti, gli unici a cui si chiede un sacrificio. La decisione di chiudere i rubinetti, sembra avere una valenza provvisoria, giusto il tempo necessario per controllare tutta le rete idrica e ripararla. Ecco, in Italia sappiamo che nulla è più definitivo di un provvedimento “temporaneo”, quindi questa disposizione fa paura soprattutto perché va a pesare su chi vive in una condizione psicologica già difficile. Il detenuto sta pagando, giustamente, gli errori commessi nella sua vita precedente, ma nel carcere deve intraprendere il percorso per una sua riabilitazione e un futuro reinserimento nella società esterna. Vivere in condizioni di disagio, come spesso accade nelle carceri italiane, certo non favorisce questo processo ma, al contrario, incattivisce la persona. È bene ricordare che l’articolo 27 della nostra Costituzione recita che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Bene, speriamo che una tanica con 20 litri di acqua dentro, possa contribuire a rieducare una persona reclusa. Difendere i diritti di Dell’Utri è difendere quelli di tutti di Luigi Manconi Il Manifesto, 14 dicembre 2017 Perché il quotidiano comunista “il Manifesto” non conduce una campagna perché Marcello Dell’Utri possa lasciare il carcere? Per i consulenti della procura generale di Roma, il paziente è affetto da “adenocarcinoma prostatico, coronaropatia trivasale con pregresso infarto in sede inferosettale”. E, inoltre, presenta pluripatologie croniche ad andamento progressivo quali diabete, ipertensione e cardiopatia ischemica cronica. A causa di queste patologie, Dell’Utri è esposto a “fattori di rischio di grado elevato” ed è altamente probabile che possa essere colpito da “un evento acuto”. Questo spiega le ragioni dell’istanza, presentata dai suoi legali nel mese di aprile del 2017, con la quale si è chiesto il differimento della pena per motivi di salute nella forma della detenzione domiciliare da trascorrere presso una struttura sanitaria in regime di ricovero. D’altra parte, il medico di reparto del carcere di Rebibbia, nelle due relazioni di ottobre e novembre dell’anno in corso, conferma la diagnosi dei periti della procura generale, sottolineando come le condizioni di salute del paziente siano ulteriormente peggiorate. Ma, il 7 dicembre, il tribunale di sorveglianza respinge la richiesta dei legali di Dell’Utri, dichiarando la sua compatibilità con la detenzione a Rebibbia. Si arriva a sostenere che la radioterapia potrà essere effettuata anche in carcere, trasportando tutti i giorni il detenuto (per 5/6 settimane consecutive) in ospedale. Si noti che, di fronte alla medesima patologia e conseguente cura (radioterapia su detenuto affetto da adenocarcinoma prostatico), era stata concessa a un altro detenuto, lo scorso giugno, la sospensione della pena per 5 mesi. Tutto ciò induce Dell’Utri a decidere di astenersi dalle terapie e dal vitto. Sia chiaro: Dell’Utri non chiede la grazia, ma il rispetto di ciò che ritiene essere un suo diritto, secondo quanto previsto dai nostri codici. E su questo condivido pienamente, parola per parola, quanto dichiarato da Rita Bernardini: “Si deve garantire a Dell’Utri, come a tutti coloro che si trovano nelle stesse condizioni, la tutela della salute, anche attraverso misure alternative alla detenzione in carcere”. Si tratta di una affermazione saggia e ragionevole. E la faccio mia, come detto, ma segnalando, al tempo stesso, l’insidia che contiene. Nel corso degli ultimi decenni, infatti, ho sentito ripetere (e a mia volta ho ripetuto) una simile affermazione più volte. Ma, mentre chi la pronunciava intendeva esattamente ciò che le parole dicono, chi si limitava ad annuire, senza esporsi troppo, in realtà svuotava quelle stesse parole del loro concreto significato. E, in genere, è andata a finire che né Dell’Utri né gli altri detenuti “nelle sue stesse condizioni” siano stati sottratti alla reclusione in cella. D’altra parte, se fossimo tutti in buona fede, come io mi sforzo di essere, dovremmo riconoscere che proprio grazie a Dell’Utri, o a Enzo Tortora, o a qualsiasi altro nome noto si è ottenuto un po’ di attenzione nei confronti della moltitudine degli ignoti, quelli senza nome, senza notorietà e senza avvocato. Il che rende urgente, in prima istanza, battersi perché sia consentito a Dell’Utri di curarsi in condizioni le meno sfavorevoli possibile. Ottenere questo non è attribuire un ulteriore privilegio a chi, di privilegi, ne ha avuto una infinità nella sua vita precedente: si tratta, invece, di affermare quel fondamentale principio garantista che si articola in due essenziali assiomi. Il primo: la tutela delle garanzie nel processo e nella esecuzione penale deve essere altrettanto rigoroso per chi si ritiene colpevole e per chi si ritiene innocente. Il secondo: il garantismo si afferma, a prescindere dal curriculum criminale e dalle condizioni culturali, sociali, economiche, politiche ed etniche dell’interessato (avete mai visto un esponente della destra tutelare i diritti processuali di un migrante?). Infine, riterrei cosa assai buona se un giornale “comunista” conducesse una campagna a favore del “mafioso” Marcello Dell’Utri. Perché oltre agli ottimi motivi garantisti (condivisi, lo so, da buona parte dei giornalisti e dei lettori del manifesto), c’è un’altra ragione. Ovvero una questione, come dire, di cavalleria o, se preferite, di stile. Vuole la leggenda che i comunisti rispettino i propri nemici e non siano mossi da pulsioni di rivalsa e, tanto meno, di vendetta. Ricordo che, nel 2004, il Manifesto, accogliendo generosamente una mia segnalazione, si impegnò perché ad Andrea Insabato, il neofascista che, nel dicembre del 2000, aveva compiuto un attentato contro la sua redazione, venisse riconosciuta l’incompatibilità con la detenzione in cella: e potesse essere adeguatamente curato. Non fu un gesto di pietismo ma un atto politico come quello che è giusto compiere oggi a tutela della salute del “grande nemico” Marcello Dell’Utri. Dell’Utri e gli altri non si possono curare in carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 dicembre 2017 Conferenza stampa al Partito Radicale sul diritto alla salute in carcere. “È vergognoso che un rappresentante delle istituzioni mandi un messaggio del tipo “sbattetelo in prigione e buttate via la chiave”“. Questa è stata la chiosa finale di Miranda Ratti, moglie di Marcello Dell’Utri, durante la conferenza stampa indetta dal Partito Radicale per parlare del diritto alla salute dei detenuti, a partire proprio dall’ex senatore. Una conferenza stampa che con il passar del tempo si è trasformata in un vero e proprio convegno sulla situazione penitenziaria e giudiziaria. A partire dalla moglie di Dell’Utri, si sono alternate varie personalità, da Piero Sansonetti, a un giornalista de Il Tempo, fino ai parlamentari sia di centro destra come Elio Massimo Palmizio, deputato di Forza Italia, che di centro sinistra come Roberto Giachetti, vicepresidente della Camera dei deputati. Tutti concordi nel dire che Marcello Dell’Utri non può essere curato in carcere, così come tanti altri detenuti che si trovano nella sua condizione. Rita Bernardini, della presidenza del Partito Radicale, che ha presieduto la conferenza stampa, ha definito la moglie di Dell’Utri una persona straordinaria, perché “ha capito subito che la vicenda di suo marito poteva aiutare le altre persone”. Sempre l’esponente radicale ha sottolineato che non si sta chiedendo nessun favore, ma si tratta di una questione di giustizia. “Vorrei che da questa conferenza stampa - spiega Bernardini- venisse fuori una questione concreta dal punto di vista istituzionale, ovvero l’approvazione della riforma dell’ordinamento penitenziario. Per questo mi rivolgo al presidente Paolo Gentiloni - aggiunge, affinché i decreti attuativi della riforma penitenziaria vengano votati al più presto dal Consiglio dei ministri”. Una riforma che si occupa anche della salute in carcere. Ma non basta. Il caso Dell’Utri è emblematico per far capire che l’ultima parola aspetta sempre alla magistratura, la quale può decidere la compatibilità del detenuto con il carcere anche contro il parere dei medici. Lo ha spiegato molto bene la signora Dell’Utri durante la conferenza. “Mio marito - racconta la signora - è entrato in carcere con patologie pregresse molto forti, è stato operato tre volte, aveva il diabete già da 15 anni, ed è stato messo in dubbio dal tribunale di Sorveglianza, come se recitasse una commedia”. Miranda Ratti, racconta infatti che l’ex senatore, in realtà, faceva di tutto per non far preoccupare lei e i suoi avvocati: “Diceva di stare bene nonostante non fosse vero. La notte resisteva ai forti dolori per non disturbare i medici”. La signora Ratti poi denuncia che il 20 luglio è stato diagnosticato il tumore, ma ad oggi non gli è stato fatto ancora niente. “Mio marito ha diritto o no a essere curato?”, sottolinea, ricordando che “a seconda dei tribunali di Sorveglianza, ci sono alcuni giudici che concedono le cure: quello di Roma, a una persona nelle stesse condizioni di mio marito con un adenocarcinoma prostatico, ha concesso di sottoporsi per 5 mesi a una radioterapia in una struttura esterna. A mio marito, invece, si dice che questo si può fare in carcere!”. Miranda Ratti denuncia che ora suo marito si ritrova a dover essere assistito nell’infermeria di Rebibbia, il cui responsabile ha già detto per ben due volte di non poterlo curare. Durante la conferenza è emerso che il problema principale è la ricerca del consenso, anche da parte dell’istituzione giudiziaria. A spiegarlo molto bene è stato il Garante nazionale dei diritti dei detenuti Mauro Palma che, ricordiamo, intervenne proprio sul caso Dell’Utri durante la visita al reparto infermieristico di Rebibbia, quando sottolineò l’esistenza di una relazione del 10 maggio sullo stato di salute di Dell’Utri, redatta dal medico del carcere, in cui viene “descritto un quadro clinico grave per le pluripatologie diagnosticate, tanto da ritenere la sua situazione “non compatibile” con il regime carcerario”. Palma ha sottolineato che il caso Dell’Utri deve essere risolto con urgenza, “perché non possiamo pensare ai tempi della Cassazione, e ci deve far riflettere sulla deriva del nostro Paese negli ultimi vent’anni”. Il Garante spiega che il concetto della “certezza della pena” è stato snaturato. “Vuol dire semplicemente stabilire la pena - sottolinea Palma, una certezza che però non deve essere collegata alla “fissità” della pena”. Il Garante spiega che “la pena è certa, ma l’esecuzione non può che essere elastica. Nel caso Dell’Utri il pericolo è che al diritto penale sia dato un valore simbolico. Non entro nella decisione dei magistrati - continua Mauro Palma -, ma devo dire che questo sapore lo avverto: c’è un valore simbolico che è molto grave, e fa sì che l’azione giuridica non sia vincolata alla legalità, ma regolata dal consenso esterno”. Durante la conferenza è intervenuta anche la moglie di un detenuto che ha un tumore non operabile in carcere. Gli mancano sette mesi ancora da scontare, eppure il magistrato di sorveglianza ancora deve decidere sulla sua compatibilità o meno. “Per questo caso, noi del Partito Radicale - annuncia Rita Bernardini, assieme all’avvocato Rossodivita, faremo un esposto alla Procura”. La battaglia del Partito Radicale per salvaguardare il diritto alla salute dei detenuti, sarà portata avanti anche attraverso le vie legali. Salvini-Berlusconi, scintille sulla giustizia di Andrea Colombo Il Manifesto, 14 dicembre 2017 Fi blocca la legge sulla limitazione degli sconti di pena. Il leader della Lega furioso. Proprio quando a destra tutto sembrava filare liscio come l’olio, con tanto di sorriso dei sondaggi e di imminente aggiunta della “quarta gamba” centrista, il tavolo del centro destra trema. A vibrare la mazzata è il ruggente Matteo Salvini in persona: “Sospendiamo qualsiasi tavolo e incontro con Berlusconi finché non avremo spiegazioni ufficiali sul voto contrario di Forza Italia all’iter veloce per la legge Molteni che cancella gli sconti di pena per i reati gravissimi”. Non è un fulmine a ciel sereno. Le scintille c’erano già state un paio di settimane fa, quando la legge leghista che si propone in realtà solo di vietare il rito abbreviato, con relativa diminuzione della pena, per i reati di omicidio e stupro, era stato approvato alla Camera con voto a favore di tutti tranne che dei gruppi oggi in Liberi e Uguali ma con l’astensione di Fi. Salvini aveva protestato e borbottato, ma dal momento che l’astensione azzurra era stata ininfluente la polemica era finita lì. Al Senato le cose stanno diversamente. In conferenza dei capigruppo la legge Molteni non è stata calendarizzata e la Lega coglie l’occasione per bersagliare Grasso, come se il calendario dipendesse dal presidente e non dalla Conferenza dei capigruppo. Restava però aperta la scorciatoia della commissione deliberante, che permette di varare la legge direttamente in commissione aggirando l’ostacolo dell’aula. Su questo fronte però si sono opposti Giovanardi e Fi. La replica leghista è immediata e violentissima, affidata al presentatore della legge e alla collega Erika Stefani: “Fi si prende la responsabilità di un atto inaccettabile. Questa legge per noi è imprescindibile. Hanno offeso le famiglie delle vittime”, e giù con la peggior retorica. Berlusconi, impegnato a presentare la strenna annuale di Bruno Vespa, commenta con prudenza: “Non ci ho mai ragionato. Sono decisioni che spettano ai gruppi parlamentari. Voglio prima parlarne con Salvini”. E giù complimenti alla ragionevolezza del Ringhioso in privato, a fronte delle pressioni sue e di Giorgia Meloni, passata negli ultimi mesi dall’asse col leghista a quello con Arcore. Anche perché la Lega ha aperto le porte agli ex Fratelli dissidenti. Al Senato i forzisti assicurano di non essere preoccupati. Che la giustizia sia uno dei veri punti di divisione tra Arcore e il Carroccio è noto ed è evidente che con le elezioni che si avvicinano sia obbligatorio alzare i toni. Ma ammettono la possibilità che l’ex Cavaliere, dopo aver di fatto avocato a sé la faccenda, ordini di cedere: il tempo per scegliere la commissione deliberante ancora ci sarebbe. A rendere necessaria una rapida risoluzione del contenzioso non è tanto il rischio che il rito abbreviato possa davvero abbreviare al massimo grado l’alleanza di centro destra strangolandola in culla. Quel rischio è di fatto più o meno inesistente, ma il litigio permette al Pd di denunciare l’impossibilità per la destra di governare insieme. Argomentazione preziosa per il Pd che non può scagliarsi con esagerata virulenza contro un partito col quale potrebbe coalizzarsi dopo il voto. Del resto lo stesso problema si presenta a Berlusconi. Ufficialmente l’alleanza post-elettorale col Pd è fuori discussione. “Se non c’è maggioranza avanti con Gentiloni e nuove elezioni non a brevissimo, in tre mesi”, ha ripetuto ieri Berlusconi e a prima vista sarebbe una notizia decisiva se non fossero parole obbligate, dal momento che il progetto del Nazareno 2 è per definizione inconfessabile prima del voto. La formula è ambigua. Lascia aperta la porta a una fiducia azzurra per il governo uscente e il leghista Giorgetti mette le mani avanti: “Noi non tradiremo gli elettori. Con Gentiloni mai”. A proposito di alleanze, Berlusconi ha voluto togliersi un sassone dalla scarpa. Felicitazioni a Maurizio Lupi per il ritorno a casa, anche se certo non in Fi. Con Alfano invece “nessuna collaborazione”. Quello è un bando non reversibile. Manca una battuta in schietto stile Silvio, e figurarsi se lui intende negarla. “Mussolini forse non era proprio un dittatore”, butta lì come se nulla fosse. Poi ironizza: “Scherzavo. Volevo solo darvi occasione di criticarmi”. Ma intanto la strizzata d’occhio alla destra estrema c’è stata tutta. La giustizia sommaria sui sindaci calabresi Di Mimmo Gangemi Panorama, 14 dicembre 2017 Nella Regione, lo scioglimento dei Consigli comunali da strumento eccezionale è diventato ordinario. E non appena un gruppo consistente di primi cittadini ha chiesto un incontro urgente al ministro dell’Interno Marco Minniti per discutere della questione. Nel film “Il Marchese del Grillo” c’è don Bastiano, guercio e brigante, già prete, che di fronte alla ghigliottina rimprovera gli spettatori: “Voi massa di pecoroni invigliacchiti, pronti a chinare la testa davanti ai potenti!”. Beh, Goffredo Buccini ci starebbe a pieno titolo tra quel popolo morboso, lì per godersi lo spettacolo della morte, stando al suo articolo sul Corriere della sera “I 51 Comuni sciolti per mafia che si ribellano ai commissari”. Lui un mezzo inchino ai potenti e a certe loro teorie strampalate ce lo vedo a farlo, se si allinea così all’esercizio della giustizia, non alla Giustizia, facendosi Cassazione sui sindaci del Reggino che reclamano il diritto d’argomentare al ministro dell’Interno perplessità sulla legge per lo scioglimento dei Comuni. Ed è guercio più di don Bastiano, perché inquadra con l’occhio distorto di chi alimenta il pregiudizio. Certo, noi ci mettiamo di nostro. L’ultimo caso, i 48 arresti per mafia a Taurianova, tra cui un ex sindaco. Grande clamore mediatico. Giusto. Invece il silenzio, dopo il fragore in uscita, sulla sentenza d’estraneità alla ‘ndrangheta dell’Hotel del Gianicolo a Roma, dell’Hotel Arcobaleno a Palmi e di altri beni valutati 150 milioni. Tocca così alla Calabria. Don Bastiano che ci rimette la capoccia la incarna: del resto, brigante è! Appena la Regione ha uno scatto d’orgoglio e contesta la democrazia ferita e i diritti lesionati, trova il boia che la inchioda sotto il peso della condanna a prescindere. Buccini dileggia che “i sindaci dei Comuni calabresi sciolti per mafia (o in odore di scioglimento) non si rivoltano contro la ‘ndrangheta ma contro lo Stato”. Allucinante. E falso. Restano loro l’avamposto dello Stato nel territorio e meritano solidarietà, non flagellazione. Né si tratta di sindaci sciolti per mafia o in odore di scioglimento. O deve passare l’assunto che, in quanto sindaci e calabresi, o di cozzo o di taglio, sono collusi? E nei Comuni dove non si presentano le liste, non è spregio allo Stato, ma paura della mannaia che esso abbatte facile, salvo spesso ricredersi con le assoluzioni dopo aver comminato carcere. Sul sindaco di Platì, crocifisso perché parente dei Barbaro, oppongo Peppino Impastato e chiedo se occorra immolarsi eroi per avere rispetto, se è giusto che una parentela porti alla discriminazione. Sulla sua avversaria: vero, è figlia dell’ultimo sindaco “sciolto per mafia”, ma perché tacere che fu assolto e rimborsato per ingiusta detenzione, assieme ad altri 117 (su 126)? Cosa poi importi se discenda o no da un brigante, peraltro resistente all’invasore. Fandonie a gogò, quindi. Notizie con lo sterzo che soccorrono le farneticazioni ma non connotano giornalismo serio. Nel pezzo, anche le parole di Gianluca Callipo, presidente di Anci Calabria, riferite ai 51: “Sbatteranno contro un muro. L’Anci Calabria e la maggioranza dei suoi sindaci sono contro la ‘ndrangheta”. Tradotto, significa che i 51 sarebbero pro ‘ndrangheta. E qui o smentisce o abbia il decoro di dimettersi. È una storia triste, è il sibilo della verga sulla nuda Calabria, ormai nel mirino di una giustizia sommaria, quasi un’estensione della Legge Pica, non più sanguinaria ma che ugualmente porta la morte, quella della democrazia, della Costituzione e dello Stato di diritto. Fisco e privacy, lo Stato lasci intatte le garanzie del cittadino di Carlo Nordio Il Messaggero, 14 dicembre 2017 Il comando generale della Guardia di Finanza ha diffuso un nuovo “Manuale operativo in materia di contrasto all’evasione e alle frodi fiscali”, che entrerà in vigore dal primo gennaio 2018. Si tratta di un documento di estrema complessità che disciplina gli aspetti più delicati delle indagini tributarie. Esso dimostra la lodevole attenzione con la quale viene seguito il pernicioso fenomeno dell’evasione, che assieme alla corruzione e alla lentezza della giustizia costituisce una perdita elevatissima per la nostra economia. La filosofia della circolare sembra differenziarsi da quella generalmente adottata negli anni recenti, quando il rapporto tra fisco e contribuente sembrava orientarsi verso una sorta di comprensione benevola tra Agenzie delle entrate e soggetti d’imposta, entrambi interessati a una rapida definizione della partita piuttosto che ad una esatta ricostruzione, in sede contenziosa, delle fonti reddituali. Se a ciò si aggiunge la periodica ricorrenza di condoni e conciliazioni, se ne deduceva una strategia orientata essenzialmente ad una riscossione ridotta, ma rapida e certa. Ora le cose sembrano cambiate. Soprattutto nella parte che riguarda la ricerca, l’acquisizione, l’estrazione e l’ispezione documentale, i poteri inquisitori della Polizia tributaria sono aumentati, e comunque meno vincolati all’intervento della magistratura. La Guardia di Finanza può infatti estrapolare dati informatici anche servendosi di strumenti particolarmente sofisticati ed invasivi, che rischiano di vulnerare quel poco che rimane della privacy delle persone. La cosa può sembrare giusta, ed in effetti è giusta, se si considera che il pagare le tasse è, come la difesa della Patria, un sacro dovere civico, e che l’evasione, in questa prospettiva, non è altro che una sottrazione d risorse comuni, e quindi un furto a danno della collettività. Tuttavia a questi sani ed onesti principi, che comunque devono sempre essere rispettosi delle garanzie fondamentali dei cittadini, si oppongono due considerazioni che sarebbe altrettanto giusto ricordare. Primo. L’elefantiasi della nostra normativa tributaria è, se possibile, ancora più demenziale della nostra complessiva legislazione. In Italia abbiamo oltre 200 mila leggi, circa dieci volte più della media europea. Come abbiamo scritto fino alla noia, questa dissennata proliferazione è la prima causa dell’incertezza del diritto, della lentezza della giustizia e della diffusione della corruzione. In questo colossale ingorgo normativo, le leggi, i regolamenti, le circolari e le interpretazioni vincolanti in ambito tributario sono in numero spropositato. In un recente congresso di commercialisti qualcuno ha addirittura evocato il superamento delle 50 mila. Nessuno sa in realtà quante siano, e già questo è indicativo. Ma anche se fossero meno di un decimo, sarebbero comunque troppe, e la loro ottemperanza sarebbe impossibile. E allora come si può punire un contribuente infedele se lo Stato, per primo, non lo mette in condizione di ubbidire? Secondo. L’attitudine dello stesso Stato verso questo contribuente è nota. Essa parte dal presupposto che chi può evadere le tasse le evade davvero, e quindi gli impone aliquote insopportabili: dovrei tassarti al 30%,mapoiché immagino che denunci la metà ti tasso al doppio, così i conti tornano. Di conseguenza ci sono professionisti che, tra imposte dirette e indirette, gabelle, contributi e altro, arrivano a pagare il 60% del guadagno. Una vera e propria istigazione all’evasione. Questo irragionevole pasticcio ha instaurato un sofisma vizioso tra l’uovo e la gallina. Chi deve cominciare a comportarsi bene? Lo Stato, abbassando le aliquote e sperando che si allarghi la base contributiva, o il cittadino, riducendo l’evasione e consentendo la riduzione delle imposte? Rispondo. Questa novità sarà positiva soltanto a una condizione. Che sia accompagnata da un’equa riduzione fiscale e da una semplificazione chiara e radicale dell’intero sistema, in modo da consentire al cittadino onesto di dormire sonni tranquilli una volta che abbia onorato il suo impegno contributivo. Questa certezza oggi manca, e nessun imprenditore, nemmeno assoldando un esercito di consulenti e pagando le tasse fino all’ultimo centesimo può dirsi al riparo da accertamenti lunghi e defatiganti, e da sanzioni pesantissime anche per soli vizi formali. Il primo passo, dunque, deve farlo lo Stato. Omesso versamento Iva, il passato ricade sul nuovo manager di Laura Ambrosi e Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 14 dicembre 2017 Corte di cassazione - Sentenza 55482/2017. Risponde del reato di omesso versamento Iva il nuovo amministratore che subentra dopo la presentazione della dichiarazione firmata dal precedente rappresentante legale. A confermare questo principio è la Corte di cassazione, terza sezione penale, con la sentenza n. 55482 depositata ieri. Il fatto - L’amministratore di una Srl veniva condannato dal tribunale e dalla Corte di appello per il reato omesso versamento Iva. L’imputato ricorreva in Cassazione e lamentava, tra l’altro, l’erronea applicazione della norma penale, poiché la corte territoriale aveva ravvisato la responsabilità del nuovo amministratore pur in assenza di prove. Secondo la difesa, infatti, l’evasione sarebbe stata determinata dall’inserimento di alcune fatture intracomunitarie nel periodo in cui l’amministrazione della società era affidato ad altro soggetto. L’evasione, quindi, era già stata pianificata prima che l’imputato ricoprisse l’incarico di legale rappresentante. La decisione - La Suprema corte ha ritenuto la doglianza infondata. I giudici di legittimità hanno innanzitutto rilevato che con l’accettazione della carica di amministratore il soggetto acquisisce contezza delle obbligazioni, anche tributarie, da adempiere. Ai fini della configurazione dell’elemento psicologico del reato di omesso versamento dell’Iva è sufficiente la coscienza e volontà di non versare all’Erario l’imposta. Ne consegue così che risponde del delitto anche chi è subentrato nella carica di amministratore dopo la presentazione della dichiarazione e prima della scadenza dell’acconto. La Cassazione ha così precisato che l’assunzione della carica di amministratore comporta la necessità di una minima verifica preventiva della contabilità, dei bilanci e delle ultime dichiarazioni dei redditi. Chi omette tali riscontri sceglie di esporsi volontariamente alle conseguenze che possono derivare da pregresse inadempienze. A nulla rileva, come nella specie, che il subentro sia avvenuto dopo la presentazione della dichiarazione da cui emergeva il debito di imposta, in quanto il reato di omesso versamento si consuma alla scadenza dell’acconto dell’anno successivo. La decisione conferma l’orientamento espresso anche se, con la sentenza 30492/2015, la Suprema corte, ha operato un importante distinguo in base ai reati contestati: per i delitti di omessi versamenti a fronte di dichiarazioni predisposte da precedenti amministratori, il subentrante con un minimo di diligenza può facilmente verificare la sussistenza del debito di imposta non versato. Nell’ipotesi, invece, di reati dichiarativi ovvero per l’utilizzo di fatture false, è necessario che l’accusa provi la conoscenza da parte del nuovo soggetto delle violazioni contabili commesse in precedenza. In ogni caso, appare opportuno che, nel momento in cui si assume la rappresentanza legale di una società di capitali, prudenzialmente venga posta in essere un’attività ricognitiva finalizzata a rilevare eventuali anomalie contabili e fiscali onde evitare, in futuro, contestazioni sull’operato altrui. Indebita percezione e non truffa per chi percepisce la pensione del papà morto di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 14 dicembre 2017 Corte di cassazione - Sentenza 13 dicembre 2017 n. 55525. La mancata comunicazione all’ente previdenziale della morte del titolare della pensione, con il conseguente versamento sul conto corrente dei ratei pensionistici anche successivamente al decesso, non integra il reato di “truffa aggravata” bensì quello più mite di “indebita percezione di erogazioni in danno delle Stato”, punito soltanto con una sanzione amministrativa per indebiti sotto i 4mila euro. Lo ha stabilito la Corte di cassazione con la sentenza 55525 del 13 dicembre. I giudici di legittimità hanno così accolto il ricorso del figlio del pensionato defunto condannato dalla Corte di appello di Roma a 5 mesi e dieci giorni di reclusione, oltre 600 euro di multa, per truffa aggravata ai danni dell’Inpdap. I giudici di legittimità dopo aver riqualificato il fatto nella fattispecie più lieve dell’articolo 316 ter c.p. ne hanno poi anche dichiarato l’estinzione per prescrizione. La difesa del ricorrente aveva sottolineato che l’“omessa comunicazione all’Inpdap del decesso del genitore”, era stata ritenuta idonea ad integrare l’“artifizio e raggiro richiesto dalla norma incriminatrice pur in assenza di un positivo comportamento fraudolento”. Inoltre, siccome il Comune aveva l’obbligo di comunicare all’Inpdap la variazione dello stato civile, il comportamento omissivo “non si presta a costituire l’elemento strumentale della truffa in assenza di un quid pluris che lo caratterizzi nel senso della fraudolenza”. Per la Suprema corte il motivo è fondato. Infatti, scrivono i giudici di Piazza Cavour “integra la fattispecie di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato e non truffa aggravata, per assenza di un comportamento fraudolento in aggiunta al mero silenzio, la condotta di chi ometta di comunicare all’istituto erogante il trattamento pensionistico il decesso del congiunto titolare dello stesso, così continuando a percepirlo indebitamente”. Un orientamento quest’ultimo già fatto proprio dalla Cassazione che in un precedente (n. 48820/2013) aveva affermato “integra la fattispecie criminosa dell’art. 316 ter cod. pen. e non quella di truffa aggravata l’indebita percezione della pensione di pertinenza di soggetto deceduto, conseguita dal cointestatario del medesimo conto corrente su cui confluivano i ratei della pensione, che ometta di comunicare all’Ente previdenziale il decesso del pensionato”, evidenziando che quello che essenzialmente rileva ai fini della distinzione tra le due fattispecie è l’elemento costituito dalla “induzione in errore”, assente nel primo reato e presente, invece, nel secondo. Del resto, prosegue, nel solco tracciato dalle Sezioni Unite (n. 16568/2007) la giurisprudenza di legittimità aveva chiarito che “l’ambito di applicabilità dell’art. 316 ter c.p.abbraccia situazioni residuali rispetto alle contigue fattispecie ex artt. 640, comma 2, e 640 bis c.p., come quelle del mero silenzio anti-doveroso o di una condotta che non induca effettivamente in errore l’autore della disposizione patrimoniale, intercorrendo tra le fattispecie un rapporto di sussidiarietà e non di specialità”. In definitiva, quando difettano gli estremi della truffa è configurabile il meno grave delitto di indebita percezione. Lo swap prova l’esistenza di risorse di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 14 dicembre 2017 Corte di cassazione - Sentenza 55480/2017. Anche il rinnovo dei contratti di swap contribuisce a escludere lo stato di impossibilità a pagare le imposte. Lo mette in evidenza la Corte di cassazione con la sentenza n. 55480 della Terza sezione penale depositata ieri. La Corte ha così confermato la responsabilità di un imprenditore che aveva invece sostenuto nel ricorso di avere sempre fatto fronte alle scadenze più urgenti anche di natura fiscale, utilizzando le risorse personali dei soci e sottolineando la riconducibilità proprio ai contratti di swap sottoscritti dalla società della impossibilità di provvedere al versamento dei tributi visto che l’esposizione prodotta da questi contratti aveva provocato anche la contrazione degli affidamenti di cui l’impresa aveva goduto. La Cassazione tuttavia valorizza l’elemento degli swap ad altro titolo. La sentenza ricorda quindi il consolidato orientamento in base al quale per la dimostrazione dell’assoluta impossibilità di provvedere ai pagamenti omessi, occorre la prova della non addebitabilità all’imputato della crisi economica che ha colpito l’impresa e dell’impossibilità di fronteggiare il deficit di liquidità che ne è stato la conseguenza. E allora, la prosecuzione dell’attività d’impresa e lo stesso rinnovo dei contratti di swap sono invece aspetti che portano a escludere un’oggettiva impossibilità a rispettare l’obbligo tributario. Entrambi infatti pur indirizzati al tentativo di evitare il dissesto della società non contrastano con la conclusione, già raggiunta in sede di merito, della volontarietà dell’omissione contestata: sono indicatori dell’esistenza di risorse che avrebbero permesso il pagamento anche parziale di quanto invece è stato del tutto omesso. La Corte ha poi respinto uno degli altri motivi di ricorso, fondato sul principio del ne bis in idem. Anche in questo caso, come sempre più spesso avviene nel penale tributario, si sosteneva la duplicità della sanzione, con afflittività simile, per il medesimo comportamento. In realtà, contesta la Cassazione, sulla base di una recentissima sentenza, del 5 aprile scorso, della Corte di giustizia europea, di doppio binario non si può neppure parlare quando le sanzioni tributarie sono state inflitte alla società e non alla persona fisica dell’amministratore. Come nel caso in esame. Altro è invece sarebbe il discorso da fare nei quando la figura dell’imprenditore coincide con quello dell’impresa (impresa individuale), ma la pronuncia sul punto dei giudici europei ancora deve arrivare. Avellino: la visita del Garante regionale “in carcere allarme sanità” di Edoardo Sirignano Il Mattino, 14 dicembre 2017 Ciambriello: i detenuti lamentano problemi di carattere medico e con i magistrati di sorveglianza. Il Garante dei detenuti della regione Campania in visita ufficiale al carcere di Bellizzi Irpino. Il responsabile della funzione, Samuele Ciambriello, ha svolto una ricognizione nella Casa circondariale “Antimo Graziano” alle porte del capoluogo. A fronte di una capienza di 501 detenuti, l’istituto ospita 530 ristretti di cui 22 donne. In articolo 21 vi sono 7 detenuti ammessi al lavoro esterno. Sono presenti nell’istituto 8 educatori, sottodimensionata invece la presenza di polizia penitenziaria in quanto sono presenti 208 unità su una pianta organica di 297 unità. Il Garante, insieme al direttore della circondariale Paolo Pastena ed alla vice direttrice Concetta Ferato, ha visitato l’area pedagogica dell’istituto dove si svolgono le attività scolastiche, incontrando docenti ed alunni dell’istituto tecnico per geometri e del liceo artistico. La sua ricognizione è poi proseguita incontrando i detenuti nelle diverse sezioni e padiglioni. In particolar modo nel padiglione “De Vivo” dove sono reclusi 120 detenuti, strutturato con una sezione a custodia aperta, poi si è recato presso la sezione “protetti” che ospita circa 60 detenuti, in cui gli stessi lavorano ad un piccolo tenimento agricolo dove coltivano verdure di stagione, ed infine ha visitato la sezione femminile. Per Ciambriello le criticità evidenziate dai detenuti e detenute riguardano la sanità e la magistratura di sorveglianza. Solo quest’anno ci sono state 455 visite esterne e 90 ricoveri. Occorre incrementare la presenza nell’istituto di specialisti esterni per ridimensionare il numero delle uscite dei detenuti, accompagnati in media da tre agenti penitenziari e per dare continuità ed efficacia all’assistenza sanitaria. I detenuti lamentano ritardi ed inadempienze della Magistratura di Sorveglianza relativamente alla non omogeneità di decisioni tra i 4 magistrati di sorveglianza di competenza e disfunzioni che riportano ritardi nelle decisioni. Il Garante si augura altresì che si proceda alla ristrutturazione e manutenzione della sezione femminile, dove un miglioramento della stessa rappresenta una priorità sia per la condizione detentiva delle donne sia per la loro socializzazione. Ulteriore ristrutturazione dovrebbe riguardare il campo di calcio che è inutilizzato da anni. Le difficoltà rilevate dal Garante regionale sono state a più riprese rilevate dalle sigle sindacali, che hanno sollecitato i vertici ad assumere iniziative risolutive. A più riprese, anche all’interno del carcere di Bellizzi Irpino, si sono verificati episodi di violenza fra detenuti ed atti di autolesionismo. In alcuni casi sono rimasti coinvolti agenti penitenziari, aggrediti da detenuti. Si è trattato di vicende che, in qualche modo, hanno rappresentato la conseguenza indiretta del numero insufficiente di addetti. Con la visita di Ciambriello e la rinnovata indicazione delle criticità esistenti nella struttura di Bellizzi Irpino è probabile che nel tempo medio si potranno registrare sviluppi favorevoli alla migliora organizzazione dei reparti. Rimini: chiusa la sezione “Vega”, quella delle detenute transessuali di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 dicembre 2017 La decisione dopo l’ultimo tentativo di suicidio, sventato grazie all’intervento degli agenti. Il Dap non ha ancora individuato una soluzione univoca. Generalmente sono recluse negli istituti maschili e in reparti speciali insieme ai collaboratori di giustizia e ai pedofili. È ufficiale. Finalmente è stata chiusa la sezione “Vega” del carcere di Rimini. La svolta c’è stata dopo il tentato suicidio, avvenuto giovedì scorso, da parte di una delle due detenute transessuali. Era finita overdose di farmaci e fu trasportata d’urgenza all’ospedale “Infermi” di Rimini. Si era salvata per un pelo, grazie soprattutto al tempestivo intervento della Polizia penitenziaria. Il gesto era scaturito per protestare contro il disagio che viveva. Una volta guarita è stata trasferita direttamente nel carcere di Reggio Emilia dove è stata aperta una sezione per transessuali. La situazione della sezione “Vega” era già tristemente nota e denunciata più volte dalla Garante dei detenuti locale Ilaria Pruccoli: pensata per proteggere detenute transessuali, era di fatto una sezione di isolamento lasciata al degrado strutturale, con celle buie e incompatibili con una pena umana come prescrive la nostra Costituzione. Una vera propria pena nella pena. Chi vi veniva incarcerata si trovava sostanzialmente in solitudine e isolata da ogni tipo di attività comune, il che risulta in un aggravamento di pena ingiustificato che ricade interamente sulle detenute transessuali che così subiscono ulteriori sofferenze fisiche e psicologiche. Il problema delle transessuali in carcere, in realtà, non è mai stato risolto. Lo stesso Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria non ha ancora individuato delle soluzioni univoche alle varie problematiche emerse negli anni, continuando a ondeggiare tra la scelta di diversi sistemi di allocazione che vanno dai reparti dedicati, a volte presso istituti femminili, altre maschili, fino alla collocazione presso le sezioni precauzionali. Le soluzioni finora individuate hanno tutte dato luogo a distinte e notevoli problematiche, verificandosi quasi sempre una forte difficoltà a far accedere le persone transessuali ai percorsi trattamentali, alle attività di istituto e senza la predisposizione di un adeguato servizio sanitario in relazione alla specificità dei loro bisogni di salute. Se vivere la detenzione è difficile per ogni essere umano, per la transessuale quindi lo è ancor di più. Generalmente le trans sono recluse negli istituti maschili e in reparti speciali separati per detenuti “a rischio” insieme ai collaboratori di giustizia e ai pedofili. Per evitare questo problema della doppia punizione, ad Empoli, nel 2010, era stato finanziato il progetto per l’apertura di un carcere dedicato esclusivamente alle detenute transessuali: l’allora ministro della giustizia Angelino Alfano decise di bloccare l’iniziativa. Eppure era già tutto attrezzato per trasformare la Casa circondariale di Empoli, già carcere esclusivamente femminile, in penitenziario riservato ai soggetti transessuali, nel tentativo di non ghettizzarli e poter rendere concreto, oltre che agevolmente fruibile, il trattamento penitenziario stesso. Ma nulla di fatto. La grande percentuale delle trans è in carcere per reati minori e quindi il periodo di detenzione è breve, ma nonostante ciò la carcerazione viene vissuta con molta sofferenza e frequenti sono i casi di tentativi di suicidi in cella. Qualche sforzo in più però c’è stato. Nell’ultimo rapporto di Antigone viene riportato che nel 2016, il Dap ha istituito un tavolo di lavoro con alcune associazioni e si è tenuto un incontro a Rebibbia presso il reparto G8 a cui hanno partecipato funzionari del ministero della Giustizia e del Dipartimento. In tale occasione si sono evidenziati alcuni dei risultati raggiunti con lo sportello diritti-trans ed enucleate alcune delle maggiori difficoltà riscontrate da questo tipo di detenuti, mostrando come sia possibile superarle individuando i tratti comuni presenti nei diversi istituti. Si sono evidenziate le difficoltà di reinserimento lavorativo, di costruzione di percorsi di risocializzazione/ riabilitazione, di tutela della salute, di costruzione e gestione dei rapporti con i servizi territoriali. Sono emerse le proposte di istituire sezioni dedicate alle persone trans detenute da distribuirsi sul territorio nazionale pensando a tre istituti siti rispettivamente nel nord Italia, nel centro Italia e al sud. Firenze: riapre il carcere per i minori dopo 3 anni di lavori (non finiti) di Stefano Masi Corriere Fiorentino, 14 dicembre 2017 Dopo tre anni di lavori riapre l’istituto penale minorile di Firenze. L’ex convento di via degli Orti Oricellari - intitolato a Gian Paolo Meucci che per vent’anni fu presidente del tribunale per i minori della Toscana, “punto di riferimento per intere generazioni di magistrati”, come ha ricordato la presidente della Corte d’Appello Margherita Cassano - è stato ristrutturato ma avrà bisogno ancora di un altro anno di lavori per poter arrivare ad ospitare 16 ragazzi. Per il momento sarà aperta la sezione con 9 posti più due per un eventuale isolamento sanitario. Alla cerimonia ieri mattina hanno partecipato anche l’assessore al Welfare di Palazzo Vecchio Sara Funaro, il direttore dell’istituto Fiorenzo Cerruto e Titta Meucci, consigliera regionale e figlia di Gian Paolo. Con la riapertura dell’istituto, ha spiegato Antonio Pappalardo, direttore interregionale del Centro Giustizia Minorile Toscana e Umbria “ripartono i corsi di scuola, professionali, e di formazione, oltre a quelli ricreativi e sportivi che esistevano prima”. Parla di apertura frettolosa il sindacato di Polizia penitenziaria Uil: “Vogliono a tutti i costi riattivare un servizio in una struttura che per metà resta un cantiere, senza un’organizzazione del lavoro concordata”. Tempio Pausania: gravissima la situazione igienico-sanitaria del carcere di Dénise Meloni olbia.it, 14 dicembre 2017 Acqua torbida, condutture che cedono, dermatiti causate dall’acqua contaminata. Gravissima la situazione dei detenuti del carcere di Nuchis: l’acqua si presenta torbida ed emana afrori sgradevoli dai rubinetti; le condutture cedono causando allagamenti; intere sezioni senza acqua calda e riscaldamento, carcerati che si ammalano di diverse forme di dermatiti da contatto con acqua contaminata. Questa i la situazione che va aggravandosi, più volte denunciata da tutti i sindacali della polizia penitenziaria del Paolo Pittalis, carcere di alta sicurezza di Nuchis che forse porterà ad un temporaneo e drastico ridimensionamento della struttura per la palese necessità di essere restaurata, nonostante sia un edificio giovane, inaugurato cinque anni fa, il 27 novembre del 2012. Oltre ai problemi di tipo strutturale e di manutenzione, si lamenta anche una grave carenza di organico del personale. Gli impiegati stessi non navigano in buone acque : il personale è stato sottodimensionato, ha dovuto subire turni di lavoro massacranti senza nessuna attenzione per la loro salute e la loro sicurezza, utilizzati anche per molteplici incarichi, senza prendere in considerazione le competenze di ognuno. Sono rimaste inascoltate molte lettere che denunciavano la situazione molto grave, così come sono state ignorate le segnalazioni e lamentele, compresa la manifestazione pubblica organizzata di fronte al tribunale di Tempio con la partecipazione di tutte le sigle sindacali. Si spera nell’intervento della magistratura per la risoluzione dei problemi idrici. Sassari: morto in cella, perizia riapre il caso di Nadia Cossu La Nuova Sardegna, 14 dicembre 2017 La relazione di Lafisca non chiarisce il giallo sulla fine del detenuto Marco Erittu. Il bandolo della matassa lo si sarebbe dovuto trovare nella risposta del perito alla domanda dell’avvocato difensore Patrizio Rovelli: “Dottor Lafisca, insomma come è morto Marco Erittu?”. Risposta: “È morto per la costrizione del collo cui possono essere facilmente associati altri fenomeni come la costrizione toracica”. Le parole del professionista - incaricato dalla corte d’assise d’appello di Sassari di accertare la causa del decesso del detenuto trovato senza vita nella sua cella di San Sebastiano il 18 novembre del 2008 - non hanno risolto il giallo. Tutt’altro. Hanno persino aperto nuovi scenari. Come quello di una morte dovuta a compressione toracica. L’omicidio/suicidio. Il caso inizialmente era stato archiviato come suicidio: Erittu (già protagonista di gesti di autolesionismo) si era cioè strangolato con una striscia di coperta. Ipotesi ritenuta praticamente certa fino alle dichiarazioni del pentito Giuseppe Bigella che si era autoaccusato del delitto e aveva chiamato in correità tre persone. A giugno del 2014 sono stati assolti in primo grado dall’accusa di omicidio volontario Pino Vandi, Nicolino Pinna (entrambi detenuti all’epoca dei fatti) e l’agente di polizia penitenziaria Mario Sanna. Assolti invece dall’accusa di favoreggiamento due colleghi di Sanna: Giuseppe Sotgiu e Gianfranco Faedda. Torna il sacchetto di plastica. Lafisca rimette in piedi l’ipotesi del soffocamento con un sacchetto di plastica. Ne aveva parlato il pentito Bigella che aveva raccontato agli inquirenti di aver soffocato Erittu con una busta di cellophane e poi, una volta accertatosi della sua morte, aveva lasciato agli altri imputati il compito di simulare un suicidio per impiccagione. Dice Lafisca a sostegno di questa ipotesi: “Le tracce sul collo della vittima sono compatibili con una manovra che ha comportato l’utilizzo di un sacchetto di plastica”. Considerazione che, di fatto, avvalora la ricostruzione fatta da Bigella. Lo stesso Bigella al quale, evidentemente, non hanno creduto i giudici di primo grado che nelle motivazioni della sentenza di assoluzione avevano spiegato che l’istruttoria dibattimentale non aveva “consentito di acquisire, oltre alle dichiarazioni accusatorie di Bigella, elementi idonei dotati di un minimo di certezza tali da far ragionevolmente ritenere che la morte di Erittu sia da ricondurre a un omicidio piuttosto che a un suicidio”. La riapertura dell’istruttoria. Lo scorso febbraio la corte d’assise d’appello era uscita dalla camera di consiglio non con una sentenza - come tutti si aspettavano - ma con un’ordinanza che disponeva la rinnovazione parziale dell’istruttoria dibattimentale. L’obiettivo della corte presieduta da Plinia Azzena era quello di chiarire attraverso una perizia medico legale come fosse morto Erittu. La perizia. Lafisca avrebbe dovuto dire se Erittu si suicidò o se invece fu ucciso. Nella sua relazione ha concluso che la causa della morte “è stata inequivocabilmente un’asfissia meccanica violenta avvenuta mediante un’azione costrittiva del collo”. Un lungo elenco di ipotesi per arrivare poi a concludere che “sono tutte incompatibili con una meccanica suicidaria con la striscia di coperta o con mezzi diversi dalla coperta stessa che non siano stati, per motivi a me ignoti, rinvenuti nella cella”. Si intuisce che il perito opti più per l’omicidio considerato che, come lui stesso precisa, “non sono stati trovati nella cella strumenti in grado di spiegare il suicidio”. Scontro tra consulenti. Ieri davanti alla corte presieduta da Plinia Azzena i consulenti della difesa hanno sollevato tutta una serie di contestazioni alle tesi di Lafisca portando alla fine quest’ultimo a dire che in tutta questa storia “l’unica certezza è che Erittu è morto per asfissia meccanica violenta”. Provocata da cosa, non si sa. Non prevale, per il perito, una modalità omicidiaria rispetto a un’altra: “Non dirò mai che uno solo dei meccanismi che ho elencato ha determinato la morte di Erittu”. E allora? Verrebbe da chiedersi. L’esito del processo si baserà sulle parole di Bigella? Prossima udienza il 2 febbraio. Pisa: in vendita le produzioni dei detenuti per debellare la poliomielite pisatoday.it, 14 dicembre 2017 Un acquisto per sostenere due cause: la lotta alla poliomielite ed il reinserimento in società dei detenuti. Si svolgerà dal 15 al 17 dicembre presso la Conad di Madonna dell’Acqua la vendita di oggettistica realizzata dai carcerati della Casa di Reclusione di Massa durante i laboratori professionalizzanti, a sostegno del progetto della Rotary Foundation “End Polio”. Un’iniziativa quindi sia sociale che sanitaria. Nella presentazione di oggi a Palazzo Gambacorti il presidente del Rotary Club Pisa Pacinotti dott. Gabriele Siciliano ha sottolineato l’aspetto medico dell’azione: “Il tema delle vaccinazioni è molto attuale e non solo per la poliomielite. Nello specifico caso del progetto, partito nel 1985, sono stati vaccinati oltre 2 miliardi di bambini, con una stima di 10 milioni di vite salvate. Numeri che dimostrano l’efficacia di questo sistema di prevenzione. Il rischio però non è ancora azzerato. Ci sono casi sporadici in Africa e nel Medio Oriente, con anche alcune recrudescenze, è quindi importante mantenere alta l’attenzione”. A fornire il “carburante” della raccolta fondi saranno gli oggetti realizzati dai detenuti della Casa di Reclusione di Massa. “È il secondo anno che partecipiamo - ha detto la funzionaria dell’area educativa dell’istituto Lucia Scaramuzzino - per noi è importante mostrarci all’esterno per i nostri aspetti sociali, nell’ottica di perseguire il recupero in società di chi risiede presso la nostra struttura. Abbiamo progetti interni che avviano al lavoro le persone che vivono in contesti di fragilità, dal tessile alla lavanderia, fino ad un servizio di riparazione di macchine del caffè. In vendita andranno stoffe per i regali di natale, cornici, ciotole e portaoggetti, più un calendario realizzato durante un laboratorio di fotografia emozionale dal titolo ‘La vita possibilè. Un racconto dei detenuti della loro condizione”. All’iniziativa, patrocinata dal Comune di Pisa, partecipa anche la Misericordia di Navacchio, che fornirà supporto attraverso i propri volontari: “Attraverso la nostra opera - ha spiegato il presidente Luigi Nannipieri - che ci vede impegnati con 55 posti letto ed i vari ruoli tipici di assistenza e supporto, sappiamo dell’importanza di queste iniziative socio-sanitarie. Ci sentiamo a casa in questo genere di progetti, siamo orgogliosi di dare il nostro apporto”. “È il momento di accelerare contro la poliomielite - ha aggiunto il presidente del Rotaract Pisa Lorenzo Paladini - manca poco per debellare la malattia. Contribuiamo convinti con i soci per la sensibilizzazione ai vaccini”. La presidente della Società della salute Sandra Capuzzi: “Non dobbiamo dare per scontato la vaccinazione: se non è fatta di continuo poi non porta ai risultati previsti. È un tema centrale nella prevenzione, oggi dovrebbe essere un periodo dove dovrebbe essere diffusa questa consapevolezza. In questa iniziativa non c’è solo la sensibilizzazione al vaccino ma anche uno sbocco di autofinanziamento della Casa di Reclusione di Massa, che poi è offrire un’opportunità per ricostruirsi una vita, quindi una ricaduta positiva concreta sul territorio. Mi piacerebbe vedere progetti simili con coinvolto anche il carcere di Pisa”. Felice dell’organizzazione il presidente della Rotary Foundation di Pisa Antonio Trivella, che dopo aver introdotto i tratti dell’iniziativa ha rilevato: “Pensavamo di farla in centro a Pisa, abbiamo proposto l’idea a centri commerciali del centro ma non ci hanno voluto ospitare”. Milano: i regali di Natale che coniugano qualità e riscatto sociale varesenews.it, 14 dicembre 2017 Arrivano dalle Case circondariali della città le idee regalo per i milanesi in occasione del Natale 2017. Il meglio delle produzioni “made in carcere” realizzate da persone detenute è in vendita al Consorzio Vialedeimille in viale dei Mille 1, angolo piazzale Dateo. A presentare l’iniziativa volta a promuovere l’economia carceraria e a prevenire la delinquenza e la recidiva dei detenuti, l’assessore alle Politiche per il Lavoro, Attività produttive e Commercio Cristina Tajani con i rappresentanti del Consorzio Vialedeimille. Vini, marmellate, panettoni, cioccolata, grembiuli gourmet, borse, prodotti in cashmere, corone dell’avvento, runner, calendari, cartoline, fiori, piante e molto altro. Sono questi i regali che si possono acquistare in viale dei Mille. Regali buoni e che fanno bene. Buoni perché realizzati con impegno e passione da persone detenute che con il lavoro si stanno guadagnando una vita migliore e un futuro più degno. Fanno bene perché rimettono in moto l’economia carceraria, creando percorsi virtuosi che, attraverso il lavoro, contribuisce a prevenire il rischio di recidiva. Un gesto di responsabilità sociale per aziende e privati, semplice ma di grande impatto. “Proprio in questi giorni in cui tutti siamo impegnati nella ricerca di piccoli pensieri per i nostri cari - dichiara l’assessore alle Politiche per il Lavoro, Attività produttive e Commercio Cristina Tajani, possiamo trovare qui oggetti originali e di qualità che coniugano innovazione tecnologica e maestria artigianale con il riscatto sociale per chi li realizza. La collaborazione tra imprese ristrette e imprenditori che scelgono di produrre all’interno delle carceri consente di ampliare i percorsi di riqualificazione professionale per i detenuti aumentandone le competenze tecniche e favorendo il loro rientro nel mercato del lavoro come valido strumento di riscatto sociale. Invito tutti i milanesi a considerare questa opportunità come una valida alternativa ai classici regali, spesso scontati”. L’obiettivo del Consorzio Vialedeimille, nato per iniziativa dell’Amministrazione comunale nel giugno 2015 negli spazi comunali in viale dei Mille 1, è quello di promuovere percorsi concreti di reinserimento sociale delle persone private della libertà e prevenire il rischio di recidiva con il lavoro: tutto questo lo si ottiene anche acquistando i regali di Natale realizzati da persone detenute. Il Consorzio Vialedeimille è stato fondato da cooperative sociali che lavorano nelle carceri lombarde di San Vittore, Milano-Opera, Bollate, Monza. Le cooperative sociali che appartengono al Consorzio impiegano oltre 100 persone detenute in carcere e altrettante fuori. La novità di quest’anno sono i mercoledì al Consorzio con il panettone per tutti e ospiti itineranti, nei due mercoledì precedenti il Natale (13 e 20 dicembre): una serata con ospiti durante la quale viene offerta una fetta di panettone alla cittadinanza, invitando anche anziani del quartiere, persone svantaggiate e amici. Il senso dell’iniziativa è quello dell’amicizia esprimendo gratitudine alla città che accoglie il lavoro delle persone detenute e il loro impegno verso il cambiamento. Per info: consorziovialedeimille.it. Arezzo: un giardino per gli incontri tra detenuti e famiglie Corriere di Arezzo, 14 dicembre 2017 Un giardino per far incontrare le famiglie dei detenuti durante i colloqui. L’idea portata avanti dal direttore del carcere di Arezzo, Paolo Basco, potrebbe presto diventare realtà grazie ai soldi raccolti durante una manifestazione di beneficenza che si è svolta qualche settimana fa nel Castello di Valenza. Il progetto prevede il recupero di un’area della struttura carceraria che attualmente è in stato di abbandono. La sistemazione consentirebbe, dunque, di realizzare un’area verde dove i detenuti possono incontrare i figli piccoli e le famiglie, mangiare insieme o fare pet therapy. “È un progetto al quale tengo particolarmente - dice il direttore Paolo Basco - perché con azioni come queste si limita il distacco che comunque si vive nel regime carcerario. Avevamo avuto tante richieste in questo senso e adesso ho iniziato chiedere i preventivi per vedere quanto costano i lavori”. Per adesso ci sono i 3.350 euro raccolti durante il pranzo di solidarietà organizzato a fine novembre in collaborazione con il Rotary e Lions Club di Arezzo e Casentino. “Se i soldi non basteranno - chiosa il direttore - vorrà dire che organizzeremo altre raccolte fondi”. Insomma il direttore è deciso a dotare il carcere di San Benedetto di questo angolo per rendere più umano il colloqui specialmente ai detenuti che hanno figli piccoli: “Gli esperti ci dicono che un bambino non può non sentire la mancanza di un genitore del quale conosce l’esistenza, è nostro dovere dunque rendere più umani questi contatti con la famiglia”. Alba (Cn): lavoro dei detenuti ed agricoltura sociale, se ne parla in un convegno ideawebtv.it, 14 dicembre 2017 Si terrà ad Alba il prossimo 16 dicembre 2017, a partire dalle ore 9.30, presso la Sala Vittorio Riolfo nel Cortile della Maddalena, il convegno “Il lavoro dentro… dentro al lavoro”. Obiettivo primario dell’iniziativa è quello di creare un momento di discussione e confronto tra le istituzioni politiche nazionali, quelle locali, gli enti del Terzo settore le realtà ed esperti che operano nel settore, sul tema del recupero sociale e professionale dei detenuti attraverso il lavoro e sul ruolo che l’agricoltura può svolgere in questo processo riabilitativo, grazie alla legge sull’Agricoltura Sociale promossa dal Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali. La convinzione è che investire nell’economia penitenziaria e nell’agricoltura sociale significa investire anche in sviluppo e sicurezza. Al convegno interverranno tra gli altri il Vice Ministro alle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, Andrea Olivero e il Sottosegretario di Stato al Ministero della Giustizia, Federica Chiavaroli. Tra i casi di maggiore rilievo in ambito di Agricoltura sociale verrà discusso Valelapena, ambizioso progetto nato nel 2006 che vede la collaborazione tra Syngenta, il Ministero della Giustizia, la Casa Circondariale d’Alba, l’Istituto Enologico d’Alba e il Comune di Alba per sostenere il recupero dei detenuti della casa circondariale di Alba attraverso una formazione specifica e l’impiego diretto e concreto in un vigneto situato all’interno del carcere stesso. Ogni anno il progetto coinvolge 15 detenuti che, all’interno dell’istituto penitenziario, seguono un corso per ottenere la qualifica di operatore agricolo e coltivano vitigni di nebbiolo, barbera, dolcetto e cortese. Alla vinificazione, imbottigliamento ed etichettatura provvede l’Istituto Enologico Umberto I di Alba per una produzione annua di 1.400 bottiglie. Attraverso la qualifica professionale e l’attività svolta nel vigneto, gli ospiti della Casa di Reclusione hanno la possibilità di maturare le competenze e l’esperienza necessarie per trovare impiego presso le aziende vitivinicole della zona una volta scontata la pena. Syngenta mette a disposizione i prodotti, le competenze e le risorse necessarie per una corretta e completa protezione del vigneto. Il convegno fa parte del programma di Vale La Pena, una serie di attività che tradizionalmente durante l’autunno mette al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica della capitale delle Langhe i temi legati alla detenzione e alla realtà penitenziaria. Capofila dell’edizione 2017 è il consorzio di cooperative sociali CIS - Compagnia di Iniziative Sociali; partner dell’iniziativa sono la Città di Alba, i Garanti regionale e comunale delle persone private della libertà personale, Syngenta, azienda leader in agricoltura a livello globale, la Casa di Reclusione “Giuseppe Montalto” di Alba, l’Associazione Arcobaleno, l’Ente Fiera Internazionale del Tartufo Bianco d’Alba, il Mercato della Terra “Italo Seletto Onlus” di Alba e la Consulta comunale del Volontariato. Foggia: detenute creano borse di stoffa, all’interno i prodotti confiscati alla mafia immediato.net, 14 dicembre 2017 “Un sacco di Giustizia”, è l’iniziativa nata nella sezione femminile del carcere di Foggia con l’obiettivo di coniugare inclusione sociale, beni confiscati e lavoro. Presentato questo pomeriggio, presso la sede della Fondazione dei Monti Uniti, il progetto, della durata di tre mesi, ha coinvolto due donne detenute (di 47 e 50 anni, ndr) e terminerà il prossimo 21 dicembre. Un’idea che si è subito trasformata in proposta concreta e in una vera e propria occasione di lavoro. Katia e Mariana, le due donne coinvolte, sono state guidate da una sarta, la signora Rosa Anna Perdonò, che all’interno del carcere ha educato loro al lavoro, rispettando orari e mansioni, trasmettendo la voglia di stare insieme. Tre gli incontri fortemente voluti dalla Cooperativa AlterEco di Cerignola e CSV Foggia. “Noi della provincia abbiamo sempre visto il carcere lontano - ha detto Dora Giannatempo di AlterEco. Crediamo che sia una città nella città, una comunità nella comunità, alla quale non dobbiamo girare la testa. Gli organizzatori assicurano continuità all’iniziativa: diverse sono state infatti le richieste da parte di librerie e di Coop Alleanza, interessate alla vendita dei sacchi. Un percorso che in questi mesi ha visto consolidarsi intorno a sé una fitta rete organizzativa del territorio. Iniziativa da subito sposata dal Comune di Cerignola, rappresentato nella Sala Rosa dall’assessore Rino Pezzano. “La selezione delle due detenute è avvenuta tramite chi, all’interno della sezione femminile, aveva avuto in passato una piccola esperienza sartoriale” - ha raccontato la sarta. Apparentemente un’impresa ardua ma questo ha rappresentato per gli organizzatori la chiusura di un cerchio: reinserimento lavorativo a partire dai beni confiscati alla mafia che diventano luogo di lavoro, da cui si producono beni realizzati in carcere. L’idea è stata proprio quella di porsi gli uni al fianco degli altri con un approccio cooperativo per cercare di ricostruire insieme un ponte tra condannati e comunità per la riqualificazione personale e ricostruzione del proprio senso positivo di auto-efficacia. Le due detenute, insieme al prezioso aiuto della signora Rosa Anna, hanno realizzato oltre 400 “sporte” di stoffa, più di quanto previsto, un obiettivo quindi, ampiamente raggiunto. I sacchi in vendita, contengono al loro interno, i prodotti realizzati sui beni confiscati alla mafia. Non solo dunque, prodotti che raccontano storie, ma anche economie reali che permettono di sostenere concretamente molti lavoratori. Una borsa dal valore enorme. Palermo: ex detenuti e disabili insieme per fare tante cose... buone livesicilia.it, 14 dicembre 2017 La storia di 4 ragazzi e l’iniziativa dell’Aias del capoluogo guidata da Salvatore Licitra. All’Aias di Palermo è stata inaugurata un’iniziativa che merita di essere raccontata, non fosse altro che per il valore che gli riconoscono gli stessi i protagonisti coinvolti e gli amici degli amici degli amici. Perché sono storie che spesso non escono fuori o vengono raccontate male, oppure perché non sempre si comprende appieno di quanto lavoro e di quanta speranza si riempiano certe esperienze. Disabili dell’Aias ed ex detenuti: strani incontri di gente abituata ad essere guardata con diffidenza, abituata a gestire il disagio di un passato sbagliato o di un presente difficile, di una volontà oppure di un destino che ha segnato per sempre il corso di un’esistenza che non potrà essere come quella degli altri. Due categorie di persone che da sempre si battono alla ricerca del proprio spazio nella società, nel mondo del lavoro e con le dovute differenze, disabili ed ex detenuti, lottano per un posto, non in prima fila, ma un posto qualunque dal quale ammirare il cielo. Potrebbe dirsi integrazione e voglia di riscatto. Eppure si divertono e fanno dolci buonissimi. Massimo e Marcello hanno sbagliato, sono finiti in galera e poi ci hanno provato: hanno preso il diploma all’alberghiero, hanno fatto corsi e si sono specializzati nella pasticceria siciliana. Francesco e Antonio, loro no, loro non hanno sbagliato, sono nati con un ritardo mentale, ma sono precisi e attenti e la pasticceria l’hanno presa seriamente. E così quando il presidente dell’Aias di Palermo, Salvatore Nicitra, ha presentato il progetto e proposto ai 2 ex galeotti di partecipare al laboratorio, a tutti è sembrata una buona idea. Una di quelle buone idee che piacciono a tutti e che si fanno per questo. Chi poteva immaginare che tra i ragazzi disabili e i pasticceri potesse nascere una vera amicizia? Chi avrebbe scommesso su quegli abbracci e sulla commozione davanti ad un buccellato? Pensare che i dolci sono buonissimi sembra una cosa da mettere in secondo piano e invece, ci spiegano Marcello e Salvatore (disabile dalla nascita) sono il naturale risultato della fusione di anime, passione e impegno. Loro dicono che con questi ingredienti è normale che i dolci vengano buoni. Però si sa, loro hanno un’idea tutta personale di cosa sia normale. Sul progetto tanto di cappello, ma non credevamo che i prodotti fossero davvero così buoni e come spesso succede quando ti imbatti in certe persone abbiamo dovuto faticare per riuscire a pagare prima di andare via con due sacchi pieni di cose buonissime che quest’anno regalerò a tutti gli amici. Il prossimo appuntamento durante il presepe vivente presso il Centro Aias di Via Raiti 16 (traversa di Via E. Basile) nei giorni 16 e 22 dicembre per comprare i loro prodotti e aiutarli a realizzare i loro sogni. Lucera (Fg): “Dona un abbraccio”, un pomeriggio speciale dietro le sbarre foggiatoday.it, 14 dicembre 2017 Sport, genitorialità, un pallone calciato (anni fa) da Del Piero e una torta preparata dai detenuti. Un pomeriggio speciale dietro le sbarre, nel segno della famiglia. La “partita con papà” da momento eccezionale per i bambini “dentro” gli istituti diventa un messaggio per la società fuori. Un messaggio che i detenuti della prima sezione della Casa Circondariale di Lucera oggi pomeriggio hanno voluto affidare a una lettera, letta in campo. Un messaggio alla città - “Ringraziamo la direzione, l’Area Educativa, il commissario e tutti gli agenti penitenziari che ci hanno permesso di vivere questo pomeriggio all’insegna dello sport e dell’amicizia e ci hanno regalato una giornata speciale con le nostre famiglie, certo in un contesto difficile, ma che comunque resterà per sempre nelle nostre menti e nei nostri cuori. Un ringraziamento speciale va al professore Luigi Talienti, che con impegno cerca di farci incamminare sulla giusta via con le attività che porta in carcere”. Un legame oltre le sbarre - L’iniziativa è stata organizzata nell’ambito del progetto promosso, in tutta Italia, da Bambinisenzasbarre con il sostegno del Ministero di Giustizia-Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. La “partita con papà” mette in primo piano il diritto fondamentale dei bambini di preservare il legame con il padre o la madre, anche se detenuti. Ma non solo. È anche un’occasione, per i figli, di poter accedere eccezionalmente alle aree sportive, di vedere il papà in un contesto diverso e di trascorrere insieme una giornata “diversa”. “L’iniziativa - ricorda Luigi Talienti - è nata per sensibilizzare le istituzioni, i media e l’opinione pubblica sulla situazione dei 100 mila bambini in Italia (2.1 milioni in Europa) che vivono la separazione dal proprio genitore detenuto e la necessità di contrastare l’emarginazione sociale che ne deriva. Iniziative come questa servono a garantire a ogni bambino il diritto naturale a ricevere un abbraccio dal proprio genitore, anche se detenuto. La famiglia resta riferimento fondamentale nel carcere e per tale motivo cercheremo di assicurare altre iniziative di questo tipo”. Il pallone calciato da Del Piero - I detenuti scesi in campo, fotografati da Raffaele Pellegrino, sono stati selezionati durante le attività sportive organizzate nel carcere di Lucera, nel corso della scorsa estate, da Talienti con la collaborazione dell’Acsi. E proprio uno degli arbitri ha voluto donare alla Casa Circondariale un pallone che, diversi anni fa, fu calciato da Alessandro Del Piero. “Un bel regalo - sottolinea Talienti - che lascia un segno in questo evento importante, che si ripete per il secondo anno consecutivo grazie al direttore del carcere, Giuseppe Altomare e al Funzionario Responsabile dell’Area Trattamentale, Cinzia Conte, con la collaborazione del personale di Polizia Penitenziaria, guidato dal Comandante Daniela Raffaella Occhionero”. Oltre i pregiudizi - Un’iniziativa organizzata per superare i pregiudizi di cui sono spesso vittime i bambini, che si trovano a pagare per un crimine che non hanno commesso, perché troppo spesso stigmatizzati ed emarginati e per ricordare che il figlio di genitori detenuti è innanzitutto un bambino, con i suoi bisogni e i suoi diritti. Alla manifestazione, che si è conclusa nella sala colloqui con una torta al cioccolato preparata dai detenuti per i familiari, ha partecipato anche il Csv Foggia, con la responsabile dell’Area Comunicazione e promozione del volontariato penitenziario, Annalisa Graziano. Voghera (Pv): sabato iniziativa per i diritti dei bambini figli di detenuti vogheranews.it, 14 dicembre 2017 A dicembre 2017, per il terzo anno consecutivo, ritorna “La partita con papà “, la giornata di calcio dei papà detenuti coi loro figli, negli istituti penitenziari italiani. All’iniziativa, il 16 dicembre alle ore 13, aderisce anche la Casa Circondariale di Voghera. Organizzata da Bambinisenzasbarre con il sostegno del Ministero di Giustizia-Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, un’iniziativa unica in Europa, per sensibilizzare le istituzioni, i media e l’opinione pubblica sulla situazione dei 100 mila bambini in Italia (2.1 milioni in Europa) che vivono la separazione dal proprio genitore detenuto offrendo loro un momento speciale d’incontro. L’evento si inserisce nella Campagna “Dona un abbraccio”, che pone l’attenzione sulla necessità di preservare il legame affettivo con il genitore, fondamentale per la crescita del bambino e per la sua stabilità emotiva. Su questo si impegna da 15 anni l’Associazione Bambinisenzasbarre Onlus che ha firmato il Protocollo-Carta dei diritti dei Figli di genitori detenuti - la prima in Europa nel suo genere, col Ministro di Giustizia e il Garante dell’Infanzia e dell’adolescenza - che riconosce formalmente i diritti di questi bambini, in particolare il diritto alla continuità del legame affettivo con il proprio genitore in attuazione dell’art. 9 della Convenzione Onu. In linea con la Carta dei Diritti, Bambinisenzasbarre, per un processo di trasformazione degli istituti penitenziari, ha realizzato lo Spazio Giallo all’interno delle carceri, ambienti protetti di attenzione e ascolto, con cui si intende attenuare l’impatto del bambino con il carcere e, contemporaneamente, garantire la continuità del rapporto affettivo con il genitore. Attualmente gli Spazi Gialli sono presenti negli istituti di Lombardia, Piemonte, Toscana e Campania, ma l’obiettivo dell’Associazione è di dotare ogni carcere italiano del proprio Spazio Giallo. Per questo, i fondi raccolti dalla Campagna “Dona un abbraccio” verranno destinati alla realizzazione di nuovi Spazi Gialli nelle carceri italiane, al fine di garantire a tutti i 100 mila bambini che fanno visita al genitore un luogo fatto su misura per loro. Roma: “Rebibbia 24”, fotogrammi al secondo per raccontare l’arte in carcere Redattore Sociale, 14 dicembre 2017 Sette studenti del Dams alle prese con droni e cellulari insieme agli allievi di 4 scuole superiori romane per riprendere i detenuti impegnati nell’Hamlet di Fabio Cavalli, le storie, le biografie. Tutto racchiuso in “Rebibbia 24”, il docu-film sulla straordinaria esperienza. Mesi di presenza sul palcoscenico del carcere, fianco a fianco con i detenuti-attori del Teatro Libero di Rebibbia impegnati nella realizzazione di Hamlet. E poi l’idea: raccontare in un docu-film quell’esperienza straordinaria e come tutto il tempo trascorso ‘dentro’ sia riuscito a cambiare le loro vite. Si chiama “Rebibbia 24- arte e libertà a 24 fotogrammi al secondo” e verrà presentato il 20 dicembre a Roma, l’opera con cui 7 ragazzi del Dams dell’università Roma Tre documentano il dietro le quinte dell’arte in carcere, raccontando l’incontro con l’istituto di pena romano, i suoi detenuti e frammenti delle biografie di ciascuno dei protagonisti, nella nuova scommessa artistica della fondazione Enrico Maria Salerno. “Grazie al Bando “S’illumina”, con il supporto di Mibact e Siae - racconta Fabio Cavalli, regista di Hamlet e coordinatore del progetto “Rebibbia 24”, un gruppo di studenti del Dams Dipartimento di Filosofia, Comunicazione e Spettacolo dell’Università Roma Tre, ha avuto la possibilità di portare le telecamere all’interno dell’Auditorium di Rebibbia: da allievi del Laboratorio di Arti dello Spettacolo sono diventati collaboratori professionali nel progetto che racconta il dietro le quinte dell’arte in carcere, a 24 fotogrammi al secondo”. Un’opera realizzata in collaborazione con l’istituto statale Cine-tv “Roberto Rossellini”, l’istituto “Giuseppe Carducci, il “Francesco d’Assisi” e la Banda della Scuola Popolare di Musica di testaccio. Dj Fabo, Cappato al processo: “Un dovere aiutarlo a morire” di Giulia Crivellini Il Manifesto, 14 dicembre 2017 Ieri la deposizione del tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, accusato di aiuto al suicidio. Commozione durante l’intervista alle Iene mostrata in un’aula gremita e attenta. “Sono responsabile. Sono responsabile di avere aiutato Fabo ad esercitare la sua volontà, quella di morire”. “Perché lo ha fatto?”, domanda il pubblico ministero in un’aula avvolta dal silenzio. “Perché credo che le persone abbiano il diritto di scegliere come vivere e come morire. Per me è stato un dovere corrispondere a quella richiesta”. Si è difeso così Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, davanti alla prima sezione della Corte d’Assise di Milano. Lo ha fatto ieri, durante il processo che lo vede imputato per il reato di aiuto al suicidio per aver accompagnato a morire in Svizzera Fabiano Antoniani, il dj rimasto paralizzato e cieco a seguito di un incidente stradale. Un’udienza cruciale, la terza dall’inizio del processo, perché le pm Tiziana Siciliano e Sara Arduina hanno richiesto la visione integrale dell’intervista rilasciata da Fabiano al programma tv Le Iene pochi giorni prima di morire. Un racconto lucido, dettagliato, commovente, quello che è emerso nel video proiettato in un’aula gremita e attenta. “È una sofferenza immane. Non la auguro a nessuno, neanche al mio peggior nemico”, spiega Fabiano a Giulio Golia, inviato del programma. “Ma sei convinto della tua scelta?”, domanda il giornalista. “Assolutamente sì”, risponde il ragazzo. “Io quantifico la vita in qualità non in quantità, e ora sto sopravvivendo di quantità. Andrò via col sorriso, andrò via libero”. Il giornalista, sentito poi dai giudici, ha confessato con evidente emozione che quell’incontro con Fabiano lo ha “segnato” profondamente. L’intervista, caratterizzata da un botta e risposta dai toni a tratti ironici (“puoi parlare con la mia fidanzata, basta che ti limiti a quello”, ammonisce il 40enne) ha ripercorso gli ultimi anni di vita del ragazzo, l’incidente, il dolore, e la convinzione di voler morire “con dignità”. Le parole del dj hanno svelato dettagli importanti anche sotto il profilo penale, mostrando come quella scelta fosse già stata presa prima del contatto con Cappato, e che si trattava di una volontà “irrevocabile”. Proprio nelle ore in cui il Parlamento discuteva la legge sul testamento biologico, nel Palazzo di Giustizia è stata proiettata la testimonianza della compagna dell’uomo, Valeria Imbrogno, che ha spiegato come “trovare un notaio oggi in Italia che autentichi le disposizioni di ultima volontà di un cittadino è difficilissimo”. Perché nonostante sia già un diritto riconosciuto da numerose sentenze dei tribunali, a oggi manca una legge che consenta a una persona di esprimere la propria volontà in merito alle terapie cui intende o non intende sottoporsi, in caso di incapacità. Sul punto è stato Veneroni, medico di fiducia di Fabiano, a ricordare che il testamento biologico ha rappresentato per l’uomo una tappa fondamentale per poter avviare le procedure di suicidio assistito in Svizzera. “Fabiano Antoniani era pienamente capace di intendere e di volere”, ha affermato il medico, ricordando che quella di cui soffriva il suo paziente era una patologia “non reversibile”. La condizione clinica è stata confermata dal consulente tecnico dell’accusa, che ha ripercorso la terapia del dolore cui era sottoposto Fabiano e definito i suoi spasmi muscolari “incoercibili”. “Ma esisteva una strada, per così dire, italiana?”, ha chiesto la pm al Mario Riccio, medico anestesista che nel 2006 aiutò Piergiorgio Welby a morire. “Quella della sospensione della nutrizione e del mancato utilizzo della ventilazione meccanica”, ha risposto il medico. Che ha aggiunto: “per questa via la morte sarebbe giunta solo dopo svariati giorni e in una condizione di particolare sofferenza”. E questo era esattamente ciò che Fabiano Antoniani non voleva. Aveva infatti deciso di andare a morire in Svizzera “perché non voleva morire soffocato interrompendo le cure”, aveva spiegato la madre del ragazzo nella precedente udienza. In chiusura, la deposizione di Marco Cappato. È stata una confessione spontanea la sua, sin da quando si autodenunciò ai Carabinieri non appena varcata la frontiera italiana. “Sono un militante politico”, ha detto ieri in aula. “Credo nell’importanza della legge nel normalizzare i diritti. Per questo, di fronte a un legislatore immobile, ho scelto la via dell’autodenuncia pubblica: per affermare questo diritto di libera scelta di fine vita”. L’udienza conclusiva si terrà il 17 gennaio. Per il 14 febbraio è prevista la decisione della Corte. Una decisione che arriverà a chiusura di un processo che si ha tutta l’impressione avere avuto come imputato principale il legislatore. Tribunale Penale Internazionale, la giustizia che punisce solo i vinti di Paolo Mieli Corriere della Sera, 14 dicembre 2017 Dopo ventiquattro anni sta per smobilitare il Tribunale penale internazionale dell’Aia per i crimini commessi nella ex Jugoslavia. In punta di piedi, se ne andrà, tra quindici giorni, il Tribunale penale internazionale dell’Aia per i crimini commessi nella ex Jugoslavia. Ha operato - la Corte dell’Aia - per ventiquattro anni, nel corso dei quali sono stati portati alla sbarra 161 imputati: 90 hanno poi ricevuto una sentenza di condanna. L’ultima immagine di questo dibattimento giudiziario destinata a rimanere impressa è quella di fine novembre: il settantaduenne generale croato-bosniaco Slobodan Praljak che, appreso di dover stare in prigione vent’anni (due terzi dei quali, già scontati), si è suicidato ingerendo, davanti alle telecamere, una fiala di veleno. Per la cronaca, Praljak in un primo tempo era stato accusato di aver ordinato, nel 1993, la distruzione dello Stari Most. Si trattava del Ponte vecchio di Mostar, un gioiello architettonico realizzato tra il 1557 e il 1566 sulla Neretva dall’architetto ottomano Hajrudin Mimar per consentire alle comunità cristiana e musulmana di integrarsi tra loro. I giudici dell’Aia, però, avevano assolto Praljak per quell’ordine stabilendo che quel ponte era un “obiettivo legittimo” in quanto costituiva una “linea di rifornimento del nemico”. E si erano limitati a condannarlo per altri crimini. Ma anche questo, evidentemente, era per lui intollerabile pur se gli anni da trascorrere in cella sarebbero stati davvero pochi. Del tutto diverso il suo dal caso di Hermann Göring a Norimberga, al quale pure era stato il generale croato impropriamente paragonato. Göring si era sì dato la morte nell’ottobre del 1946 con il cianuro, ma dopo essere stato condannato a morte. Sarebbe morto comunque. Prima di Praljak si erano suicidati altri imputati di questo interminabile processo: l’ex ministro dell’Interno serbo Vlajko Stojiljkovic, l’ex sindaco di Vukovar Slavko Dokmanovic e, nel marzo del 2006, il quarantottenne presidente della Repubblica serba di Krajina, Milan Babic, impiccatosi in cella mentre stava scontando una pena di tredici anni. Tutti casi di condanne relativamente lievi, ben diversi da quelli del numero due di Adolf Hitler. Nel corso del tempo trascorso dal 1993, anno in cui il Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia fu istituito, ci sono stati altri decessi in cattività. Sei giorni dopo Babic, morì in cella il grande imputato di questo processo, Slobodan Milosevic. Un infarto, si disse, per giunta alla vigilia della condanna. L’ex presidente serbo aveva più volte avanzato il sospetto che i suoi carcerieri lo stessero avvelenando. Sospetti, non suffragati però da evidenze di alcun tipo. Come, peraltro, di dubbi non sorretti da prove ce ne sono stati più d’uno per le morti improvvise di alcuni dei reduci di quella guerra, rinchiusi nella prigione di Scheveningen. In ogni caso, restando a Milosevic, pur senza voler sminuire le sue colpe, va ricordato che nel 2016, dieci anni dopo la sua scomparsa, il Tribunale penale internazionale ha stabilito che non fu responsabile di crimini di guerra in Bosnia. I giudici dell’Aja lo hanno scritto a chiare lettere nella sentenza di duemila e cinquecento pagine con cui hanno condannato a quarant’anni di carcere il leader dei serbi di Bosnia Radovan Karadzic. Anzi, in quella sentenza è stato addirittura dato atto a Milosevic di aver cercato di convincere Karadzic che “la cosa più importante di tutte era mettere fine alla guerra” e che “l’errore più grande dei serbo-bosniaci era di volere la sconfitta totale dei musulmani in Bosnia”. Ed è così potuto accadere che (sempre nel 2016) Prokuplje, una cittadina di trentamila abitanti nel Sud della Serbia, annunciasse l’intenzione di costruire un monumento a Milosevic. E che il capo dello Stato, Tomislav Nikolic, un ex leader del dissenso serbo, non ritenesse di dirsi “contrario” mettendo in imbarazzo l’uomo destinato a succedergli, l’allora primo ministro Aleksandar Vucic (il quale, nel merito del giudizio da dare sull’iniziativa di Prokuplje, se l’è cavata dicendosi “combattuto”). Morale: il pur scrupoloso lavoro dei giudici dell’Aja ha avuto l’effetto di produrre addirittura una iniziale riabilitazione di Milosevic. Senza peraltro dare soddisfazione alle vittime di quella guerra degli anni Novanta. Come dimostra un effetto del già citato “caso Karadzic”: il 24 marzo 2016 la Corte dell’Aja ha condannato Radovan Karadzic - l’uomo che si vantò della “pulizia etnica” - a quarant’anni di carcere per dieci capi di imputazione su undici (quanti ne aveva individuato dall’accusa). Ripetiamo, dieci su undici: Karadzic è stato ritenuto responsabile del massacro di Srebrenica (1995), di altri cinque misfatti contro l’umanità e quattro di guerra. Ma è stato assolto dall’accusa di genocidio in sette comuni bosniaci, dove le forze militari serbe da lui comandate si sarebbero macchiate di esecuzioni, stupri di massa e avrebbero gestito campi di concentramento con l’intenzione di uccidere quanti più musulmani possibile. I giudici hanno sentenziato che di ciò non esisteva prova certa, ed è bastato questo perché il senso della loro decisione fosse capovolto. Un superstite di quelle stragi, Amir Kulagiv, ha dichiarato: “La condanna appare come un premio per quello che Karadzic ha fatto, non una punizione... Questa sentenza non rende giustizia nemmeno a una sola persona assassinata a Srebrenica, figuriamoci alle molte migliaia di morti”. Dopodiché nella Republika Srpska, uno staterello bosniaco controllato dalla Serbia, la casa dello studente di Pale, (cittadina da cui fu lanciato l’assedio a Sarajevo), è stata battezzata con il nome di Karadzic e alla cerimonia di inaugurazione hanno presenziato la moglie del condannato nonché il Presidente Milorad Dodik. Ecco: chi è curioso di sapere come possa accadere che dei criminali di guerra possano, dopo qualche tempo, diventare oggetto di venerazione potrà d’ora in poi studiare con profitto il caso jugoslavo. Quanto a noi, resta il dilemma che ci perseguita dai processi di Norimberga e Tokio, i quali sanzionarono le colpe di tedeschi e giapponesi alla fine della Seconda guerra mondiale. Si può considerare “giusto” un Tribunale che, al termine di un conflitto (a maggior ragione se si tratta di una guerra civile), scopra e punisca esclusivamente reati commessi dagli sconfitti? Possibile che non si riesca a trovare neanche una macchiolina sull’abito dei vincitori? Siamo proprio sicuri - ad esempio - che i musulmani bosniaci di Alija Izetbegovic non abbiano qualche morto sulla coscienza? E c’è qualcosa da dire anche a proposito di noi europei, delle Nazioni Unite, dell’Occidente nel suo insieme. Il generale serbo Ratko Mladic il 4 giugno del 1995 incontrò il generale francese Bernard Janvier che comandava le forze Onu nella ex Jugoslavia ed era disposto a qualsiasi concessione pur di ottenere la liberazione dei suoi caschi blu, in gran parte francesi, trasformati dai serbi in scudi umani. Mladic, in cambio del loro “rilascio”, chiese la fine dei raid aerei della Nato; la ottenne e marciò su Srebrenica da cui il colonnello Thom Karremans, al comando del battaglione di caschi blu olandesi, l’11 luglio si ritirò chiudendo un occhio, anzi tutti e due, su quel che stava per accadere. Risultato una carneficina con un bilancio finale di ottomila morti. Per quella strage, pochi giorni fa, a fine novembre, Mladic è stato, giustamente, condannato all’ergastolo. Ma forse avrebbe dovuto essere sanzionato con un simbolico giorno di prigione anche qualcuno di coloro che consapevolmente gli consentirono di uccidere quelle migliaia di persone. Non tutti. Almeno uno. Orrore libico, per Tripoli e Minniti va tutto bene di Adriana Pollice Il Manifesto, 14 dicembre 2017 Il ministro degli Esteri libico Siala definisce “esagerate” le accuse di Amnesty International. “Il rapporto di Amnesty International è molto esagerato” così il ministro degli Esteri libico Mohamed Taher Siala, ieri a Mosca, ha liquidato la denuncia dell’Ong che martedì aveva accusato: “I governi europei, e in particolare l’Italia, sono complici delle torture e degli abusi sui migranti detenuti dalle autorità libiche”. Amnesty ha anche spiegato che, in base alle testimonianze raccolte, l’Ue e, soprattutto, il nostro paese stanno sostenendo un sofisticato sistema di sfruttamento dei migranti da parte della Guardia costiera libica, delle autorità addette ai detenuti e dei trafficanti. “La situazione dell’immigrazione in Libia è molto complicata - ha ammesso Siala - ma siamo soddisfatti dell’aiuto che stiamo ricevendo dall’Italia per migliorare le condizioni nei campi di detenzione e per l’addestramento della Guardia costiera”. Secondo il ministro basta solo organizzarsi meglio: “Ci sono molti criminali e trafficanti, ma è il risultato del vuoto di sicurezza che c’è in Libia. La lotta all’immigrazione clandestina deve iniziare dal confine meridionale: serve una rete di controllo elettronica e la cooperazione dei paesi africani. A sud abbiamo un confine lungo 4mila chilometri mentre la costa è lunga 2mila, per pattugliare le frontiere servirebbe l’esercito cinese”. Siala aggiorna anche la conta dei reclusi nei centri controllati da Tripoli: in 42 campi ci sarebbero 31mila persone. L’Onu a novembre aveva denunciato il patto tra Ue e Libia come “disumano”: “La sofferenza dei detenuti nei campi è un insulto alla coscienza dell’umanità” aveva dichiarato l’Alto commissario per i diritti umani. A Tripoli però sono sereni: “Noi garantiamo cibo e assistenza sanitaria - ha spiegato il ministro - ma i numeri stanno aumentando e senza l’aiuto dell’Unione Araba non ce la faremo. Non abbiamo intenzione di aprire altri campi. Per quanto riguarda le voci di sfruttamento di esseri umani, dell’uso della schiavitù, c’è una commissione al lavoro: è contro la nostra religione, se emergeranno dei responsabili saranno puniti secondo le nostre leggi”. La soluzione per Siala passa dai rimpatri: “La Libia non può diventare un grande campo per immigrati clandestini: se possono ottenere asilo o un lavoro che vadano in Europa, alcuni di loro possono restare, altri dovranno tornare a casa. I paesi europei convincano i governi africani a riaccogliere gli immigrati che devono rimpatriare”. Siala ha poi rivelato l’intenzione di Tripoli di chiedere all’Onu un’attenuazione delle sanzioni utilizzando proprio il ruolo di custodi dei confini: “Il governo di accordo nazionale libico mira ad ottenere eccezioni alle sanzioni militari in corso. Non per avviare una qualche guerra civile, ma per incrementare le capacità dei corpi di contrasto alla migrazione illegale e al terrorismo. I trafficanti sono meglio equipaggiati della nostra Guardia costiera. Abbiamo l’aiuto di Regno Unito, Germania e Italia ma abbiamo bisogno di incrementarne le capacità”. Il regista degli accordi che hanno posto al centro delle operazioni di Ricerca e soccorso nel Mediterraneo la Guardia costiera libica, marginalizzando le Ong, è il ministro Marco Minniti. Ieri, dopo le accuse di Amnesty, ha fatto una prima timida concessione: “Forse sarò troppo convinto di me stesso, ma penso di aver messo in campo una visione delle questioni che riguardano l’emergenza migranti. Può essere sbagliata, può essere criticata ma, se non piace, deve essercene un’altra contrapposta e non un approccio mordi e fuggi, perché non risolverebbe il problema”. Anche Minniti tocca il tema terrorismo con i foreign fighters: “Stanno tornando a casa, le vie che possono utilizzare sono le rotte dei migranti. Potrebbero essere 25, 30mila”. Il viceministro agli Affari esteri, Mario Giro, ha spiegato: “Accettiamo la denuncia, ma il nostro impegno e la nostra strategia in Libia non cambiano. Abbiamo mandato le Ong a totale garanzia”. E sui rimpatri: “Al meeting di Abidjian mi ha colpito la manifestazione che si è svolta allo stadio. Grandi personaggi, come l’ex stella del calcio Didier Drogba, hanno urlato forte il nome della campagna ‘Chi parte è ingenuo’. Non c’è alcun paradiso al di là del Mediterraneo”. Egitto. Giulio Regeni, né incidente, né caso. Ancora un 14 senza verità di Riccardo Noury* Il Manifesto, 14 dicembre 2017 “Incident”. Così, senza che nessuno replicasse, il 1° dicembre scorso ai Mediterranean Dialogues di Roma il ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukri ha definito l’omicidio di Giulio Regeni. Ecco alcune traduzioni possibili: incidente, scontro, episodio, evento, fatto, affare, inconveniente, contrattempo, caso. Quello che in Italia viene da molti chiamato il “caso Regeni” (come se il suo sequestro, la sua sparizione, le torture subite e la sua uccisione avessero avuto un che di casuale), per l’Egitto da ormai quasi due anni è un inconveniente, un contrattempo e nulla di più. Una questione da chiudere, continuando a perdere tempo, a non collaborare con la procura di Roma, a fare vuote promesse negli ormai sempre più frequenti incontri bilaterali. Un obiettivo al raggiungimento del quale l’Italia sta dando una mano dal 14 settembre, giorno in cui le relazioni diplomatiche tra Roma e Cairo sono tornate normali a seguito del rientro dall’ambasciatore d’Italia nella capitale egiziana. Oggi Amnesty International ha scritto, per il terzo consecutivo “14 del mese”, chiedendo al governo quali passi avanti siano stati sollecitati e ottenuti nella ricerca della verità per Giulio Regeni. Al presidente del Consiglio Gentiloni sono state sollecitate “informazioni sulla nomina della figura di supporto tecnico alle indagini sulla vicenda di Giulio Regeni di cui non abbiamo più avuto notizia”. Al ministro degli Esteri Alfano è stato chiesto se, “durante l’incontro con il Suo omologo egiziano, Sameh Shoukri al Parco dei Principi di Roma, il 30 novembre u.s, il progresso delle indagini per l’accertamento della verità sulla sparizione, la tortura e l’uccisione di Giulio sia stato oggetto di discussione”. Le precedenti lettere non hanno ricevuto risposta. Nel frattempo, come riportato da il manifesto appena l’altro ieri, le sparizioni forzate in Egitto proseguono senza sosta e l’Associazione dei parenti degli scomparsi subisce, come altre Ong, una dura repressione. Il suo cofondatore, Ibrahim Metwally, padre di uno scomparso, è giunto al terzo mese di detenzione senza processo. Come a dare il benvenuto all’ambasciatore, alla vigilia del rientro al Cairo, Ibrahim era stato arrestato il 10 settembre mentre era all’aeroporto del Cairo e stava per prendere il volo per Ginevra dove avrebbe dovuto incontrare il Gruppo di lavoro delle Nazioni unite sulle sparizioni forzate e involontarie. Dopo due giorni di sparizione, Metwally era comparso di fronte a un giudice per l’incriminazione: cospirazione con entità straniere per sovvertire l’ordine costituzionale, reato che potrebbe comportare la condanna a morte. La cofondatrice dell’associazione, Hanan Badr-el Din, moglie di uno dei primi scomparsi dell’era al-Sisi, è stata arrestata il 6 maggio di quest’anno mentre stava visitando un detenuto, nella speranza che potesse darle qualche notizia sul marito. L’ultima volta l’aveva visto di sfuggita, ferito, in un servizio televisivo su una delle tante manifestazioni disperse con la forza. Rischia almeno cinque anni di carcere. Cercare i propri familiari, organizzarsi per denunciare le sparizioni, oggi in Egitto come ieri in Argentina, è considerato un’attività sovversiva. Come peraltro fare giornalismo in modo indipendente. Dopodomani, dopo oltre 40 rinvii, ci sarà l’udienza di Mahmoud Abu Zeid (detto Shawkan). Shawkan è stato arrestato il 14 agosto 2013 mentre si trovava, per conto dell’agenzia fotografica Demotix di Londra, in piazza Rabaa al-Adawiya, al Cairo, a documentare il violentissimo sgombero di un sit-in della Fratellanza musulmana. Fu un massacro con centinaia e centinaia di morti in un solo giorno. Per aver svolto il suo lavoro, Shawkan rischia una condanna all’ergastolo per questo lungo elenco di pretestuose accuse: “adesione a un’organizzazione criminale”, “omicidio”, “tentato omicidio”, “partecipazione a un raduno a scopo di intimidazione, per creare terrore e mettere a rischio vite umane”, “ostacolo ai servizi pubblici”, “tentativo di rovesciare il governo attraverso l’uso della forza e della violenza, l’esibizione della forza e la minaccia della violenza”, “resistenza a pubblico ufficiale”, “ostacolo all’applicazione della legge” e “disturbo alla quiete pubblica”. Tra poco più di un mese, il 25 gennaio 2018, saranno trascorsi due anni dall’ultima volta in cui Giulio Regeni venne visto in vita. Due anni senza Giulio, due anni senza verità. Due anni da un omicidio di stato. Né “caso” né “incidente”. *Portavoce di Amnesty International-Italia Gran Bretagna. Indagini dopo la 12ma morte di un immigrato in un Centro di detenzione Nova, 14 dicembre 2017 Le circostanze della morte di un immigrato polacco detenuto nella prigione Altcourse di Liverpool gestita dal gruppo privato G4S sarà investigata dallo “Ombudsman”, l’organismo indipendente britannico di controllo dell’amministrazione giudiziaria e carceraria. Il decesso del 34enne Michael Netyks, fa notare il quotidiano laborista “The Gardian”, è la 12esima morte registrata nel corso del 2017 di un immigrato detenuto nelle carceri britanniche: in tutti i casi si è trattato di suicidio e di cittadini di paesi membri dell’Unione Europea; il dato tuttavia, secondo le associazioni di difesa dei diritti umani sentite dal giornale, solleva inquietanti interrogativi sul trattamento in Gran Bretagna dei detenuti immigrati. El Salvador. Abortì dopo uno stupro di gruppo: condannata a 30 anni di carcere La Repubblica, 14 dicembre 2017 Si tratta di una 19enne accusata di omicidio aggravato in base alla severissima legge sull’interruzione di gravidanza in vigore nel Paese centroamericano. Un tribunale di El Salvador ha confermato la condanna a 30 anni di carcere per una 19enne accusata di omicidio aggravato a seguito di un aborto spontaneo, in base alla severissima legge sull’interruzione di gravidanza in vigore nel Paese centroamericano. “Il tribunale è giunto alla conclusione che la sentenza di condanna va confermata”, ha scandito uno dei giudici che ha riesaminato la sentenza emessa a luglio. Il caso di Evelyn Beatriz Hernàndez Cruz, questo il suo nome, ha avuto rilevanza internazionale perché la giovane aveva subito uno stupro di gruppo da parte di una gang e ha sempre sostenuto di non essersi accorta della gravidanza fino al parto nell’aprile 2016, in cui il feto sarebbe nato già morto. L’accusa, invece, ha affermato che Evelyn avrebbe ucciso il neonato gettandolo nello scarico del bagno e ha citato un esame del medico legale che secondo la difesa sarebbe stato invece equivocato. Dopo quasi otto ore di dibattimento in aula, i tre giudici si sono pronunciati per la conferma della condanna sostenendo che “gli elementi probatori per la condanna non sono mutati”. Alla lettura della sentenza la giovane ha abbassato la testa ed è stata portata via tra i pianti e le proteste dei parenti. El Salvador, è uno dei Paesi con le leggi più restrittive al mondo in tema di diritti delle donne e l’aborto è illegale. Cina. Dna, iride, impronte: schedata la minoranza islamica degli uiguri di Paolo Salom Corriere della Sera, 14 dicembre 2017 Pechino ordina la schedatura dei dati biometrici di tutti gli abitanti dello Xinjiang per motivi di “salute”. La denuncia di Human Rights Watch: “È una gigantesca violazione della privacy e dei diritti umani”. Dna, scansione dell’iride, impronte digitali e quant’altro sia utile - parliamo di dati biometrici - per identificare una persona al di là di ogni dubbio. In Cina si è da poco conclusa un’operazione senza precedenti nel campo della schedatura dei cittadini. Con un piccolo particolare: riguarda la popolazione tra i 12 e i 65 anni di una sola provincia, lo Xinjiang. Per l’agenzia Xinhua, organo ufficiale dello Stato, il progetto, denominato “Visite mediche per tutti”, ha uno scopo unicamente di salute generale ed è stato offerto “su base volontaria” a 19 dei 21 milioni di residenti della provincia autonoma della Repubblica Popolare, dove risiede la minoranza islamica uigura (11 milioni). Per Human Rights Watch, che ha denunciato la procedura, la realtà è diversa. “Questi dati - si legge in un rapporto pubblicato ieri sul sito dell’organizzazione internazionale - possono essere utilizzati per controllare una popolazione sulla base dell’origine etnica e sono una palese violazione dei diritti fondamentali dei cittadini”. Sempre secondo l’organizzazione umanitaria, non tutti i partecipanti alla raccolta delle caratteristiche personali erano al corrente che i medici impegnati nella profilazione avrebbero trasmesso ai servizi di sicurezza l’intero database. “Le autorità locali dello Xinjiang - ha dichiarato Sophie Richardson, direttore dell’ufficio di Hrw dedicato alla Cina - dovrebbero cambiare nome all’intero progetto. Invece di “Visite mediche per tutti”, dovrebbero chiamarlo “Violazione della privacy per tutti”, dal momento che il consenso informato e una reale scelta non sembrano parte di questi programmi”. In base alle linee guida, differenti autorità fungono da centri di raccolta dei dati. I quadri di partito e la polizia sono responsabili delle fotografie, delle impronte digitali e della scansione dell’iride, oltre che dell’hukou (il permesso di residenza delle famiglie). Usano app per smartphone progettate appositamente. Invece le autorità sanitarie si occupano di raccogliere il Dna e i campioni di plasma per determinarne il gruppo sanguigno. Anche questi dati sono alla fine inviati alla polizia. Pechino ha respinto le accuse di Human Rights Watch, spiegando che il programma ha “uno scopo puramente medico-scientifico”, mentre i risultati potranno essere utili per “alleviare la povertà della regione, assicurare una migliore gestione locale” e, soprattutto, “promuovere la stabilità sociale”. Curioso tuttavia come la procedura abbia riguardato soltanto i residenti dello Xinjiang, provincia grande oltre cinque volte l’Italia, per lo più desertica (ma ricca di risorse naturali) nell’estremo Nordovest del Paese. Non solo, l’ordine di raccogliere i dati è stato esteso anche a chi si è spostato altrove in Cina, di fatto consegnando alle autorità di polizia un archivio capace di rintracciare nomi, volti e origine etnica di tutti, dentro e fuori la provincia. Lo Xinjiang è percepito a Pechino come una regione “problematica”. Molti degli attentati terroristici che hanno mietuto vittime in Cina sono stati rivendicati da “separatisti” uiguri. Ora, tutti i cittadini, senza distinzione, sono nell’occhio (digitale) del governo.