Arresti facili e carceri piene, così la giustizia nega la civiltà di Francesco Petrelli Il Mattino, 13 dicembre 2017 I dati del sovraffollamento carcerario tornano ad essere preoccupanti. Abbiamo superato i 58.000 detenuti con un sovraffollamento che oramai ha raggiunto la percentuale del 115 % (con punte fino al 204 % come Larino in Molise, sebbene picchi di sovraffollamento caratterizzino i territori del nord Italia: Como, Brescia e Bergamo). Le proiezioni indicano tassi di crescita che condurranno presto a livelli di criticità non altrimenti tollerabili. La condizione attuale, oggetto da tempo di denunce inascoltate, di campagne di sensibilizzazione, di carovane radicali e di manifestazioni degli avvocati penalisti, appare desolante. Lo stato degli istituti di pena e delle case circondariali del nostro Paese è notoriamente disomogeneo. Come nella sanità, anche per il trattamento carcerario ad alcune realtà d’avanguardia si affiancano (e sono purtroppo la maggioranza, con una ovvia preminenza nel meridione d’Italia) condizioni di oggettiva disumanità, nelle quali i servizi igienici “sono a vista”, lo spazio fra un letto a castello e il soffitto è di poche decine di centimetri, il sovraffollamento claustrofobico, con spazi vitali limitatissimi, l’osservazione “scientifica” dei condannati sostanzialmente inesistente, la rieducazione conseguentemente obnubilata. Le condizioni di alcuni Tribunali di sorveglianza (è di questi giorni la denuncia dei penalisti napoletani) al di sotto dei limiti di tollerabilità. E, tuttavia, accanto al dato strutturale che evidentemente è il primo a rendere manifesta la criticità del sistema, vi è una realtà parallela all’interno della quale conviene calare una sonda. È la realtà della politica giudiziaria, della cultura della penalità, di tutto ciò che di fatto ruota attorno al fenomeno del carcere ed a quel sistema “carcerocentrico” che si è andato costruendo in questi anni anche attraverso una sapiente inoculazione nella collettività dell’equazione “più carcere, più sicurezza”. Una equazione che finisce con l’assegnare al processo penale le improprie fattezze di macchina produttiva di pene esemplari ed un ruolo palingenetico che certo non gli appartiene. Che induce la magistratura ad utilizzare sempre e comunque la custodia in carcere, schivando ogni riforma in materia, determinando una presenza nelle carceri di detenuti in attesa di giudizio che contribuisce a determinare il collasso del sistema. Difficile non cogliere in tutto questo la contraddizione di un legislatore che, da un lato moltiplica le pene, esclude benefici, limita il ricorso alla giustizia negoziata, allarga il solco del doppio binario, avalla il ricorso alle pene come sfogo del risentimento sociale, per poi dall’altro fingere meraviglia di fronte alle conseguenza di quella politica dissennata. Servirebbe una nuova cultura della libertà personale e della dignità dell’uomo, che non attenda di volta in volta le condanne dell’Europa sulla condizione o la bocciatura dell’Onu della legge sulla tortura, per fingere di adeguarsi a quei richiami, inscenando “svuota-carceri” e modesti rimedi estemporanei, dimenticando che già nella nostra carta costituzionale sono scritti i principi dell’umanità della pena e della sua finalità non retributiva, della presunzione di innocenza e della inviolabilità della libertà personale, che da soli dovrebbero essere in grado di governare la giustizia penale. Senza l’Onu e senza la Cedu. La riforma dell’esecuzione e della sorveglianza, che doveva essere il fiore all’occhiello della riforma Orlando, e che doveva coronarne il percorso più performante, è rimasta indietro, arranca fra mille dubbi e perplessità, incapace di liberarsi delle pastoie del passato. Mentre intorno le carceri mostrano oramai rassegnate un’immagine indegna di un Paese civile. “Progetto Insieme”: 3 detenuti su 4 convivono con un disturbo mentale Adnkronos, 13 dicembre 2017 Il reinserimento nella società è spesso un miraggio, i farmaci sono obsoleti e gli spazi a disposizione inadeguati. Gli esperti lanciano l’allarme sulla gestione dei disturbi mentali negli istituti penitenziari italiani: oggi oltre 3 detenuti su 4 convivono con una malattia mentale, disturbi psicotici, della personalità e depressione. Se ne è parlato durante la tappa romana di “Progetto Insieme. Carcere e salute mentale”, che si è svolta nel carcere di Rebibbia con il patrocinio del ministero della Salute. Il progetto, promosso dalla Società italiana di medicina e sanità penitenziaria, dalla Società italiana di psichiatria e dalla Società italiana di psichiatria delle dipendenze con il supporto incondizionato di Otsuka e Lundbeck, ha coinvolto diverse figure che operano dentro le carceri per sviluppare un nuovo Percorso diagnostico terapeutico assistenziale (Pdta) per la gestione e il trattamento dei detenuti che soffrono di malattie mentali. Valutazione della salute mentale e monitoraggio fin dall’ingresso in carcere, utilizzo dei trattamenti di ultima generazione, gruppi di sostegno tra i detenuti e attività educative-culturali, oltre che un impegno per garantire la continuità assistenziale dopo la scarcerazione: sono le principali novità introdotte dal gruppo di lavoro di “Progetto insieme. Carcere e salute mentale” nel nuovo Pdta. “Progetto Insieme è un’iniziativa ambiziosa - commenta Giuseppe Quintavalle, direttore generale Asl Roma 4 - che ha il merito di aver accolto esperti provenienti da diversi ambiti intorno a un tavolo per trattare un problema di grande attualità come quello della gestione dei disturbi mentali in carcere. Attraverso l’elaborazione e l’applicazione di un Pdta, il Progetto mira a uniformare le tempistiche e modalità di trattamento delle malattie psichiatriche nelle carceri del nostro Paese, secondo un modello omogeneo di intervento, nel rispetto delle diversità delle varie realtà carcerarie”. Nel concreto, il Pdta “vuole fornire al personale sanitario e non solo gli strumenti per trattare i disturbi mentali e agli psichiatri e psicologi un modello razionale per poter intervenire in modo tempestivo in caso di bisogno”, continua. Dietro le sbarre la prevalenza dei disturbi mentali è nettamente più alta rispetto alla popolazione generale. Le stime indicano infatti come il 4% dei detenuti sia affetto da disturbi psicotici contro l’1% della popolazione generale; la depressione colpisce invece il 10% dei reclusi contro il 2-4%. A far paura sono anche le cifre dei disturbi della personalità, con cui convive il 65% dei reclusi, una percentuale dalle 6 alle 13 volte superiore rispetto a quella che si riscontra normalmente (5-10%). “In carcere le malattie mentali hanno un’alta prevalenza: si stima - spiega Andrea Fagiolini, direttore della Clinica psichiatrica e della Scuola di specializzazione in Psichiatria dell’università di Siena - che oltre il 75% dei detenuti conviva con un disturbo mentale, in particolare disturbi psicotici, della personalità e depressione. Questo perché se da un lato molti disturbi psichiatrici possono associarsi (non necessariamente con un rapporto di causalità diretto) con un’alta prevalenza di reati, dall’altro la carcerazione e l’ambiente carcerario possono essere fonte di stress che può portare in casi estremi anche al suicidio”. “Di fronte a questo scenario - evidenzia - è importante aggiornare i protocolli di intervento e i relativi prontuari terapeutici delle carceri italiane, incorporando le strategie e trattamenti che oggi abbiamo a disposizione, inclusi i farmaci antipsicotici di nuova generazione, che offrono ottime modalità di somministrazione in un contesto difficile come quello del carcere, che garantiscono un’adeguata aderenza terapeutica e un ottimale rapporto tra efficacia e tollerabilità. Questi trattamenti, grazie alla loro elevata efficacia e tollerabilità, consentono al paziente di poter partecipare alle attività riabilitative e di recupero necessarie per un futuro reinserimento nella società”. Toghe e politica, un ddl fermo da 16 anni di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 13 dicembre 2017 Fumata nera anche per questa legislatura. La legge si arena. Un provvedimento destinato a rimanere nel libro dei sogni è sicuramente il disegno di legge in materia di eleggibilità e ricollocamento dei magistrati. Il testo, di cui sono stati relatori l’allora senatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin, attualmente consigliere del Csm, e Felice Casson, magistrato ed esponente del Pd, era stato approvato all’unanimità dall’aula di Palazzo Madama nel marzo del 2014. Trasmesso quindi alla Camera è rimasto fermo per tre anni. Soltanto la scorsa primavera l’aula di Montecitorio aveva proceduto alla sua discussione, apportandovi delle modifiche sostanziali che avevano determinato il ritorno in Senato per l’approvazione definitiva. Da allora, però, si sono perse le tracce. Questo disegno di legge ha una lunghissima storia alle spalle. Presentato la prima volta nel 2001, venne approvato alla Camera per poi arenarsi in Senato. Venne poi ripresentato, senza successo, nel 2005 e nel 2011. Dopo tre legislature, sembrava fosse questa quella decisiva per sciogliere finalmente il nodo fra politica- magistratura. E invece dopo oltre 16 anni di discussioni, ancora una fumata nera. Eppure, in questi ultimi anni si erano create tutte le condizioni affinché il Parlamento regolamentasse la materia. Il Csm aveva votato all’unanimità un parere per inasprire il rientro delle toghe dopo l’esperienza politica, prevedendo il loro collocamento in altri ruoli della pubblica amministrazione. Dello stesso avviso, l’Associazione nazionale magistrati. Senza contare che a livello europeo il Greco, l’organo anticorruzione del Consiglio d’Europa, aveva “invitato” l’Italia ad introdurre leggi che ponessero limiti più stringenti per la partecipazione dei magistrati alla politica, mettendo fine alla possibilità per i giudici di mantenere il loro incarico in caso di elezione o nomina negli enti locali. Anche l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano aveva invitato il Parlamento ad intervenire al riguardo. Nel testo iniziale un magistrato poteva entrare in politica nel rispetto di una serie di restrizioni legate al luogo in cui aveva esercitato le funzioni, per approdare all’avvocatura dello Stato in caso di ritorno in magistratura. Dopo le modifiche, volute per lo più dal Pd, le opzioni di ricollocamento erano state estese anche ai ruoli amministrativi presso il ministero della Giustizia e al collegio giudicante, con clausola di astensione di fronte a casi riguardanti esponenti politici. Nel testo approvato con modifiche dalla Camera, gli eletti alla carica di presidente della Regione, consigliere regionale, consigliere comunale o circoscrizionale, una volta cessati dal mandato, rientravano invece in magistratura non potendo, per i successivi 3 anni, prestare servizio in un distretto di Corte di appello in cui è compresa la circoscrizione elettorale nella quale erano stati votati. Inoltre, non potevano esercitare funzioni inquirenti e, una volta ricollocati in ruolo, ricoprire incarichi direttivi o semi-direttivi per 3 anni. Se il magistrato non fosse stato eletto, rientrava immediatamente in servizio, venendo destinato in un ufficio che non ricade nella circoscrizione di candidatura e senza poter per 2 anni esercitare funzioni inquirenti. Nonostante fosse stato “annacquato”, come affermato sia da Zanettin che dall’attuale relatore in Senato Francesco Nitto Palma ( FI), comunque nulla di fatto. La spiegazione? Secondo Nitto Palma forse perché molti magistrati sono in Parlamento e altrettanti sono in procinto di candidarsi alle prossime elezioni. E nessuno di loro ha intenzione un domani di rinunciare alla toga. Intercettazioni, a Natale il decreto “depotenziato” di Sara Menafra Il Manifesto, 13 dicembre 2017 La stretta a metà che piace agli avvocati. La riforma sulle intercettazioni arriverà entro Natale ma “depotenziata” per le richieste dei pm. Potrebbe non restare molto del decreto che doveva determinare la definitiva stretta sulla diffusioni di intercettazioni rilevanti e irrilevanti raccolte nel corso delle indagini. Non, almeno, della parte che aveva fatto scattare la protesta degli avvocati di tutte le principali organizzazioni che denunciavano il rischio di “comprimere” in modo irrimediabile il diritto alla difesa. Ieri, la commissione Giustizia del Senato ha votato il parere allo schema del decreto legislativo sulle intercettazioni telefoniche. Un documento “non ostativo, con condizioni e osservazioni”, e sarà ora il consiglio dei ministri a valutare cosa fare del provvedimento proposto dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando, che ha fatto un punto d’onore dell’approvarlo entro la legislatura, molto probabilmente al consiglio dei ministri prima di Natale. Formalmente, il titolare di via Arenula potrebbe decidere di procedere sulla vecchia bozza, senza ascoltare le proposte di modifica della commissione. Se questa, però, dovesse infine votare un parere contrario, come promette il senatore di Mdp Felice Casson, la sua contrarietà peserebbe sia dal punto di vista politico, sia su eventuali giudizi futuri di costituzionalità. E, infatti. Orlando sembra persuaso della necessità di modificare i punti più spigolosi. Le modifiche proposte sono di peso. La più rilevante riguarda il divieto di consegnare agli avvocati della difesa le trascrizioni delle intercettazioni rilevanti e non rilevanti, fino alla conclusione delle indagini. Secondo la prima stesura, i difensori non avevano mai il diritto di estrarre copia degli atti rilevanti, se non ricorrendo al tribunale del riesame, e potevano accedere alle presunte intercettazioni irrilevanti solo ascoltando gli audio e solo in cinque giorni di tempo prima di un’udienza davanti al gip che avveniva in buona parte con atti scritti. Trascrizione delle conversazioni . Solo “brani essenziali”, quando “necessario”. I “virgolettati” dei colloqui captati restano possibili. In parte, la commissione ha anche accolto le richieste che alcuni capi delle procure avevano inviato immediatamente prima della prima approvazione del testo. La commissione giustizia propone che non sia più la polizia giudiziaria a fare la prima scelta di atti rilevanti e irrilevanti: tutti gli ascolti vengono comunque trascritti e inviati al pm, che risponde di qualunque diffusione di atti, rilevanti o no. Dunque, tutto viene trascritto, e gli avvocati, dopo l’eventuale misura nei confronti di un indagato (dalla custodia cautelare all’interdizione) potranno acquisire fin da subito copia sia delle trascrizioni sia dei file audio. Una parte di “stretta” resta. Gli articoli 291 e 292 del Codice di procedura penale saranno modificati in modo che sia già il pm. Uso dei “trojan” (captatori nei pc). Consentito per i reati più gravi (mafia, terrorismo...). Da autorizzare con motivi scritti negli altri casi. Archivio riservato nell’ufficio del pm. Accesso consentito a giudici, difensori e ausiliari autorizzati. Ogni accesso è registrato con data e ora titolare delle indagini, fin dalla richiesta, a “riprodurre soltanto i brani essenziali delle comunicazioni intercettate”. Allo stesso modo il Gip, nell’ordinanza, riproduce solo quelle comunicazioni che contengono i passaggi indispensabili a giustificare l’eventuale misura. Unito all’udienza filtro e alla responsabilità diretta del pubblico ministero dell’inserimento di atti non rilevanti, non è una modifica da poco. “Nella legge delega c’era un esplicito riferimento al diritto dovere della stampa di informare e quindi accedere agli atti, una citazione che poi è completamente saltata, la commissione ora chiede di reintrodurre il passaggio”, spiega il senatore Felice Casson che sulla legge delega era stato relatore: “Se le richieste di modifica non saranno recepite, proporrò di votare contro”. Una “licenza zero” sui prodotti utilizzabili anche per torture Italia Oggi, 13 dicembre 2017 Per prestare servizi di intermediazione o di esportazione di prodotti e merci soggette al regolamento anti-tortura, che potrebbero cioè essere utilizzati anche per infliggere torture pur essendo destinati ad altre finalità commerciali, l’operatore deve richiedere il rilascio di un’autorizzazione specifica individuale. Viene poi introdotta la cosiddetta “licenza zero”, presente da tempo negli ordinamenti di altri Paesi Ue, che attesta che un determinato bene potrà essere liberamente esportato. Allo stesso modo, viene estesa ai servizi d’intermediazione collegati a beni non presenti nelle liste la “clausola onnicomprensiva mirata”, comunemente detta catch all, che consente all’Autorità competente di assoggettare ad autorizzazione un’operazione di esportazione altrimenti libera, qualora si riceva notizia di un utilizzo finale sensibile e connesso alla proliferazione di armamenti in paesi terzi soggetti a embargo o di armi di distruzione di massa. Per chi non rispetta le regole scatta la pena della multa o, nei casi più gravi, della reclusione fino a sei anni, nonché della confisca delle merci, ovvero della sospensione o ritiro della relativa licenza o sospensione dall’attività d’esportazione. Lo si prevede nel decreto legislativo approvato l’11 dicembre sera dal consiglio dei ministri, recante disposizioni sull’esportazione di prodotti e di tecnologie a duplice uso e sanzioni in materia di embarghi commerciali e di esportazione di materiali proliferanti, attuativo della delega al governo di cui all’articolo 7 della legge 12 agosto 2016 n. 170. Il decreto stabilisce la disciplina generale e di dettaglio riguardo al regime dei prodotti e delle tecnologie a duplice uso (cioè di quei beni e di quelle tecnologie utilizzabili in applicazioni civili ma anche nella produzione, nello sviluppo e nell’utilizzo di beni militari), delle sanzioni in materia di embarghi commerciali, di commercio di strumenti di tortura, nonché per ogni tipologia di operazione di esportazione di materiali proliferanti (materiali suscettibili di favorire la proliferazione di armi di distruzione di massa). Il testo, inoltre, opera una regolamentazione delle sanzioni per la violazione delle norme sul commercio di determinate merci che potrebbero essere utilizzate per la pena di morte, la tortura o altri trattamenti o pene crudeli, inumane o degradanti e per la violazione delle disposizioni concernenti misure restrittive e di embarghi commerciali adottati dall’Unione, definendone la cornice sanzionatoria. Apologia dell’Isis per like a video inneggianti il martirio in Siria di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 13 dicembre 2017 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 12 dicembre 2017 n. 55418. Postare o anche soltanto apporre un like a video inneggianti alla martirio islamico con riferimento alla guerra in Siria configura il reato di propaganda dell’Isis, associazione con finalità di terrorismo internazionale. La Suprema corte, sentenza 55418 del 12 dicembre, accogliendo il ricorso della Procura ha cassato, con rinvio, l’ordinanza del Tribunale del Riesame di Brescia che, annullando l’ordinanza del Gip, aveva rimesso in libertà un uomo di origine Serba sottoposto alla misura cautelare del carcere perché accusato (a norma dell’articolo 414 comma 4, c.p.) di aver “pubblicamente, mediante la diffusione sulla rete internet, fatto apologia dello Stato Islamico”. È la seconda volta che la Cassazione boccia l’ordinanza del Riesame su questa specifica vicenda. Alcuni mesi fa infatti la I Sezione (n. 24103/2017) aveva affermato che il richiamo “costante ed esplicito” al conflitto bellico sul territorio sirio-iracheno, contenuto nelle registrazioni pubblicate e condivise sul profilo Facebook dell’imputato, rappresentava “un idoneo e qualificato riferimento all’Isis”. Mentre il Tribunale non aveva tenuto conto delle “conseguenze apologetiche” che i riferimenti espliciti ed impliciti al conflitto sirio-iracheno erano in grado di provocare rispetto ai frequentatori dei social network. Del resto, il riferimento ad una delle parti in guerra, in particolare all’Isis, “presupponeva, il richiamo alla Jihad islamica, la quale costituisce la fonte di ispirazione delle azioni militari dello Stato islamico sul territorio sirio-iracheno e, su scala internazionale, il collante del terrorismo islamico”. Al contrario per il Tribunale del Riesame “non vi erano sufficienti elementi per ricondurre univocamente i richiami alla guerra santa, in esse contenuti, all’Isis, sul rilievo che lo Stato islamico era solo una delle parti belligeranti del conflitto e non era stata dimostrata la volontà dell’imputato di riferirsi proprio all’Isis e non ad altri combattenti”. Argomenti riprodotti nella seconda ordinanza secondo cui il “mero richiamo alla Jihad non è rilevante ai fini apologetici per lo spettro di gruppi religiosi che all’interno della religione islamica evocano il martirio religioso, senza, peraltro, necessariamente concretizzare le predette aspirazioni”. Con la decisione di oggi la Suprema corte tornando sulla questione afferma che “è pacifico che l’imputato abbia inneggiato apertamente allo Stato islamico ed alle sue gesta ed i suoi simboli”. Mentre al fine di valutare il rischio effettivo, i giudici del Riesame “non hanno tenuto conto dei contatti con altri soggetti già indagati per terrorismo islamico, affermando contraddittoriamente che lo stesso fosse estraneo a frequentazioni di gruppi religiosi più estremisti”. Inoltre, l’ordinanza ha ridimensionato la portata apologetica dei video, da un parte, puntando sulla asserita breve durata (undici giorni) della condivisione su Facebook, dall’altra, sul fatto che almeno un video sarebbe stato diffuso con la sola opzione “mi piace”. Tali elementi, conclude la Cassazione, “invece non sono certo idonei a ridurre la portata offensiva della sua condotta, attesa la comunque immodificata funzione propalatrice svolta in tale contesto dal social network Facebook”. La palla ora torna al Tribunale di Brescia in diversa composizione. Gli incassi dei “pusher” non sfuggono alle tasse di Marco Mobili Il Sole 24 Ore, 13 dicembre 2017 I proventi derivanti da fatti, atti o attività illecite civili, penali o amministrative, se non sono stati già sottoposti a sequestro o confisca penale, vanno sempre tassati in quanto classificabili tra i redditi “legali” indicati dal Tuir con l’articolo 6. Non solo. Già dal 2006 con il decreto legge n. 248, è stato definitivamente chiarito che i proventi illeciti non classificabili nelle categorie di reddito indicate dal Tuir devono, comunque, essere considerati “redditi diversi”, e sono soggetti sempre e comunque a tassazione. La sola deroga al prelievo del Fisco scatta quando il contribuente ha perso il possesso del patrimonio per via di un provvedimento di sequestro o confisca, sempreché l’esecuzione della misura ablatoria sia intervenuta nello stesso periodo d’imposta in cui è maturato il possesso delle somme. A ricordarlo è il Comando generale della Guardia di Finanze nel nuovo Manuale operativo contro l’evasione e le frodi fiscali licenziato la scorsa settimana e che entrerà in vigore dal prossimo 1° gennaio 2018 (www.gdf.gov.it). La precisazione del Comando generale arriva all’indomani di un’operazione effettuata dalle Fiamme Gialle di Gela (CL), che hanno proposto alle Entrate la ripresa a tassazione, secondo le regole descritte, dei proventi illeciti conseguiti da due “pusher” rinviati a giudizio. L’avvio dell’indagine economico-finanziaria è partita dalle segnalazioni di altre forze di polizia che, con le autorità di vigilanza e gli organi giurisdizionali, sono tenuti a comunicare alla Guardia di Finanza (articolo 36 del Dpr 600/73) i fatti che possono costituire violazioni tributarie di cui vengono a conoscenza nell’esercizio delle proprie attività. Nel Manuale operativo la Gdf ricorda anche che, sui proventi illeciti, i costi non ammessi in deduzione sono soltanto quelli relativi ai beni e servizi direttamente utilizzati per l’effettuazione del delitto non colposo, non essendo sufficiente, invece, l’astratta riferibilità al reato: in questo senso, l’indeducibilità colpisce i costi di tutti i fattori produttivi che sono in un rapporto diretto con il delitto. C’è poi anche la rilevanza Iva. La giurisprudenza di legittimità (Cassazione n. 3550 del 12 marzo 2002 e n. 24471 del 25 settembre 2006), come riportato nella Direttiva n. 1 del 2018, ha di fatto esteso l’applicazione anche all’Iva: “per il principio di neutralità fiscale dell’Iva - scrive la Gdf - se vi è concorrenza tra attività svolte lecitamente e illecitamente, non vi è distinzione tra operazioni lecite e illecite, potendosi al più escludere il tributo per le operazioni vietate in assoluto”. Bancarotta, no all’attenuante per l’amministratore unico di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 13 dicembre 2017 Corte d’Appello di Taranto - Sezione 1 - Sentenza 18 settembre 2017 n. 538. No all’attenuante per aver svolto un ruolo trascurabile nella bancarotta per l’amministratore unico della società. La qualifica infatti rende il suo contributo “essenziale e indefettibile alla realizzazione delle condotte criminose”, “non potendo prescindersi dalla sua persona” per porre in essere, come nel caso specifico, “distrazioni, sottrazioni e bancarotta documentale”. Lo ha stabilito la Corte d’Appello di Taranto, con la sentenza n. 538 18 settembre 2017. L’imputata si era difesa sostenendo tra l’altro la propria estraneità ai fatti “per essere stata una sostanziale testa di altri, vero dominus della società” e invocando l’attenuante, prevista dall’articolo 114 c.p., essendo “una ragazzina appena diciottenne, priva di esperienza”. Per il Collegio, tuttavia, non è emerso che la impugnante “rivestisse l’incarico di amministratore unico solo formalmente”. Del resto, argomenta la decisione, “se in suo favore furono effettuati i bonifici bancari di rimborso delle anticipazioni, non può poi sottacersi che la stessa ha riconosciuto, in sede di inventario fallimentare, di avere percepito mille euro mensili per la propria attività di amministratore”. In definitiva, secondo i giudici, “l’assunto che la donna rivestisse la carica di amministratore solo quale “prestanome” è assertivo e contraddetto dalle carte processuali”. Inoltre, la decisione, richiamando sul punto la giurisprudenza di Cassazione, afferma che “in tema di reati fallimentari, l’amministratore di diritto risponde del reato di bancarotta fraudolenta documentale per sottrazione o per omessa tenuta, in frode creditori, delle scritture contabili, anche laddove sia investito solo formalmente dell’amministrazione della società - cosiddetta testa di legno -, in quanto sussiste il diretto e personale obbligo dell’amministratore di diritto di tenere conservare le predette scritture, purché sia fornita la dimostrazione dell’effettiva e concreta consapevolezza del loro stato, tale da impedire la ricostruzione del movimento degli affari”. “Quanto invece alle ipotesi di distrazione - aggiunge, la pur consapevole accettazione del ruolo di amministratore apparente non implica necessariamente la consapevolezza di disegni criminosi nutriti all’amministratore di fatto” (Cass. /2010 n. 19049). In conclusione, i giudici, premessa l’irrilevanza dell’assenza di precedenti penali, hanno affermato che nella “giovane età della ricorrente deve ritenersi senz’altro rinvenibile un rilevante elemento attenuante, talché, ritenute le circostanze di cui all’art. 62 bis c.p. prevalenti sull’aggravante di cui all’art. 219, la pena deve essere ridotta”. Emilia-Romagna: ex detenuti e disabili, il loro lavoro vale 9 milioni di euro di Diana Cavalcoli Corriere della Sera, 13 dicembre 2017 Aiccon e Confcooperative presentano oggi a Bologna una ricerca sull’occupazione favorita dalle coop sociali. In Emilia per ogni persona “fragile” che trova impiego arrivano 4.700 euro in più nelle casse pubbliche. Risorse preziose per la collettività e per il mercato locale. I lavoratori delle cooperative sociali sono un valore aggiunto per i territori. Per l’esattezza valgono, in Emilia Romagna, 9 milioni di euro. Parliamo di 4.700 euro in più nelle casse pubbliche per ogni persona svantaggiata che trova impiego. A sostenerlo è una ricerca di Confcooperative realizzata in collaborazione con il centro studi Aiccon. 762 cooperative - Un’indagine che mette nero su bianco i benefici dell’inserimento lavorativo in una regione all’avanguardia nella cooperazione come l’Emilia-Romagna. Qui, secondo i dati di Unioncamere, sono attive 762 cooperative e di queste 203 sono di tipo B, ovvero aiutano a trovare un’occupazione ex detenuti, persone con disabilità e disagio mentale. I percorsi professionalizzanti sono i più diversi: dall’industria, al commercio, fino ai servizi e all’agricoltura. Attività che se da un parte rientrano nella definizione di politiche attive, in quanto garantiscono il reintegro in società di chi è più fragile, dall’altra arricchiscono l’offerta di servizi alla persona generando ricchezza al pari di un’azienda. Parlare di cooperative sociali in Emilia-Romagna significa infatti parlare di 276,9 milioni di euro di fatturato, 65,9 milioni di patrimonio netto e oltre 111 milioni investiti per dare uno stipendio a quasi due mila dipendenti. Il ritorno economico - “La ricerca - dice Luca Dal Pozzo, presidente Federsolidarietà - Confcooperative Emilia Romagna - evidenzia il risparmio economico-finanziario che la pubblica amministrazione trae dall’attività di inserimento. Basta pensare alle tasse che i lavoratori svantaggiati, senza le cooperative, non avrebbero mai versato”. Costi e benefici L’indagine si basa sul metodo “Valoris” che parte dalla valutazione dei costi e dei benefici della cooperazione sociale. Questi alcuni dei vantaggi messi in evidenza: l’Iva prodotta dai lavoratori, l’aumento dell’imponibile dei soggetti reinseriti e le spese pubbliche ridotte grazie al miglioramento delle condizioni di vita dei disabili o degli ex detenuti. 4.729 euro di vantaggi - Nel calcolo di Aiccon vengono considerati anche i risparmi legati ai servizi sociali e sanitari, al reddito minimo e alla pensione d’invalidità. Si arriva così ai 4.729 euro di guadagno medio pubblico per ogni utente inserito dalle imprese collettive. Una dimostrazione del fatto che le imprese sociali possono competere sul mercato arriva poi dall’analisi delle entrate. Se una volta la principale voce era quella relativa al settore pubblico oggi è il contrario. I servizi e le professionalità offerte dalle cooperative conquistano infatti famiglie e aziende. Il trend è evidente guardando i numeri: nel 2014 il 51 per cento degli introiti arrivava da enti pubblici ma già nel 2015 il 50,5 per cento proveniva da fonti private con un picco nel 2016 del 53,7 per cento. Imprese competitive - “Questo fenomeno si spiega guardando ai servizi offerti. Oggi le imprese sociali sono resilienti e competono offrendo prodotti eccellenti”, racconta Paolo Venturi, direttore di Aiccon, “se l’offerta è di livello la singola persona sarà disposta a investire perché riconosce un valore e una qualità. Per una famiglia, ad esempio, conta che il giardiniere mandato a curare il prato sia capace. Se poi è un lavoratore supportato dalla cooperativa ancora meglio”. A tempo indeterminato - La fotografia scattata da Aiccon e Confcooperative, che sarà presentata durante il convegno che si svolge oggi a Bologna, porta alla luce altri due elementi positivi del sistema cooperativo. In primis la forte stabilizzazione contrattuale dei dipendenti e in secondo luogo l’impatto che la creazione di migliaia di posti di lavoro può avere sullo mercato regionale. Il ritratto dei dipendenti - Secondo i dati della ricerca risultano a tempo indeterminato quasi otto contratti su dieci e, nonostante la crisi, il saldo occupazionale del triennio in esame è rimasto positivo. Ma quale profilo hanno i dipendenti? Sono in prevalenza uomini tra i 30 e i 54 anni d’età che in passato hanno faticato a inserirsi nel mercato del lavoro e che, grazie all’impresa sociale, hanno raggiunto l’indipendenza economica. E stipendi rotondi, in genere tra i 1.000 e i 1.200 euro, significano anche consumatori con una buona capacità di spesa. “Queste imprese - aggiunge Venturi - recuperano e reinseriscono le persone attraverso il lavoro. Non è semplice welfare, è qualcosa che va oltre. Si potrebbe parlare non più di economia assistenziale ma generativa”. Milano: detenuto si suicida a San Vittore, 20enne trovato morto impiccato in cella di Stiben Mesa Paniagua milanotoday.it, 13 dicembre 2017 Sono subito intervenuti i soccorritori ma non hanno potuto fare altro che costatare il decesso. Per lui non c’era già nulla da fare quando sono arrivati i soccorritori del 118. Non respirava più e il suo cuore aveva smesso di battere. Si era suicidato. Ennesimo dramma all’interno delle mura carcerarie milanesi, questa volta a San Vittore. Martedì sera un giovane detenuto, un ragazzo di appena 20 anni, si è tolto la vita impiccandosi. Il suo cadavere è stato rinvenuto attorno alle 22. Sul posto sono subito intervenuti i soccorritori con ambulanza e automedica ma non hanno potuto fare altro che costatare il decesso. “Un detenuto che si toglie la vita in carcere è una sconfitta dello Stato e dell’intera comunità”, le prime parole del segretario generale del Sindacato autonomo Polizia penitenziaria, Sappe, Donato Capece. Comunicato Sappe Un detenuto di origine marocchina di 20 anni, ristretto per avere commesso il reato di rapina e con fine pena 2020, si è impiccato nel bagno della sua cella nel carcere San Vittore di Milano. La notizia proviene dal Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, per voce del Segretario Regionale della Lombardia Alfonso Greco: “L’uomo era detenuto nel V Reparto detentivo del carcere di San Vittore e si è impiccato nel bagno della cella. Nonostante il tempestivo intervento dell’Agente di Polizia Penitenziaria, non è stato purtroppo possibile salvargli la vita. Un gesto grave, che lascia in noi amarezza e sgomento”. Greco evidenzia un pronunciamento del Comitato nazionale per la Bioetica che ha sottolineato come “il suicidio di un detenuto costituisce solo un aspetto di quella più ampia e complessa crisi di identità che il carcere determina, alterando i rapporti e le relazioni, disgregando le prospettive esistenziali, affievolendo progetti e speranze. La via più netta e radicale per eliminare tutti questi disagi sarebbe quella di un ripensamento complessivo della funzione della pena e, al suo interno, del ruolo del carcere”. Donato Capece, segretario generale del Sappe, è lapidario nella denuncia: “Tre detenuti che si tolgono la vita in carcere in meno di una settimana sono un fallimento per lo Stato. Vittime innocenti di un disagio individuale a cui non si riesce a fare fronte nonostante gli sforzi e l’impegno degli operatori, in primis le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria che il carcere lo vivono nelle sezioni detentive”. Capece ricorda che “sabato si era tolto la vita un detenuto a Regina Coeli a Roma, domenica un detenuto di Terni. E questo nuovo drammatico suicidio di un altro detenuto evidenzia come i problemi sociali e umani permangono, eccome, nei penitenziari, lasciando isolato il personale di Polizia Penitenziaria (che purtroppo a San Vittore non ha potuto impedire il grave evento) a gestire queste situazioni di emergenza. Il suicidio è spesso la causa più comune di morte nelle carceri. Gli istituti penitenziari hanno l’obbligo di preservare la salute e la sicurezza dei detenuti, e l’Italia è certamente all’avanguardia per quanto concerne la normativa finalizzata a prevenire questi gravi eventi critici. Ma il suicidio di un detenuto rappresenta un forte agente stressogeno per il personale di polizia e per gli altri detenuti. Per queste ragioni un programma di prevenzione del suicidio e l’organizzazione di un servizio d’intervento efficace sono misure utili non solo per i detenuti ma anche per l’intero istituto dove questi vengono implementati. È proprio in questo contesto che viene affrontato il problema della prevenzione del suicidio nel nostro Paese. Ma ciò non impedisce, purtroppo, che vi siano ristretti che scelgano liberamente di togliersi la vita durante la detenzione”. Il SAPPE, che ricorda anche il drammatico suicidio di un poliziotto penitenziario in servizio nel carcere di Tolmezzo, avvenuto nella notte tra sabato e domenica scorsi, evidenzia che ““negli ultimi 20 anni le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria hanno sventato, nelle carceri del Paese, più di 19mila tentati suicidi ed impedito che quasi 145mila atti di autolesionismo potessero avere nefaste conseguenze”, conclude il leader nazionale del primo Sindacato del Corpo. “Il dato oggettivo è che la situazione nelle carceri resta allarmante. Altro che emergenza superata! E la politica deve assumere provvedimenti concreti, per il carcere ed il Corpo di Polizia Penitenziaria, lasciando da parte gli slogan demagogici”. Terni: lettera dell’associazione “Toto Corde” dopo il suicidio di un detenuto marocchino tuttoggi.info, 13 dicembre 2017 L’associazione Toto Corde, che opera nella Casa circondariale di Terni con i suoi volontari, è intervenuta sulla tragica morte di un giovane cittadino originario del Marocco, che si è impiccato legando una coperta alla finestra della propria cella. Ogni volta che un volontario entra in carcere, spera di alleviare la sofferenza di un essere umano che sta cercando di ricostruirsi una vita estinguendo il suo conto con la società e mai vorrebbe salutarlo per un motivo diverso dalla scarcerazione. La nostra associazione nasce sulle ceneri di un’esperienza simile, la morte nel 2015 di Gianni, sempre in cella, sempre suicida. Gianni era un attore della compagnia Tal dei Tali del piccolo teatro della casa circondariale. Il 29 luglio 2015 abbiamo risposto alla tragedia con il Festival della Cultura in memoria di Giovanni Solinas, coinvolgendo una parte importante della nostra comunità e puntando i riflettori su un quartiere della nostra città che rimane troppo spesso in ombra. Oggi rinnoviamo il nostro mandato, come citato nell’art. 17 dell’ordinamento penitenziario: “La finalità del reinserimento sociale dei condannati e degli internati deve essere perseguita anche sollecitando ed organizzando la partecipazione di privati e di istituzioni o associazioni pubbliche o private all’azione rieducativa”. Solidarietà anche agli agenti della Polizia Penitenziaria che ogni giorno vivono a contatto con la quotidianità detentiva, dovendosi occupare di soccorrere la sofferenza e accorrere un suicida. Ritorna il tema del carcere abbandonato a se stesso: le esigenze non sono più quelle di pochi anni fa, cambia il tipo di detenzione che vede molti cittadini stranieri entrare in cella, ad esempio. Terni è anche carcere di alta sicurezza che ha necessità complesse da non sottovalutare. Ma se le esigenze sono mutate, le risorse sono diminuite: poco personale rispetto al numero dei detenuti e fondi inesistenti per la rieducazione. Il carcere diventa un dispendioso parcheggio in attesa del fine pena. Al di là del giudizio morale, che a noi non interessa esplorare, soprattutto in queste poche righe, vorremmo che la città non dimenticasse quella strada di Campore dove storie, anime e supplizi si trascinano senza trovare soluzione. E l’umanità non è un semplice atto di buonismo, quanto di reale impegno civico. Seguendo il monito di Primo Levi: “Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario”. Ciao Abd El Hakim, che la terra ti sia finalmente lieve. Napoli: Tribunale di sorveglianza, il caos è qui di Gigi Fiore Il Mattino, 13 dicembre 2017 Un ufficio sommerso da carte, procedure complesse, competenze aumentate nel tempo. Un ufficio sotto il tiro degli avvocati ormai da diversi mesi. Non c’è pace per il Tribunale di sorveglianza che, nella classifica di doglianze che motivano l’astensione dalle udienze iniziata lunedì dai penalisti, è al primo posto. Undici magistrati a Napoli (dieci in servizio), quattro ad Avellino e quattro a Santa Maria Capua Vetere, è di quegli uffici, come il Tribunale per i minori, di competenza distrettuale. Un unico ufficio, un unico presidente per le province di Napoli, Avellino, Benevento, Caserta. Ad ogni udienza, non sono iscritti meno di un’ottantina di fascicoli, su materie che riguardano la gestione della pena, con decisioni sulle condizioni carcerarie, sulle pene alternative, ma anche sulle riabilitazioni necessarie a ripulire il casellario giudiziario. Insomma, tanto lavoro con appena 24 persone addette a mansioni amministrative. Spiegano nell’ufficio: “Molti sono prossimi alla pensione, alcuni sono arrivati dopo l’abolizione delle Province da altri uffici della pubblica amministrazione. Si spera in nuovi concorsi e assunzioni”. Risultato, che fa tanto indispettire gli avvocati, sono le file chilometriche con attese che arrivano anche a un’ora e mezza, dinanzi all’ufficio informazioni dove è al lavoro un solo impiegato di cancelleria. Tanto da far commentare all’avvocato Riccardo Polidoro, responsabile carcere dell’Unione Camere Penali italiane: “Le gravissime e croniche disfunzioni del Tribunale di sorveglianza costringono gli avvocati ad espletare il proprio mandato in condizioni mortificanti”. La verità è che, per decidere una misura alternativa, i giudici della Sorveglianza hanno bisogno del parere di esperti, di relazioni aggiornate della polizia giudiziaria come eventualmente di psicologi, medici o assistenti sociali. Carte su carte, con non meno di 4mila fascicoli in attesa di decisione. Poco tempo fa, un’udienza con undici procedimenti è stata soppressa senza preavviso per l’assenza improvvisa di un giudice. Gli avvocati lo hanno saputo solo attraverso un cartello affisso fuori l’aula di udienza. E scrivono nel documento della Camera penale napoletana: “non ne erano specificate le ragioni”. All’udienza successiva, il giudice del collegio è stato rimpiazzato. Le lamentele degli avvocati riguardano soprattutto i ritardi di decisione delle istanze per le misure alternative, quelle dalle procedure complesse, e di liberazione anticipata. Ma le competenze della Sorveglianza aumentano e appesantiscono il lavoro. Come le famose decisioni sul 35ter, che poi sarebbero le istanze per condizioni carcerarie disumane. Si sono tanto moltiplicate da aver fatto commentare al procuratore generale della Cassazione, Pasquale Ciccolo: “Appare davvero urgente la semplificazione dell’attività della magistratura di sorveglianza, oggi più che mai investita di competenze sempre crescenti”. E, nella sua ultima relazione al Parlamento, il garante nazionale dei diritti delle persone detenute ha riferito di avere a sua volta ricevuto 108 istanze-reclami scritte di persone in carcere o in misure alternative e 126 semplici segnalazioni. Di fatto, espressione di sfiducia verso i Tribunali di sorveglianza. Materia delicata, che quasi sempre si esaurisce nelle decisioni prese dai singoli Tribunali di sorveglianza se gli ultimi dati diffusi dal primo presidente di Cassazione, Giovanni Canzio, parlano di soli 2.769 ricorsi arrivati dalla Sorveglianza e definiti. Sono appena il 4,8 per cento dei 57.725 procedimenti penali decisi l’anno scorso dalla Cassazione. Ad aiutare i magistrati nel loro lavoro sono i cosiddetti “esperti di sorveglianza” (psicologi, medici, sociologi, criminologi), che partecipano alla camera di consiglio e potrebbero, in teoria, scrivere anche i provvedimenti con i giudici. A Napoli sono 40, in tutt’Italia 428. Spiegano al Tribunale di sorveglianza: “Solo a Milano è nata una vera scuola di formazione per questi esperti. A Napoli se ne è sempre parlato, ma non si è mai attuato nulla”. Eppure, gli esperti sono necessari a fornire elementi per le decisioni. Come per la famosa “messa in prova”, che è la premessa per decidere misure carcerarie alternative. Nel distretto napoletano, chi deve fare verifiche esterne ha a disposizione solo due auto per spostarsi sul territorio. Dice ancora l’avvocato Riccardo Polidoro: “I tribunali di sorveglianza a Napoli, come molte corti d’appello, sono in affanno per disfunzioni organizzative. Finora, inutili sono state le nostre richieste di un’ispezione straordinaria”. Anche il presidente del Tribunale di Sorveglianza napoletano, Adriana Pangia, magistrato che ha presieduto sezioni del tribunale penale partenopeo e una corte d’Assise, che ha preso possesso dell’incarico nell’aprile del 2016, si è rivolta al ministero della Giustizia. E ha sollecitato l’attuazione del programma informatico m grado, con opportune schermate e regole d’accesso, di consentire agli avvocati di acquisire informazioni sui procedimenti in corso. Un’innovazione che eviterebbe le file chilometriche all’ufficio informazioni. Sarebbe una novità fondamentale. I numeri delle misure alternative e della messa in prova sono in continuo aumento. Un anno fa, in tutta l’Italia erano in totale 43mila. Un anno dopo, sono diventati 47mila con 10mila messe alla prova. Sono quattro le sezioni del Tribunale di Sorveglianza napoletano, ma Giuseppe De Carolis, primo presidente della corte d’appello napoletana, nella sua ultima relazione ha scritto: “Risulta ulteriormente aumentata la pendenza dei procedimenti nel Tribunale di sorveglianza di Napoli e nell’ufficio di sorveglianza di Santa Maria Capua Vetere”. Situazione diffusa in tutta Italia, se a Milano la Sorveglianza ha un arretrato di 26mila fascicoli da smaltire. E, per questo, commenta Attilio Belloni, presidente della Camera penale di Napoli: “La nostra protesta, con astensioni che termineranno venerdì prossimo, ha per obiettivo sollecitare il governo ad adottare m tempi rapidi i decreti attuativi della riforma Orlando a modifica dell’ordinamento penitenziario”. Milano: ritardi cronici del Tribunale di sorveglianza, attese di sei mesi per un’udienza di Cristina Bassi Il Giornale, 13 dicembre 2017 E i condannati restano liberi in attesa delle decisioni. Detenuti appesi a una richiesta di misura alternativa al carcere (domiciliari, affidamento in prova) o di scarcerazione anticipata. Tempi di attesa: cinque, sei mesi. Condannati in via definitiva a meno di tre anni fuori dalla prigione ma dentro il limbo del dubbio. Tra carcere effettivo oppure altri modi di scontare la pena. Attesa: due, tre anni. Sono i frutti avvelenati delle difficoltà del Tribunale di sorveglianza, denunciate dall’Unione delle camere penali che ieri ha indetto una giornata di mobilitazione. Il malfunzionamento della macchina è peggiorato nell’ultimo anno e riguarda tutto il Paese. Negli ingranaggi restano schiacciati carcerati che avrebbero diritto ai benefici previsti per legge. Sono tantissimi quelli che potrebbero uscire dalle celle, ma non ottengono neppure la fissazione dell’udienza davanti al giudice di sorveglianza. Non è possibile fare una stima. Parlano però chiaro i dati sul sovraffollamento delle carceri del distretto sotto la giurisdizione della Corte d’appello di Milano. Sono a oggi 6.863 le persone detenute (2.967 sono stranieri), a fronte di una capienza regolamentare di 5.167. L’indice di affollamento è del 132,82 per cento. Vale a dire che ogni 100 posti letto previsti ci sono 132,82 persone. Nella casa circondariale di San Vittore i detenuti sono 1.054, dovrebbero essere 828 (indice di affollamento del 127%. Gli stranieri sono 685). Il triste record tocca a Como, dove il tasso di sovraffollamento arriva al 194,8 per cento: 450 effettivi per 231 posti. La colpa dei ritardi, spiegano gli avvocati come già denunciato dal presidente del Tribunale di sorveglianza Giovanna Di Rosa, è delle carenze di organico. A Milano mancano tre magistrati su 12 previsti dall’organico e 10 membri del personale amministrativo su 43. “A Como - sottolinea Paolo Camporini, della Camera penale lariana - è rimasto solo un educatore su quattro. Si tratta della figura che redige le relazioni di sintesi, senza le quali le istanze di misura alternativa vengono inevitabilmente respinte”. Così Monica Gambirasio, presidente della Camera penale di Milano: “Da novembre sono state già annullate otto udienze con detenuti già fissate. In questo modo si ledono i diritti dei detenuti. E siamo molto preoccupati per il 2018. Chiediamo l’intervento del ministero della Giustizia e del Csm”. La situazione è su una china pericolosa: “I fascicoli della Sorveglianza da smaltire - avverte l’avvocato Eugenio Losco, delegato della Camera penale - a gennaio erano 22mila. Al 30 novembre erano diventati 26mila”. Modena: l’allarme di avvocati e volontari “carcere sovraffollato e manca un giudice” di Carlo Gregori Gazzetta di Modena, 13 dicembre 2017 Al Sant’Anna il numero di detenuti torna a livelli di guardia: quasi 500, oggi in lieve calo. Per i detenuti ci sono solo tre educatori anziché i sei previsti. Nella Casa di Lavoro di Castelfranco i 90 detenuti sono tenuti all’interno perché molto difficile creare percorsi di socializzazione col mondo esterno e quindi reinserirsi. A questa situazione critica si aggiunge da qualche mese la mancanza di un magistrato di sorveglianza: ne resta uno solo che si deve fare carico di tutte le richieste dal sistema detentivo modenese. L’allarme arriva dalle Camere Penali di Modena unitamente con i volontari da che da tanti anni si prodigano per reinserire i detenuti: l’associazione Carcere Città rappresentata ieri da Paola Cigarini e la Cooperativa Giorni Nuovi rappresentata da Francesco Pagano. I dati sono impressionanti: in una struttura carceraria come Sant’Anna che dovrebbe contenere al massimo 350 detenuti, oggi sono rinchiuse quasi 500 persone. I magistrati di sorveglianza dovrebbero essere due, ma il secondo è arrivato e poco dopo è andato a Trento, lasciando sola il giudice Francesca Ranfagni. Che ora ha un carico di oltre un terzo delle domande in più. Sono permessi per qualche ora, ma anche uscite e liberazioni anticipate: atti che i detenuti aspettano con ansia. Commenta l’avvocato Francesco Muzzioli, con Gianpaolo Ronsisvalle per l’Osservatorio Carcere delle Camere Penali: “Se non si ripristina la situazione, non ci si può aspettare che incattivimento”. L’incattivimento del sistema in sé che da punitivo diventa ingiustamente repressivo e anche del detenuto che per la rabbia accumulata si lascia andare a rivolte e gesti di autolesionismo, ormai all’ordine del giorno. Il sovraffollamento è frutto di questa mancanza di certezze e di una possibilità di accedere all’esterno del carcere (oltre che l’assenza dell’utilizzo del braccialetto elettronico, altra battaglia degli avvocati modenesi). A Castelfranco, poi, dove si trova una Casa di Lavoro, gli internati soffrono della mancanza di percorsi per uscire e quindi restano dentro il Forte perché diventa estremamente difficile valutare se sono socialmente pericolosi o non più. Sia a Sant’Anna che a Castelfranco, infine, c’è una grande carenza di educatori, le figure che servirebbero proprio per il reinserimento e per non ricadere nel circolo del crimine e quindi di nuovo del carcere: a Modena sono tre invece di sei e a Castelfranco uno solo. Si deve poi considerare che l’educatore segue solo i carcerati definitivi, che sono solo il 40%. Poi c’è l’assenza di prospettive all’esterno, ricordata dai volontari. Il “dopo carcere” non esiste: nessuno è disposto a dare lavoro. “Non c’è interesse. Per questo facciamo un appello pubblico alle forze economiche modenesi - dice Pagano - chiediamo di aprire un tavolo con Confindustria, associazione e sindacati per studiare un piano di inserimento degli ex detenuti nel mondo del lavoro. Anche poche unità all’anno sarebbe un successo”. Infine il dramma interno al carcere. Cigarini e Pagano hanno ricordato che solo grazie ai volontari i detenuti hanno sapone, bagnoschiuma, shampoo e spesso la carta igienica. Firenze: “dateci una possibilità, dopo il carcere vogliamo vivere e lavorare” di Ernesto Ferrara La Repubblica, 13 dicembre 2017 Detenuto da quindici anni parla al consiglio comunale riunito a Sollicciano di fronte ad Andrea Orlando. “Qua mancano acqua calda e letti”. “Io parlo a nome dei detenuti solo per oggi, sono come il brigadiere di giornata, e quello che chiedo signor sindaco è l’anello mancante tra noi e il fuori: le braccia aperte, un lavoro, una possibilità”. Non è il più applaudito degli interventi quello di Pietro Bivona, carcerato a Sollicciano da 15 anni. Anzi la piccola folla di detenuti che assiste ieri al Consiglio comunale straordinario nell’aula cinema alla presenza del ministro della giustizia Andrea Orlando e del sindaco Dario Nardella fa pure partire qualche fischio quando Bivona ringrazia i politici e i vertici del carcere. Eppure anche nelle richieste più prosaiche di Martina, della trans Pamela e di Ivan, gli altri tre detenuti che intervengono strappando invece molti applausi, la parola lavoro c’è: “Qui ci mancano i riscaldamenti, l’acqua calda, le docce, dobbiamo stare in cella con chi fuma anche se non siamo fumatori e ci rendiamo conto che le figure degli educatori sono sempre più deboli. Potremmo essere una risorsa, almeno diventarlo, basterebbe metterci in contatto col mondo del lavoro. E invece siamo un peso” dicono. E una volta fuori le loro parole riecheggiano come un monito: il solito, inascoltato monito dei carcerati alle prese col carcere che non rieduca ma svilisce e basta. “Dobbiamo prendere davvero sul serio la questione Sollicciano”, promette Orlando. “Sicurezza oggi non significa detenzione, anzi spesso è il contrario. Il carcere non porta consenso eppure noi stiamo facendo tanto. Anche per Sollicciano, dall’impegno per la seconda cucina ai passeggi al rifacimento dell’impianto idrico sanitario. E poi aumenteremo il personale di polizia penitenziaria, avremo oltre 2 mila agenti in più in Italia” garantisce il ministro. Che appena arriva è fermato dal garante fiorentino dei detenuti Eros Cruccolini: “Il Comune qui ha fatto una delibera per far lavorare le coop sociali di tipo B che impiegano anche ex detenuti” gli fa notare. E il ministro: “Allora sindaco la fai anche tu qualcosa di sinistra” . Nardella sorride e rivendica quel provvedimento. Lancia una proposta: “Intitoliamo il carcere al magistrato Alessandro Margara, l’uomo che ha dedicato la sua vita a migliorare le condizioni dei detenuti” . Poi prende degli impegni: “Miglioreremo i collegamenti in bus per Sollicciano da giugno. E stiamo anche cercando un immobile da destinare alla semilibertà” . Il garante toscano per i detenuti Franco Corleone chiede la riattivazione “delle commissioni detenuti” e duce: “Bisogna aprire il carcere alle attività tutto il giorno, mentre ora alle due qui chiude tutto”. Il cappellano don Enzo Russo dice “stop ai lavori tampone”. Cruccolini punta il dito sulla mensa con pasti messi a gara a 3,70 euro a persona: “Vi lascio immaginare la qualità”. Il nuovo direttore Prestopino, conosciuto per essere un “duro”, dice: “Il valore fondamentale che deve prevalere su tutto è quello della dignità di chi si trova in carcere: dei detenuti come dei lavoratori”. Milano: con l’Associazione L’Ortica i detenuti ascoltano le storie dei ragazzi autistici di Renato La Cara Il Fatto Quotidiano, 13 dicembre 2017 L’associazione milanese L’Ortica ha portato dietro le sbarre le storie registrate con audio mp3 e le ha fatte ascoltare a 20 detenuti a San Vittore. La presidentessa Rondelli: “Abbiamo deciso di coinvolgere nel nostro progetto persone che già sono colpite da stigmatizzazione sociale per abbattere i pregiudizi”. “Non provare mai a pensare che nessuna donna si innamorerà di te”. Tiziano è detenuto in carcere a San Vittore e ha deciso di scrivere un messaggio di suo pugno a Fabrizio, un bambino autistico. Ha sentito la sua storia registrata su un mp3 che l’associazione L’Ortica ha portato oltre le sbarre grazie all’iniziativa “Ascolta i miei passi” con l’obiettivo di sensibilizzare sul tema disabili e autismo. “Sono religioso e credente, quindi pregherò per te. Sicuramente l’amore che ti ha portato fino ai tuoi 22 anni ti farà trovare la persona giusta”, chiude Tiziano. Il messaggio l’ha raccolto la presidentessa Fabrizia Rondelli, mamma di un ventenne autistico, che si è presentata a San Vittore per far sentire le storie dei ragazzi. E tra i pensieri, c’è anche quello di un altro detenuto che scrive: “Ciao Leo, quando ti trovi in quelle giornate no pensa all’aria, sappi che avvolge il tuo corpo e pensa che sia una dolce carezza che coccola il tuo corpo”. Disabili e carcerati, ma soprattutto persone. L’idea di andare in carcere a parlare di autismo è venuta appunto a L’Ortica, costituita a Milano nel 2010 partendo dal desiderio di alcune famiglie di giovani con autismo di offrire loro un percorso di inserimento lavorativo professionale e specializzato. “Si tratta di un’iniziativa di sensibilizzazione - racconta a Ilfattoquotidiano.it la presidentessa Rondelli - che dà voce alle persone con una sindrome del comportamento. Abbiamo deciso di coinvolgere nelle nostre attività di divulgazione sul tema circa venti detenuti di San Vittore, che vivono anche loro situazioni di stigmatizzazione sociale, direttamente sulla loro pelle ogni giorno. Abbiamo fatto ascoltare ai detenuti le testimonianze di vita dei nostri ragazzi attraverso dei lettori mp3 per abbattere le barriere del pregiudizio”. In occasione della settimana dedicata ai disabili, culminata il 3 dicembre con la Giornata internazionale delle persone con disabilità Rondelli si è recata alla casa circondariale milanese per spiegare ai carcerati le varie attività associative, i diversi laboratori di tessitura e pittura dedicati ai ragazzi con autismo e come sia “possibile affrontare la vita partendo da situazioni delicate e, a volte, complicatissime”. “Sono rimasta stupita da quello che ho trovato dentro San Vittore. Mi ero preparata all’ingresso con tutti gli stereotipi negativi che potevano esserci e immaginavo di trovarmi di fronte un ambiente ostile. Invece - spiega la presidentessa - ho ricevuto un’accoglienza particolare nel reparto clinico dove sono tenuti i detenuti malati. Ho trovato gente sensibile, desiderosa di ascoltare le storie dei nostri ragazzi con autismo, individui molto attenti al tema delle disabilità. Alcuni di loro si sono commossi e ci hanno scritto anche messaggi da consegnare ai ragazzi. La cosa positiva è che abbiamo avuto quindi la possibilità di riportare ai nostri giovani le risposte di alcuni detenuti”. Un “lavoro stupendo”, dice Rondelli. “Da parte dei detenuti ho visto una voglia di raccontarsi fortissima, incredibile. Quasi tutti i carcerati presenti hanno deciso di aprirsi senza ostilità, parlando anche di cose molto personali. E poi - continua Rondelli - è accaduto l’impensabile. Un papà mi ha chiesto di aiutarlo a mettersi in contatto con la sua famiglia perché ha un figlio piccolo che ha ricevuto una diagnosi di autismo. Stando lì dentro non poteva fare nulla, viveva un fortissimo senso di impotenza”. In carcere ci sono storie differenti, esperienze di (mala)vita particolari, sensi di colpa e sofferenza. Racconti di persone tanto diverse tra loro, che hanno sbagliato e che stanno pagando per i loro reati. “Non sapevo nello specifico che cosa avessero fatto le persone che ho conosciuto, ma sicuramente sono colpiti da uno stigma. Poi, però, se si va oltre questa superficie, puoi vedere che sono persone come le altre. Capisci che hai a che fare con degli esseri umani. Così, come quando presento il progetto Ascolta i miei passi alla gente, spiego che i ragazzi con autismo prima di essere disabili psichici sono degli esseri umani e senza il loro deficit comportamentale sarebbero come tutti gli altri. Bisognerebbe dare la possibilità a tutti quelli che vivono in una condizione fortemente limitata dal pregiudizio, emarginazione e isolamento, di potere invece sviluppare i loro talenti, la loro parte migliore. Ed è quello che abbiamo cercato di fare con ciascuno dei detenuti che sono intervenuti all’iniziativa - afferma la presidentessa -. Trovare cioè qualcosa di buono che potesse ricondurci anche ad un senso di umanità che avvicina tutti”. L’associazione L’Ortica lavora a stretto contatto con le famiglie dei disabili e, in assenza di soldi pubblici, si autofinanzia per organizzare e gestire tutti i servizi erogati. Dal 1 dicembre 2017 Fabrizia è stata nominata dal sindaco del capoluogo lombardo, Giuseppe Sala, a far parte della Consulta cittadina per le persone con disabilità. “Notizia che mi ha fatto felice, non tanto per me - spiega la numero uno dell’organizzazione - ma perché questo dimostra il grande lavoro che stiamo portando avanti da anni sul territorio. Con l’aiuto dei genitori e il supporto dei volontari. È un grande risultato che voglio dedicare ai nostri ragazzi speciali”. Avellino: “il carcere non è allontanamento dal mondo ma preparazione per ritorno a vita” di Chiara Iacobacci orticalab.it, 13 dicembre 2017 La sfida del direttore Pastena. Il direttore della Casa circondariale “Antimo Graziano” di Bellizzi sulla sinergia con la Soprintendenza di Avellino e Salerno ed il mondo delle associazioni, a sostegno del reinserimento dei detenuti: “Chi ha commesso dei reati ha il diritto di reinstaurare un rapporto con la società civile. Le difficoltà non ci spaventano: c’è un universo di persone che lavora insieme a noi” A margine della conferenza stampa di presentazione dell’iniziativa “L’Altro Natale”, svoltasi questa mattina presso il Complesso Monumentale del Carcere Borbonico di Avellino, il direttore della Casa Circondariale di Bellizzi, Paolo Pastena ha commentato positivamente la sinergia instaurata dall’amministrazione carceraria con la Soprintendenza ed il mondo delle associazioni per un coinvolgimento dei detenuti, nell’ambito della rassegna e non solo, per sostenerne il reinserimento. “Oggi - ha affermato Pastena - abbiamo sottoscritto con la Soprintendenza un protocollo importante, per consentire che l’opera di manutenzione della struttura dell’ex Carcere Borbonico di Avellino possa vedere la partecipazione, a titolo gratuito, dei detenuti”. Come previsto dall’articolo 21, la possibilità di lavorare all’esterno è un passo fondamentale verso la riabilitazione: “Chi ha commesso dei reati, ha il diritto di reinstaurare un rapporto con la società civile. La collaborazione con un centro di cultura, contenitore di iniziative al alto valore simbolico, per il nostro istituto penitenziario è importantissima”. Numerose sono le attività che da tempo la direzione mette in campo per il reinserimento e il recupero dei detenuti nei più svariati ambiti: “Puntiamo a ricostruire il legame tra chi ha sbagliato e il mondo reale - spiega Pastena - c’è un universo di soggetti che lavora in tal senso al nostro fianco, primo fra tutti la scuola”. Ovvero il Geometra e il Liceo Artistico di Avellino che hanno delle sedi all’interno della struttura e che con le loro attività impegnano, per altro, i detenuti-studenti in attività extracurricolari. Una possibilità importante, soprattutto per chi si trova a ricominciare a studiare in età di adulta: “È una continua sperimentazione la nostra. Siamo consapevoli che diverse fasce d’età prevedono modalità di apprendimento differenti ma restiamo convinti che tutti meritino la possibilità di sperimentare le proprie competenze. Particolarmente significativo, per i detenuti-studenti, è stato il progetto che li ha visti impegnati nel vero e proprio allestimento di un museo all’interno dell’Istituto Agrario “De Sanctis”: quell’esperienza è stata per loro il motore di un rinnovato entusiasmo e di una riscoperta creatività”. Un grande lavoro quello dell’amministrazione carceraria che si scontra, però, con le difficoltà che quotidianamente ci si trova a dover fronteggiare, dalla carenza di risorse a quella di personal: “Le difficoltà non mancano mai, a maggior ragione in un luogo come una casa circondariale: una struttura in sé complessa da gestire. Gli ostacoli non ci devono, però, spaventare né fermare nella realizzazione di questi progetti. Ringrazio quanti contribuiscono a fare in modo che il carcere non sia solo un momento di allontanamento dal mondo reale ma costruisca la fase di preparazione per un ritorno alla vita”. Un ultimo sguardo sul futuro. “Proveremo a dare una grande spinta alle attività di formazione e a quelle lavorative: la formazione professionale mirata è il nostro obiettivo. La richiesta che arriva da tutti i detenuti è sempre la stessa: rendersi utili. È fondamentale, per mantenere un legame costruttivo con i propri affetti e per sentirsi autonomi: il lavoro si conferma il cardine del reinserimento e il solo strumento in grado di conferire dignità all’essere umano”. Cremona: legge regionale sul carcere, il 14 dicembre incontro a Cà del Ferro di Carlo Malvezzi cremonaoggi.it, 13 dicembre 2017 Giovedì 14 dicembre, alle ore 10.30, a Cremona, presso Teatro Casa Circondariale di Cremona, si terrà l’incontro di presentazione della Legge Regionale 25/2017 “Disposizioni per la tutela delle persone sottoposte a provvedimento dell’autorità giudiziaria”. L’iniziativa viene proposta congiuntamente dal Consiglio Regionale della Lombardia e dalla Direzione della Casa Circondariale di Cremona per presentare la nuova legge volta al rafforzamento del sistema integrato di interventi per il recupero della persona, alla riduzione del rischio di recidiva e al sostegno delle finalità rieducative della pena. “Un’interessante opportunità di lavoro e confronto con le principali cariche regionali in ambito amministrativo penitenziario e giudiziario - ha spiegato il Consigliere Carlo Malvezzi - con a tema la nuova legge regionale, (approvata lo scorso 5 dicembre), per tutelare al meglio la dignità e i diritti delle persone adulte e minori sottoposte a provvedimento dell’Autorità Giudiziaria e in particolare per promuovere azioni volte al loro recupero sociale e a favorire il minore ricorso possibile alle misure privative di libertà.” “Siamo soddisfatti - afferma il direttore del carcere, Maria Gabriella LUSI - che il nostro istituto sia stato scelto per la presentazione della recente Legge Regionale che offre prospettive di lavoro ampie ed organiche, sviluppando tematiche centrali quali la tutela della salute delle persona sottoposte a provvedimenti dell’AG e il loro reinserimento sociale, facendo leva sull’integrazione e la complementarietà degli interventi degli attori della rete”. L’incontro, che si svilupperà in due momenti, vedrà l’apertura lavori con gli interventi di Maria Gabriella Lusi, Direttore Casa Circondariale di Cremona e Carlo Malvezzi, Consigliere Regionale di Regione Lombardia; successivamente interverranno Fabio Fanetti, Presidente Commissione Carceri Regione Lombardia, Claudia Andreoli, Direzione Generale Reddito Autonomia e Inclusione Sociale di Regione Lombardia, Franco Milani, Direzione Generale Welfare Regione Lombardia, Monica Lazzaroni, Presidente Tribunale di Sorveglianza di Brescia e Luigi Pagano, Provveditore Regionale Amministrazione Penitenziaria Milano. Padova: prodotti in carcere 90 mila panettoni Giotto di Felice Paduano Il Mattino di Padova, 13 dicembre 2017 Boscoletto: “Ai detenuti diamo così una possibilità futura”. Il ricavato destinato alla solidarietà. Produzione record quest’anno per i panettoni dell’Officina Giotto preparati e confezionati dai detenuti del carcere Due Palazzi. L’anno scorso furono 85.000, dei quali l’85% venduti in Italia e il 15% all’estero. Quest’anno si raggiungeranno i 90.000 pezzi. Come succede ormai ogni anno, alcuni panettoni saranno inviati, gratuitamente, a Papa Francesco, a mons. Pietro Parolin, segretario di Stato in Vaticano, al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, al presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni e al ministro della Giustizia, Andrea Orlando. I detenuti pasticcieri del carcere sono, in tutto 50, ma, in generale, quelli che lavorano, a vario titolo, all’interno dei Due Palazzi, sono 150. Il lavoro in carcere è iniziato nel 1990, ma la produzione e la commercializzazione dei panettoni, delle colombe e degli altri tipi di dolci, comprese le brioche giornaliere distribuite anche ai bar della città, è cominciata dal 2004. Quest’anno una parte dei ricavi dei panettoni venduti, andrà anche alla fondazione Irea Morini Pedrina, di Este, ai terremotati di Amatrice, alle Famiglie per l’Accoglienza e a un’altra fondazione delle Marche. In queste settimane i detenuti- pasticcieri stanno producendo non solo panettoni, naturalmente con vari tipi d’ingredienti, ma anche tanto cioccolato, tra cui quello sotto forma di praline. A proposito di qualità, quest’anno i panettoni dell’Officina Giotto si sono classificati al sesto posto nella speciale classifica compilata dal Gambero Rosso, appena dietro al famoso pasticciere di Brescia, Igino Massari. Il panettone classico costa 25 euro ed è in vetrina in numerosi punti vendita, a partire dal Caffè Pedrocchi e dalla Drogheria Preti, in via Luca Belludi. Da anni presidente della cooperativa sociale è Nicola Boscoletto, da poco tornato da Lisbona, in Portogallo, dove ha fatto da supervisore a una nuova esperienza di lavoro in carcere, mostrata anche a Mattarella, nei giorni in cui era in visita ufficiale nella repubblica portoghese. “Anche se dobbiamo superare, giorno dopo giorno, sempre nuove difficoltà burocratiche che tolgono diritti acquisiti ai detenuti che lavorano dietro le sbarre, l’Officina Giotto va sempre avanti anche grazie alla collaborazione attiva di tante persone esterne al carcere e di numerose associazioni” sottolinea Boscoletto “Sotto la guida del maestro pasticciere Matteo Florean, i detenuti artigiani s’impegnano sempre di più anche perché, con il nuovo lavoro ritrovato, stanno riscattando gli errori commessi in passato e sono sicuri di avere un’attività sicura e remunerativa quando, un giorno, torneranno in libertà a vivere in mezzo agli altri”. Messina: al carcere di Gazzi il teatro diventa la chiave per volare liberi di Francesca Stornante tempostretto.it, 13 dicembre 2017 All’inizio era sembrato un progetto folle e difficile da realizzare, poi è nato il “Teatro per sognare”. Un laboratorio che si è concluso con una emozionante e intesa rappresentazione messa in scena da 8 detenuti diretti dal regista Flavio Albanese. “Tutto può cambiare. Tutto”. Le idee, i giudizi, i destini. Le persone. Il cambiamento è qualcosa che nasce da dentro, è intimo, ma serve la chiave giusta per metterlo in moto. Una chiave che ieri al Carcere di Gazzi ha creato una connessione speciale, ha abbattuto muri e sbarre, ha fatto parlare cuori e occhi. Una chiave chiamata teatro, un palco e una platea che per due ore sono state un tutt’uno, il mondo di fuori e il mondo di dentro, quello libero e quello che sta dentro una cella in attesa di giudizio o per scontare una pena. Tante le riflessioni e le sensazioni lasciate dallo spettacolo “Ragazzi” andato in scena nel nuovissimo teatro della casa circondariale di Gazzi. Frutto del progetto chiamato, non a caso, “Il teatro per sognare”, ciò che è accaduto sul palco di quello che era un auditorium oggi trasformato in vero teatro è stato molto più di uno spettacolo. Sia per chi l’ha visto che per chi è stato sul palco a recitare. In scena otto detenuti della sezione di massima sicurezza del carcere di Gazzi, 8 uomini che hanno interpretato i “Ragazzi” raccontati dai “Fratelli Karamazov” di Fedor Dostoevskij e che sono diventati i protagonisti di un percorso che si è basato su un laboratorio teatrale che li ha portati a diventare una compagnia, “La libera compagnia del teatro per sognare”, e a realizzare un vero e proprio teatro e uno spettacolo. Anima e ideatrice di questo progetto è stata Daniela Ursino con la sua associazione D’aRteventi che ha trovato appassionata collaborazione nella Caritas Diocesana, nel Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, nella Casa Circondariale di Gazzi, nel Tribunale di Sorveglianza, nella Polizia Penitenziaria. Progetto che ha coinvolto anche ben tre scuole messinesi: la sezione scenografia del Liceo artistico Ernesto Basile ha lavorato alla ristrutturazione del teatro insieme ai detenuti, sotto l’occhio vigile dekka scenografa Francesca Cannavò oltre che dai professori. Nell’ambito dell’alternanza scuola/lavoro sono stati seguiti da un tutor della struttura carceraria l’educatrice Nicoletta Irrera. Anche i detenuti attori sono studenti della classe dell’Istituto Minutoli che si trova all’interno del carcere. C’erano anche gli studenti dell’Istituto Quasimodo che hanno curato l’accoglienza in sala e i ragazzi dell’Istituto Antonello che ha curato il momento di convivialità realizzando i panettoni per il brindisi finale tra autorità familiari dei detenuti e attori detenuti. Insieme a loro sul palco un attore di professione, Pippo Venuto, legato però a loro da un passato che lo ha visto in carcere per tanti anni e che è cambiato proprio grazie al teatro e alla fiducia della Compagnia della Fortezza del Carcere di Volterra. Emozionante anche la giovane Virginia Giacoppo, studentessa del Liceo Basile che è stata inserita nella compagnia. A dirigerli il regista Flavio Albanese, aiutato da Antonio Previti: “Quando si fa teatro ci si mette a nudo tutti: maestri e allievi. Aprire il proprio cuore in un posto così non è naturale, un carcere un luogo in cui gli uomini si chiudono. Allora ho scelto una storia che parla di ragazzi e di cosa succede nella vita di una persona quando le cose cambiano. Ci siamo fidati gli uni degli altri”. In platea un parterre di ospiti istituzionali che hanno applaudito e si sono emozionati di fronte ad un gruppo che è diventato famiglia, come ha raccontato Daniela Ursino. C’erano il Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria della Sicilia Gianfranco De Gesu, il Prefetto Francesca Ferrandino, il Questore Mario Finocchiaro, l’Arcivescovo mons. Giovanni Accolla, il Presidente del Tribunale di Sorveglianza Nicola Mazzamuto, il Presidente del Tribunale Nuccio Todaro, il Procuratore generale Vincenzo Barbaro, il Procuratore della Repubblica per i minori, il Presidente dell’Uepe Angela Fusco, i rappresentanti delle Forze dell’ordine, il Sindaco Renato Accorinti, il Comandante provinciale dei Carabinieri Iacopo Mannucci Benincasa, il Comandante della sezione Aeronavale della Guardi di Finanza Cristino Alemanno, per la Marina Militare il Comandante Antonio Ciancio, i colonnelli Lisciandro e D’Arrigo per l’Esercito. Orgoglioso di questa sfida vinta il direttore del carcere Calogero Tessitore, così come l’arcivescovo Accolla che adesso spera di poter portare questo spettacolo in Cattedrale e che in barba a ogni protocollo di sicurezza è salito sul palco per stare insieme ad Antonio, Bartolo, Cecè, Enzo Luciano, Giovanni, Peppe, Teodoro. “Ci avete dato una chiave, adesso tocca a noi avere la forza e il coraggio di chiudere con il nostro passato e aprire la porta della legalità per vivere da uomini liberi” ha detto Cecè leggendo un messaggio a nome di tutti i compagni. Parole che hanno fatto esplodere un applauso lungo e intenso e che hanno emozionato i tanti familiari che erano lì per partecipare ad un momento di incredibile umanità sigillato alla fine dalla commozione e dalla gioia degli abbracci dei bimbi ai loro papà attori. Una lezione è rimasta per tutti: “Non importa volare alto, è importante volare insieme” diceva il monologo finale. E questo grande gruppo ha dimostrato che insieme si può fare tanto e andare oltre la barriera. Anche quella di un carcere. La Spezia: raccolta di giocattoli per i figli dei detenuti cittadellaspezia.com, 13 dicembre 2017 Il prossimo 4 gennaio un colloquio un po’ speciale tra i bambini e i loro papà che scontano la pena presso il carcere di Villa Andreini. Una raccolta di giocattoli per rendere una festa natalizia - pazienza se con qualche giorno di ritardo - il colloquio del 4 gennaio tra i papà detenuti a Villa Andreini e i loro bambini. A promuoverla, l’amministrazione carceraria spezzina, impegnata nella tutela del rapporto tra chi sconta la pena in carcere e i figli minori. E la raccolta di doni a misura di bambino è novità di queste festività. “La festa del 4 gennaio è una delle tante attività che organizziamo nella ludoteca realizzata dai ragazzi del Liceo artistico qualche anno fa - spiega Licia Vanni, Capo area trattamento della Casa circondariale spezzina. L’attenzione nei confronti dei minori deve essere sempre primaria e il rapporto tra padre detenuto e figli minori - un rapporto che è importante mantenere - deve avvenire nel clima più sereno possibile”. La raccolta di giocattoli sta coinvolgendo molti sodalizi, come Arci, Caritas e San Vincenzo. Ed è naturalmente aperta a tutti quei privati cittadini che vogliano dare il loro contributo. Basta rivolgersi al carcere, dove il materiale donato sarà controllato e impacchettato a dovere. “La raccolta sta andando bene, Spezia è una città sensibile”, osserva la dott.ssa Vanni. Che torna sul rapporto tra chi è dietro le sbarre e i figli piccoli. “Il bambino vive la lontananza del padre come una colpa sua. Da grande magari capirà, ma finché è piccolo pensa che il padre sia lontano perché lui, il bambino, è stato cattivo. Anche per questa ragione è necessario attenuare lo choc dell’incontro in carcere”. A Villa Andreini la convinzione che il carcere non debba essere soltanto punizione, castigo, è ben radicata, e l’impegno per l’iniziativa del 4 gennaio è uno dei tanti esempi in questo senso. “La risocializzazione - prosegue la dott.ssa Vanni - è prevista dalla nostra Costituzione. Ed è un valore in cui crede molto la direttrice del carcere Maria Cristina Bigi, che dà la linea e senza la quale molte cose non sarebbero possibili”. La Casa circondariale spezzina ospita circa duecento detenuti, in buona parte stranieri. “Qua non ci sono i più “cattivi” - conclude Vanni, ma i più sprovveduti, i più poveri, quelli con meno rete sociale, quelli che fanno fatica a permettersi un avvocato. In tanti scontano in carcere pene che potrebbero essere eseguite all’esterno in quanto privi di domicilio. Anche condanne banalissime”. Forlì: il calore del Natale entra in carcere col pranzo insieme alle autorità forlitoday.it, 13 dicembre 2017 Il carcere di Forlì ospita attualmente 105 persone, di cui 19 sono donne; di questi oltre una ventina sono stati impegnati in cucina, come cuochi o camerieri. Si è tenuto martedì nel carcere di Forlì il pranzo di Natale che ha visto sedere allo stesso tavolo 105 detenuti, autorità, operatori, formatori e volontari. Il pranzo è stato realizzato da detenuti e detenute che, a seguito di un corso di cucina appena terminato, hanno preparato dall’antipasto al dolce per oltre 180 persone. Il tutto è stato coordinato da Techne, ente di formazione del Comune di Forlì (attraverso Livia Tellus Romagna) e di Cesena e dall’Associazione di volontariato Cds, che hanno supportato i detenuti nella preparazione delle pietanze e nell’allestimento della sala. Tra le numerose autorità presenti vale la pena ricordare il sindaco di Forlì, Davide Drei, l’assessore alle Politiche Sociali, Raoul Mosconi, il vescovo Monsignor Lino Pizzi, ed i parlamentari Marco di Maio, Bruno Molea e Veronica Zanetti. “Un bellissimo momento - sottolinea Palma Mercurio, direttrice della casa circondariale di Forlì - per un sincero scambio di auguri e per un breve spazio di convivialità che restituisce dignità alle persone in esecuzione penale e che porta un po’ di calore natalizio in carcere”. Durante il pranzo si sono esibiti il tenore Maurizio Tassani e il maestro Andrea Benzoni, che hanno allietato il momento conviviale. Il carcere di Forlì ospita attualmente 105 persone, di cui 19 sono donne; di questi oltre una ventina sono stati impegnati in cucina, come cuochi o camerieri, per la realizzazione del pranzo, esperienza che potrà essere loro utile per spendersi nella ricerca di un lavoro a fine pena. Techne, agenzia di formazione di proprietà del Comune di Forlì (attraverso Livia Tellus Governance Spa) e del Comune di Cesena, lavora in carcere da oltre vent’anni anni, realizzando corsi di formazione ed operando nei 4 laboratori produttivi interni di cui è stato co-fondatore (la cartiera Manolibera, il laboratorio di assemblaggio Altremani, il Laboratorio di bici “Liberi di pedalare” e il laboratorio di disassemblaggio di apparecchiature elettriche ed elettroniche), permettendo così ai detenuti di imparare un mestiere per reinserirsi nella società e ridurre i rischi di recidiva. Il Belpaese che esclude i deboli di Mario Deaglio La Stampa, 13 dicembre 2017 Secondo una convinzione largamente diffusa, gli italiani sono “brava gente”: sono pacifici, sensibili e civili e un pezzo di pane al vicino in difficoltà non si nega mai. Naturalmente non mancano importanti esempi in questo senso, ma nel suo complesso il paese sta andando in una direzione diversa. L’Italia non è diventata solo “rancorosa”, come l’ha definita il Censis nel suo 51° Rapporto, ma anche sempre più spaccata tra “ricchi” e “poveri”, tra “chi è dentro” e “chi è fuori” come la descrive l’Eurostat in uno studio reso noto ieri. L’Istituto di Statistica dell’Unione Europea analizza la “deprivazione materiale e sociale”, una definizione allargata di povertà che tiene conto non solo dei redditi ma anche della capacità della gente di soddisfare bisogni “normali” come quello di abitare in una casa sufficientemente calda, di essere in grado di sostituire un capo di vestiario consunto, di possedere almeno due paia di scarpe. In base a questi criteri, l’Italia, con il 17,2 per cento della popolazione è sopra la media europea dei “deprivati” e quindi degli esclusi, e, in particolare, sopra i valori di quasi tutti i grandi Paesi del Continente (tra questi, la sola Spagna fa marginalmente peggio di noi). Con valori più alti dei nostri troviamo soprattutto i Paesi del Sud e molti Paesi dell’Est (ma non la Polonia, la Slovenia e l’Estonia). Il tasso di “deprivazione materiale e sociale” della Germania è pari a poco più della metà di quello italiano, in Austria è ancora inferiore. Tutto ciò fa sì che, passando dalle percentuali ai numeri, l’Italia abbia la poco invidiabile caratteristica di essere in testa alla classifica del numero delle persone in difficoltà con quasi dieci milioni e mezzo di abitanti, contro i 7-8 milioni di Francia e Regno Unito - che hanno una popolazione sostanzialmente pari alla nostra - e della Germania che ha un terzo di abitanti in più dell’Italia. Se poi si adottano i criteri dell’Istat sugli “italiani a rischio povertà o esclusione sociale” si raggiunge il 30 per cento della popolazione con un fortissimo divario tra il Nord, i cui valori sono abbastanza vicini alle medie europee e il Mezzogiorno dove si è prossimi alla metà della popolazione. E quasi ovunque la tendenza è all’aumento. L’allargarsi dell’area di esclusione-povertà è un fenomeno mondiale. È però più sopportabile là dove i redditi aumentano con un buon ritmo e i livelli di reddito pre-crisi sono già stati superati, il che fornisce a tutti almeno qualche speranza di inclusione. È anche per questo che centinaia di migliaia di giovani italiani, spesso dotati di livelli medi ed elevati di istruzione, si sono trasferiti e si stanno ancora trasferendo all’estero. In Italia la crisi economica ha tagliato i redditi più che altrove, ma forse il suo danno peggiore è quello di aver ridotto (per moltissimi giovani, quasi annullato) una speciale porzione del “capitale umano” fatta di fiducia, entusiasmo, programmi, piani di vita. E questo è il succo di cui si nutrono le “vere” riprese, che non possono essere solo economiche ma devono avere alla base qualche obiettivo ideale. Possiamo certo congratularci di aver fatto ripartire, sia pure, per il momento, a velocità medio-bassa, la “macchina dell’economia” ma dobbiamo riconoscere di non essere finora riusciti a far ripartire la “macchina della società”. Ci concentriamo sui sondaggi pre-elettorali ma dimentichiamo che tali indagini - come quella di La 7 resa nota lunedì sera - mostrano che, se si votasse oggi, la somma dei non votanti, di coloro voterebbero scheda bianca o non saprebbero a quale lista dare il loro appoggio, supera di un soffio la metà degli intervistati (e quindi la metà degli italiani). Può una metà del Paese far finta che l’altra metà non esista? A considerare questo fine legislatura e inizio di fatto della campagna elettorale, si direbbe di sì. È sufficiente gettare un piccolo sguardo alle migliaia di emendamenti alla legge di bilancio 1918, in discussione alla Camera: rappresentano il trionfo del particolarismo, degli interessi di piccoli gruppi. O quando si affrontano i “grandi problemi”, lo si fa solo a livello di principi, senza preoccuparsi di dove possano provenire le risorse per realizzarli. Possiamo solo augurarci che il modo degli italiani - e delle forze politiche italiane - di guardare alla loro società e alla loro economia migliori nel corso delle settimane che ci separano dalle urne; e che l’Italia trovi il coraggio di guardarsi nello specchio. Misurare la corruzione serve per studiare interventi mirati di Sabino Cassese Corriere della Sera, 13 dicembre 2017 I dati sulla corruzione “misurata”, fondati su una rilevazione ufficiale e sicura, confermano quelli già rilevati da Eurobarometro sulle vittime della corruzione, secondo i quali l’Italia sarebbe uno dei Paesi meno corrotti d’Europa. È vero che l’Italia è endemicamente corrotta? Secondo classifiche dell’International Country Risk Guide, del Corruption Perception Index, di Word Bank Indicators, l’Italia è più corrotta della Namibia, della Georgia, del Ghana, del Rwanda, di Cuba, dell’Arabia Saudita, collocandosi al 90°, al 69° e al 52° posto nelle rispettive classifiche. Il costo della corruzione sarebbe di 60 miliardi all’anno, pari a metà del costo della corruzione di tutti i Paesi dell’Unione europea messi insieme. Ma già numerosi studiosi hanno dimostrato che il costo stimato della corruzione è una “leggenda” (basta dare una scorsa a quello che hanno scritto Luca Ricolfi e Caterina Guidoni nel volume su “Il pregiudizio universale” edito da Laterza nel 2016). E tutti sanno che la maggiore conoscenza di singoli episodi di corruzione e il modo in cui sono riportati nei “media” influenzano la percezione della corruzione e tendono a dilatarne la portata. Se i dati su cui si fonda l’impressione di una corruzione capillare, pervasiva, sono fondati su misurazioni della percezione del fenomeno, si potrebbero raccogliere dati più affidabili? L’Istituto nazionale di statistica ha risposto, nell’ottobre scorso, a questa domanda con un rapporto accurato, fondato su un campione di ben 43mila persone tra i 18 e gli 80 anni, alle quali è stato chiesto di riferire episodi in cui loro o le loro famiglie erano stati destinatari di tentativi di corruzione. Il risultato è che nell’ultimo anno solo l’1,2 per cento delle famiglie ha ricevuto richieste di denaro, favori, regali o altro, in cambio di servizi o agevolazioni. I settori più corrotti si sono rivelati sanità, assistenza, giustizia, uffici pubblici; quelli meno corrotti, forze dell’ordine e istruzione. Il centro-sud è la zona dove è maggiore la corruzione. Questi dati sulla corruzione “misurata”, fondati su una rilevazione ufficiale e sicura, confermano quelli già rilevati da Eurobarometro sulle vittime della corruzione, secondo i quali l’Italia sarebbe uno dei Paesi meno corrotti d’Europa, con un indice inferiore alla media europea, alla pari della Francia, nonché quelli sui casi effettivamente verificatisi di corruzione all’estero a danno di imprese multinazionali, secondo i quali l’Italia si collocherebbe poco dopo la Germania, su 152 Paesi. Questi dati, per quanto possano essere viziati dall’omertà di chi è stato intervistato, mostrano quanto distanti dalla realtà sono le indagini basate sulla percezione della corruzione. Su queste, però, si è innestato un circolo vizioso già acutamente rilevato da Romano Prodi sul Corriere della sera dello scorso anno: “Non ci fidiamo dello Stato e moltiplichiamo i controlli e le proibizioni”. Questi, a loro volta, producono un effetto di blocco, per cui ai costi della corruzione si aggiungono, per le imprese e per la società intera, i costi dell’anticorruzione in termini di ulteriori adempimenti, di rallentamenti, di divieti. Da ultimo, si è aggiunta la norma, appena approvata scopiazzando male leggi analoghe statunitensi e britanniche, che consente a chiunque di fare segnalazioni conservando l’anonimato (l’identità non può essere rivelata), agendo come gli informatori del “Consiglio dei Dieci” nella Venezia del XIV- XIX secolo. Queste più accurate misurazioni della corruzione consigliano un riesame della politiche anti-corruzione. Per arginare la corruzione, bisogna conoscere l’entità del fenomeno, i fattori che lo agevolano, le aree più indiziate, per concentrare gli sforzi, invece di creare sbarramenti generali che rischiano di aumentare strutture, procedure e costi pubblici, rallentando l’azione statale. Tornano a crescere le vendite di armi, prima volta dal 2010 di Andrea Tarquini La Repubblica, 13 dicembre 2017 Secondo il Sipri di Stoccolma hanno totalizzato 374,8 miliardi di dollari, senza contare la Cina di cui si sa poco o nulla. Dominano gli americani. Leonardo, la ex Finmeccanica, si posiziona nona in graduatoria. La produzione, vendita ed esportazione di armamenti torna a essere un business globale in crescita per la prima volta dal 2010, e consolida le sue dimensioni gigantesche. Lo afferma il rapporto annuale dell’autorevole Sipri (Stockholm international peace rersearch institute) svedese. Al primo posto incontrastato tra i produttori di materiale militare sono i big americani, il primo tra i gruppi europei è la British Aerospace, più indietro ma sempre tra i primi dieci sono due gruppi europei multinazionali, cioè Airbus e Mbda, poi Leonardo al nono posto seguita dai francesi di Thales al decimo posto. Secondo il rapporto del Sipri, nel 2016 (anno dei piú recenti dati completi disponibili) la vendita totale mondiale di armi ha raggiunto un fatturato e valore di 374,8 miliardi di dollari, con una crescita dell’1,9 per cento rispetto al 2015 e addirittura del 38 per cento a confronto dei dati del 2002, che riflettevano il trend al calo delle spese militari dopo la fine della guerra fredda tra mondo libero e fronte sovietico. Ma il valore totale reale delle vendite mondiali di armi, avverte il Sipri, potrebbe essere ancora maggiore. Mancano infatti, perché non forniti, i dati relative a produzione vendita ed esportazione della sempre piú forte industria militare della Repubblica popolare cinese. Nella graduatoria mondiale, tra i top ten e nell’indice globale top 100 dei cento principali produttori, quelli americani dominano incontrastati. Da sola, l’industria degli armamenti degli Stati Uniti ha realizzato nel 2016 un fatturato di oltre 217 miliardi di dollari, pari a oltre il 57 per cento del totale. Al primo posto in assoluto, nel suo ambito, è Lockheed Martin, grazie all’assorbimento del gigante mondiale della produzione di elicotteri Sikorsky e grazie al crescente successo delle ordinazioni in aumento del super-cacciabombardiere multiruolo invisibile F-35. Seguono Boeing e Raytheon, come si vede anche dalla tabella (fonte Sipri) che pubblichiamo. Le vendite di armamenti americane sono aumentate, sempre nel 2016 rispetto al 2015, del 4 per cento. La Russia di Putin vanta dieci aziende nell’indice top 100, e ha venduto armamenti per 26,6 miliardi di dollari, con una quota del 7,1 per cento del mercato mondiale e una crescita di vendite del 3,8 per cento. Nella valutazione dei dati russi va comunque tenuto conto che dato il basso costo del lavoro e le particolarità a volte quasi mimetiche dei dati statistici russi, il valore delle vendite non esprime necessariamente quantità di armamenti venduti a pari numero di quelli occidentali, se calcolati a parità di costo. Mosca offre i suoi migliori sistemi d’arma, come ad esempio i super-caccia cacciabombardieri e bombardieri Sukhoi 30, 33, 34 e 35, a prezzi ben inferiori dei superjet pariclasse prodotti dal mondo libero. In calo sono invece le vendite di alcuni paesi come Australia, Israele, Polonia o Singapore. Crescono nuovi produttori, come Brasile e India. Ma come scrivevamo, il grande mistero avvolge valore fatturato e quantità di produzione vendita ed esportazione cinesi. L’industria militare cinese, per decisioni della leadership confermate dall’ultimo congresso del Partito comunista cinese, cresce veloce in dimensioni e qualità e livello tecnologico. Soprattutto con due big, Avic per l’aerospaziale e Norinco per i sistemi terrestri, poi con i cantieri navali che hanno fornito a Pechino una modernissima marina militare capace di operazioni oceaniche a lunga distanza. Solo per fare un esempio, la Repubblica popolare ha in servizio un caccia, lo J-10, almeno pari classe dello Eurofighter Typhoon anglo-tedesco-italiano o del Rafale francese, e anche in servizio o in avanzatissimo sviluppo due tipi di superjet multiruolo invisibili. Pechino produce anche enormi, moderni aerei da trasporto militare strategico e satelliti militari, ed è avanzatissima nelle cyberwar e in generale nell’elettronica e internet militare. Migranti. L’accusa di Amnesty: “Ue e Italia complici dei torturatori libici” di Adriana Pollice Il Manifesto, 13 dicembre 2017 Il rapporto dell’Ong svela il sistema di violenza e sfruttamento da parte della Guardia costiera di Tripoli, sostenuta dai governi europei. “I governi europei, e in particolare l’Italia, sono complici delle torture e degli abusi sui migranti detenuti dalle autorità libiche” è la denuncia contenuta nel rapporto di Amnesty International, presentato ieri a Bruxelles. “I governi europei non solo sono pienamente a conoscenza di questi abusi, ma sostengono le autorità nel trattenere le persone in Libia” ha spiegato il direttore di Amnesty per l’Europa, John Dalhuisen. L’Ong ricorda che 500mila persone sono bloccate in Libia, dove subiscono terribili violenze, fino a finire all’asta nei moderni mercati di schiavi. Il rapporto di Amnesty, intitolato Libia: un oscuro intreccio di collusioni, descrive come l’Ue stia sostenendo un sofisticato sistema di sfruttamento dei migranti da parte della Guardia costiera libica, delle autorità addette ai detenuti e dei trafficanti: “In centinaia di migliaia sono in balia delle autorità locali, delle milizie, dei gruppi armati, spesso in combutta tra loro per ottenere vantaggi economici”, spiega Dalhuisen. Dalla fine del 2016, l’Ue e l’Italia hanno cercato di sigillare la rotta migratoria. La cooperazione con i libici, spiega l’Ong, prevede: supporto al Dipartimento che gestisce i centri di detenzione; addestramento ed equipaggiamento della Guardia costiera libica; accordi con autorità locali, leader tribali e gruppi armati per incoraggiarli a bloccare il traffico di esseri umani. Dopo il 2011 le milizie sono state integrate nella struttura di sicurezza dello stato: “I gruppi si sono trovati ben pagati e protetti dall’affiliazione alle istituzioni. Così hanno rivolto la loro attenzione anche al controllo della costa”. La presenza, nella legislazione libica, del reato d’ingresso irregolare e l’assenza di norme per la protezione dei richiedenti asilo generano la carcerazione di massa: torture, lavori forzati, estorsioni, uccisioni, stupri sono la quotidianità per almeno 20mila persone. Altre migliaia sono imprigionate da gang criminali. Spiega Amnesty: le guardie torturano per estorcere danaro e, quando lo ricevono, passano le vittime ai trafficanti, che organizzano la partenza con la complicità della Guardia costiera. A fine settembre, l’Oim aveva identificato 416.556 migranti presenti in Libia. Nel 2017 le motovedette di Tripoli hanno intercettato 19.452 persone. Un uomo del Gambia, detenuto per tre mesi, ha raccontato: “Volevano soldi per rilasciarmi. Telefonavano ai miei a casa, mentre mi picchiavano con un tubo di gomma, per costringerli a cedere”. Pagato il riscatto, è stato messo su un’auto diretta a Tripoli. L’autista ha chiesto altri soldi: “Fino a quando non avessi pagato, avrei dovuto rimanere con lui oppure mi avrebbe venduto”. Poi ci sono le accuse all’Italia. Video mostrano una motovedetta libica, la Ras Jadir, provocare il 6 novembre scorso l’annegamento di almeno 50 persone: ignorando i protocolli operativi, non ha lanciato in acqua gli scafi di salvataggio ma ha accostato un gommone in avaria provocandone il semi-affondamento, molti migranti sono finiti in mare. La nave dell’Ong Sea Watch, mandata dal Centro di coordinamento di Roma, è stata costretta ad allontanarsi dal personale libico. Un video mostra i migranti a bordo della Ras Jadir frustati con una cima, un uomo si getta in acqua e viene travolto dalla motovedetta, nessuno prova a salvarlo. La Ras Jadir è stata donata dall’Italia alle autorità libiche con due cerimonie (a Gaeta il 21 aprile, ad Abu Sittah il 15 maggio), in entrambi i casi c’era il ministro Marco Minniti, grande sponsor degli accordi con Tripoli. Secondo Amnesty, è la prima volta in cui viene documentato che la marina libica ha provocato morti in mare utilizzando mezzi forniti da un governo europeo, quello italiano. L’Italia, prosegue Amnesty, per garantire che la Guardia costiera libica sia il primo attore a intercettare i migranti ha anche agito per limitare il lavoro delle Ong, di nuovo con il sostegno dell’Ue: “La priorità dei governi è la chiusura della rotta del Mediterraneo, con poco riguardo per la sofferenza che ne deriva”. Amnesty chiede che l’Europa attivi percorsi legali per i migranti e si impegni affinché “le autorità libiche pongano fine alla detenzione arbitraria, consentano piena operatività all’Alto commissariato Onu per i rifugiati”. Amara la conclusione: “I paesi Ue non dovrebbero fingere shock per il costo umano quando collaborano assiduamente con i responsabili”. Il commissario europeo alle migrazioni, Dimitris Avramopoulos, respinge le accuse: “Siamo consapevoli ma non complici”. Eppure le accuse di Amnesty sono state confermate dai naufraghi sbarcati ieri ad Augusta, salvati dalle Ong Proactiva open arms e Sos Méditerranée. “Sulla spiaggia le guardie in uniforme ci hanno puntato contro le pistole e costretto a salire sul gommone” ha raccontato un ragazzo. “In cella in Libia - ha aggiunto una donna del Camerun - ci picchiavano: mani e piedi legati, appesi a testa in giù, ci hanno colpito per tre giorni sulle articolazioni. Quando gli europei venivano a visitarci, le guardie ci dicevano di non parlare, sceglievano loro chi mostrare. Io però ho parlato, mi hanno punito trascinandomi in strada per 200 metri”. Quote sui migranti, a Bruxelles è lite tra le istituzioni di Alberto D’Argenio La Repubblica, 13 dicembre 2017 Tusk si schiera: basta ripartizioni obbligatorie. Avramopoulos ribatte: atteggiamento anti europeo. È scontro tra istituzioni europee, spalleggiate da due diversi blocchi di governi, sulla politica migratoria dell’Unione. Da un lato il presidente del Consiglio, Donald Tusk, mette da parte la neutralità propria del chairman dei vertici europei e di sponda con le capitali dell’Est prova a spazzare dal tavolo la riforma di Dublino, il testo che dovrebbe superare il sistema di ripartizione provvisorio dei richiedenti asilo tra i partner dell’Unione per dare spazio a un meccanismo permanente. Dall’altro la Commissione europea di Jean-Claude Juncker, il Parlamento e i Paesi favorevoli alla solidarietà come Italia, Germania, Spagna e Grecia. L’altro ieri la riunione degli sherpa governativi chiamata a preparare il summit europeo di domani si è infiammata quando Tusk ha messo sul tavolo un testo in cui affermava: “La ripartizione si è dimostrata altamente divisiva e inefficace”. In sostanza chiedeva ai leader che domani si troveranno a Bruxelles di archiviare le relocation e trovare un accordo depotenziato su Dublino. A quel punto i rappresentanti di diverse capitali hanno chiesto al polacco di rimangiarsi il passaggio e la riunione è durata più di otto ore. Lo scontro è emerso pubblicamente ieri quando il commissario Ue alle Migrazioni, Dimitris Avramopoulos, ha accusato Tusk di comportamento “inaccettabile e anti-europeo”. Il presidente del Consiglio è appoggiato da Visegrad, ovvero da Polonia, Slovacchia, Ungheria e Repubblica Ceca. Proprio i leader di questi paesi domani, prima del Consiglio europeo di fine anno che tratterà anche Dublino, incontreranno in un mini-vertice Gentiloni e Juncker. Il clima sarà teso, con il gruppo dell’Est che cercherà di cancellare la solidarietà interna all’Unione sui migranti rilanciando sul fronte esterno annunciando un contributo significativo al Trust Fund Ue per l’Africa, il fondo da 3,2 miliardi messo in piedi da Bruxelles per combattere le cause delle migrazioni finora finanziato dalla Commissione e da pochi governi, come quello italiano (102 milioni) e tedesco (che a sua volta domani dovrebbe annunciare un significativo aumento del contributo) mentre quelli dell’Est finora avevano fatto orecchie da mercante: basti pensare che l’Ungheria di Orban, che insiste per bloccare i migranti in Africa, aveva versato solo 50mila euro. Nonostante l’imponente lavoro lanciato in Africa, Juncker non vuole rinunciare alla riforma di Dublino e la scorsa settimana ha proposto una road map per portarla a casa a giugno suggerendo anche di depotenziare le quote, rendendole volontarie in tempi di flussi normali e obbligatorie solo in caso di emergenze. Ma nemmeno questa proposta piace ai governi dell’Est e a Tusk, sul dossier da sempre con loro (a Bruxelles ancora si ricorda un litigio a porte chiuse con Renzi nel giugno 2015) nonostante sia l’acerrimo nemico del governo di Varsavia e del suo dominus politico, Jaroslaw Kaczynski. Ieri il sottosegretario alle Politiche Ue, Sandro Gozi, ha bocciato Tusk definendolo “presidente in cerca d’autore”. Lo stesso Gentiloni ha ricordato che domani “sulle politiche migratorie l’Italia si presenterà al Consiglio europeo a testa alta”. Migranti. Perché il piano dell’Onu in Libia non funziona di Guido Viale Il Manifesto, 13 dicembre 2017 L’Oim calcola dai 700mila a 1 mln i migranti prigionieri in Libia. Da 37 a 50 mld il costo per evacuarli. E verso dove? I respingimenti aumentano solo morti e violenze. Nei prossimi mesi l’Organizzazione internazionale delle migrazioni, agenzia dell’Onu, evacuerà (se ci riesce) 15mila profughi detenuti nella Libia di Serraj. Costo previsto, 80 milioni: 5.300 euro a testa. L’Oim calcola che imbottigliati o imprigionati ci siano da 700mila a un milione di migranti. Evacuarli tutti costerebbe dunque da 37 a 50 miliardi. Ma a quei profughi il viaggio è costato spesso anche di più, con i riscatti pagati dalle famiglie per salvare quelli di loro sotto tortura. Drammatiche somme, a cui vanno aggiunti i 660mila profughi sbarcati in Italia dal 2013. Tutto questo ci dà la misura del drenaggio dai paesi di origine: a beneficio di mafie e bande armate. Ma per raggiungere e rimpatriare tutti quei prigionieri bisognerebbe fare un’altra guerra: contro le centinaia di bande a cui la precedente guerra contro Gheddafi ha consegnato il paese. I trasferimenti, assicura l’Oim, saranno volontari. Ovvio: ma verso dove? Di 50mila, considerati profughi perché provenienti da Stati “insicuri” (Somalia ed Eritrea), di occuperà l’Unhcr: destinazione, uno Stato dell’Unione europea; ma nessuno li vuole. Tutti gli altri, considerati “migranti economici”, perché provenienti da Stati considerati “sicuri”, anche se attraversati da conflitti sanguinosi (in alcuni casi combattuti anche da truppe europee), dovrebbero venir rispediti in quei paesi da cui sono scappati. E che ne faranno, di quei loro sudditi, i governi a cui l’Oim li vorrebbe restituire? Nei 5.300 euro è compreso, in teoria, anche il costo del loro reinsediamento e del loro avviamento al lavoro. E con quali programmi? Quelli spacciati dall’Unione europea, il migration compact di Renzi, l’action plan della conferenza de La Valletta, il “piano Marshall per l’Africa” ventilato ad Abidjan. Tutti piani che hanno per referenti delle multinazionali (Renzi, per esempio, indicava esplicitamente Eni ed Edf, impegnate nella devastazione, rispettivamente, di Nigeria e Niger): per trasferire attività industriali, costruire infrastrutture, “valorizzare” risorse locali: cioè continuare a saccheggiare quei territori come hanno fatto finora; e come la Cina sta dimostrando di saper fare molto meglio. Tutto ciò, anche se venisse fatto, non cambierebbe le ragioni che spingono milioni di persone a fuggire dalle loro case, migrando in gran parte non verso l’Europa, ma verso altre regioni o altri Stati africani confinanti. Più facile che quei fondi vengano impiegati nella costruzione di nuovi campi di concentramento, trasferendo più a sud una parte degli orrori della Libia. Per risanare quelle terre e quelle comunità non ci vogliono “grandi opere”, ma nuovi protagonisti: abitanti e comunità locali messe in grado di intervenire, con lavori di bonifica, risanamento e pacificazione, su territori e tessuti sociali che loro conoscono bene, perché vi hanno vissuto per centinaia di anni. Magari aiutati da qualche scaglione di migranti desiderosi di ritornare nei paesi che hanno lasciato, dopo qualche anno o decennio passato in Europa, e con bagagli di conoscenze, relazioni e professionalità acquisite nell’emigrazione. Tutto ciò, a condizione che torni la pace in quei territori; che vuol dire: smettere e impedire di vendere armi a chi sta facendo la guerra e mettere i cittadini espatriati di quei paesi in grado di organizzarsi e di mettere a punto dei piani di pacificazione dei territori da cui sono fuggiti, invece di trattarli come intrusi e scarti umani. Nessuno è più pacifico di chi fugge da una guerra; nessuno sa affrontare meglio i problemi di un ritorno a una convivenza pacifica tra i nemici di ieri. Forse che molti dei profughi siriani non sarebbero capaci di partecipare alla ricostruzione del loro paese? I governi europei non hanno una strategia perché non sanno più dare lavoro, casa e servizi nemmeno a un numero crescente di loro concittadini; e perché sono tutti lanciati all’inseguimento delle forze di destra e razziste che del respingimento hanno fatto la loro sirena elettorale. Ma quei respingimenti tanto invocati e mai spiegati non funzionano: li ha messi in pratica Minniti, con il plauso di Salvini, Meloni e dei loro seguaci; e si è visto che non risolvono niente: aumentano solo i morti e le violenze. Chi invece si schiera per l’accoglienza cerca spesso di rendere accettabile questa scelta ridimensionando il fenomeno: in fin dei conti “sono pochi”, l’Europa avrebbe tutte le possibilità, e anche l’interesse, a integrarli. Sono sì pochi; ma sono l’avanguardia e la manifestazione di un processo epocale. I profughi ambientali e climatici, e le vittime delle guerre provocate da quei dissesti, non sono pochi; sono milioni; e saranno sempre di più; e nessuno riuscirà a fermarli. Per questo si deve e si può lavorare alla loro accoglienza e inclusione, ma anche per mettere in condizione quelli che lo desiderano di far ritorno nel loro paesi. A rispondere a un problema che è di ordine secolare può contribuire solo la consapevolezza che l’Europa, il Medioriente e l’Africa centro-settentrionale sono ormai un unico mondo con al centro il Mediterraneo; e che è interesse di tutti garantire una libera circolazione. In modo che, dopo un periodo più o meno lungo di permanenza all’estero, tutti, profughi e migranti, di ieri, di oggi e di domani, siano messi in grado di ritornare, se vogliono, nelle loro terre. E viceversa. Abbiamo anche tanto da imparare da popoli e culture che continuiamo invece a trattare come se fossero ancora delle colonie. Olanda. A L’Aja il carcere modello che ospitò Milosevic e Mladic di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 dicembre 2017 Costruito negli anni 90 ha celle singole attrezzate di 15 mq, piscina, biblioteca, sala computer. ma anche nel penitenziario olandese non sono mancati casi di suicidio. Il più famoso è stato quello dell’ex leader dei serbi di Croazia Milan Babic nel 2006. Nel cuore dell’Europa esiste un carcere modello per il rispetto dei diritti dei detenuti, anche nei confronti di chi è accusato del male dei mali: genocidio. Notizia del mese scorso è che il tribunale Onu dell’Aja ha condannato all’ ergastolo l’ ex comandante serbo bosniaco Ratko Mladic con l’ accusa di genocidio e crimini contro l’ umanità per aver orchestrato il massacro e la pulizia etnica dei musulmani durante la guerra in Bosnia. Ma dov’è stato recluso, finora, in attesa di giudizio? Nel primo carcere delle Nazioni Unite nella storia del mondo costruito a metà degli anni 90. Sorge esattamente al centro di Scheveningen, la zona marittima della città de L’Aja, nei Paesi Bassi, dal cui centro dista sei chilometri circa. Vi si arriva percorrendo un lungo viale alberato chiamato Scheveningseweg, che passa vicino al Tribunale Penale Internazionale e, appunto, al carcere targato Onu. Parliamo di un penitenziario modello. Ci sono celle singole di 15 metri quadrati, con bagno doccia, tv satellitare, scrivania. Gli spazi comuni comprendono: piscina, cucina, palestra, sala computer, biblioteca, sala giochi e tra le attività possibili annoverano corsi di inglese e pittura. Esiste una sala spiritualità e un’altra ancora per l’intimità. Le telefonate, controllate, sono di sette minuti al giorno: ricordiamo che nelle carceri italiane non esiste il diritto all’intimità, le telefonate durano 10 minuti a settimana, non sono sempre attrezzate di sale e i detenuti vivono in uno spazio non più grande di 3 metri quadrati. Gli agenti penitenziari che operano nel carcere internazionale, portano il basco blu dell’Onu e sono stati addestrati per mantenere un rapporto equilibrato e costruttivo con i detenuti. Un carcere, quindi, all’avanguardia, ma che non è immune dalle morti. Alcuni per malattie gravi, altri per suicidio. I nomi eccellenti però sono due: Slobodan Milosevic e Milan Babic. Il primo era morto di malattia e il secondo si era ammazzato. Due morti avvenute nel giro di una settimana dello stesso anno, il 2006. L’ex presidente jugoslavo Slobodan Milosevic era alla sbarra per crimini di guerra e genocidio. Il processo che doveva fare giustizia sulle più atroci violazioni dei diritti umani compiute in Europa dal 1945 si era aperto davanti alla Corte internazionale dell’Aja nel febbraio 2002 ma, interrotto a più riprese a causa delle sue condizioni di salute, stava finendo in una farsa. Milosevic da tempo soffriva di cuore e aveva gravi problemi di ipertensione che avevano portato più volte alla sospensione del dibattimento. Milan Babic, invece, ex leader dei serbi di Croazia si era suicidato. Cinquant’anni appena compiuti, stava scontando un verdetto a 13 anni di reclusione inflittogli in primo grado nel 2004 e confermato in appello nel 2005. Conseguenza diretta di una vicenda pubblica e personale cominciata a inizio anni 90, quando da dentista di provincia, qual era, Babic aveva scelto di lanciarsi nell’agone politico sullo sfondo delle tensioni che annunciavano la cruenta dissoluzione della Jugoslavia. Nazionalista militante, si impone subito come primo presidente della repubblica serba di Krajina, autoproclamatasi indipendente nel 1991 dopo il voto col quale la Croazia segna il proprio divorzio da Belgrado. Fino al 1992 è di fatto la longa manus in territorio croato del regime di Slobodan Milosevic, che tuttavia lo destituisce temporaneamente quando Babic si rifiuta di accettare il piano di tregua dell’ex segretario di Stato Usa Cyrus Vence. Torna in sella nel luglio del 1994, ma alla fine è costretto a fuggire a Belgrado mentre le forze croate scatenano la controffensiva ( denominata Operazione Tempesta) destinata a sfociare nella vittoria finale nell’agosto 1995. L’incriminazione da parte della procura del Tribunale internazionale arriva otto anni più tardi, nel 2003. Babic si consegna spontaneamente all’Aja. Al processo si dichiara colpevole di aver “partecipato a persecuzioni del peggior tipo contro persone colpite soltanto perché croate e non serbe”. Dinanzi ai giudici esprime “vergogna e pentimento”, ammette che nella Krajina “gente innocente è stata perseguitata, cacciata dalla propria casa con la forza” e talora “uccisa”. Iran. Caso Djalali, Manconi: “Violate tutte le garanzie della difesa” di Luigi Manconi* Il Manifesto, 13 dicembre 2017 Allo scienziato iraniano condannato a morte con l’accusa di aver collaborato con un governo ostile è stato negato il ricorso in appello, pur previsto dall’ordinamento interno. Seguo da tempo, unitamente alla senatrice Elena Ferrara, la vicenda relativa al ricercatore iraniano Ahmadreza Djalali esperto a livello internazionale di medicina delle catastrofi, ben noto anche in Italia per aver a lungo collaborato con l’università del Piemonte orientale, condannato a morte in Iran per spionaggio alla fine di ottobre.. Da un anno abbiamo evidenziato le costanti e plateali violazioni delle garanzie giudiziarie e dei diritti processuali subite da Djalali. E abbiamo incontrato l’ambasciatore iraniano in Italia, evidenziando come si sia in presenza di una questione umanitaria a livello internazionale, per la quale si sono mobilitate istituzioni accademiche e autorità statuali della Svezia e di molti altri paesi europei; e sono intervenuti la stessa Ue e l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, mentre venivano raccolte decine di migliaia di firme e si mobilitavano centinaia di parlamentari italiani ed europei. Tutto, oggi, sembra esser reso vano dalle informazioni giunte in queste ore dall’Iran e da una notizia non smentita, secondo la quale non sarebbe stata consentita la presentazione del ricorso in appello pur previsto dall’ordinamento iraniano. È un fatto di gravità inaudita, tenuto conto che il processo ad Ahmadreza Djalali si è svolto senza alcun rispetto per le minime garanzie e per i più elementari diritti richiesti da un sistema giuridico degno di questo nome. *Presidente della Commissione diritti umani del Senato Tailandia. Rischia 15 anni di carcere per aver commentato una battaglia del XVI secolo di Riccardo Noury Corriere della Sera, 13 dicembre 2017 La vicenda che state per leggere è tra le più assurde in cui mi sia imbattuto. Potrebbe essere archiviata con un sorriso se non fosse che c’è in gioco una condanna fino a 15 anni di carcere. Sulak Sivaraksa è uno storico thailandese di 85 anni. Ha scritto decine di libri e di saggi sulla cultura, la società, la religione e - per l’appunto - la storia della Tailandia. Il 5 ottobre 2014, durante un seminario all’università Thammasat di Bangkok, Sivaraksa ha messo in discussione la versione ufficiale della battaglia degli elefanti tra il re thailandese Naresuan e il principe birmano Mingyi Swa. L’anno della battaglia? Il 1593. Nonostante da quei fatti siano trascorsi qualcosa come 424 anni, Sivaraksa rischia 15 anni di carcere per violazione dell’articolo 112 del codice penale, che considera reato di “lesa maestà” ogni azione o parola che “diffami, insulti o minacci il re, la regina, gli eredi al trono o il reggente”. Non si citano i sovrani di quattro secoli prima, ma evidentemente poco importa. In questo blog (ad esempio, qui e qui) abbiamo raccontato altre storie di applicazione paradossale e crudele della legge sulla “lesa maestà”. Un’applicazione che risulta in aumento dal colpo di stato del 2014. Il relatore speciale delle Nazioni Unite sulla libertà d’espressione e numerose organizzazioni per i diritti umani continuano a chiedere l’abrogazione di quella norma, che criminalizza la libertà d’espressione.