Riforma carceri. Orlando: “Decreti attuativi in Consiglio ministri entro due settimane” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 dicembre 2017 L’approvazione della riforma dell’ordinamento penitenziario è sempre più vicina. Secondo il ministro della Giustizia Andrea Orlando, i decreti attuativi della riforma dovrebbero arrivare sul tavolo del Consiglio dei ministri entro queste due settimane. Lo ha detto prima di recarsi al carcere fiorentino di Sollicciano, dove nel pomeriggio si è tenuta una seduta straordinaria del Consiglio comunale organizzata grazie al contributo dell’associazione del partito radicale “Andrea Tamburi”. Sempre nella giornata di ieri, l’ufficio del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, ha inviato al ministro della Giustizia il proprio parere articolato e dettagliato sull’ultima parte dei decreti relativi al sistema delle misure di sicurezza. In apertura della sua analisi. Il Garante ha ritenuto doveroso evidenziare alcune perplessità legate alla stessa legge di delega - quale il mantenimento del sistema del “doppio binario” della pena e delle misure di sicurezza o il rischio di far saltare l’impostazione del sistema Rems, attuato dopo la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari, fondato sulla previsione di strutture esclusivamente rivolte a persone non imputabili. Ha tuttavia apprezzato le soluzioni ricercate in linea con la volontà ben espressa nella Relazione introduttiva di evitare automatismi, di dare contenuto positivo alle misure stesse e di fissare limiti in base al principio del “minore sacrificio possibile”. Il Garante nazionale esprime soddisfazione per la rinnovata collaborazione con il ministero della Giustizia; collaborazione che nell’analisi dello schema di decreto ha trovato un fecondo terreno di scambio. Ora tutta la prima parte del lavoro è conclusa. I decreti dovranno essere messi all’ordine del giorno del Consiglio dei ministri, dopodiché dovranno essere visionati dalle Commissioni giustizia di Camera e Senato, per poi avere l’approvazione definitiva della riforma. La protesta dei penalisti contro le carenze del nostro sistema penitenziario di Riccardo Polidoro* camerepenali.it, 12 dicembre 2017 Il resoconto della giornata di protesta. Parte dalle Camere Penali del Distretto della Corte di Appello di Napoli, la protesta dei penalisti per le carenze del nostro sistema penitenziario. Una marcia che, dal Palazzo di giustizia, ha portato gli Avvocati fino a Poggioreale, per manifestare il loro dissenso verso la continua emergenza. L’iniziativa è stata fatta propria dall’Osservatorio Carcere dell’U.C.P.I. che ha sollecitato le altre Camere Penali a mobilitarsi affinché le manifestazioni fossero replicate negli altri Distretti. Moltissime Camere Penali hanno aderito e la situazione, a livello nazionale è davvero preoccupante. Al 30 novembre 2017, sono 58.115 i detenuti nelle carceri italiane, a fronte di una capienza regolamentare di 50.511 unità. Ci sono quindi circa 8.000 detenuti in più. In attesa di primo giudizio, vi sono 10.074 detenuti in custodia cautelare. I detenuti “condannati non definitivi” sono 10.239. Per un totale di 20.313 detenuti “presunti innocenti”. In Campania, ci sono 6.135 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare dei 15 istituti di 7.321 unità. Circa 1.200 detenuti in più. (Dati Dipartimento Amministrazione Penitenziaria al 30 novembre 2017). Il sovraffollamento, unita alla cronica mancanza di personale e alla fatiscenza delle strutture non consente alcuna attività di “rieducazione” e la maggior parte dei detenuti è ristretto in condizioni disumane e degradanti. I Tribunali di Sorveglianza. A Napoli ed in molte Corti di Appello, sono in affanno per disfunzioni organizzative. Tale circostanza non consente ai detenuti che ne avrebbero dirotto di usufruire di misure alternative, permessi e addirittura della liberazione anticipata. Quest’ultima, a volte, viene concessa quando il detenuto è già uscito. A Napoli, le gravissime e croniche disfunzioni del tribunale di sorveglianza, costringono gli Avvocati ad espletare il proprio mandato in condizioni mortificanti che pregiudicano significativamente il diritto di difesa dei detenuti. Inutili e senza esito sono state le richieste di un’ispezione straordinaria, mentre la situazione peggiora di giorno in giorno, fino a giungere recentemente ad un avviso affisso fuori l’aula di udienza che comunicava, senza specificarne le ragioni, l’annullamento di ben 11 udienze collegiali. A ciò si aggiungano i ritardi con cui vengono decise le istanze di misure alternative e quelle di liberazione anticipata, le estenuanti file a cui sono costretti gli Avvocati per avere notizie, con tempi di attesa medi pari ad un’ora e trenta minuti. A Milano, per denunciare la “situazione grave” in cui si trovano gli Uffici e i Tribunali di Sorveglianza di tutta Italia, come quello milanese che ha un arretrato da smaltire di oltre 26 mila fascicoli a fronte di magistrati e personale sotto organico, e le carceri dove il sovraffollamento sta sfiorando livelli “altissimi”. Questa mattina in una conferenza stampa al Palagiustizia di Milano è stato di nuovo lanciato l’allarme per una situazione che vede, come a Como, il triste primato del carcere che ha un sovraffollamento del 194,8% e “persone che per questioni amministrative non vengono scarcerate anche se ne avrebbero il diritto - ha spiegato l’avvocato Paolo Campanini, presidente della Camera Penale della città lariana -. E questo perché - ha proseguito - a stendere le relazioni sui detenuti da allegare alle istanze di misure alternative o liberazione anticipata” è rimasto un solo educatore. “Gli altri tre se ne sono andati”. Monica Gambirasio, presidente delle Camere Penali di Milano, ha spiegato che la “preoccupazione è alta” per la situazione del Tribunale di Sorveglianza del capoluogo lombardo che porterà “grande disagio sulla popolazione carceraria che non vede risposta alle proprie legittime istanze” e al contempo “assiste ad un drammatico peggioramento delle proprie condizioni di vita. Le persone condannate, poi, devono attendere due anni e oltre per essere ammesse alle misure alternative”. Anche la Camera Penale di Venezia ha aderito all’iniziativa. Per quanto riguarda gli istituti penitenziari veneziani, attualmente a S. Maria Maggiore (maschile) sono presenti 230 detenuti (114 in attesa di giudizio, 116 in esecuzione pena) a fronte di una capienza regolamentare di 163; alla Giudecca (femminile) sono 78 le detenute su una capienza di 115, ma i dati significativi riguardano la percentuale delle straniere (80%) ed il numero delle detenute in esecuzione pena (61). Una situazione francamente intollerabile tanto per i detenuti quanto per il personale penitenziario. Nel distretto di Venezia, le carenze del Tribunale di Sorveglianza riguardano tanto il personale amministrativo (rimangono sistematicamente scoperti i posti di quanti vanno in pensione), quanto il numero dei magistrati in servizio. In particolare, all’Ufficio di Sorveglianza di Venezia, su una previsione ministeriale di tre magistrati (per gli istituti di Venezia, Treviso e Belluno e per le misure alternative nelle tre province), vi è attualmente un solo magistrato effettivo ed un magistrato applicato sino al prossimo aprile, distaccato dall’Ufficio di Sorveglianza di Padova, rimasto così sguarnito di un’unità nonostante le importanti esigenze di quel territorio. Il posto scoperto del terzo magistrato incide negativamente soprattutto sui tempi delle decisioni in materia di applicazione provvisoria delle misure alternative e della legge 199 (esecuzione della pena presso il domicilio), alterando la funzione deflativa assegnata a tali misure. I tempi per la celebrazione delle udienze relative alle misure alternative richieste da condannati in stato di libertà hanno subito un inevitabile allungamento (da un minimo di 6 mesi ad 1 anno di attesa all’incirca), mentre le udienze per le misure alternative richieste dai detenuti vengono fissate entro un paio di mesi quando è in esecuzione una pena con scadenza ravvicinata, ovvero almeno entro 5/6 mesi dalla domanda quando la pena in esecuzione è di più lunga scadenza. La situazione più critica è senza dubbio quella da tempo denunciata dagli assistenti sociali dell’Ufficio Esecuzione Penale Esterna, competente per l’esecuzione delle misure alternative disposte dalla magistratura di sorveglianza oltreché ai sensi della legge 67/2014, per la messa alla prova disposta dai giudici ordinari. I numeri delle misure alternative e della messa alla prova sono in crescita: a livello nazionale, complessivamente a dicembre 2016 erano circa 43.000, saliti a novembre 2017 a circa 47.000, di cui ben 10.000 in messa alla prova. Tutto senza alcun potenziamento degli organici U.E.P.E.. La legge 67/2014 prevedeva a 6 mesi dall’entrata in vigore una verifica sul fabbisogno del personale, ma così non è stato e a distanza di oltre 3 anni non è ancora previsto un concorso per funzionari di servizio sociale e solo nel 2017 sono stati reclutati alcuni esperti di servizio sociale a rapporto professionale e senza alcuna formazione specifica. Le molteplici difficoltà organizzative dell’U.E.P.E. Venezia (es.: vi è una sola auto di servizio per provincia ma un solo agente autorizzato alla guida; il dirigente dell’U.E.P.E. Venezia, con funzione di coordinamento di tutti gli U.E.P.E. del Triveneto, è al contempo direttore della Casa Circondariale di Venezia), le insufficienti risorse di personale, la tendenza degli Enti locali a non rinnovare la convenzione con il Tribunale ordinario per i lavori di pubblica utilità sono criticità che rischiano di condurre al fallimento delle CD. Misure di comunità. Nella situazione attuale, infatti, da un lato è difficile garantire la presenza in carcere di assistenti sociali U.E.P.E. per l’elaborazione dei progetti a sostegno delle misure alternative per i detenuti, d’altro lato, la frustrazione della messa alla prova e dei lavori di pubblica utilità costituisce un ritorno inaccettabile alla prospettiva del carcere, come unica sanzione. L’Osservatorio Carcere sta raccogliendo i dati di tutti i Distretti, per la richiesta di urgenti ispezioni e provvedimenti urgenti. *Avvocato, Responsabile dell’Osservatorio Carcere dell’Ucpi Altri tre suicidi: due detenuti e un agente. L’Italia maglia nera per le morti in cella di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 dicembre 2017 Secondo i dati comparati del Consiglio d’Europa tra i cittadini liberi e i reclusi abbiamo la percentuale più alta. Ritorna con prepotenza l’emergenza dei suicidi in carcere. Venerdì si è impiccato nella propria cella del carcere romano di Regina Coeli un 60enne imputato per ricettazione. Il giorno dopo, sabato, si è impiccato un marocchino di 36 anni ristretto nel carcere di Terni. A soccorrerlo il personale di polizia penitenziaria, ma l’uomo riversava già in gravissime condizioni. Trasportato d’urgenza all’ospedale Santa Maria di Terni da un’ambulanza con auto medica al seguito, è stato ricoverato in rianimazione, ma nella notte è morto. Il detenuto era ristretto in isolamento, perché avrebbe aggredito un agente penitenziario. Alle tre di notte dello stesso giorno, invece, si è sparato in testa un agente penitenziario nella portineria del carcere padovano di Tolmezzo. Era un assistente capo di 51 anni, tra i più anziani del carcere. Come se non bastasse, giovedì scorso, una transessuale peruviana di trentadue anni, stufa delle condizioni di isolamento che è costretta a vivere all’interno del carcere di Rimini, ha tentato il suicidio in segno di protesta, ingerendosi una boccetta di acetone per smalto. Ancora non è fuori pericolo ed è in reparto di rianimazione dell’ospedale “Infermi” di Rimini. Nelle carceri si uccidono sia i detenuti che gli operatori che ci lavorano. Siamo giunti a 49 ristretti suicidati dall’inizio dell’anno (ufficialmente risultano di meno, ma non vengono considerati i detenuti che muoiono in ospedale dopo aver tentato il suicidio o che si sono suicidati in permesso premio) e - secondo i dati dell’associazione Antigone - negli ultimi tre anni sono stati 56 gli agenti che si sono tolti la vita. Un numero impressionante se rapportato con la società libera. Non ci sono studi recentissimi che hanno elaborato un rapporto tra il tasso di suicidi in carcere e quello esterno. Abbiamo però a disposizione uno studio di comparazione dei tassi di suicidio fra i cittadini liberi e quelli reclusi elaborato dal Consiglio d’Europa che copre un arco temporale tra il 1993 e il 2010: risulta che in Italia, il carcere è un luogo dove il rischio che si verifichi un suicidio è tra le 9 e le 21 volte superiore rispetto all’esterno. I dati elaborati, inoltre, hanno anche dimostrato come, fra la popolazione libera, negli ultimi 20 anni i tassi di suicidi realizzati diminuiscono progressivamente, passando dallo 0,80 ogni 10.000 abitanti del 1993 al- lo 0,51 del 2010. Si tratta di una diminuzione netta e progressiva che avviene soprattutto nel decennio 1993- 2005, con una stabilizzazione negli ultimi 5 anni di rilevazione. Ciò non accade però in carcere. Le variazioni dei tassi di suicidio fra i detenuti, anche solo da un anno all’altro, appaiono assai significative: tali oscillazioni determinano che proprio negli ultimi anni, con la punta massima del 2007, si sia accentuata la forbice fra il carcere e il mondo esterno. Suicidi che negli ultimi anni sono sempre più frequenti, così come il trend del sovraffollamento risulta in esponenziale aumento. Come mai queste criticità sono in ripresa? Secondo Emilia Rossi, membro dell’ufficio del Garante nazionale dei detenuti, il discorso dei suicidi ha una sua complessità. “Ho osservato con attenzione questa nuova ripresa dei suicidi - spiega Emilia Rossi al Dubbio, ma dobbiamo essere sempre cauti nelle valutazioni, perché ci sono profili che attengono all’intimità umana che sono difficili da sondare. Anche perché - sottolinea - ci sono casi di ristretti che si uccidono nonostante vivano in ambienti dove non c’è un particolare sovraffollamento”. Come garanti valuteranno caso per caso e, infatti, Emilia Rossi ricorda che continueranno a presentare alle Procure che fanno le inchieste sui suicidi, la loro dichiarazione come persona offesa, in modo di essere a conoscenza dell’eventuale emersione di cattiva gestione che conduce al suicidio. “Molto importante - aggiunge Emilia Rossi - è la direttiva del ministro che punta all’attenzione individuale dei momenti critici coinvolgendo tutti gli operatori del carcere, dagli agenti penitenziari alle figure professionali socio- sanitarie. In alcune carceri - spiega - c’è stato un investimento delle risorse sanitarie, ma questo dipende dalla volontà del servizio sanitario che non risponde all’amministrazione penitenziaria”. Figure importanti, perché il carcere è una struttura che fa ammalare non solo fisicamente, ma anche mentalmente. “Proprio per questo - spiega Emilia Rossi - non credo che debba stupire il fatto che ci si suicidi più in carcere che fuori”. Per quanto riguarda la ripresa del sovraffollamento, il membro dell’ufficio del Garante spiega che diversi sono i fattori che lo causano. “Non solo perché sono esaurite le misure deflattive del passato - spiega Emilia Rossi, ma anche perché quelle attuali sono poco applicate, soprattutto nei confronti della popolazione detenuta straniera che non può usufruire di pene alternative non avendo un lavoro o un proprio domicilio. Ma in questa prospettiva - aggiunge - un miglioramento serio dovrebbe arrivare dall’approvazione della riforma dell’ordinamento penitenziario”. Raggiunta da Il Dubbio anche Rita Bernardini della presidenza del Partito Radicale, reduce da una manifestazione organizzata dalla camera penale di Napoli per i diritti dei detenuti. In merito al sovraffollamento denuncia una disparità sul metodo risarcitorio contemplato dall’articolo 35- ter introdotto dopo la sentenza Torreggiani. “Accade spesso - denuncia Rita Bernardini - che i detenuti, trovandosi nella stessa cella dove c’è una condizione disumana e degradante, hanno magistrati di sorveglianza diversi che prendono la decisione sul risarcimento: a seconda il magistrato che gli capita, alcuni vengono risarciti, altri invece no”. Una situazione, quindi, che evidenza l’arbitrarietà delle decisioni. Riforma delle intercettazioni, scompare il “muro” per i difensori di Errico Novi Il Dubbio, 12 dicembre 2017 Nella versione finale del Decreto recepiti i rilievi di Anm e avvocatura. il testo che Orlando proporrà a Palazzo Chigi dovrebbe sancire la trascrivibilità di tutti i brani: i legali potranno farne copia e avranno più tempo per consultarli. La stretta c’è. Ma nel decreto sulle intercettazioni cambiano diverse cose. O quanto meno, l’intenzione del ministro della Giustizia Andrea Orlando sarebbe quella di accogliere gran parte delle richieste avanzate sia dall’avvocatura che dai magistrati, pur senza rinunciare alla tutela della privacy. A pochi giorni dal Consiglio dei ministri che emanerà la versione definitiva del provvedimento (in ogni caso prima di Natale), sembra dunque in vista un accantonamento del divieto di trascrivere i brani. Non dovrebbe essere più la polizia giudiziaria a operare di fatto una prima, severa selezione del materiale. Tutto verrebbe in ogni caso trascritto, in modo che il pm possa poi decidere quali telefonate (o messaggi, o captazioni ambientali) utilizzare per le misure cautelari e, in generale, nelle indagini. Non solo. Perché è chiaro che trasferire tutto su carta consentirà anche agli avvocati di poter individuare più facilmente a loro volta quei brani eventualmente utili alla difesa. Non a caso il divieto di trascrivere gli “ascolti” sensibili dal punto di vista della privacy (o irrilevanti per i fatti oggetto di prova) aveva provocato il dissenso non solo dell’Anm e di diversi procuratori capo, ma anche del Cnf e dell’Unione Camere penali. Secondo la versione finale del decreto intercettazioni, quindi, le difese potranno consultare fin da subito su carta le comunicazioni per le quali il pm ha presentato al giudice richiesta di acquisizione. E non dovrebbero avere appena 5 giorni di tempo per verificare il materiale ma almeno il doppio: 10 giorni di norma, che il giudice potrà prorogare fino a 30, su richiesta. C’è un’ulteriore e importante novità, relativa sempre alla fase di consultazione, da parte degli avvocati, delle comunicazioni raccolte: potranno essere acquisite fin da subito copie sia delle trascrizioni che dei file audio, anche per il materiale in prima battuta escluso dal pm perché ritenuto irrilevante o inutilizzabile. Cade forse il muro più importante: quello del pregiudizio secondo cui sarebbero stati proprio i legali a poter far filtrare all’esterno i brani acquisiti dalla Procura. Da chiarire se, qualora trapeli all’esterno qualcuno di quei brani che il pm non ha ritenuto di inserire nel fascicolo, i difensori possano trovarsi a rispondere del reato di rivelazione del segreto d’ufficio. Eventualmente, lo sarebbero al pari di magistrati, cancellieri e agenti di polizia. Sempre che la Procura competente decida di avviare un’indagine sulla fuga di notizie. Da quanto si apprende, dunque, Orlando avrebbe deciso di accogliere quelle obiezioni di toghe e avvocatura in gran parte fatte proprie dalle commissioni Giustizia di Camera e Senato. La settimana scorsa, come anticipato da Repubblica, deputati e senatori hanno approvato i rispettivi pareri, che non sono vincolanti per l’esecutivo, visto che si tratta di decreti delegati, ma che hanno un loro peso: il governo può discostarsene ma deve motivare la scelta, e in ogni caso quei documenti conservano un rilievo per eventuali eccezioni di costituzionalità. Cosa resta dunque dell’originario schema della legge delega, tutto mirato a evitare che le vite delle persone finissero spiattellate sui giornali? Non dovrebbe essere cancellato il cosiddetto archivio segreto, in cui confluiscono i flussi di comunicazioni ritenute irrilevanti dal pm. Ma soprattutto, restano in piedi le modifiche agli articoli 291 e 292 del Codice di procedura penale: sono i passaggi della riforma in cui si prescrive che “nella richiesta” di misure cautelari presentata dal pm al gip “sono riprodotti soltanto i brani essenziali delle comunicazioni intercettate”; e che, analogamente, il gip, nell’ordinanza, riproduce solo quelle comunicazioni che contengono i passaggi indispensabili a giustificare eventuali misure. Resta fuori dagli atti il cosiddetto “contesto”: tutte quelle intercettazioni che il più delle volte servono solo a compromettere l’immagine pubblica delle persone. Da valutare la perseguibilità dei giornalisti e delle testate che dovessero comunque venire in possesso di brani destinati a restare segreti, non inclusi nelle richieste o nelle ordinanze dei magistrati, né accolte dal giudice nel fascicolo. Difficile che gli operatori dell’informazione possano rispondere di rivelazione del segreto. Un reato non bagatellare, punibile con pena fino a 3 anni di carcere, ma che il Codice “cuce addosso” ai pubblici ufficiali e a chi è incaricato di un pubblico servizio. Certo è che adesso il campo delle persone sospettabili di aver passato le carte alla stampa si restringe. E che la gogna mediatica sarà almeno un po’ più difficile da approntare. Estensione del rito sommario, se il problema della Giustizia diventa l’efficientismo di Giuseppe Sileci Il Sole 24 Ore, 12 dicembre 2017 La Commissione Giustizia della Camera ha approvato una serie di emendamenti al testo della legge di bilancio licenziata dal Senato. Tra questi vi è l’emendamento 4768/II/1.11. (Bazoli) che estende il rito sommario di cognizione a tutte le cause in cui il Tribunale decide in composizione monocratica. Se l’emendamento in questione divenisse legge, il processo civile subirebbe una metamorfosi radicale perché, a prescindere dalla complessità o meno di ciascuna causa, sarebbe regolato da disposizioni che, pur essendo - in parte - già presenti nell’ordinamento processuale, erano state pensate per giudizi che non richiedevano una particolare attività istruttoria. Strapotere del giudice - Dunque si sostituirebbe il rito ordinario, che oggi consente ancora alle parti - nonostante le innumerevoli decadenze - di esercitare le loro difese ed al giudice di governare il processo, con un procedimento nel quale il potere del giudice sarebbe sterminato. Non a caso, la norma prevede che il magistrato “omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione rilevanti in relazione all’oggetto del provvedimento richiesto”. Termini brevi - Né pare priva di conseguenze la previsione di un termine estremamente breve per la costituzione del convenuto (tra l’udienza fissata dal giudice e la notifica del ricorso introduttivo devono intercorrere non meno di trenta giorni ma il convenuto deve costituirsi almeno dieci giorni prima) che, se poteva apparire congruo per le cause di pronta decisione (quelle, cioè, per le quali questo rito sommario era stato pensato ed introdotto nell’ordinamento), potrebbe non esserlo quando la parte evocata in giudizio debba articolare prove orali o comunque acquisire documenti che non siano nella sua diretta disponibilità, tanto più se l’oggetto della domanda non rientra tra quelle materie per le quali è obbligatorio il preventivo tentativo di conciliazione. Infine, non sembrano irrilevanti altre due disposizioni: quella che stabilisce in sessanta giorni il termine per l’appello (e lo fa decorrere dalla pronuncia in udienza della sentenza ovvero dalla sua comunicazione o notificazione) e quella che introduce una sanzione pecuniaria non inferiore al 5% e non superiore al 10% del valore della domanda (con un tetto massimo di € 30.000) nelle cause di risarcimento del danno alla persona in cui risulti che la parte che ha adito la giustizia abbia agito con dolo o colpa grave. In un sol colpo, infatti, si riducono drasticamente i tempi dell’appello e si scoraggia l’accesso alla giustizia in materia di risarcimento del danno alla persona attraverso la minaccia di una sanzione che appare ancora più discutibile se si pensa che dovrebbe applicarsi solo a determinate cause, con buona pace del principio di uguaglianza. Dubbio lo snellimento dei tempi - Ebbene, sorvolando sulla incomprensibile ostinazione della maggioranza di stravolgere il processo civile mediante uno strumento legislativo, la legge di bilancio, che ha tutt’altre finalità, una domanda - se potessimo - rivolgeremmo all’on. Avv. Alfredo Bazoli (che ha presentato l’emendamento) ed ai suoi colleghi della Commissione Giustizia della Camera che lo hanno approvato. La scelta di estendere il rito sommario a tutte le controversie di competenza del Tribunale in composizione monocratica è fondata su attendibili dati che dimostrano (dopo alcuni anni di sperimentazione di questo rito, la cui applicazione - sino ad oggi - è stata subordinata alla decisione delle parti ed alla sommarietà dell’attività istruttoria) tempi processuali più spediti? Sarebbe una domanda retorica, però, perché abbiamo motivo di credere che questi dati non esistano affatto. Sul sito del Ministero le ultime rilevazioni statistiche sulla giustizia civile si fermano al 2012 e non vi si rinvengono informazioni sul “processo sommario di cognizione”; è anche pubblicata una ricerca - effettuata nel 2015 dall’Osservatorio per il monitoraggio degli effetti sull’economia delle riforme della giustizia - nella quale i dati relativi ai procedimenti civili sono estremamente generici. Dunque, si fatica a comprendere perché mai il rito sommario debba rappresentare la soluzione alla durata eccessiva dei processi civili e perché mai questo dovrebbe dare buona prova se - nonostante la riforma preveda espressamente che non saranno consentite udienze di mero rinvio - non è stabilito quanto possa essere lungo l’intervallo tra la presentazione del ricorso e la fissazione della prima udienza ovvero tra due udienze. Il Bengodi della Giustizia - In conclusione, sembra proprio che questo - ancora una volta - sia il solito espediente cui ricorrono le maggioranze di turno dal 1990, con cadenza annuale, nell’affannoso quanto inconcludente tentativo di contenere i tempi della giustizia a discapito, però, dei diritti dei cittadini ad un processo giusto, dove per giusto deve intendersi non solo un giudizio la cui durata sia ragionevole ma anche un processo nel quale i diritti siano tutelati e non esposti alla lotteria delle preclusioni e, da domani, ad una eccessiva discrezionalità del giudice, che - se approvata la riforma - potrà “procedere nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione rilevanti”. Ma c’è un’incognita che - forse - dovrebbe davvero preoccupare avvocati e magistrati, e cioè coloro ai quali la Costituzione ha affidato, sia pure con ruoli diversi, la funzione di dare attuazione all’art. 24: non è dato sapere, infatti, fino a dove è disposto a spingersi il legislatore, in nome di un efficientismo che rischia di essere un rimedio peggiore del male, pur di far credere all’Europa che l’Italia, in materia di giustizia, è il “paese di Bengodi”. Il Senatore Manconi: “Grazia a Dell’Utri? No, scarcerarlo è un dovere” di Rocco Vazzana Il Dubbio, 12 dicembre 2017 “Siamo di fronte a una violazione e ritengo opportuno richiedere il rispetto della legge e non un atto di clemenza”. “Marcello Dell’Utri non deve stare in carcere per una questione di “giustizia”. Il senatore Luigi Manconi, presidente della commissione Diritti umani, è uno dei pochi esponenti politici a non girare attorno alle parole sul caso. Dell’Utri continua il suo sciopero della fame e dice di non volere la grazia. Condivide questo approccio radicale dell’ex senatore di Forza Italia? Sì, lo condivido. E per un motivo essenziale: ritengo la grazia un importante istituto e non ne svaluto il significato. La grazia è parte dell’amministrazione della giustizia, non è una sua negazione, anzi. Una concezione equilibrata e ragionevole, ispirata al pensiero di Beccaria, prevede sia la pena che la sua sospensione, sia la severità della sanzione la rinuncia a essa, sia il rigore che l’indulgenza. E sia la certezza della pena che l’amnistia e l’indulto. Escludere dalla concezione e dalla pratica della pena la grazia o l’indulto significa darne una interpretazione unilaterale, rigida, concentrata sulla fissità e sull’afflizione: in altre parole, un’idea autoritaria e immobile della giustizia. Ma qui siamo in presenza di altro. Dunque, non è corretto ragionare sulla grazia perché la detenzione di Dell’Utri è ingiusta? Esattamente. In questo caso, a mio avviso, siamo di fronte a una violazione e ritengo opportuno richiedere il rispetto della legge e non un atto di clemenza. Il ripristino del rispetto della norma deve precedere l’eventuale e successiva richiesta della grazia. A stabilire la permanenza in carcere di Dell’Utri è stato un Tribunale. Come si può definire violazione la decisione di un’aula di giustizia? Ma l’amministrazione della giustizia è fatta di varie fasi e procedure. Rispetto alla esecuzione della pena - di questo parliamo - esiste una varietà di forme per la sua applicazione. E tra queste, in presenza di precise circostanze, è previsto il differimento attraverso la misura della detenzione domiciliare. È quanto prevede la legge in determinate condizioni, che ricorrono nel caso di Dell’Utri. Chi si oppone alla scarcerazione del cofondatore di Forza Italia utilizza spesso un argomento: perché si chiede un trattamento di favore per Dell’Utri e non si spende mai una parola per tutti gli altri detenuti “anonimi”? Ci si batte solo per i potenti? È da decenni che sento muovere questa critica. I garantisti intransigenti, alla cui schiera mi pregio di appartenere, sostengono che si debba adottare per tutti i detenuti lo stesso trattamento che oggi chiediamo per Dell’Utri, come ha affermato Rita Bernardini. Ma questa ragionevolissima impostazione, dalla quale nessuno può rimproverarmi di essermi mai discostato, dopo tanto tempo mi sta stretta. Perché la saggezza di questa linea rischia ogni volta di sortire un effetto esattamente opposto a quello sperato. Insomma, finisce che né Dell’Utri né gli altri detenuti escano dal carcere. Dall’altra parte, se fossimo tutti in buona fede, come io cerco di essere, dovremmo riconoscere che grazie a Dell’Utri, o a Enzo Tortora, o a qualsiasi altro nome noto si è ottenuta un po’ di attenzione nei confronti della moltitudine degli ignoti, quelli senza nome e senza notorietà. L’imminenza della campagna elettorale impedisce un ragionamento in “buona fede”? Mi sembra, piuttosto, che quell’ostacolo si ritrovi durante tutto l’anno e durante tutti gli anni. Pochi giorni fa Pierluigi Bersani ha dichiarato: “Che sia Dell’Utri, che sia Pincopallino, se uno è veramente nelle condizioni che vengono descritte non può essere lasciato in prigione. Esiste un concetto che si chiama umanità”. La stupisce questa posizione di uno dei leader di Liberi e Uguali? No, non mi stupisce affatto. Bersani ha mostrato spesso connotati non ortodossi, differenziandosi da quella che resta, in gran parte, la tradizionale culturale di sinistra che, come noto, è prevalentemente sostanzialista e antigarantista. La discesa in campo di un ex magistrato antimafia come Piero Grasso potrebbe essere un ulteriore passo indietro sul garantismo a sinistra? No, Grasso non appartiene a quella componente autoritaria della magistratura. Ha un’idea certamente molto severa della giustizia, ma in questi cinque anni di legislatura, e per quanto mi ricordi anche prima, si è sottratto all’orientamento antigarantista di tanta parte dei suoi colleghi. Io non ho aderito alla sua nuova formazione, ma riconosco che, da Presidente del Senato, ha fatto alcuni gesti interessanti. Ne ricordo uno che mi è sembrato davvero manifestazione di grande indipendenza: mi incaricò, pensate un po’, di rappresentare ufficialmente il Senato, in occasione della prima manifestazione nazionale di sinti e rom a Bologna. È meno garantista l’approccio dei suoi compagni di strada? Può sembrare un paradosso, ma direi di sì. L’avvocato Taormina “Tribunali di sorveglianza nel caos, chi sta male rischia di morire” di Luca Rocca Il Tempo, 12 dicembre 2017 Coi Tribunali di Sorveglianza (Tds) l’avvocato Carlo Taormina ha a che fare ogni giorno, e la sua esperienza lo porta a dire che quello di Roma è il più arroccato su posizioni di totale chiusura quando si tratta di concedere domiciliari o sospensione della pena ai detenuti magari gravemente malati, come nel caso di Marcello Dell’Utri, al quale ha negato la scarcerazione nonostante il parere favorevole di quasi tutti i medici. Intanto, avvocato Taormina, pensa sia giusto concedere la grazia a Dell’Utri? “Adesso c’è una situazione di immediatezza sulla quale intervenire, perché le condizioni di salute di Dell’Utri sono veramente gravi. Ciò non significa che, contemporaneamente, non si possa pensare anche ad una soluzione come la grazia, tenendo presente che Dell’Utri è stato condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, un reato inesistente nel codice penale”. Quando i consulenti nominati dal procuratore generale di Roma Pietro Giordano hanno scritto, nelle loro perizie, che Dell’Utri doveva essere scarcerato per andarsi a curare in strutture adeguate, il pg li ha ignorati avallando, al contrario, le conclusioni opposte dei periti del Tds. È consueto? “È molto strano. Ma il Tds di Roma ha una posizione giurisdizionale molto autoritaria. La mia esperienza mi porta a dire che siamo di fronte al Tds più chiuso d’Italia, dove esistono posizioni di assoluta indifferenza rispetto al detenuto. Da quando, ad esempio, decide sul 41bis in tutta Italia, non ha mai negato, che io ricordi, la sua applicazione. Questi vogliono campare tranquilli, come, evidentemente, lo stesso pg. Anche se Giordano è un ottimo magistrato, molto equilibrato. Purtroppo, il coraggio chi non ce l’ha non se lo può dare. Credo, però, che quello di Dell’Utri sia un caso sul quale la Cassazione potrebbe dare un contributo chiarificatore. Ma quando? Dell’Utri vive in una situazione di costante pericolo, e la Suprema Corte interverrà fra tre o quattro mesi. Potrebbe essere troppo tardi”. L’ex segretaria dei Radicali Italiani, Rita Bernardini, sostiene che i pg che ignorano il parere dei medici, arrogandosi il diritto, di fatto, di decretare la pena di morte di un detenuto, andrebbero denunciati. “Una strada complicata, non solo perché cane non morde cane, ma anche perché diranno che si tratta di valutazioni sulle quali non si può intervenire, perché la giurisdizione non può essere interessata da alcuna interferenza”. Ma per quale ragione il sistema dei Tds si è inceppato? “Abbiamo un ordinamento che prevede che i giudici che dichiarano la responsabilità di un imputato siano gli stessi che applicano la sanzione e la determinano, mentre in tutti gli ordinamenti anglosassoni, a cui noi, come processo, apparteniamo, c’è il cosiddetto “processo bifasico”, che prevede la fase in cui c’è un giudice che stabilisce se sei responsabile o meno, e la seconda fase, con un giudice diverso, che decide il trattamento sanzionatorio da applicare. In buona sostanza, i nostri Tds non stabiliscono la sanzione da applicare, perché davanti a loro si arriva quando è già stata determinata. Il loro compito, dunque, in molta parte è mortificato. Non a caso, i Tds sono considerati come giurisdizione di serie C. Eppure, noi abbiamo una Costituzione che ci obbliga alla riabilitazione della persona, allo scopo di farla uscire il prima possibile dal carcere per reinserirla nella società. Ma i Tds, che avrebbero questo compito, lo espletano in modo molto carente. Hanno tradito la loro missione”. C’è il rischio, come ha evidenziato l’avvocato Rosalba Di Gregorio, storico difensore di Bernardo Provenzano, che i Tds identifichino, ormai, la famosa “compatibilità” con la non imminenza della morte? “Sono pienamente d’accordo. Purtroppo, noi siamo un paese codardo nel quale prevalgono non solo le sentenze politicizzate ma anche il giustizialismo dei cittadini, che evocano sempre la durezza della pena, il buttare via le chiavi. Per cui, diamo anche un supporto a questa impostazione becera della giurisdizione di Sorveglianza”. Salute e incompatibilità con il carcere. Se il magistrato “diventa” anche medico di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 12 dicembre 2017 Un’analisi sul potere dei pm dopo il caso dell’ex senatore Marcello Dell’Utri. L’ultima parola spetta sempre alle toghe. Anche per quanto riguarda gli aspetti sanitari. Il rigetto da parte del Tribunale di sorveglianza di Roma dell’istanza presentata da Marcello Dell’Utri, finalizzata al riconoscimento dell’incompatibilità del regime carcerario per motivi di salute, ha messo in evidenza un’altra “particolarità” del sistema giudiziario italiano. Dell’Utri, in carcere ormai da oltre tre anni, aveva presentato ad aprile un’istanza di sospensione della pena per motivi di salute. L’ex senatore di Forza Italia, 76 anni compiuti, da tempo cardiopatico e con una grave forma di diabete, è affetto anche da un adenocarcinoma prostatico. Patologie che per i suoi medici lo rendono incompatibile con il regime detentivo. Incompatibilità sottolineata anche dal medico del carcere che in due relazioni ha evidenziato come a Rebibbia non sia possibile praticargli cure e terapie necessarie. In vista dell’udienza che doveva decidere sull’istanza, il sostituto procuratore generale della Capitale Pietro Giordano aveva nominato due consulenti affinché effettuassero una perizia sul suo effettivo stato di salute. Anche questi medici erano giunti alle medesime conclusioni dei colleghi: le condizioni di Dell’Utri sono incompatibili con il carcere. Il pg, però, nel parere aveva deciso di non tenere in alcun conto della relazione presentata dai suoi consulenti. Dello stesso avviso, giovedì scorso, il Tribunale di sorveglianza. Il motivo è semplice: il giudizio di compatibilità con il carcere spetta sempre al magistrato. Che quindi, in casi come questo, si “sostituisce” ai medici, diventando lui stesso medico. Per i giudici, infatti, le patologie cardiache e oncologiche di cui Dell’Utri soffre, “sono sotto controllo farmacologico e non costituiscono aggravamento del suo stato di salute. La terapia può essere effettuata in costanza di detenzione sia in regime ambulatoriale che di ricovero ospedaliero”. Nel provvedimento il Tribunale descrive un “quadro patologico affrontabile in costanza di regime detentivo. La pena può assumere il suo carattere rieducativo non prestandosi a giudizi di contrarietà al senso di umanità”, ha poi aggiunto il collegio. Ladro ucciso durante furto in casa, archiviata l’accusa di omicidio: “fu legittima difesa” La Repubblica, 12 dicembre 2017 Francesco Sicignano, di Vaprio d’Adda, nel Milanese, nell’ottobre del 2015 sparò ed uccise un uomo di origine albanese che era entrato nella sua abitazione. Il suo divenne un caso politico: il pensionato si candidò con Forza Italia a Milano alle elezioni amministrative del giugno 2016. Archiviata l’inchiesta che era stata aperta per omicidio volontario a carico di Francesco Sicignano, il pensionato di Vaprio d’Adda, nel Milanese, che nell’ottobre del 2015 sparò ed uccise un ladro albanese che era entrato nella sua abitazione. La decisione del gip di Milano Teresa De Pascale, che ha accolto la richiesta della Procura. Ad opporsi alla richiesta di archiviazione, formulata dai pm a fine maggio 2016 evidenziando la “legittima difesa”, erano stati i familiari del giovane albanese chiedendo al gip nuovi approfondimenti. Il pensionato si era candidato alle amministrative di Milano il 6 giugno del 2016 con Forza Italia: aveva ottenuto 52 voti. A presentare l’atto di opposizione all’archiviazione sono stati, nei mesi scorsi, attraverso il difensore, il padre e la madre di Gjergi Gjonj, che aveva 22 anni. La procura, in un primo momento, aveva iscritto Sicignano nel registro ma poi accertò che si sarebbe trattato di legittima difesa e chiese l’archiviazione. All’inizio dell’inchiesta gli inquirenti avevano ipotizzato che il pensionato, quella sera del 20 ottobre 2015, avesse sparato quando il ladro non era ancora entrato nella casa ma si trovava sulle scale esterne. Il medico legale nominato dai pm, poi, oltre ai Ris di Parma, ha accertato che la dinamica della morte poteva essere compatibile con la versione di Sicignano, che aveva detto di aver sparato in casa per difendersi. l proiettile, secondo il medico legale, ha sfiorato il cuore del 22enne attraversando il corpo senza colpire direttamente l’organo. Per questo Gjergi Gjonj nella ricostruzione della Procura potrebbe essere rimasto in vita forse quasi per un minuto. Il tempo necessario per trascinarsi fuori dalla cucina e, attraverso un percorso tortuoso, raggiungere le scale esterne, dove poi sarebbe morto. Per il legale dei familiari del giovane, invece, si trattò di omicidio volontario e nella ricostruzione “parziale” dei pm ci sono “numerose incongruenze”. Secondo il difensore, che ha depositato una memoria di oltre 40 pagine, il 22enne “è stato ucciso sulle scale, fuori dall’abitazione, e poi il proiettile è stato buttato nel soggiorno di casa”. Omicidio stradale: accertamento del nesso causale tra regola cautelare violata e morte di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 12 dicembre 2017 Tribunale di Firenze - Sezione II penale - Sentenza 6 luglio 2017 n. 2838. La violazione di una regola cautelare in materia di circolazione stradale da parte di un automobilista non è sufficiente di per sé a far presumere l’esistenza del nesso causale tra il comportamento di quest’ultimo e l’evento dannoso verificatosi a seguito di incidente. Il nesso eziologico tra la condotta colposa e il danno deve escludersi quando sia dimostrato che l’incidente si sarebbe ugualmente verificato anche qualora la condotta antigiuridica non fosse stata posta in essere. Ad applicare le regole dell’accertamento del nesso causale nei reati stradali è il Tribunale di Firenze con la sentenza 2838/2017, che si è pronunciata su una vicenda alquanto singolare nella sua dinamica. I fatti - L’incidente che ha dato origine alla vicenda processuale si è verificato a Sesto Fiorentino, in un tratto di strada a senso unico di marcia, con larghezza costante di 3,10 metri e costeggiata da ambo i lati da marciapiedi molto stretti e, precisamente, è avvenuto immediatamente dopo una curva a 90 gradi, che obbliga ad una velocità particolarmente moderata. Nello specifico, una donna anziana con andatura barcollante e appesantita dalla spesa, mentre percorreva la strada a piedi in direzione opposta al senso di marcia dei veicoli, cadeva accidentalmente in prossimità del marciapiede proprio nel momento in cui sopraggiungeva un autocarro, che schiacciava la signora con la ruota posteriore destra causandone il decesso. In seguito si scopriva che il veicolo aveva una larghezza di 2,10 metri, ovvero di 10 centimetri superiore rispetto a quanto consentito dalla segnaletica stradale. L’uomo alla guida dell’autocarro veniva così tratto a giudizio per omicidio colposo per aver contribuito a cagionare l’evento transitando con il suo veicolo su quel punto esatto di strada, nonostante il cartello stradale vietasse il transito per mezzi aventi larghezza superiore a 2 metri. La decisione - In dibattimento la singolare vicenda viene ricostruita attraverso l’utilizzo di filmati e dei pareri di consulenti tecnici e del medico legale, che consentono al Tribunale di assolvere l’automobilista dall’accusa di omicidio colposo, in quanto la morte della sfortunata signora non è causalmente connessa con la condotta colposa dell’imputato, reo di non aver osservato la segnaletica stradale. Sul punto, il giudice fiorentino richiamandosi alla giurisprudenza di legittimità spiega che la violazione di una specifica norma dettata per la disciplina della circolazione stradale “non può di per sé far presumere l’esistenza del nesso causale tra il suo comportamento e l’evento dannoso, che occorre sempre provare e che si deve escludere quando sia dimostrato che l’incidente si sarebbe ugualmente verificato anche qualora la condotta antigiuridica non fosse stata posta in essere”. Ciò vale a dire, nella vicenda in esame, che il rispetto del divieto di transito non osservato dall’automobilista non avrebbe di per sé impedito la morte della signora “inciampata e caduta accidentalmente proprio quando il furgone le è passato accanto, occupando in tale modo la strada”. In sostanza, conclude il Tribunale, non è ravvisabile nella fattispecie un nesso di causalità tra la caduta della persona offesa e il passaggio del veicolo: la morte della signora si sarebbe verificata anche se la condotta dell’automobilista fosse stata conforme alla regola precauzionale, in quanto si è trattato di una caduta accidentale e la produzione dell’evento lesivo inevitabile. Dopo la condanna di primo grado, la sospensione del commercialista è definitiva di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 12 dicembre 2017 Se è già intervenuta la sentenza di condanna in primo grado, la sospensione del professionista che ha fatto da regista delle frodi fiscali è ormai definitiva. A queste conclusioni approda la Corte di cassazione con la sentenza della Quarta sezione penale depositata ieri. La Corte ha cosi respinto il ricorso di un commercialista che era stata prima costretto agli arresti domiciliari e, poi, si era visto sostituire questa misura con il divieto di esercitare l’attività professionale per 2 anni. Secondo l’accusa il professionista avrebbe architettato un sistema di frodi fiscali di cui avrebbero beneficiato i propri clienti. Sulla vicenda, che ha visto diversi ricorsi in Cassazione, era sopraggiunta la sentenza del tribunale con la quale veniva affermata la responsabilità del commercialista per concorso nei reati di dichiarazione fraudolenta ed emissione di fatture per operazioni inesistenti. Era emerso un ruolo di primo piano del professionista suggerendo e agevolando le condotte dei soggetti che mettevano e utilizzavano le fatture. La Cassazione, ricordando quanto affermato anche dalla Corte costituzionale, sentenza n. 71 del 1996 aveva come, dopo la sentenza di condanna, anche solo di primo grado, non è più possibile sindacare io quadro indiziario che ha dato luogo alla misura interdittiva. Con la condanna dopo una valutazione piena, suscettibile quindi passare in giudicato e di assorbire i gravi indizi di colpevolezza che danno vita alla sanzione cautelare, lo stop allo svolgimento della professione diventa inattaccabile. Appello penale: la mancata riassunzione della prova decisiva Il Sole 24 Ore, 12 dicembre 2017 Prova penale - Prova decisiva - Appello - Mancata riassunzione della prova decisiva. La mancata assunzione di una prova decisiva è configurabile quando sia dimostrata, all’interno della motivazione della decisone impugnata, l’esistenza di lacune o di manifeste illogicità, ricavabili dal testo dello stesso provvedimento e riguardanti punti di decisiva importanza, che sarebbero state presumibilmente evitate se si fosse proceduto all’assunzione o alla riassunzione di determinate prove in appello, tali da determinare un esito diverso del giudizio. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 21 novembre 2017 n. 52809. Impugnazioni - Cassazione - Motivi di ricorso - Mancata assunzione di prova decisiva - Accertamento peritale - Prova decisiva - Esclusione - Conseguenze. La mancata effettuazione di un accertamento peritale (nella specie sulla capacità a testimoniare di un minore vittima di violenza sessuale) non può costituire motivo di ricorso per cassazione ai sensi dell’art.606, comma 1, lett. d), c.p.p., in quanto la perizia non può farsi rientrare nel concetto di prova decisiva, trattandosi di un mezzo di prova “neutro”, sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso alla discrezionalità del giudice, laddove l’articolo citato, attraverso il richiamo all’art. 495, comma 2, c.p.p. si riferisce esclusivamente alle prove a discarico che abbiano carattere di decisività. • Corte di cassazione, sezioni Unite penali, sentenza 31 agosto 2017 n. 39746. Impugnazioni penali - Ricorso per cassazione - Casi di ricorso - Mancata assunzione di una prova decisiva - Prova decisiva - Nozione - Ambito di operatività. Deve ritenersi “decisiva”, secondo la previsione dell’articolo 606, comma 1°, lettera d), c.p.p. la prova che, confrontata con le argomentazioni contenute nella motivazione, si riveli tale da dimostrare che, ove esperita, avrebbe sicuramente determinato una diversa pronuncia; ovvero quella che, non assunta o non valutata, vizia la sentenza intaccandone la struttura portante. In ogni caso, peraltro, il carattere di prova decisiva è escluso sia con riguardo al confronto, sia con riguardo all’accertamento peritale. • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 11 luglio 2017 n. 33770. Impugnazioni - Cassazione - Motivi di ricorso - Mancata assunzione di prova decisiva - Giudice di pace - Procedimento - Applicabilità - Limiti. Anche in relazione al processo innanzi al giudice di pace, la mancata assunzione di una prova decisiva - quale motivo di impugnazione per cassazione - può essere dedotta solo in relazione ai mezzi di prova dei quali sia stata chiesta formalmente l’ammissione, e non nel caso in cui il mezzo di prova sia stato sollecitato dalla parte mediante l’invito al giudice del merito ad avvalersi dei poteri discrezionali di integrazione probatoria di cui all’art. 32 del d.lgs. 274 del 2000 (che richiama implicitamente la disciplina dell’art. 507 cod. proc. pen.) e questi abbia ritenuto tale mezzo di prova non necessario ai fini della decisione. • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 5 luglio 2017 n. 32620. Impugnazioni - Cassazione - Motivi di ricorso - Mancata assunzione di prova decisiva - Accertamento peritale - Prova decisiva - Esclusione - Conseguenze. La perizia non rientra nella categoria della “prova decisiva” e il relativo provvedimento di diniego non è censurabile ai sensi dell’art. 606, comma primo, lett. d), c.p.p., in quanto costituisce il risultato di un giudizio di fatto che, se sorretto da adeguata motivazione, è insindacabile in cassazione. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 12 dicembre 2016 n. 52517. Piemonte: le carceri scoppiano, l’appello delle Camere Penali “più misure alternative” di Giuseppe Legato La Stampa, 12 dicembre 2017 Un detenuto su tre aspetta la sentenza definitiva. E i braccialetti elettronici sono finiti. “Il sovraffollamento delle carceri piemontesi, Torino compresa, si sta pericolosamente e vertiginosamente riavvicinando ai livelli del 2013 quando l’Italia venne condannata dalla Corte di Giustizia Europea con la nota sentenza Torreggiani”. L’avvocato Antonio Genovese, vicepresidente delle Camere Penali “Vittorio Chiusano”, lancia l’allarme sulla situazione carceri in città e in regione. In Piemonte sono attualmente detenute 4211 persone a fronte di una capienza massima di 3.973 detenuti. Il dato di Torino è ancora più significativo: capienza regolamentare 1.065 persone. Ve ne sono ristrette 1.361 (141 donne, 1.220 uomini) al 30 novembre 2017. “Gli stranieri sono 634 con tutto quello che ne consegue in termini di difficoltà di gestione legate alla lingua, alle abitudini e alle difficoltà di inserimento in programmi di trattamento” aggiunge l’avvocato Davide Mosso dell’Osservatorio carceri “c’è un sovraffollamento e c’è un tema che investe il ricorso alla custodia cautelare in carcere anziché alle cosiddette “misure cautelari alternative”. L’appello - Da qui l’appello. “Il concetto che vogliamo trasmettere - spiega l’avvocato Roberto Trinchero, presidente della Camere Penali di Piemonte e Valle d’Aosta - è che tra i fini della pena - lo prevede la Costituzione - c’è anche la rieducazione. Non è solo esclusivamente punizione. Il sovraffollamento delle carceri e quindi le condizioni non adeguate degli istituti fanno sì che la rieducazione ne risenta moltissimo. I numeri del ricorso alla custodia cautelare in carcere sono eccessivi e da ciò ne deriva una mancata applicazione di principi fondamentali”. In 1.200 aspettano sentenza definitiva - Al momento, in Piemonte, sono 632 i detenuti in carcere in attesa di sentenza di primo grado, 287 gli appellanti e 225 coloro che aspettano il giudizio definitivo di Cassazione. Traduzione: 1144 persone, che beneficiano della presunzione di innocenza, sono ristrette in cella. Il 27% della popolazione carceraria non ha ancora una condanna definitiva. “La custodia cautelare può essere in carcere ma anche domiciliare - aggiunge Trinchero. E questo non significa sostenere che tutti i provvedimenti in questione siano sbagliati. Non si ritiene scorretta per principio la scelta di un magistrato, ma ci sono molti mezzi, affinché invece che in carcere, la custodia venga disposta in altri luoghi”. Insomma sempre di misura cautelare si tratta. Finiti i braccialetti elettronici - C’è un tema di scelte e un tema anche di giurisprudenza “specifico in Piemonte - sottolinea l’avvocato Genovese -. Specifico e un po’ particolare. Non è facile ottenere una detenzione alternativa. Ad esempio se l’imputato non risarcisce il danno non viene concesso l’affidamento in prova e quindi la misura alternativa. Va risarcita la persona offesa, ma non è questo l’unico presupposto su cui si basa l’accesso alle misure di detenzione alternative come quelle degli arresti domiciliari con uso del braccialetto elettronico”. Proprio nei giorni scorsi, in risposta alla concessione di questo regime di detenzione a due trafficanti di droga di origine albanese condannati a Torino, si è scoperto che i braccialetti elettronici sono di nuovo finiti. E che questo comporta soggiorni aggiuntivi in carcere che oscillano tra i 20 e i 30 giorni. Un diritto inaccessibile. Lombardia. Impossibile uscire dal carcere per chi ne ha diritto, la rabbia dei legali di Manuela D’Alessandro glistatigenerali.com, 12 dicembre 2017 C’è Como, dove i detenuti che ne avrebbero il diritto non vengono scarcerati perché a stendere le relazioni sui loro progressi da allegare alle istanze di misure di prevenzione o liberazione anticipata è rimasto un solo educatore su quattro che erano. Spiega l’avvocato Paolo Camporini della Camera Penale lariana che “le istanze vengono così rigettate per mancanza della documentazione di sintesi”. C’é Milano, dove chi potrebbe lasciare il carcere non lo può fare perché, mancando 3 magistrati su 12 alla Sorveglianza e 10 persone su 43 nel personale amministrativo, i tempi di attesa per decidere sulle richieste sono biblici (“ritardi anche di 2 anni nella fissazione delle udienze e c’è un arretrato che continua a crescere, al momento di 26mila fascicoli”, dà i numeri l’avvocato Eugenio Losco, consigliere con la delega al carcere della Camera Penale). C’è mezza Lombardia (anche Lecco, Monza, Pavia, Busto Arsizio, Sondrio e Varese) dove per il presidente della Camera Penale milanese Monica Gambirasio “la popolazione carceraria non vede risposta alle proprie legittime istanze e, al contempo, assiste a un drammatico peggioramento delle proprie condizioni di vita”. A San Vittore, per dire, ci sono 6863 persone a fronte di una capienza regolamentare di 5167. Oggi gli avvocati si mobilitano - termine tecnico, sarebbe meglio dire si arrabbiano - per denunciare la “grave crisi” dei Tribunali di Sorveglianza e delle carceri in quello che viene spesso indicato come un distretto giudiziario se non modello, comunque meglio della media in un Paese fustigato più volte dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per come umilia i detenuti. E si appellano per l’ennesima volta negli ultimi mesi al Ministro Andrea Orlando e al Csm per rimediare. Il presidente dell’Ordine degli Avvocati Remo Danovi annuncia di avere istituito dieci borse di studio per altrettanti praticanti che avranno il compito di “prestare aiuto alla Sorveglianza per sei mesi mi auguro prorogabili a un anno anche se resta il grave problema del sovraffollamento e di una disumanità dello Stato che non ha paragoni”. A ottobre, il Presidente della Sorveglianza Giovanna Di Rosa era arrivata a chiedere ai legali milanesi di occuparsi delle spese di assicurazione e viaggio per i “volontari” della giustizia che nel Tribunali suppliscono al deficit di personale nelle cancellerie. Una giustizia che per salvarsi deve affidarsi al volontariato o alle borse di studio fa paura. Napoli: carceri affollate e arresti “facili”, gli avvocati marciano in toga di Viviana Lanza Il Mattino, 12 dicembre 2017 Carceri sovraffollate, tribunali di Sorveglianza in affanno, ricorso ad arresti preventivi sempre più diffuso con i numeri più alti in Campania. Per gli avvocati napoletani la misura sta per essere colma e per protesta hanno marciato in toga dal Palazzo di Giustizia alle porte del carcere di Poggioreale. Il percorso non è stato lungo ma è stato carico di partecipazione e di motivazioni. Per i diritti dei detenuti, in passato i penalisti si sono più volte battuti organizzando manifestazioni, scioperi e proteste, ma ieri è stata la prima volta che sono scesi in strada. E al loro fianco c’erano anche i colleghi civilisti, i rappresentanti di associazioni forensi, come Il Carcere Possibile Onlus, Nuova avvocatura democratica e Unione giovani penalisti napoletani, i Radicali con la presenza dell’onorevole Rita Bernardini, e alcuni comuni cittadini, inclusa una delegazione di ex detenuti organizzati. Tutti hanno marciato silenziosi in un corteo che ha seguito il perimetro del carcere di Poggioreale, il più grande istituto di pena del Mezzogiorno, la struttura nel cuore della città dove il sovraffollamento è spesso l’emergenza. L’iniziativa di mettersi in marcia verso le porte del carcere è partita dalla Camera penale di Napoli, che fino a venerdì si asterrà dalle udienze sempre per protesta, e ha trovato l’adesione delle Camere penali del distretto campano. “È un grido di allarme che gli avvocati rivolgono al governo affinché adotti in tempi rapidi i decreti attuativi della riforma Orlando di modifica dell’ordinamento penitenziario” spiega l’avvocato Affilio Belloni, presidente della Camera penale di Napoli. “Siamo soddisfatti della partecipazione alla manifestazione. Secondo il trend di crescita della popolazione carceraria, che è di tremila detenuti all’anno, nel 2020 si potrebbe raggiungere la cifra record di 67mila detenuti. Sarebbe intollerabile e la situazione, da drammatica qual è, diventerebbe esplosiva”. Il sovraffollamento è tornato a essere la criticità portando dietro di sé una scia di conseguenze, incluse le più tragiche. “Solo nel 2017 - aggiunge Belloni - ci sono stati 50 suicidi di detenuti in carcere. Il governo deve intervenire subito”. I dati del Dap, aggiornati al 30 novembre e diffusi dall’Osservatorio carcere dell’Unione camere penali, parlano di 58.115 reclusi presenti nelle carceri italiane a fronte di una capienza di 50.511, circa la metà dei quali è in attesa di giudizio definitivo e circa 10mila addirittura in attesa del primo grado. C’è un esubero di 8mila detenuti, dei quali 1.200 si trovano nelle carceri campane. A Poggioreale fino a un mese fa si registravano 2.219 detenuti su una capienza di 1.1637 unità, nel penitenziario di Secondigliano 1.326 detenuti a fronte dei 1.021 previsti e nel carcere femminile di Pozzuoli 160 a fronte di 109. “La situazione peggiora di giorno in giorno - afferma l’avvocato Riccardo Polidoro, responsabile dell’osservatorio carcere dell’Unione Camere Penali Italiane. Il ministro Orlando ha fatto qualcosa ma è ancora poco perché non si vedono risultati concreti. Ci vuole una riforma strutturale dell’ordinamento penitenziario e del codice penale che consenta meno carcerazione e più misure alternative, e soprattutto più risorse per i tribunali di Sorveglianza e per le carceri con più polizia penitenziaria e in particolare più educatori e psicologi”. “Per i decreti attuativi manca solo il nullaosta del governo - precisa Rita Bernardini lanciando un allarme. In Campania la situazione è drammatica anche perché si registrano i più alti numeri di custodia cautelare in carcere”. A sostenere la battaglia dei penalisti si sono schierati anche i colleghi del settore civile, testimoniando che i problemi dei detenuti, dei Tribunali di Sorveglianza e del ricorso alla misura cautelare non sono temi di nicchia. “Di fronte alla soppressione dei diritti civili l’avvocatura è sempre unita - dichiara Maurizio Bianco, presidente del Consiglio dell’ordine degli avvocati di Napoli - Questo momento segna il senso dell’unione tra civilisti e penalisti, tra Consiglio dell’ordine e Camera penale”. Per il vicepresidente del Consiglio forense Salvatore Impradice “la dignità di una nazione, di uno Stato di diritto, di una giurisdizione non può tollerare l’indegnità delle condizioni carcerarie, i tempi attraverso i quali vengono esaminate le posizioni dei singoli condannati, le condizioni attraverso le quali vengono applicate le misure cautelari personali”. Come vice coordinatore dell’Organismo congressuale forense, Armando Rossi sottolinea “la necessità di richiamare l’attenzione sulle condizioni degli istituti di pena italiani che non dovrebbero essere utilizzati come pattumiera sociale ma momento di recupero che la società deve garantire a chi è colpito dalla sanzione penale”. Il penalista Arturo Frojo, consigliere dell’ordine forense, ricorda il grande impegno dell’avvocatura a tutela dei diritti dei detenuti: “Speriamo che il governo si assuma questa responsabilità perché negli ultimi dieci anni è stato silente. Il regime carcerario deve essere giusto e equo, la vita dei detenuti decorosa”. Un auspicio arriva anche dal consigliere penalista Alfredo Sorge: “Ci auguriamo che questa espansione delle problematiche penali al Consiglio dell’ordine diventi una espansione verso tutta la società”. L’obiettivo è sensibilizzare società e politica. “Il problema è ormai datato ed è ancorato a una prospettiva carcerocentrica che dovrebbe essere da sempre superata - dice l’avvocato Gennaro Paipais, presidente dei giovani penalisti napoletani. Si assiste a un abuso della carcerazione preventiva”. La causa, tuttavia, non è solo quella per le condizioni in carcere ma anche per le disfunzioni del tribunale di Sorveglianza che comportano ritardi nelle decisioni tali che a volte i provvedimenti arrivano fuori tempo, quando la pena è stata già espiata. “Quale delegato ai rapporti con il tribunale di Sorveglianza non posso che evidenziare una situazione al collasso - afferma Gabriele Esposito, consigliere dell’ordine forense - Invito il Ministro a venire personalmente e non inviare ispettori, al fine di constatare il degrado che condividiamo con giudici e cancellieri”. Milano: “pochi magistrati di sorveglianza e pratiche ferme”, la protesta degli avvocati di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 12 dicembre 2017 Le gravi carenze negli organici dei magistrati (ne mancano 3 su 12) e del personale amministrativo (33 presenti su 43 posti) del Tribunale di sorveglianza di Milano è la causa determinante dell’arretrato di 26 fascicoli che si riflette in modo negativo sulla popolazione carceraria del distretto, che ha raggiunto il 132,82% della capienza con 6.863 detenuti reclusi a fronte di una di 5.167 posti disponibili. Anche a Milano la condizione del tribunale e dei detenuti è stato il tema della giornata di mobilitazione degli avvocati delle Camere penali che hanno chiesto l’intervento del ministro della Giustizia Andrea Orlando e del Consiglio superiore della magistratura. “La preoccupazione è alta”, dice Monica Gambirasio, presidente della Camera penale, che ha parlato di “disagio nella popolazione carceraria che non vede risposta alle proprie legittime istanze, vittima di un peggioramento delle condizioni all’interno delle celle. L’arretrato allunga la lista dei detenuti che, pur avendone diritto, non possono accedere alle misure alternative”. Milano: “meno di tre metri quadrati in cella”, 400 detenuti hanno presentato denuncia di Franco Vanni La Repubblica, 12 dicembre 2017 Nell’ultimo anno sono quintuplicati i ricorsi dei detenuti nelle carceri milanesi che denunciano condizioni inumane e degradanti. Si tratta dei carcerati che, direttamente o tramite il proprio legale, si sono rivolti all’ufficio di Sorveglianza milanese, denunciando di avere a disposizione in cella meno di quei tre metri quadrati che sono considerati dalla giustizia europea (poi recepita nella nostra legislazione) come soglia minima di “trattamento umano”. Nei dodici mesi dello scorso anno giudiziario, da giugno 2015 a giugno 2016, i ricorsi presentati sono stati 80. Allo scorso giugno sono diventati 400. Un dato che rende conto della drammatica situazione delle carceri del distretto della Corte d’appello milanese, dove a fronte di 5.167 posti i detenuti sono 6.863, con un sovraffollamento del 133 percento. Lo strumento del ricorso, introdotto nel 2014, se accolto garantisce uno sconto della pena residua pari a un giorno per ogni 10 già trascorsi in carceri sovraffollate. Oppure, nel caso la pena sia stata scontata, a un indennizzo pari a 8 euro per ogni giorno in cella con meno di tre metri quadrati di spazio per persona. La situazione più drammatica è al carcere di Como (per cui è competente l’ufficio di Sorveglianza di Varese) dove a fronte di 231 posti in cella, i detenuti sono 450, insieme con quello di Lodi (92 detenuti per 45 posti). Il quintuplicarsi in un anno dei ricorsi solo a Milano - che in molti casi vengono poi accolti - si inserisce nel quadro di sofferenza di personale del tribunale di Sorveglianza, denunciato dalla Camera penale milanese. Gli avvocati penalisti del foro cittadino ieri hanno indetto una giornata di agitazione, segnalando come dei 12 posti di giudice teoricamente in organico solo 9 sono coperti. E dei 43 posti di personale amministrativo, 10 oggi sono vacanti, solo a Milano. A fronte di un arretrato di 26mila pratiche riguardanti detenuti. Una carenza di organico che riguarda anche gli uffici di Varese e Pavia, e che mina i diritti dei carcerati. Monica Gambirasio, presidente della Camera penale di Milano, parla di “un grande disagio per la popolazione carceraria, che non vede risposte alle proprie istanze”, con “condannati che attendono due anni e oltre per essere ammessi alle misure alternative”. L’avvocato Eugenio Losco, delegato per le carceri della Camera, sottolinea come i ritardi nella gestione delle domande riguardino anche chi è stato condannato a pene inferiori ai tre anni, e sia in attesa dell’affidamento in prova ai servizi sociali. Per quanto riguarda Como, il presidente della locale Camera penale Paolo Campanini denuncia che “a stendere relazioni sui detenuti da allegare alle istanze di misure alternative o di liberazione anticipata è rimasto un solo educatore”, con conseguenti “inaccettabili ritardi”. Una boccata di ossigeno per l’ufficio di Sorveglianza milanese viene dalla decisione dell’Ordine degli avvocati, presieduto da Remo Danovi, di istituire dieci borse per praticanti, che diano una mano nella gestione delle pratiche. Ma non può essere una soluzione definitiva. Giovanna Di Rosa, da un anno presidente del tribunale di Sorveglianza, ha più volte segnalato le carenze di organico al ministero della Giustizia e agli enti locali. Ora commenta: “Alla Sorveglianza, ogni minuto perso è un minuto di ritardo sulla vita dei detenuti e delle loro famiglie. Nonostante grandissimi sforzi, il nostro distretto ha le carceri più affollate d’Italia. Il personale e i magistrati devono essere integrati completamente e al più presto”. Torino: la Cassazione dà ragione al detenuto “in cella il letto toglie lo spazio vitale” di Giovanni Falconieri Corriere della Sera, 12 dicembre 2017 Lo spazio minimo vitale nella cella di un carcere deve essere almeno di tre metri quadrati. Per determinarlo, “dalla superfice complessiva della camera è necessario detrarre non solo l’area destinata ai servizi igienici e agli arredi fissi, ma anche quella occupata dal letto a castello”. Perché il letto rappresenta una “struttura tendenzialmente fissa e non facilmente amovibile”. Con questa ordinanza, pubblicata il 7 dicembre, la terza sezione civile della Cassazione ha accolto il ricorso presentato da un detenuto del carcere Lorusso e Cutugno, assistito dall’avvocato Roberto Lamacchia, che aveva chiesto un indennizzo al ministero della Giustizia. Nel valutare lo spazio disponibile nella cella, il Tribunale di Torino aveva preso in considerazione anche quello occupato dal letto. Ora la Corte suprema ha stabilito che quell’impostazione è errata e ha restituito gli atti al giudice di merito. La battaglia, si fa per dire, si combatte attorno al letto a castello. Per il giudice di Torino non si tratta di un arredo fisso, per la Cassazione lo è perché rappresenta una struttura “dal peso ordinariamente consistente, non amovibile, né fruibile per l’estrinsecazione della libertà di movimento nel corso della permanenza nella camera detentiva e, quindi, idonea a restringere, per la sua quota di incidenza, lo spazio vitale minimo all’interno della cella”. Quello spazio deve essere “pari o superiore a tre metri quadrati”. “Dalla superficie lorda della cella - scrivono ancora i giudici nella loro ordinanza - deve essere detratta l’area occupata dagli arredi affinché lo Stato non incorra nella violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti stabilito dall’articolo 3 della Convenzione dei diritti dell’uomo”. E a proposito di diritti dei detenuti, la Camera penale Vittorio Chiusano accende di nuovo i riflettori sulla situazione carceraria delle strutture penitenziarie del Piemonte, sottolineando la necessità di “migliorare una realtà che fortunatamente non è critica come in altre regioni italiane”. “Una prima questione - spiega l’avvocato Pierfranco Bottacini - riguarda il sovraffollamento. C’è la tendenza a considerare la custodia cautelare come l’unica soluzione: giudici e legislatori, però, dovrebbero cambiare passo”. “Noi - sottolinea invece il presidente della Camera penale piemontese, Roberto Trinchero - non siamo contrari alla pena. Ma il carcere deve essere rieducativo, non punitivo. E il sovraffollamento, in molti casi, ostacola, impedisce e vanifica le attività rieducative”. Ecco perché, quando la legge lo consente, occorrerebbe utilizzare di più misure alternative come gli arresti domiciliari e la detenzione domiciliare con l’ausilio del braccialetto elettronico. Nei 13 istituti piemontesi i detenuti sono oggi 4.211 e la capienza ufficiale è di 3.973. Quelli in attesa di una sentenza definitiva sono poco più di mille. Al Lorusso e Cutugno gli ospiti sono 1.361 e la capienza regolare è di 1.065. A livello regionale il sovraffollamento è del 6 per cento, in città tocca quota 22. Sono numeri, questi, che per gli avvocati della Camera penale del Piemonte non rientrano negli standard stabiliti dall’Europa. E come se non bastasse, spiegano ancora i legali, i Tribunali di sorveglianza “sono oberati di lavoro e i tempi di smaltimento delle pratiche si allungano sempre di più”. Firenze: Consiglio comunale a Sollicciano. I detenuti: “dateci acqua calda e riscaldamento” di Ernesto Ferrara La Repubblica, 12 dicembre 2017 Il ministro della giustizia ha partecipato al Consiglio straordinario in carcere. Nardella propone di intitolare la struttura ad Alessandro Margara. “Dobbiamo prendere davvero sul serio la questione Sollicciano”, promette il ministro della Giustizia Andrea Orlando. È lui ad aprire il consiglio comunale che si riunisce in seduta straordinaria nel carcere fiorentino, un’occasione di ascolto dei detenuti che hanno fatto le loro richieste: “Acqua calda, riscaldamenti”, ma anche “l’anello mancante, ovvero il lavoro”. Il sindaco Dario Nardella ha garantito attenzione, ricordato la delibera che prevede che gli appalti comunali debbano avere una quota riservata alle cooperative sociali di tipo B che usano i detenuti. E poi ha fatto una proposta: “Intitoliamo il carcere ad Alessandro Margara”. Il garante toscano per i diritti dei detenuti Franco Corleone ha chiesto la riattivazione delle commissioni detenuti. Il cappellano don Enzo Russo chiede più soldi per i lavori interni e “stop ai lavori tampone”. “Io credo che questa legislatura non si potrebbe dire compiutamente realizzata sul fronte dell’estensione delle libertà e della tutela dei diritti fondamentali, se non si concludesse anche con l’esercizio della delega sulla riforma del sistema penitenziario” dice il ministro Orlando. “Servono più risorse” per il personale delle carceri e, per questo, “l’Amministrazione penitenziaria è stata autorizzata ad assumere 887 agenti del corpo di Polizia penitenziaria. L’immissione in servizio del personale sta avvenendo proprio in questi mesi, in seguito alla conclusione dei corsi di formazione. Già dalla fine di quest’anno avverrà l’assunzione di ulteriori 1.177 unità di allievi agenti di Polizia penitenziaria, che saranno destinati agli istituti di formazione. Infine, a novembre è stato aperto un bando per 200 unità di personale di Polizia penitenziaria. Complessivamente, quindi, avremo 2.064 agenti penitenziari in più nelle carceri” ha aggiunto. Firenze: i dubbi dei detenuti, la protesta, poi un urlo “adesso non ci abbandonate!” di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 12 dicembre 2017 Alla fine del discorso di Orlando, quasi nessuno di loro applaude. Scuotono la testa, guardano scettici verso il ministro. Sospirano quando lo vedono andar via subito dopo aver concluso l’intervento. Nella platea del teatro, i detenuti sembrano perplessi. Sono stati sistemati in fondo a destra, una trentina. “Troppo pochi” dice uno di loro. Sono guardati a vista dagli agenti penitenziari. Borbottano tra loro. Uno si morde le nocche tatuate, un altro non dà tregua alle unghie mangiucchiate, un altro ancora si aggiusta la visiera del cappellino. Un piccolo gruppo si alza e se ne va, polemicamente: “Siamo stanchi dei discorsi. Non abbiamo acqua calda, piove in cella, dove siamo reclusi per 20 ore al giorno”. Molti reclusi indossano il giubbotto. Spesso lo portano anche in celle. “Perché fa freddo”. Uno ha il piumino, qualcuno indossa un cappellino di lana. Molti sono in tuta e scarpe da ginnastica. Nike, Adidas. Gli abiti sembrano segni distintivi, così come i tatuaggi e gli orecchini. Uno di loro ha due brillantini argentati sull’orecchio destro. Ufficialmente con loro non si può parlare, ai giornalisti è vietato avvicinarli. Ma quando andiamo in bagno, ci avvicinano e dicono: “Scrivete che qua dentro viviamo in condizioni disumane”. E nel frattempo fumano una sigaretta, che poi spengono nei bagni. Nella piccola platea dei reclusi c’è anche Mirco Alessi, trent’anni per il duplice omicidio di via Fiume nel giugno 2016. E poi c’è Antonio, napoletano, dentro per rapina. “Questo evento mi pare una passerella - mormora tra sé - Abbiamo visto diversi consiglieri comunali in carcere, ma poi non è cambiato niente”. Da parecchi giorni non vede i familiari. Per tutti uno dei pochi affetti, qui dentro, è il cappellano, don Vincenzo Russo. Quando passa i reclusi lo salutano calorosamente. All’inizio della seduta consiliare, c’è l’inno d’Italia e quello europeo. Tutti in piedi, ma tre detenuti non si alzano. Sfoggiano spavalderia, uno di loro ha la visiera del cappellino all’indietro, i capelli lunghi e bianchi spuntano lungo la schiena. Lo sguardo rude. Molto reclusi sono stranieri. Ci sono anche le donne, siedono dalla parte opposta della platea. Tutti sembrano scettici, però seguono con attenzione gli interventi dei relatori. Qualcuno stringe in mano una cartellina. Dentro ci sono i fogli per gli appunti, ma quasi nessuno scrive. Tranne uno, che prende appunti in continuazione. Ha gli occhiali, la camicia, la barba bianca. È il più elegante. Non sembra un omicida. Eppure. È Pietro Bivona, recluso a Sollicciano da 15 anni. Nel 2001 uccise una donna con un colpo di pistola alla nuca. Poi occultò il corpo. Anche lui prende la parola. Si rivolge direttamente al sindaco Nardella, seduto in prima fila: “Signor sindaco, noi siamo parte di Firenze, non vogliamo sentirci stranieri nella nostra città. Vorremmo lavorare, abbiamo tanti spazi vuoti dentro Sollicciano che potrebbero essere utilizzati per attività professionali”. Poi arriva il momento di Martina, in rappresentanza della sezione femminile: “Non funziona il riscaldamento, non funziona l’acqua calda, sono questioni fondamentali per la dignità di un essere umano”. Applausi scroscianti. C’è un recluso in carrozzina, per lui è ancora più difficile vivere qui. I detenuti rumoreggiano durante le relazioni. Applaudono quando parlano i compagni di cella e quando parla Margherita Michelini, direttrice di Solliccianino, che alla fine del suo intervento dice: “Vorrei che le proposte per migliorare il carcere arrivassero dai diretti interessati”. Applausi durante gli interventi dei garanti. E anche quando parla il sindaco Nardella, uno dei più apprezzati dai detenuti. Promette nuovi trasporti pubblici per i parenti in visita, promette una struttura per il lavoro dei semiliberi. Gli ospiti di Sollicciano apprezzano: “Speriamo mantenga le promesse”. Gli interventi si susseguono. Sono tanti, forse troppi. Qualcuno si alza e se ne va. Altri restano: “Meglio qui che chiusi in cella”. Poi, a tarda sera, l’applauso finale. E un urlo dalla folla: “Vi prego, non ci abbandonate”. Firenze: Consiglio comunale a Sollicciano, un passo verso la città (col rischio passerella) di Massimo Lensi Corriere Fiorentino, 12 dicembre 2017 Ieri pomeriggio dentro il carcere di Sollicciano si è tenuto un Consiglio comunale straordinario sui problemi di questo istituto penitenziario. Un Consiglio importante, richiesto con determinazione e insistenza negli ultimi mesi da alcune persone che, da anni, sono in prima fila nella lotta per risolvere i tanti problemi che affliggono il carcere fiorentino. Mi riferisco a don Vincenzo Russo, cappellano a Sollicciano, a Tommaso Grassi, Consigliere comunale del gruppo Firenze riparte a Sinistra, agli amici della Camera Penale fiorentina e del suo Osservatorio Carcere, e ai militanti radicali dell’associazione “Andrea Tamburi”. Nato nel 1983 nell’omonimo quartiere nella parte sudovest di Firenze, Sollicciano è da allora in crisi permanente. Nell’intenzione, tutta teorica, di inserire la struttura nel territorio circostante, la pianta del complesso carcerario fu disegnata in modo da richiamare il giglio fiorentino. Su questo, però, il tempo ha decretato il fallimento: se con la vecchia galera delle Murate il rapporto tra città e carcere era forte e complesso, con Sollicciano disinteresse e abbandono sono divenuti la regola. I problemi di questo istituto penitenziario sono innumerevoli e gravi: deficit strutturali, impiantistici e organizzativi enormi rendono disumane le condizioni di vita di una popolazione detenuta, già sovraffollata eppur costantemente in crescita, per la quale tutto è difficile, anche curare l’igiene personale, un malanno di stagione, o fare il proprio lavoro rispettando il dettato della Costituzione. Una folla di umane genti in cui si rispecchia il fallimento della società civile che usa il carcere come discarica sociale da cui prendere le distanze e guardare altrove. Solo un deciso cambiamento di rotta nei rapporti tra il carcere, amministrazioni fiorentine e cittadinanza potrebbe gettare le basi per porvi rimedio. Fino ad ora, però, l’apparato istituzionale ha esitato a dare risposte che prefigurino una svolta significativa. Il Consiglio comunale si è svolto e me ne rallegro, ma tradirei il mio impegno se non segnalassi che uno dei rischi, forse il principale, di eventi come quello che si è svolto ieri a Sollicciano, è che si concludano in una surreale passerella di politici e personalità, senza che poi nulla veramente cambi. Il tempo ci dirà se finalmente Sollicciano potrà voltar pagina e trovare nella città di Firenze sollecitudine e cura, o se, ancora una volta, dovremo assistere impotenti al tradimento delle aspettative di chi il carcere lo vive sulla propria pelle: detenuti, lavoratori, operatori e volontari dell’area carceraria. Volgendo ora il mio pensiero all’ottimismo, saluto con fiducia l’arrivo, come nuovo direttore del complesso penitenziario di Sollicciano, del dottor Fabio Prestopino, persona di grande esperienza e sensibilità. La sua dichiarazione di apertura per una forte interazione tra il carcere e la municipalità fa ben sperare e noi radicali ci attendiamo di instaurare con questa sua nuova direzione una proficua e sincera collaborazione. Va, infatti, intensificato e reso agibile il rapporto tra città e carcere per poter finalmente riattivare, nella pienezza del dettato costituzionale, il complesso dei percorsi di rieducazione e reinserimento sociale delle persone detenute. Solo su un punto mi permetto di dissentire dalle sue prime dichiarazioni: seppure non ai livelli del 2011, Sollicciano è drammaticamente sovraffollato, vi risiedono infatti 720 persone detenute (66% delle quali non italiane), a fronte di una capienza di 500 posti, di cui vari non agibili e almeno una decina destinati al solo transito prima del trasferimento in celle che di dignitoso hanno solo l’umanità che vi sopravvive dentro. Agrigento: i detenuti del carcere Petrusa al lavoro per le “Tre aiuole di Natale” grandangoloagrigento.it, 12 dicembre 2017 Il Dott. Aldo Tiralongo, Direttore della Casa Circondariale di Agrigento, su iniziativa del Dott. Giuseppe Di Rosa, Dirigente dell’Ente di Assistenza dell’Amministrazione Penitenziaria, coadiuvato dalla Dott.ssa Maria Clotilde Faro, Funzionario Giuridico Pedagogico, e con la collaborazione del Sac. Antonino Scilabra, Direttore del Centro di Ascolto e di Accoglienza S.G.M. Tomasi Onlus di Agrigento, informa la stampa e, attraverso essa, l’opinione pubblica, dell’iniziativa intitolata “Tre aiuole di Natale”. In un’ottica di fratellanza e condivisione, avvalorata dalle prossime festività Natalizie, i detenuti ammessi al lavoro all’esterno, alcuni ospiti di “Villa Nazareth”, struttura facente parte del predetto Centro di Ascolto e di Accoglienza, richiedenti protezione Internazionale, in collaborazione con tecnici esterni, con la disponibilità delle Ditte SAPICC SRL, Campione SPA e lo Studio Tecnico G. Nobile, collaboreranno nell’attività di rifacimento delle tre aiuole spartitraffico poste all’inizio del viale d’ingresso dell’Istituto. Piuttosto che al tradizionale Albero di Natale, si è pensato al ripristino delle tre aiuole in quanto queste, per la loro particolare ubicazione, sembrano poter rappresentare un “trait d’ union” tra diverse realtà quali la popolazione ristretta, la cittadinanza che percorre la S.S. 122, le famiglie dei detenuti, gli ospiti di Villa Nazareth e tutti i soggetti che a vario titolo accedono ogni giorno nella struttura detentiva. La cooperazione tra le diverse realtà vuole sottolineare lo spirito di comunione che deve unire tutta la popolazione soprattutto in un periodo dell’anno che invita all’accoglienza e alla condivisione. Milano: “Quando il cuore si commuove, ci si muove”. Un progetto per migranti e detenuti luinonotizie.it, 12 dicembre 2017 Migranti di Agrisol, ergastolani e coristi insieme per contrastare i pregiudizi. Due i concerti in programma: a Cuasso al Monte e nel carcere di Opera. Il giorno 8 dicembre alle ore 11, in occasione della solennità dell’Immacolata Concezione, l’arcivescovo di Milano, mons. Mario Delpini, ha presieduto in Duomo il pontificale (in diretta tv, radio e web). Il canto finale, “Natività”, è stato eseguito da un coro costituito da alcuni immigrati ospiti di Agrisol, braccio operativo della Caritas di Como, alcuni detenuti del carcere di Opera e quarantadue coristi provenienti da Cuasso al Monte. L’iniziativa è nata dal progetto ambizioso di realizzare anche a Milano una “Missione Possibile”, (dal titolo della trasmissione di Tv2000 condotta da Max Laudadio e dedicata alle imprese di alcuni missionari nei luoghi più poveri del mondo): lo scopo è stato di portare a confronto con la realtà carceraria, senza pregiudizi, persone che non l’avevano mai incontrata, regalare un’esperienza di riscatto ai detenuti e fare un dono alla città di Milano. All’inizio i dubbi sono stati tanti: i ragazzi avranno la voce? Saranno in grado di pronunciare bene il testo, dato che sono ancora ai primi passi nella lingua italiana? Avranno voglia di “abbandonare” il loro tempo libero per dedicarlo ad un coro? Un coro talmente complesso da essere battezzato “coro della missione possibile”, con un canto polifonico talmente difficile (per lo meno per noi profani) da scoraggiare chiunque sia alle prime armi? Problemi che, però, sono svaniti presto perché l’entusiasmo dei ragazzi aumentava sempre più, dimostrando passione e emozione di fronte a questa avventura bella ed educativa. Per imparare e soprattutto affinare l’esecuzione del brano musicale scelto, i coristi hanno eseguito una serie di prove tenutesi tutte le domeniche. Sono state prove faticose per gli ospiti di Agrisol, data la loro poca conoscenza della lingua italiana, il dilettantismo nell’arte di cantare, la distanza del luogo ove provare e il dovere sacrificare la domenica, la loro giornata di riposo. Le prove generali sono state fatte al Carcere di Opera. Durante il tragitto in pullman, i ragazzi canticchiavano e non vedevano l’ora di arrivare per provare con i detenuti, dando il loro contributo. Arrivati li una sorpresa davvero commovente: ventun ergastolani con la maestra del coro erano lì ad attenderli, schierati sul palcoscenico del teatro del carcere, pronti ad intonare un canto studiato apposta per loro, che si è concluso con un solenne “Benvenuti”, scandito a squarciagola, cosa da commuovere perfino le guardie carcerarie. Ancora più toccante è stato quando questi ventun uomini, ad uno ad uno, hanno letto un pensiero scritto per i migranti. Erano pensieri talmente profondi da farli guardare tra loro e sussurrare: “Ma come possono queste persone essersi macchiate di reati così gravi?!”. Ebbene, sono proprio loro: sono i nostri pregiudizi che li deformano, invece loro sono solo “persone” con tutto il carico di vita che portano con sé e dentro di sé. Davanti a loro dobbiamo solo muoverci con il cuore. Scambiando, inoltre, quattro chiacchiere durante la pausa dalle prove, abbiamo scoperto che Marino si è laureato in carcere in Sociologia (109/110), Claudio si è iscritto al corso di laurea in Marketing Communication. Una cosa è chiara: dietro le sbarre c’è volontà di rinascita e di riscatto! Si arriva al fatidico 8 dicembre, il grande giorno! I ragazzi sono entusiasti. Da sottolineare che l’esecuzione non è durata più di cinque minuti, dopo circa un mese di prove! Ma come, tutto qui? Eh sì, tutto qui! O forse no! Un bel canto polifonico che ha visto cantare assieme immigrati, ergastolani e coristi! Ma per cosa? Non tanto per allietare gli orecchi degli ascoltatori in Duomo, che con i loro applausi li hanno ricompensati di tanti sacrifici, quanto per compiere un bel gesto educativo non scontato oggigiorno. Alla fine, la “ciliegina sulla torta”: i carcerati chiedono che lo stesso brano sia eseguito in carcere il giorno 18 dicembre durante il loro pranzo di Natale, davanti ai loro famigliari, mentre il parroco di Cuasso al Monte chiede altresì che il medesimo sia eseguito la notte di Natale nella sua parrocchia: che soddisfazione! E gli applausi? Ai ragazzi non importano molto, interessa aver compiuto un gesto (e che gesto!): pure gli immigrati possono testimoniare la loro volontà di integrazione! Ora, è difficile valutare il grado di religiosità dei ragazzi, o la loro preparazione al canto, ma di una cosa si è certi ed è proprio vera: i ragazzi erano commossi e quando il cuore si commuove, ci si muove! Roma: il teatro in carcere cambia la vita, lo racconta un docu-film a Rebibbia globalist.it, 12 dicembre 2017 “Rebibbia24” di un gruppo di studenti romano documenta il dietro le quinte dello spettacolo “Hamlet” diretto da Fabio Cavalli. Il teatro in carcere può raggiungere livelli di grande eccellenza. Basti pensare alla storica Compagnia della Fortezza a Volterra diretta da Armando Punzo o all’intensissimo film dei fratelli Taviani “Cesare deve morire” su un “Giulio Cesare” di Shakespeare diretto da Fabio Cavalli con i detenuti. Proprio al Teatro di Rebibbia il 20 dicembre viene presentato “Rebibbia 24”, docu-film con gli studenti del Dams Università Roma Tre e i detenuti-attori del Teatro libero del carcere e con la collaborazione degli allievi degli istituti “Roberto Rossellini”, “Giosuè Carducci”, “Francesco d’Assisi” e della Banda della Scuola popolare di musica di Testaccio. Per adesso il docu-film viene presentato a Rebibbia. Con il coordinamento artistico di Fabio Cavalli e il montaggio di Alessandro De Nino, ci informa la nota stampa, “sette ragazzi raccontano il dietro le quinte dell’arte in carcere e come l’incontro con Rebibbia e i suoi detenuti-artisti ha cambiato le loro vite”. Il Dipartimento di Filosofia, Comunicazione e Spettacolo dell’Università Roma Tre ha potuto portare gli studenti e le telecamere nel carcere grazie al Bando “Sillumina”, con il supporto di Ministero dei Beni e attività culturali e del turismo e della Siae: “da allievi del Laboratorio di arti dello spettacolo sono diventati collaboratori professionali nel progetto Rebibbia 24” che racconta il dietro le quinte della realizzazione di “Hamlet”, con la regia di Cavalli. Taranto: “Babbi non solo a Natale”, in scena detenuti e componenti della compagnia Troisi tarantinitime.it, 12 dicembre 2017 Il prossimo 14 dicembre, presso l’Auditorium Don Granozio della Parrocchia Sacro Cuore di Taranto, si esibiranno i Tokay In & Out, compagnia teatrale composta da attori detenuti e attori della Compagnia Teatrale Massimo Troisi di Taranto. Maria Teresa Liuzzi, fulcro della Compagnia “Troisi” assieme al fondatore Raffaele Boccuni, è impegnata da tempo nell’organizzazione di lezioni di teatro nelle carceri italiane. Lo spettacolo si colloca in un progetto ben più ampio che punta a costituire una compagnia di teatro stabile all’interno della Casa Circondariale di Taranto, una compagnia composta sia da persone detenute che da uomini liberi. Il carcere infatti troppo spesso viene visto come luogo di isolamento, luogo dell’oblio, luogo da dimenticare, spesso è collocato in periferia, lontano dallo sguardo dei più. L’obiettivo è invece quello di creare ponti tra il mondo del dentro e il mondo del fuori, perché il carcere e i suoi abitanti non possono rimanere un problema delle sole Istituzioni. Il nome “Tokay In & Out” è stato scelto dal gruppo per il significato di cui è portatore. Il Tokay è un geco e rappresenta il valore dell’adattabilità, un valore necessario all’animale come all’uomo, per poter sopravvivere e andare avanti anche quando sulla strada si pongono ostacoli che possono sembrare invalicabili. “In & Out” non solo perché la compagnia teatrale consta di attori/detenuti e attori/liberi, ma anche e soprattutto per la volontà di creare ponti tra il dentro e il fuori. Anche la scelta del luogo non è casuale, infatti l’Auditorium Don Granozio insiste in un quartiere compromesso della città di Taranto ed ha trovato condivisione anche in Don Luigi Larizza che nella sua mission presta da sempre particolare attenzione per quelle che sono le persone più fragili e vulnerabili. Lo spettacolo tratterà il tema della paternità in chiave ironica e sarà intermezzato da momenti musicali offerti dall’Associazione Apulia Musica con la quale è attiva già da tempo una fattiva collaborazione, e ringraziamo per questo Antonella Sgobio sempre disponibile ad accogliere le nostre proposte. Si ringrazia la Casa Circondariale di Taranto nelle persone del Direttore, dott.ssa Stefania Baldassari e del Coordinatore Area Trattamentale, dott. Vitantonio Aresta, che si dimostrano sempre sensibili rispetto ad iniziative volte alla rieducazione e al reinserimento del detenuto, il Corpo della Polizia Penitenziaria, la cui presenza è preziosa e fondamentale per la buona riuscita del laboratorio, nella persona del Comandante, Comm.Coord. dott. Gianluca Lamarca e il Comm.C. dott. Elena Vetrano, il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria nella persona del Provveditore, dott. Carmelo Cantone per il sostegno e l’interesse per le iniziative svolte e della dott.ssa Maria Linsalata per la sua concreta disponibilità. Il Comune di Taranto, nelle persone degli assessori Valentina Tilgher, Simona Scarpati e Massimiliano Motolese, per aver voluto fortemente l’inserimento dello spettacolo nell’ambito del calendario eventi del “Natale Tarantino”. Roma: progetto CO2 “Controllare l’odio”, per le detenute arriva la musica nei corridoi tg24.sky.it, 12 dicembre 2017 Il carcere di Rebibbia sarà il 13mo in Italia a ospitare il progetto CO2 “Controllare l’odio”. Il prossimo 14 dicembre nella sezione femminile della casa circondariale romana si inaugura il progetto CO2 “Controllare l’odio”. L’iniziativa è sostenuta dalla Siae. A disposizione delle detenute un’audioteca di circa 2mila brani. Musica in carcere per sopravvivere alle privazioni della reclusione. È il senso del progetto CO2 “Controllare l’odio”, che il 14 dicembre sarà inaugurato anche nella la sezione femminile del carcere romano di Rebibbia. All’evento parteciperanno Franco Mussida, presidente del CPM Music Institute, insieme al frontman dei Tiromancino, Federico Zampaglione. Il progetto prevede la sonorizzazione di 357 metri di corridoi, che separano gli spazi detentivi da quelli di colloquio e consultazione, con la musica delle audioteche del progetto CO2 “Controllare l’odio”. L’iniziativa, sostenuta dalla Siae - Società Italiana degli Autori ed Editori, è già stata attivata con buoni risultati in altre 12 carceri italiane: Milano, Monza, Opera, Torino, Venezia, Genova, Parma, Bologna, Firenze, Ancona, Roma e Napoli. Il progetto, nato nel 2013 in collaborazione con l’Università di Pavia e patrocinato dal Ministero della Giustizia, ha ottenuto quest’anno la Medaglia di Rappresentanza del Presidente della Repubblica. Si tratta di un percorso sonoro selezionato dalle stesse detenute che mira a “coinvolgere emotivamente - si legge in una nota della Siae - attraverso precisi climi musicali e composizioni scritte dallo stesso Mussida”. Le donne ospiti della Casa Circondariale potranno creare delle playlist personalizzate, individuando i brani che ritengono più adatti e conformi al loro percorso emotivo. A disposizione delle detenute verrà messa un’audioteca composta da circa 2mila brani, a loro volta suddivisi per “stati d’animo”. All’interno del catalogo sono presenti composizioni orchestrali, colonne sonore, musica classica, pop rock, elettronica e musica etnica. “La musica offerta in modo innovativo come elemento trattamentale nel periodo di detenzione produce degli straordinari effetti collaterali - ha raccontato Franco Mussida - Il cammino musicale permette alle detenute di creare una calda culla per i propri pensieri, creata dai climi emotivi che esalteranno il potenziale consolatorio e amorevole contenuto nelle composizioni che verranno diffuse, riscaldando emotivamente un luogo di per sé desolato”. Mussida ha inoltre aggiunto che l’idea di questo progetto, che ha come sponsor tecnico l’azienda Texim, è “nata dal suggerimento del Comandante della Polizia Penitenziaria subito ripreso dalla Direttrice del Carcere, a dimostrazione della sensibilità che questo corpo di sorveglianza ha verso la popolazione detenuta”. Ius soli, lettera aperta ai senatori: non tradite 800mila ragazzi di Movimento Italiani Senza Cittadinanza Il Manifesto, 12 dicembre 2017 Cara Senatrice, caro Senatore, siamo il movimento degli Italiani Senza Cittadinanza che ha organizzato iniziative importanti come il Cittadinanza Day del 13 ottobre 2017 per costruire consenso intorno alla riforma della normativa sulla cittadinanza, il cosiddetto “Ius Soli temperato” e “Ius culturae”. Insieme ad oltre 800mila minori invisibili, il 9 per cento della popolazione scolastica, viviamo quotidianamente sulla nostra pelle le carenze della legge n. 91 del 1992, essendo nati o comunque cresciuti in questo Paese, ma non riconosciuti dallo Stato per quello che siamo. Italiani ed italiane. Per questo la recente ricalendarizzazione del DDL n. 2092 all’interno di un programma così fitto di impegni e con un numero così ridotto di sedute a disposizione, ci riempie di amarezza e sconcerto. Senatrice, Senatore, in passato ha sostenuto l’attuale maggioranza di governo, è per questo che le chiediamo di sollecitare i suoi organi dirigenti a portare in Aula la riforma della cittadinanza. Nel pieno rispetto delle prerogative del Presidente del consiglio Paolo Gentiloni, che a più riprese si è impegnato personalmente negli scorsi mesi a varare la riforma entro la fine della legislatura, condividiamo l’idea secondo cui l’unica strategia possibile per garantirne l’approvazione in tempo utile, considerata l’incertezza dei numeri e il numero abnorme di emendamenti depositati dall’opposizione, sia ricorrere alla questione di fiducia. È vero che l’Italia, secondo i dati Eurostat, è il Paese nell’Unione europea che nel corso degli ultimi anni ha registrato il maggior numero di nuovi cittadini, 202.000 nel 2016. Altri dati evidenziano tuttavia come non solo il sistema pensionistico - 8 miliardi di contributi sociali versati, con un saldo netto di circa 5 miliardi per le casse dell’Inps - sia tenuto in piedi grazie al contributo insostituibile dei nostri genitori, fratelli e sorelle maggiori e di quanti/e di noi stessi già hanno avuto accesso al mondo del lavoro, ma che, prima o a maggior ragione dopo l’ottenimento della cittadinanza, la popolazione di origine straniera tende sempre più a redistribuirsi sul territorio dell’Unione europea in cerca di migliori opportunità, tanto che il numero dei cittadini stranieri senza lavoro residenti in Italia continua a scendere. È vero che, nonostante gli sforzi di tante e tanti, eletti, attivisti, giornalisti, intellettuali e scrittori, la stampa continua a pubblicare sondaggi che indicano un’opinione pubblica fortemente divisa sui contenuti della riforma. È altrettanto vero che sono stati commessi molti errori nella presentazione di questi contenuti e scontiamo una più che ventennale narrazione dominante che tende a criminalizzare migranti, rifugiati e Italiani di origine straniera. Infine, la invitiamo a prendere consapevolezza di un ultimo aspetto che ci sta particolarmente a cuore. Proprio cavalcando la battaglia contro la riforma della cittadinanza, forze animate da sentimenti di odio e intolleranza che sono estranei alle ragioni della convivenza civile stanno sempre più inquinando il dibattito politico, con riflessi deleteri sull’informazione e sui social media. Occorre dare un segnale forte e chiaro a questi gruppi, votando un provvedimento che sancisce le ragioni del diritto dei più deboli e rafforza gli anticorpi democratici in seno alla società italiana tutta. Non tradisca oltre 800mila minori che sono in attesa della legge, non tradisca i loro compagni di banco e insegnanti, altrettanto desiderosi di vivere in un Paese che sappia riconoscere la scuola come primo luogo di formazione di cittadinanza attiva. Non tradisca un popolo che vi chiede da sempre un’Italia più equa, coesa, unita davanti alle sfide della globalizzazione. Libia. Amnesty: “i governi europei complici dei terribili abusi contro i migranti” La Repubblica, 12 dicembre 2017 L’accusa di Amnesty International contenuta in un rapporto diffuso ieri dal titolo: “Libia: un oscuro intreccio di collusione”. Il perverso connubio tra polizia carceraria, trafficanti e guardia costiera. In un rapporto pubblicato oggi, all’indomani dello scandalo suscitato dalle immagini relative alla compravendita dei migranti in Libia, Amnesty International ha accusato i governi europei di essere consapevolmente complici nelle torture e nelle violenze ai danni di decine di migliaia di rifugiati e migranti, detenuti in condizioni agghiaccianti nel paese nordafricano. Il rapporto, intitolato “Libia: un oscuro intreccio di collusione”, descrive come i governi europei, per impedire le partenze dal paese, stiano attivamente sostenendo un sofisticato sistema di violenza e sfruttamento dei rifugiati e dei migranti da parte della Guardia costiera libica, delle autorità addette ai detenuti e dei trafficanti. “Centinaia di migliaia di rifugiati e migranti intrappolati in Libia sono in balia delle autorità locali, delle milizie, dei gruppi armati e dei trafficanti, spesso in combutta per ottenere vantaggi economici, ha detto John Dalhuisen, direttore di Amnesty International per l’Europa - decine di migliaia di persone sono imprigionate a tempo indeterminato in centri di detenzione sovraffollati e sottoposte a violenze ed abusi sistematici. I governi europei - ha aggiunto - non solo sono pienamente a conoscenza di questi abusi, ma sostengono attivamente le autorità libiche nell’impedire le partenze e trattenere le persone in Libia. Dunque, sono complici di tali crimini”. La politica di contenimento. Dalla fine del 2016 gli stati membri dell’Unione europea e soprattutto l’Italia hanno attuato una serie di misure destinate a sigillare la rotta migratoria attraverso la Libia e da qui nel Mediterraneo centrale, con scarsa attenzione alle conseguenze per le persone intrappolate all’interno dei confini della Libia, dove regna l’anarchia. La cooperazione coi vari attori libici si è sviluppata lungo tre assi: 1) - la fornitura di supporto e assistenza tecnica al Dipartimento per il contrasto all’immigrazione illegale (Dcim), l’autorità libica che gestisce i centri di detenzione al cui interno rifugiati e migranti sono trattenuti arbitrariamente e a tempo indeterminato e regolarmente sottoposti a gravi violazioni dei diritti umani, compresa la tortura; 2) - la fornitura di addestramento, equipaggiamento (navi incluse) e altre forme di assistenza alla Guardia costiera libica per metterla in grado di intercettare le persone in mare; 3) - la stipula di accordi con autorità locali, leader tribali e gruppi armati per incoraggiarli a fermare il traffico di esseri umani e a incrementare i controlli alla frontiera meridionale della Libia. Detenzione, estorsione e sfruttamento. La presenza, nella legislazione libica, del reato d’ingresso irregolare, unita all’assenza di norme o centri per la protezione dei richiedenti asilo e delle vittime del traffico di esseri umani, fa sì che la detenzione di massa, arbitraria e a tempo indeterminato sia il principale mezzo di controllo dell’immigrazione in Libia. I rifugiati e i migranti intercettati in mare dalla Guardia costiera libica vengono trasferiti nei centri di detenzione gestiti dal Dcim dove subiscono trattamenti orribili. In questi luoghi sovraffollati e insalubri si trovano attualmente fino a 20.000 persone. Rifugiati e migranti intervistati da Amnesty International hanno riferito dei trattamenti subiti o di cui sono stati testimoni: detenzione arbitraria, tortura, lavori forzati, estorsione, uccisioni illegali che chiamano in causa autorità, trafficanti, gruppi armati e milizie. Collusione fra polizia carceraria, trafficanti e guardia costiera. Decine di rifugiati e migranti hanno descritto il devastante ciclo di sfruttamento in cui colludono le guardie carcerarie, i trafficanti e la Guardia costiera. Le guardie torturano per estorcere danaro e, quando lo ricevono, lasciano andare le vittime o le passano ai trafficanti. Costoro organizzano la partenza, col consenso della Guardia costiera libica. A indicare che un’imbarcazione è oggetto di accordi tra trafficanti e Guardia costiera, lo scafo viene contrassegnato in modo che non venga fermato. A volte la Guardia costiera scorta tali imbarcazioni fino alle acque internazionali. Se non è dato sapere quanti funzionari della Guardia costiera libica collaborino coi trafficanti, è evidente che nel corso del 2016 e del 2017 questo organismo ha incrementato la sua operatività grazie al sostegno ricevuto dagli stati dell’Unione europea. Di conseguenza, è aumentato il numero delle operazioni in cui rifugiati e migranti sono stati intercettati in mare e riportati sulla terraferma libica. L’infinito meccanismo dell’estorsione. Nel 2017, finora, la Guardia costiera libica ha intercettato 19.452 persone, che sono state riportate sulla terraferma e trasferite in centri di detenzione dove la tortura è la regola. Un uomo del Gambia, detenuto per tre mesi, ha raccontato della fame e delle percosse in un particolare centro di detenzione: “Mi picchiavano con un tubo di gomma perché volevano i soldi per rilasciarmi. Telefonavano ai miei a casa mentre mi picchiavano, per costringerli a mandare i soldi”. Dopo che la famiglia ha pagato il riscatto, l’uomo è stato messo su un’automobile diretta a Tripoli. L’autista ha chiesto ulteriori soldi: “Diceva che fino a quando non avessi pagato avrei dovuto rimanere con lui, oppure mi avrebbe venduto”. Ciò che dovrebbero fare subito le autorità libiche. “Per migliorare subito le sorti dei rifugiati e dei migranti nei centri gestiti dal Dcim, le autorità libiche dovrebbero riconoscere ufficialmente il mandato dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite sui rifugiati, firmare la Convenzione Onu sullo status di rifugiati e adottare una legge sull’asilo. Dovrebbero inoltre annullare l’applicazione della detenzione automatica dei rifugiati e dei migranti, che è esattamente il contesto nel quale avvengono le peggiori violenze”, ha commentato Dalhuisen. Le intimidazioni alle Ong. La Guardia costiera libica mette a rischio vite umane e intimidisce le Ong Funzionari della Guardia costiera libica operano notoriamente in collusione con le reti dei trafficanti e ricorrono a violenze e minacce contro rifugiati e migranti che si trovano su imbarcazioni alla deriva. Immagini filmate, fotografie e documenti esaminati da Amnesty International mostrano una nave donata dall’Italia nell’aprile 2017, la Ras Jadir, protagonista di un’operazione sconsiderata che nel novembre 2017 ha causato l’annegamento di un numero imprecisato di persone. Ignorando i più elementari protocolli, la Ras Jadir ha avvicinato un gommone in avaria a circa 30 miglia nautiche dalle coste libiche. Non ha lanciato in acqua gli scafi semirigidi di salvataggio per facilitare i soccorsi, costringendo i naufraghi ad arrampicarsi sugli alti bordi della nave, col risultato che molti sono finiti in acqua. Ciò che mostrano alcune immagini. La Sea-Watch 3, una nave di una Ong che era nelle vicinanze, si è diretta verso la zona mettendo in azione gli scafi di salvataggio. Come mostrano le immagini, a quel punto il personale a bordo della Ras Jadir ha iniziato a lanciare oggetti costringendo gli scafi ad allontanarsi. Altre immagini mostrano persone già a bordo della Ras Jadir venir colpite con una corda ed altre gettarsi in mare per cercare di raggiungere gli scafi della Sea-Watch 3. Anche se azioni sconsiderate e pericolose della Guardia costiera libica erano state documentate già in precedenza, questa pare essere stata la prima volta in cui in un’operazione del genere è stata utilizzata una nave fornita da un governo europeo. La reale priorità dei governi europei. “Aiutando le autorità libiche a intrappolare le persone in Libia senza chiedere che pongano fine alle sistematiche violenze contro rifugiati e migranti o, come minimo, che riconoscano l’esistenza dei rifugiati, i governi europei stanno mostrando quale sia la loro reale priorità: la chiusura della rotta del Mediterraneo centrale, con poco riguardo per la sofferenza che ne deriva”, ha sottolineato Dalhuisen. “I governi europei devono ripensare la cooperazione con la Libia in materia d’immigrazione e consentire l’ingresso in Europa attraverso percorsi legali, anche attraverso il reinsediamento di decine di migliaia di rifugiati. Essi devono insistere che le autorità libiche pongano fine all’arresto e alla detenzione di natura arbitraria di rifugiati e migranti, rilascino tutti i cittadini stranieri che si trovano nei centri di detenzione e consentano piena operatività all’Alto commissariato Onu per i rifugiati”, ha concluso Dalhuisen. Le cerimonie di donazione della Ras Jadir. La Ras Jadir è stata donata dall’Italia alle autorità libiche in due cerimonie: la prima nel porto di Gaeta il 21 aprile 2017 e la seconda in quello di Abu Sittah il 15 maggio. La nave risulta ben in evidenza nelle immagini filmate dei due eventi, cui ha preso parte il ministro dell’Interno italiano Marco Minniti. Alla fine del settembre 2017 l’Organizzazione internazionale delle migrazioni aveva identificato 416.556 migranti presenti in Libia, oltre il 60 per cento dei quali proveniente dai paesi dell’Africa subsahariana, il 32 per cento da altri paesi nordafricani e circa il 7 per cento dall’Asia e dal Medio Oriente. Secondo dati forniti dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), alla data del 1° dicembre 2017 44.306 persone presenti in Libia erano ufficialmente registrate come rifugiati o richiedenti asilo. Il numero effettivo è senza dubbio assai più alto. Libia. L’evacuazione dei migranti-schiavi non c’è: per ora solo “rimpatri volontari” di Carlo Ciavoni La Repubblica, 12 dicembre 2017 Gli annunci dalla tribuna del vertice di Abidjan sembrano lontani dal diventare fatti concreti. Al momento è in atto un programma di rimpatri volontari, che - secondo Amnesty International - pongono seri interrogativi sul reale desiderio dei rifugiati di voler tornare nel rispettivi Paesi. Lo avevano annunciato e promesso ad Abidjan, durante il vertiche Unione Europea Unione Africana, il 30 novembre scorso: “Una task force congiunta sarà istituita per salvare e proteggere le vite di migranti e rifugiati lungo le rotte migratorie e in particolare in Libia, accelerando i rimpatri volontari assistiti verso i Paesi di origine e il reinsediamento di coloro che ne hanno bisogno”. Il presidente francese Macron aveva anche sottolineato: “Questo lavoro verrà condotto nei prossimi giorni, in linea con i Paesi di origine”, e alcuni migranti - non si disse quanti - potrebbero ottenere asilo in Europa. Solo il giorno prima, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) aveva annunciato di aver avuto il via libera dalle autorità libiche per allestire una “struttura di transito e partenza” a Tripoli destinata, appunto, alle persone che hanno bisogno di protezione internazionale. I nodi da sciogliere in Libia. Spenti i riflettori sul meeting di Abidjan, restano in piedi una serie di questioni, assai complicare che ostacolano, di fatto, la realizzazione del progetto. Prima fra tutte - va sempre ricordato - c’è che la Libia non ha mai firmato la Convenzione di Ginevra, per cui attualmente la legislazione del Paese più instabile del mondo riconosce il diritto di asilo soltanto alle persone provenienti da sette paesi: Eritrea, Iraq, Siria, Palestinesi dei territori, Somalia, Etiopia (ma soltanto ai cittadini di etnia Oromo), Sudan, ma solo a persone provenienti dalla regione del Darfur. Intanto delle condizioni di vita dei circa 500 mila migranti che hanno bisogno di assistenza umanitaria, bloccati nei confini libici poco si sa. Rimangono nella memoria di tutti solo le immagini del reportage della Cnn, che ha raggiunto ogni angolo della Terra e che ha imposto all’agenda del vertice di Abidjan di mettere in primo piano il problema dei profughi, oggetto di un vero e proprio commercio di schiavi, nelle galere libiche. Il programma è per i rimpatri, non per l’evacuazione Dunque, al di là delgli annunci e delle dichiarazioni dalla tribuna di Abidjan, sembra al momento evidente che di evacuazione vera e propria, da parte di una “task force”, non si tratti. Piuttosto siamo di fronte una più complessa operazione di rimpatri, più o meno assistiti, dei quali si sta facendo carico l’OIM, l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni, che sta per l’appunto concretamente lavorando per far tornare volontariamente nei rispettivi Paesi circa 15 mila persone, entro il prossimo 31 dicembre. L’evacuazione, dunque, è ben altra cosa: quello che sta accadendo oggi in Libia è la realizzazione di un programma, peraltro già in atto, che adesso si è soltanto intensificato, grazie ai circa 20 milioni di euro messi a disposizione dell’OIM dal Ministero degli Esteri e della Cooperazione Internazionale, prelevati dal Fondo Africa. Un progetto che ha di fatto sottratto dal giogo dei trafficanti circa 13 mila persone dall’inizio di quest’anno ed ha agevolato il loro ritorno nei Paesi d’origine. “Un’altra improvvisazione di fronte l’emergenza”. A questo punto va posto un problema sul concetto di volontarietà. A sollevarlo è Riccardo Noury, direttore della comunicazione di Amnesty International, il quale dice: “Non si è pensato alla vulnerabilità di quella gente si si è provveduto a cercare possibili ricollocamenti in luoghi sicuri in Europa. Come si fa a parlare di ‘volontà di tornare nel proprio Paesè, quando si ha a che fare con eritrei, somali, o nigeriani fuggiti per il terrore seminato dai tagliatori di teste di Boki Haram? Il concetto di volontarietà diventa molto discutibile. Le persone che vengono ascoltate in Libia vogliono sicuramente andarsene da quel luogo, ma bisogna anche considerare che il loro desiderio impellente è fuggire da un presente insopportabile, nell’immediato non pensano al futuro che spetta loro una volta tornati in patria. La verità - ha aggiunto Noury - è che, ancora una volta, si sta improvvisando di fronte un’emergenza tragica e non si è invece rovesciato il problema, cercando prima soluzioni di accoglienza in Europa, per poi provvedere, allora sì, all’evacuazione”. Turchia. Chiesto l’ergastolo per 6 giornalisti accusati di “messaggi subliminali” sul golpe di Marco Ansaldo La Repubblica, 12 dicembre 2017 La requisitoria dell’accusa al processo per il fallito colpo di Stato del 2016. Non c’è pace per i giornalisti in Turchia. Dopo i 300 giorni di carcere compiuti domenica dal corrispondente del quotidiano tedesco Die Welt, Deniz Yucel, accusato di “propaganda terroristica” per i suoi articoli, ora è la volta di altri sei imputati turchi che rischiano addirittura l’ergastolo. La procura di Istanbul ha chiesto la massima pena (oggi la condanna a morte è stata eliminata nel Paese, anche se ampi strati della popolazione la richiedono e il presidente Recep Tayyip Erdogan si è detto favorevole a ripristinarla), cioè l’ergastolo aggravato - una sorta di 41bis - per il giornalista veterano Ahmet Altan, ex direttore del quotidiano Taraf e ora scrittore, e per il fratello Mehmet, professore universitario di economia. Sono entrambi imputati, insieme con altre 15 persone, di sostegno alla presunta rete golpista di Fethullah Gulen, l’imam turco considerato dal governo di Ankara l’ispiratore del fallito colpo di Stato del 15 luglio 2016 e dal 1999 in auto esilio in Pennsylvania. Tutti e due gli Altan, personaggi molto celebri in Turchia, si trovano in custodia cautelare da oltre un anno con l’accusa di aver inviato, durante una trasmissione tv, “messaggi subliminali” di propaganda a favore del tentativo di putsch, poco prima che avvenisse. La stessa condanna è stata anche chiesta per un’altra giornalista celebre, Nazli Ilicak, volto noto della tv turca ed editorialista nei quotidiani, oltre che figlia di un ex ministro della Repubblica di Turchia. Tutti loro, davanti ai giudici, si sono proclamati innocenti. Nei mesi scorsi, Ahmet Altan aveva anche diffuso una sua difesa processuale, molto vigorosa e di forte impatto, pubblicata poi in Italia dalla Edizioni e/o e quindi dal settimanale Internazionale, intitolata “Ritratto dell’atto di accusa come pornografia giudiziaria”. Alla sbarra c’erano anche altri tre giornalisti: Suku Ozsengul, Yakup Simsek e Murat Sanliman. Il solo a comparire di persona è stato quest’ultimo, mentre i suoi colleghi erano collegati in video. Tra gli imputati ben dieci sono processati in contumacia in quanto latitanti. Fra loro Ekrem Dumanli, ex direttore del quotidiano dei gulenisti, Zaman, fino a pochi anni fa molto diffuso in Turchia e con una versione anche in inglese, prima di essere commissariato nel marzo 2016 e quindi chiuso dopo il colpo di Stato. Il pubblico ministero ha accusato tutti di “tentata eversione dell’ordine costituzionale”, e di “tentativo di sostituire un nuovo sistema di potere a quello democraticamente insediato”. Nazli Ilcak, comparsa in video, ha detto di “non aver mai odiato” il presidente turco Erdogan, e ha ammesso le sue simpatie per Gulen. Ma, ha spiegato, “preferirei Gulen, e non vedo come questo possa costituire reato”. In Turchia le operazioni di repulisti dagli elementi considerati vicino a Fethullah Gulen proseguono senza sosta. Il ministero degli Interni ha emesso un comunicato in cui annuncia che nella sola ultima settimana le forze di sicurezza hanno realizzato 1.323 operazioni, conclusesi con l’arresto di 4.062 sospetti. Imponenti anche i numeri che riguardano le azioni degli uomini dell’antiterrorismo, giunti all’arresto di 923 sospetti, 153 dei quali separatisti curdi del Pkk, 67 jihadisti dell’Isis, 699 golpisti e quattro brigatisti di estrema sinistra. I raid hanno permesso di distruggere 22 rifugi del Pkk, sequestrare otto fucili di precisione, 15 pistole, 728 chili di materiale esplosivo, 11 bombe a mano, 1218 proiettili, mentre altre 35 mine anticarro di fabbricazione artigianale sono state fatte detonare. Il tutto mentre a Istanbul si è aperto il processo a Abdulkadir Masharipov, l’uzbeko autore della strage di Capodanno nella discoteca Reyna, l’ultimo massacro firmato dall’Isis in una notte di festa trasformata in terrore, e costata la vita a 39 persone. In vista della scontata condanna all’ergastolo del killer (il pm ne ha chiesti 40 solo per lui, che “rischia” anche 1555 anni di prigione) è massima allerta terrorismo in tutta la Turchia, nel timore di colpi di coda degli jihadisti in ritirata da Siria e Iraq. Pure lo scorso Capodanno a Istanbul l’allerta era alta come in poche altre occasioni. Masharipov riuscì tuttavia a eludere ogni misura di protezione, colpendo la discoteca più trendy posta sul lato europeo del Bosforo, oggi rasa al suolo dalle autorità nonostante le proteste del proprietario. Turchia. Lettere e schizzi nella cella di Deniz Yucel, il cronista del Die Welt di Marco Ansaldo La Repubblica, 12 dicembre 2017 Accusato di terrorismo, è in carcere da 300 giorni. Sul suo giornale Die Welt il disegno della prigione. Sono attualmente 170 i giornalisti, turchi e non, imprigionati in Turchia. Nelle stesse condizioni, e spazi, del corrispondente tedesco. “Qui non siamo mica in una serie di Netflix, ma tra agenti di polizia penitenziaria”. Più esattamente, in una cella di 4,18 per 3,10. Fanno poco più di 12 metri quadrati. È in una stanza così, nella prigione di Silivri, a Istanbul, che vive e scrive il giornalista di Die Welt, Deniz Yucel, uno degli ultimi corrispondenti stranieri rimasti a coprire la Turchia. Oggi fanno 300 giorni dal suo arresto, avvenuto il 14 febbraio scorso, con l’accusa di “propaganda al terrorismo” per gli articoli pubblicati sul quotidiano tedesco. Il suo giornale ieri è uscito con una trovata grafica. Chi ha aperto l’edizione cartacea (si può vedere anche online) è in grado di riprodurre esattamente la forma della sua cella. Mettendo il retro delle pagine per terra, una per una, si compongono i 12 metri e 96 centimetri che il giornalista tedesco di origini turche occupa. Con la branda, il bagnetto, il cucinino, l’armadietto, un tavolino. Ogni cosa a tiro di braccia, tanto lo spazio è ristretto. Nessuno, ovviamente, ha visitato la cameretta (le celle di tipo F sono tutte uguali in Turchia): i dettagli e gli oggetti contenuti all’interno sono stati disegnati dal reporter, che ne ha fatto uno schizzo e l’ha consegnato agli avvocati. I quali a loro volta lo hanno inviato per mail a Berlino alla sede di Die Welt. Come ha valutato Yucel lo spazio, visto che il metro è un attrezzo proibito in carcere? La moglie Dilek, da lui recentemente sposata in guardina, ha misurato la lunghezza di una pagina di Hurriyet, il principale quotidiano turco, la cui lettura è ammessa. Ottenute le giuste proporzioni dei centimetri, è stato facile per il detenuto capire l’ampiezza dell’ambiente in cui è confinato. A Die Welt una squadra di 15 disegnatori e grafici ha poi ideato e composto, con 220 ore di lavoro in totale, il risultato oggi in edicola e in rete. Dalla sua cella il giornalista ha poi scritto lunghe lettere, ora pubblicate: “Salve Welt, lettrici e lettori, bisogna celebrare le feste come si può. E io festeggio oggi, insieme con la mia meravigliosa moglie Dilek, la mia grandiosa sorella Ilkay, i miei genitori, nipoti, avvocati, colleghi e amici, il trecentesimo giorno di sequestro. Beh, non proprio “ insieme”: loro a Istanbul, Berlino e altrove, io nella prigione di massima sicurezza n. 9 di Silivri”. Yucel spiega di non essere più, da pochi giorni, in isolamento. “La cattiva notizia è che mi arrivano ancora poche lettere. La buona è che tutte non sono state gettate via, ma accantonate. Così mi è arrivato un messaggio scritto ad aprile. Cara Sarah Schmidt, era la tua missiva. Auguri per il nuovo romanzo. Peccato aver mancato la presentazione a Kreuzberg A Meike S. scrive: “Grazie per le cartoline. Qui ci sono giorni buoni e giorni cattivi. Esiste persino il fine settimana. Ma il migliore di tutti per me è il lunedì, il giorno di Dilek, quando per un’ora possiamo parlarci, divisi da un vetro”. A una lettrice: “Cara Tulin, non ci conosciamo personalmente. Ma la tua lettera mi ha molto colpito. Mi ringrazi perché dai miei testi dalla Turchia hai trovato un legame con il Paese di tuo padre. Quando vorrai, ti guiderò a Smirne, la città più europea della Turchia. Oppure a Istanbul, in assoluto”. la più bella città del mondo e la sola attraversata dal mare. Ad Alsancak e a Uskudar (due quartieri di Smirne e Istanbul, ndr) mangeremo polpette e patate. Tamam (d’accordo)?”. E a un collega: “Caro Frederic, tu nei fai di cose. Un reportage sui nazisti, altri temi. È come se dietro al tuo lavoro ci fosse una grande gioia, soprattutto”.