Ristretti Orizzonti, 20 anni di battaglie. La parola alle figlie dei detenuti Il Mattino di Padova, 11 dicembre 2017 Quando, qualche giorno fa, la rivista dalla Casa di reclusione di Padova, Ristretti Orizzonti, ha festeggiato vent’anni di battaglie per una pena più sensata e dignitosa, che responsabilizzi le persone, la cosa più bella di questo particolare “compleanno” è stata la presenza di alcune figlie di persone detenute. E sono state le loro parole, la consapevolezza che i loro padri hanno fatto del male, ma anche il desiderio che il loro cambiamento trovi finalmente ascolto da parte delle Istituzioni. Che cosa significa Ristretti per me Inizierei col fare un viaggio nei miei ricordi, proprio per dire quanto è stato difficile tenere per anni nascosta una verità che condizionava la mia vita privata, il mio modo di approcciarmi alle persone, di affiancarmi a persone scelte per il solo fatto che, semmai avessero scoperto il mio segreto, non mi avrebbero emarginata, esclusa, allontanata. Sentirmi cosi diversa dagli altri ha notevolmente abbassato la mia autostima, anche in ambito scolastico, in quanto più volte ho voluto mollare tutto, pensavo di andare a fare dei corsi professionali per avere un mestiere che mi permettesse di trovare un lavoro, stavo per rinunciare al diploma, perché la figlia di un detenuto non può mica pretendere di diventare qualcuno, di fare carriera, non potevo ambire a niente, pensavo io, ma dentro di me sapevo che avrei dovuto provarci perché volevo farcela. Pensavo che ogni sforzo fosse inutile, ma andavo avanti per amore della mia famiglia, perché i bei voti regalavano a mia madre un sorriso troppo bello per spegnerglielo. Durante i miei studi, ho conosciuto la redazione di Ristretti Orizzonti. Mio padre era entusiasta di questa redazione, mi parlava sempre di tutte le attività che svolgevano, dei loro progetti. La fiducia che aveva in loro mi incuriosì molto, e finalmente ebbi il piacere di conoscerli da vicino. Inizialmente, pensavo che avrei incontrato delle persone, dei volontari che giustificavano i detenuti, che invocavano per loro il perdono, e ammetto che se fosse stato cosi il mio interesse sarebbe scemato, in quanto avrebbero avuto un’idea totalmente diversa dalla mia. Invece non è stato cosi. Io faccio parte di quelle figlie che non giustificano il padre, anzi io lo colpevolizzo per tante cose, a volte perfino esagerando. Concretamente non ho mai avuto un padre, perché un padre dietro le sbarre non c’è, in nessuna occasione, c’è con il pensiero, c’è dentro al mio cuore, ma non basta. A me non è mai bastato. Non bastava il colloquio ogni tre o quattro mesi, perché io avevo bisogno di lui sempre, mia mamma aveva bisogno di suo marito, mia nonna di suo figlio, e questo ha fatto si che entrassi in conflitto con me stessa, con lui, portandomi a ritenerlo colpevole per qualsiasi cosa e se qualcuno avesse provato a giustificarlo non poteva continuare ad avere un rapporto con me, perché era come se stesse mancando di rispetto alla mia sofferenza, a quella di mia mamma e di mia nonna, e di certo non avrebbe aiutato mio padre a capire, a migliorare, a cambiare, anzi lo avrebbe incoraggiato a sbagliare di nuovo. Ho sempre pensato che mio padre avesse sbagliato, non andavo fiera dei suoi errori, ma a me mancava e avrei voluto che pagasse in modo diverso, vicino a noi. Penso che a lui abbia fatto più male sentirsi dire determinate cose da me, che farsi vent’anni di galera. Ogni confronto che potesse avere con me era un processo vero e proprio, molto duro, perché io volevo che mio padre capisse e ritornasse ad essere quella parte buona che ho ereditato anche da lui. La redazione di Ristretti Orizzonti, nel mio cammino con mio padre, nel recupero del nostro rapporto, è stata il mio braccio destro. Mi sono ritrovata in un mondo totalmente diverso da quello dove vivevo prima, mi sono sentita protetta, capita, ma soprattutto ci hanno aiutato. Finalmente avevo trovato qualcuno che non dicesse “povero Dritan”, ma dicesse “ha una famiglia che sta soffrendo”. Non fosse stato per loro, non avrei mai avuto il coraggio di parlare della mia storia, né di iscrivermi a Giurisprudenza e farne una passione, non avrei più avuto un rapporto con mio padre, e soprattutto mio padre non avrebbe capito dove aveva sbagliato. Oggi, dopo tanti anni, tanta sofferenza, tanti litigi, tanti scontri, rancori, mio padre è quel padre che ho sempre sognato. Vederlo con le mani rovinate dal lavoro, vederlo impolverato in pausa pranzo, sentirgli dire che “il dovere chiama”, mi rende orgogliosa di lui. Mi rende orgogliosa e fiera di lui sentirmi dire dalle persone che gli sono vicine, dai suoi datori di lavoro, “tuo padre è un gran lavoratore”, questo rispecchia quell’idea di padre che ho sempre avuto. Un uomo che si responsabilizza, un uomo onesto, normale, che lavora, che fatica, che rispetta gli altri e si fa rispettare. Noi ce l’abbiamo fatta perché abbiamo collaborato l’uno con l’altro, perché Ristretti ci ha dato fiducia, supporto, coraggio, rimproverato, aiutato. Mio padre si è salvato perché ha chiesto aiuto, e oggi mi rendo conto che non ha chiesto di farsi aiutare solo lui, ma inserendomi in questa redazione, ha chiesto aiuto anche per me. Sono stata salvata dal rischio di vivere nascosta, di vivere con rancore, e di vedere mio padre scontare una pena senza capire perché. Non avrei più avuto un padre. Suela M. I padri cambiano grazie a noi figlie Io sono figlia di Tommaso, condannato all’ergastolo. Purtroppo anche noi figli siamo condannate a subire il carcere. È vero, forse i genitori non si scelgono, però ad oggi io sceglierei mio padre altre mille volte. Non mi ha mai fatto paura la realtà di mio padre, anche perché una persona può sbagliare nella vita e loro hanno pagato e stanno ancora pagando, perché 25 anni di carcere non sono 25 giorni. Mi ha lasciato che avevo un anno, ora ne ho 26, di anni. Come sono cambiata io anno dopo anno, così è cambiato lui. Penso che le persone possono cambiare, solo che purtroppo non si dà loro la possibilità di far vedere il loro cambiamento. Purtroppo l’unica mia paura è quella di non poter vivere mio padre al di fuori di questa realtà del carcere, perché è vero che avete abbellito la redazione, avete pitturato le sbarre, avete fatto entrare il colore, però nei loro cuori non c’è colore e neanche nel cuore delle loro figlie e mogli che sono delle vedove bianche, con la consapevolezza che il loro marito, che i nostri genitori non usciranno più da questo carcere. Purtroppo loro sono sepolti vivi. Io le vedo le sbarre che sono colorate di azzurro però sono sempre sbarre, sia per me che per mio padre. Penso che dopo 25 anni di carcere e soprattutto grazie alla collaborazione che ha con Ristretti Orizzonti, mio padre è cambiato. È cambiato non perché lo dico io che sono la figlia, perché io posso dire quello che voglio, ma è cambiato perché lo fa vedere lui, negli incontri che la redazione fa con gli studenti, che è una persona che ha sbagliato e ai ragazzi delle scuole spiega la vita che ha fatto e gli mostra una vita diversa, una strada diversa, questo mi fa capire che mio padre non è la persona di 25 anni fa. Ma purtroppo ad oggi ancora per le Istituzioni mio padre è sempre la persona pericolosa di 25 anni fa. Spero che le Istituzioni diano a queste persone la fiducia che meritano, perché chiusi in una cella hanno già ammesso le loro colpe con loro stessi, se loro non collaborano come vuole lo Stato è perché loro hanno dei figli, hanno delle mogli e non vogliono più fargli passare quello che noi stiamo subendo, perché per quello che subiamo noi loro hanno un rimorso e se lo porteranno a vita. Mio padre sa che mi ha lasciato a un anno e che qualsiasi problema che io ho avuto me lo sono risolto da sola, mi sono rialzata da sola senza nessuno che mi teneva per mano, neanche lo Stato. Io sono più che convinta che queste persone sono cambiate, ma non cambiano per loro stessi, cambiano perché noi figlie abbiamo messo la faccia e loro sono cambiati per noi, per non farci passare quello che abbiamo già passato. I loro rimorsi se li porteranno a vita e soprattutto ogni sera faranno i conti con la loro coscienza. Io spero che le Istituzioni possano mettersi una mano sulla coscienza e dargli l’opportunità di dimostrare che loro sono cambiati, perché se vengono rinchiusi a vita e non hanno questa opportunità, tutti i nostri sforzi, i nostri incontri, tutto il nostro percorso si chiudono dentro a queste mura e queste celle. Francesca R. Lotta alle agromafie, via libera del governo al disegno di legge Quotidiano di Puglia, 11 dicembre 2017 Già al vaglio del Parlamento il lavoro prodotto dalla commissione tecnica presieduta da Caselli. Lotta alle truffe e alle frodi alimentari: lo Stato si appresta ad adeguare la rispettiva legislazione, aggiornando il vigente quadro normativo che disciplina e sanziona gli illeciti penali, obsoleto e debole, essenzialmente per effetto della straordinaria stratificazione di fonti diverse e della inadeguatezza dei rimedi tradizionali rispetto alla dimensione ormai trasnazionale della criminalità del settore. Con il varo da parte dal Consiglio dei ministri e il passaggio alle Camere per l’approvazione definitiva, giunge al culmine, dunque, il lavoro prodotto dalla commissione tecnica presieduta dall’ex procuratore di Torino, Giancarlo Caselli, istituita dal ministero di Giustizia il 20 aprile 2015 e composta dai massimi rappresentanti degli organi di controllo del settore (Generali del Nas, Nac, Carabinieri nucleo ambientale, Corpo Forestale, Icqrf), insieme ad esperti tra cui professori universitari e Giudici cassazionisti. “La commissione - spiega Mario Monopoli, avvocato ostunese, tra i componenti del gruppo di lavoro - ha elaborato un testo perimetrato intorno a due versanti: in primo luogo la delimitazione della categoria dei reati di pericolo contro la salute, in modo da riformare la tutela di beni giuridici di riferimento, che richiedono l’anticipazione delle correlate incriminazioni già alla soglie del rischio e, comunque, in funzione anticipata e preventiva. Dall’altro lato, la rielaborazione del sistema sanzionatorio contro le frodi alimentari, con particolare riferimento alle organizzazioni complesse ed alla responsabilità delle persone giuridiche che sono divenute ormai, nella dimensione allargata degli scambi commerciali, il principale referente crimonologico, così da aprire una strada a risposte in ragione dell’effettivo grado di offensività. Ora l’auspicio è che si concluda in fretta l’iter legislativo”. Il disegno di legge, composto da tredici articoli, mira ad innovare le regole a tutela della salute pubblica e del mercato agroalimentare. Le nuove norme introducono importanti modifiche sia riguardo al codice penale che alle leggi complementari, prevedendo nuove fattispecie di reato più incisive ed al passo coi tempi e le esigenze della società moderna. Gli obiettivi, dunque. Innanzitutto, l’intento normativo è quello di delimitare la categoria dei reati di pericolo contro la salute. Inoltre, si è inteso approfondire e rielaborare l’ambito di tutela penale contro le frodi alimentari, con particolare riferimento alla emergente realtà di organizzazioni complesse ed alla responsabilità delle persone giuridiche che sono divenute ormai, nella dimensione allargata degli scambi commerciali, il principale referente criminologico, così da aprire la strada a nuove fattispecie incriminatrici, differenziate sia a livello normativo-precettivo che a livello sanzionatorio in ragione dell’effettivo grado di offensività. Si è, pertanto, superata l’attuale separazione tra “delitti di comune pericolo mediante violenza” e “delitti di comune pericolo mediante frode”, sostituendola con la distinzione tra “delitti di comune pericolo contro l’incolumità pubblica” e “delitti di comune pericolo contro la salute pubblica e la sicurezza degli alimenti e dei medicinali”. Tutti gli articoli del provvedimento in esame, dunque, dettano una disciplina più compiuta di quei fatti di produzione e commercializzazione di alimenti che non sono capaci di produrre un pericolo immediato ed imminente, ma tendono a manifestare la propria pericolosità nel medio e lungo periodo. Attualmente, infatti, tali condotte, in quanto non connotate da una nocività elevata o diffusa, risultano essere non solo escluse dall’ambito di applicazione delle norme codicistiche, ma anche estranee a previsioni preventivo-repressive nel corpo delle leggi complementari. Nella stessa ottica, le innovazioni normative introdotte con il disegno di legge, mirano a rendere più operative alcune incriminazioni, quali quelle di cui agli articoli 440, 442 e 444 del codice penale, sanzionando in tal modo forme di pericolo astratto che potrebbero configurare ipotesi di veri “disastri” anche ove manchi la loro concretizzazione, riconducendoli nello schema, ugualmente perseguibile di macro-eventi di pericolo. Non solo. L’intervento normativo mira anche a riordinare i rapporti tra codice penale e leggi complementari introducendo, per ciascun ambito di riferimento, una norma generale e astratta comprensiva di tutte le tipologie di condotte più significative, che definisce la condotta illecita per caratteri generali. Per ciascun settore trattato, poi, si scende nella casistica più specifica, sebbene, per le ipotesi di reato costruite a livello di prevenzione o di rischio (quelle soprattutto delle leggi complementari) siano previste forme di oblazione o, comunque, di ravvedimento, rilevanti a fini estintivi del reato di natura contravvenzionale, realizzandosi in tal modo una notevole accelerazione dei meccanismi processuali nonché un recupero di somme a livello erariale per le infrazioni interessate dalla revisione sanzionatoria. Fari sulle misure preventive, quindi. In ultima analisi, infatti, l’intenzione del legislatore è stata quella di anticipare la tutela penale di alcune condotte delittuose di rischio, ma aventi ad oggetto la produzione e commercializzazione all’ingrosso, con gradi diversi di responsabilità dolosa o colposa. È morto don Riboldi, prete dei terremotati e vescovo anticlan di Domenico Agasso La Stampa, 11 dicembre 2017 Pastore di Acerra dal 1978 al 1999, è mancato a 94 anni. Fu voce delle vittime del sisma in Belice; poi in prima linea contro mafia e camorra, per questo gli assegnarono la scorta. Si fece voce dei terremotati del Belice, in Sicilia, che vivevano al freddo nelle baracche. Fu pastore in terra di camorra, in anni in cui i morti si contavano a centinaia. Prete-terremoto, vescovo anticamorra: è morto monsignor Antonio Riboldi, per tutti don Antonio, vescovo emerito di Acerra (Napoli). Il decesso ieri, 10 dicembre 2017, all’alba, a 94 anni, a Stresa, in Piemonte, presso la casa dei Rosminiani dove si trovava dalla scorsa estate. A darne l’annuncio la curia di Acerra. Si è sempre lasciato guidare dalla “volontà di Dio”. Antonio Riboldi, nato il 16 gennaio 1923 in Tregasio, frazione di Triuggio, Brianza profonda, prete rosminiano dal 1951, avrebbe voluto insegnare. Mentre progetta una carriera accademica, lo spediscono a fare il Parroco nel cuore della Sicilia. Lui punta i piedi: non voglio andare, ho pregato lo Spirito Santo. Risposta del superiore generale: “Non so quale Spirito Santo abbiate pregato: il mio ha detto che partiate entro quarantott’ore”. Il luogo è Santa Ninfa, valle del Belice. Ci resterà vent’anni, dal 1958 al 1978. In realtà doveva andarsene nel 1968. Ma arriva il terremoto. Resta, diventando ancor più di prima il pastore, la guida, la speranza di quella gente abbandonata. Ci si mette anche la mafia: lui grida forte contro i soccorsi mancati e contro chi ruba sulla pelle dei poveri. Porta i terremotati a Roma da Paolo VI e davanti ai palazzi della politica. Sposta macerie, rilascia interviste, guida marce di protesta. Ammetterà: “Ci fu un tempo che era scomodo portare in giro il nome Riboldi. Mi piovevano addosso insulti, insinuazioni, sospetti. Chi è questo prete? Cosa vuole? Perché non la smette?”. Dieci anni in prima linea, senza soste. Nel 1978, passata l’emergenza più grave, dovrebbe tornare al nord. Ma di nuovo c’è per lui un altro disegno. il futuro beato papa Paolo VI lo nomina vescovo di Acerra, nel napoletano, diocesi da anni senza guida. Terra di camorra e di povertà estrema. Una Chiesa da ricostruire, sullo sfondo di una sorta di terremoto permanente, fatto di degrado, paura, omertà. Il brianzolo che sognava l’insegnamento si ritrova a guidare un popolo smarrito, bisognoso di tutto, ma profondamente buono. E lui, con il profeta Isaia, “non tacerà”. Si mette al lavoro per riportare speranza, per strappare i giovani alla camorra, per vincere le paure. Prima la mafia, adesso la camorra. Riceve minacce, avvertimenti, attacchi. Lo Stato gli assegna la scorta. Un vescovo sotto scorta nel sud dell’Italia. Non è facile vivere così, il suo è un popolo schiavo. E lui spiega: “Quelli del Nord queste cose le capiscono poco. Fanno di tutte le erbe un fascio, condannano. Ma non sanno che cosa significa aver coraggio, qui. Per capire queste cose bisogna viverle. Io so, per esempio, che se uno sa non lo fanno neanche respirare. Lo zittiscono prima che parli”. Altri vent’anni così, fino al ritiro per i raggiunti limiti di età, nel 1999. Ma non tace nemmeno allora, continua a viaggiare ovunque lo invitino, a scrivere e a parlare. Non tacerà mai, fino alla fine, il Vescovo Antonio, pastore di mafia, terremoto e camorra. Non immaginava e non cercava una vita così. Lo Spirito Santo ha deciso per lui. S’è lasciato guidare, sempre. Convinto che Dio non abbandona i suoi fedeli. Neanche nei luoghi più difficili e feroci. Il Prete brianzolo - come amava definirsi - ha testimoniato il Vangelo con il coraggio di un antico profeta. Non inginocchiandosi mai, se non di fronte a Dio. Perché - ha scritto Charles Peguy - “un mondo di inchini non vale la genuflessione diritta di un uomo libero”. Esclusione della punibilità per tenuità del fatto non si applica ai reati davanti al giudice di pace di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 11 dicembre 2017 Corte di cassazione - Sezioni Unite penali - Sentenza 28 novembre 2017 n. 53683. La causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, prevista dall’articolo 131-bis del Cp,non è applicabile nei procedimenti relativi a reati di competenza del giudice di pace. La Corte di cassazione con la sentenza n. 53683 del 28 novembre ha motivato tale conclusione considerando che nel processo dinanzi al giudice di pace è presente l’istituto della esclusione della procedibilità nei casi di particolare tenuità del fatto, disciplinato dall’articolo 34 del decreto legislativo n. 274 del 2000: istituto che si basa su presupposti diversi e si inserisce in un sistema ispirato a principi peculiari, con la conseguente inesportabilità dell’istituto previsto dal codice penale. La diversità dei due istituti - La soluzione adottata dalle sezioni Unite è senz’altro corretta perché coglie la diversità dei presupposti e di disciplina tra la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto e l’istituto della esclusione della procedibilità nei casi di particolare tenuità del fatto, disciplinato, nel processo davanti al giudice di pace, dall’articolo 34 del decreto legislativo n. 274 del 2000. La sentenza è del resto in linea con quello che è il prevalente orientamento della Cassazione, secondo cui, appunto, la causa di esclusione della punibilità non è applicabile ai procedimenti davanti al giudice di pace, poiché in questi si applica la disciplina prevista dall’articolo 34 del decreto legislativo 28 agosto 2000 n. 274, da considerarsi norma speciale, e quindi prevalente, rispetto a quella dettata dal codice penale (di recente, sezione V, 2 febbraio 2016, Proc. gen. App. Roma in proc. Torella; in precedenza, sezione feriale, 20 agosto 2015, Morreale e altro; sezione IV, 14 luglio 2015, Marzola; in senso contrario, invece, tra le altre, Sezione IV, 19 aprile 2016, Colangelo). La tesi fatta propria dalle sezioni Unite è senz’altro la più convincente. L’articolo 131 bis del Cp,come è noto, configura la possibilità di definire il procedimento con la declaratoria di non punibilità per particolare tenuità del fatto relativamente ai reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla pena detentiva. È istituto che costituisce l’estensione al processo ordinario di quello, tipico del procedimento penale davanti al giudice di pace, della particolare tenuità del fatto, quale causa di improcedibilità disciplinata dall’ articolo 34 del decreto legislativo 28 agosto 2000 n. 274. Trattasi, peraltro, di istituti diversi, disciplinati in maniera non coincidente. È stata una scelta consapevole, giacché nella Relazione di accompagnamento si spiega che non sono state accolte le sollecitazioni in tal senso della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati sul rilievo che l’invocata attività di coordinamento sarebbe stata estranea alle indicazioni della legge delega. In questa prospettiva, qui correttamente si esclude che possa applicarsi, davanti al giudice di pace, l’istituto di cui all’articolo 131-bis del Cp, espressamente previsto solo nell’ambito del procedimento ordinario. Piuttosto vale osservare che, per converso, l’irrilevanza del fatto ex articolo 34 potrebbe dover essere applicata anche dal giudice ordinario, giacché tale disposizione si applica non solo davanti al giudice di pace, ma anche davanti al giudice diverso da quello di pace nei casi di cui all’articolo 63 del decreto legislativo n. 274 del 2000 (cfr. sezione IV, 1° marzo 2006, Crosio). Concordato, reati tributari ko. La domanda per l’accesso all’iter sterilizza l’imputazione di Alessandro Felicioni Italia Oggi, 11 dicembre 2017 La Cassazione su omesso versamento Iva con scadenza successiva e procedura concorsuale Il concordato preventivo mette sotto scacco i reati tributari; la presentazione della domanda per l’accesso alla procedura concorsuale sterilizza l’imputazione per l’omesso versamento Iva la cui scadenza sia successiva; ciò perché, venuta meno l’infalcidiabilità del tributo tributario, le disposizioni di natura fallimentare che prevedono l’impossibilità di pagare debiti anteriori alla domanda di concordato prevalgono su quelle di stampo penale tributario. La Cassazione, con sentenza n. 52542 del 17 novembre 2017, traccia una nuova strada nell’annosa vicenda della difficile convivenza tra reati fi scali e procedure concorsuali. La questione è questa: è possibile configurare il reato di omesso versamento Iva in capo all’amministratore se la società ha presentato, precedentemente alla scadenza del termine per la configurazione dell’illecito penale, una domanda di concordato preventivo? Fino ad ora a tale problematica la stessa Corte di cassazione aveva dato risposte non sempre allineate. Un orientamento maggioritario ritiene che l’ammissione alla procedura di concordato preventivo, seppure antecedente alla scadenza del termine previsto per il versamento dell’imposta, non esclude il reato previsto dall’art. 10-ter dlgs 10 marzo 2000, n. 74 in relazione al debito Iva scaduto e da versare. Tale impostazione si fonda, essenzialmente, sulla (pregressa) infalcidiabilità dell’Iva, intesa come tributo comunitario e quindi, in un certo senso, indisponibile. Se infatti non è possibile falcidiare l’imposta in sede di concordato, allora il debitore è sempre tenuto a rispettare le scadenze anche e soprattutto ai fi ni penali; ciò perché tale pagamento non potrebbe mai violare la par condicio creditorum. Secondo un orientamento minoritario la possibilità di sterilizzare il reato in caso di presentazione del concordato veniva ammessa laddove il piano prevedesse solo la dilazione del debito Iva, ammissibile anche dalla normativa comunitaria. Tutto però girava intorno al presupposto dell’infacidiabilità Iva. Ma dopo che la sentenza della Corte di giustizia Ue, sez. 2, del 7/4/2016, ha smentito tale assunto, ritenendo compatibile con il diritto dell’Unione europea il pagamento parziale dell’Iva nell’ambito di una procedura di concordato preventivo, le tesi più rigide hanno di colpo perso le loro fondamenta. Il legislatore italiano si è peraltro adeguato alla pronuncia della Corte di giustizia, modificando dal primo gennaio 2017, l’art. 182-ter l. fall., mediante l’eliminazione della previgente disposizione che prevedeva l’infalcidiabilità dell’Iva per l’ipotesi di transazione fiscale. Sgombrato il campo da tale preclusione, resta comunque la presenza di disposizioni tra loro contrastanti (l’obbligo di versamento Iva e l’impossibilità di pagare i creditori anteriori alla pubblicazione del ricorso per concordato preventivo); occorre quindi comprendere quale dei due precetti sia più incisivo o, più correttamente, se il divieto imposto dal tribunale fallimentare di effettuare pagamenti anteriori possa costituire l’esimente prevista dall’articolo 51 c.p. configurando la causa di giustificazione del reato per effetto del dictum del giudice contenuto nel decreto del Tribunale (con il quale si ordinava al debitore di non effettuare pagamenti di crediti anteriori “per nessun motivo”). Intanto la sentenza in oggetto sottolinea l’irrilevanza del fatto che la scadenza del termine per il versamento Iva fosse sì successiva alla presentazione del ricorso in bianco ma antecedente il provvedimento di ammissione alla procedura. E infatti il tema è sul contrasto tra l’articolo 10-ter dlgs 74/2000 e il divieto al debitore di pagare i crediti anteriori, previsto dal decreto di concessione del termine a seguito del ricorso “in bianco”. Nel merito, poi, oltre alla possibilità di falcidiare l’Iva, la Cassazione evidenzia che il concordato rappresenta una procedura che non costituisce mera espressione di autonomia privata, ma assume indubbio rilievo pubblicistico. Ha quindi pari dignità della norma penale. Si legge infatti “che attribuire prevalenza alla norma penale che sanziona l’omesso versamento dell’Iva rispetto al contrapposto divieto di versamento dell’Iva, imposto da un legittimo ordine del giudice, che deriva da precise norme giuridiche aventi pari valore ed efficacia rispetto alla normativa tributaria, è frutto di una visione distorta del corretto significato da attribuire alle norme e ai principi di diritto dianzi richiamati”. Peraltro è appena il caso di sottolineare che il pagamento di debiti pregressi in situazione di insolvenza conclamata (dalla presentazione del concordato) ben potrebbe configurare un’ipotesi di bancarotta preferenziale nel successivo fallimento. In tale scenario, la discrasia tra norma penale e norme concorsuali concretamente applicabili, stante l’impossibilità di giudicare prevalente la prima rispetto alle seconde, va risolta mediante l’applicazione alla fattispecie della scriminante di cui all’art. 51 c.p. (si veda articolo in basso). Il contribuente, insomma ha omesso il versamento dell’Iva perché ha ottemperato a un ulteriore dovere a lui imposto dal giudice fallimentare, che deriva da norme poste a tutela di interessi aventi rilievo pubblicistico, equivalenti a quelli di carattere tributario. Conclude la Cassazione sottolineando che “la configurabilità nel caso della scriminante dell’art. 51 c.p., in ossequio al principio di non contraddizione dell’ordinamento, cui l’esimente in parola si riconduce, per cui lo stesso comportamento non può essere considerato dovuto e vietato allo stesso tempo, appare tale da far escludere il fumus commissi delicti, con conseguente annullamento senza rinvio dell’ordinanza impugnata (e del provvedimento del gip), e restituzione di quanto in sequestro all’avente diritto”. Il contrasto di norme fa venire meno la punibilità Quando due normative sono in contrasto tra loro e si è costretti a scegliere quale delle due adempiere, nessuna punibilità penale può essere configurata. Secondo l’articolo 51 c.p.: “L’esercizio di un diritto o l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica autorità, esclude la punibilità. Se un fatto costituente reato è commesso per ordine dell’autorità, del reato risponde sempre il pubblico ufficiale che ha dato l’ordine. Risponde del reato altresì chi ha eseguito l’ordine, salvo che, per errore di fatto abbia ritenuto di obbedire a un ordine legittimo. Non è punibile chi esegue l’ordine illegittimo, quando la legge non gli consente alcun sindacato sulla legittimità dell’ordine”. La norma disciplina congiuntamente le due scriminanti (esercizio del diritto o adempimento del dovere), che sono accomunate dal principio di non contraddizione, secondo cui l’ordinamento non può da un lato riconoscere al soggetto la possibilità di agire in un certo modo e dall’altro sanzionare tale suo comportamento. La differenza tra le due ipotesi è data dal fatto che mentre l’esercizio del diritto presuppone un potere di agire riconosciuto dalla legge, mentre l’adempimento del dovere si riferisce a un obbligo e non a una scelta di agire, presupponendo che il comportamento sia ammesso dalla legge in quanto imposto al soggetto. Nel caso di specie la Cassazione ha individuato una causa di giustificazione dell’omesso versamento nel decreto del tribunale con cui, a seguito della domanda di ammissione al concordato preventivo, era stato sancito il divieto di effettuare pagamenti di crediti anteriori “per nessun motivo”. In ciò viene ravvista la violazione del principio di non contraddizione dell’ordinamento giuridico, di cui parla, appunto, l’articolo 51 c.p. Peraltro in tale situazione si può affermare che, al di là della scriminante, la valutazione di priorità tra il bene protetto dalla norma incriminatrice e la finalità della prescrizione imposta dal giudice a seguito della domanda di concordato era già stata risolta conformemente al principio di specialità dal giudice civile che aveva appunto imposto tale divieto pur in presenza del generale obbligo di versamento del debito tributario; su tale obbligo, infatti prevale, il divieto a carico dell’imprenditore fallibile, nell’ambito di una procedura concordataria, di effettuare pagamenti allo scopo di favorire taluno dei creditori penalmente sanzionato ex art. 216, comma 3, l. fall. Terni: morto detenuto che si era impiccato, era in isolamento dopo aver aggredito agente Ansa, 11 dicembre 2017 È morto la notte scorsa all’ospedale Santa Maria di Terni il detenuto marocchino di 36 anni che nel pomeriggio di ieri si era impiccato all’interno della sua cella del carcere di Sabbione. A riferirlo stamani è l’Azienda ospedaliera ternana. Le condizioni dell’uomo, ricoverato nel reparto di Rianimazione, erano apparse ai medici subito molto gravi. Il nordafricano, detenuto in isolamento dopo aver aggredito un agente della penitenziaria e avergli fratturato il setto nasale, per compiere il gesto aveva legato una coperta alla finestra della sua cella. Era detenuto per reati legati allo spaccio di stupefacenti. Avellino: penalisti in astensione per tutta la settimana di Alessandra Montalbetti Il Mattino, 11 dicembre 2017 Tribunale sorveglianza, gli avvocati esprimono critiche per la gestione. Nuova astensione degli avvocati penalisti irpini. I legali non prenderanno parte alle udienze penali, da oggi e per l’intera settimana. A decretare l’astensione dalle udienze, mediante un apposito deliberato, la Camera Penale Irpina, presieduta dall’avvocato Giuseppe Saccone, congiuntamente agli altri organismi di rappresentanza dei penalisti campani, che fanno capo al distretto di Corte di Appello di Napoli. Alla base dell’astensione le criticità che riguardano il tribunale di Sorveglianza del capoluogo partenopeo e le sedi distaccate, che ha competenza territoriale anche sul circondario di Avellino. Criticità che nonostante siano state sollevate già da tempo dagli avvocati penalisti, come si legge nella delibera, continuano a persistere, provocando disagi agli addetti ai lavori e soprattutto ai detenuti, le cui istanze, a causa delle disfunzioni di natura organizzativa del tribunale di Sorveglianza e dei suoi uffici distaccati, vengono esaminate con notevole ritardo, mortificando il diritto di difesa degli stessi. Una situazione che nel passato aveva condotto i penalisti del distretto di Corte di Appello di Napoli ad astenersi dalle udienze e a chiedere un’ispezione straordinaria ai sensi dell’art. 7 della legge del 1962 al Ministero della Giustizia, affinché fossero assunte dagli organi competenti le iniziative necessarie per superare le deficienze e le irregolarità segnalate che però non avrebbe ottenuto alcun riscontro. Tra le problematiche che maggiormente si riverberano sui diritti di difesa dei soggetti detenuti, a dire dell’avvocatura penalista, che, peraltro, negli ultimi periodi si sarebbero ulteriormente aggravate, il funzionamento dell’ufficio relazioni con il pubblico, dove per assumere informazioni inerenti i procedimenti, a causa della presenza di un solo impiegato, occorre sottoporsi ad estenuanti attese. Ed ancora, le istanze di misure alternative alla detenzione, che vengono decise con notevole ritardo, a causa dei ricorrenti rinvii delle udienze, disposti spesso per l’incompletezza del fascicolo. Problema analogo, come si legge nel deliberato delle Camere Penali, si verifica per le domande di liberazione anticipata dei soggetti detenuti che in alcuni casi vengono delibate quando la pena è stata interamente scontata. Problemi e disfunzioni del Tribunale di sorveglianza di Napoli, come sottolineato dagli avvocati penalisti che contribuiscono a rendere ancora più difficile la situazione dei detenuti. Napoli: parenti dei detenuti contro l’ergastolo, un sit-in per chiederne l’abrogazione di Antonio Sabbatino Il Roma, 11 dicembre 2017 Una “forma estrema di tortura, incostituzionale e disumana”, simile “alla pena di morte che si consuma lentamente nella sofferenza alla quale sono soggetti anche i familiari dei detenuti”. Ed è per questo che associazioni come Liberarsi, Fuori dall’ombra, Yairaiha Onlus, Ristretti Orizzonti chiedono l’abolizione del “fine pena mai”. “Liberiamoci dall’Ergastolo”, l’iniziativa organizzata in diverse città d’Italia in concomitanza dell’anniversario della Dichiarazione dei Diritti Umani, tocca anche Napoli con un sit-in all’esterno del carcere di Secondigliano. Affermano gli organizzatori: “In Italia oggi sono 1.174 le persone condannate all’ergastolo, e sette su dieci sono condannate all’ergastolo “ostativo”, impossibilitate ad accedere a qualunque misura alternativa o attenuativa anche dopo 26 anni di detenzione”. Secondo Pietro loia, esponente dell’associazione Ex Detenuti Organizzati di Napoli e che denunciò i pestaggi e le torture alla Cella Zero del carcere di Poggioreale, “nella nostra Costituzione c’è l’articolo 27 che prevede come oltre alla condanna ci debba essere una rieducazione. Che senso ha tenere sepolta una persona per tutta la vita?”. Presenti al sit-in anche le madri e le mogli di alcune persone detenute all’ergastolo mori regione. In una lettera consegnata al Garante dei Detenuti della Campania Samuele Ciambriello, affermano: “il prezzo di queste condanne lo paghiamo anche noi andando da un carcere all’altro e non capiamo il perché di continui trasferimenti che ti fanno perdere anche quel minimo di punti di riferimento. E assieme a noi nostri figli”. “L’80% dei detenuti - afferma Ciambriello - come per l’80% è recidivo. Il carcere, se si vedono questi dati, sta diventando un fallimento”. Monza: “MinoreUguale”, un progetto di sartoria nella Casa circondariale di Paola Biffi ildialogodimonza.it, 11 dicembre 2017 MinoreUguale è un simbolo matematico, è il “simbolo della disuguaglianza debole”, un concetto che può essere trasportato dalla logica aritmetica alla vita comune: nel linguaggio dell’etica minore è uguale, qualsiasi minoranza, che sia culturale, sociale, politica, è uguale. MinoreUguale è un simbolo di equilibrio, di comunicazione, che la Cooperativa Alice, in collaborazione con la Fondazione Comunità di Monza e Brianza, ha deciso di utilizzare a bandiera del suo progetto di sartoria nella Casa Circondariale di Monza, presentato lo scorso martedì 5 dicembre all’Oasi San Gerardo di Monza. La Cooperativa Alice lavora da ormai 25 anni nelle carceri della zona, e da qualche anno anche a Monza: il progetto sostenuto dalla Fondazione Monza e Brianza, ha permesso ad alcuni detenuti di partecipare a un corso di formazione sartoriale e di realizzare 100 borse in edizione limitata, e quindi l’avvio di un percorso di riabilitazione attraverso il lavoro per 5 detenuti. Il progetto si inserisce nel più esteso obiettivo di “restituire dignità attraverso il lavoro” con un’attività di produzione, di impresa, di impegno concreto: come ha sottolineato la portavoce della Cooperativa Alice, “lo dicono anche i dati sul tasso di recidiva, che si riduce dal 68% al 10% circa”, il lavoro diventa una nuova possibilità, l’inizio di un percorso di cambiamento sia soggettivo che più concretamente sociale. Il Direttore della Casa Circondariale Maria Pitaniello ha ricordato inoltre l’importanza di tutta la comunità e della rete di interventi che rendono possibile l’attuarsi di progetti come MinoreUguale, una rete di collaborazione e di impegno civile, un “dovere di tutti”, una sfida di incontro tra istituzione, lavoro e cittadinanza che Monza ha deciso di accogliere. “Abbiamo bisogno di un’attività, di qualcosa da fare” ha poi detto Aziz, uno dei cinque detenuti che oggi lavorano in sartoria, dimostrando ancora una volta come una mano aperta è una mano che lavora, che costruisce, e così creando una borsa crea un futuro “tra poco uscirò dal carcere, vorrei riuscire ad aprire un laboratorio, prima oltre a delinquere non facevo nulla, adesso voglio continuare il percorso iniziato qui”. Le borse, in pelle e tessuti impermeabili di qualità son disponibili con un contributo di 50 euro. L’intero ricavato sarà utilizzato dalla cooperativa Alice per finanziare nuovi percorsi formativi interni al penitenziario in grado di trasferire ai detenuti coinvolti le tecniche più raffinate degli artigiani pellettieri italiani. Torino: sentirsi liberi anche in carcere, il miracolo di una palla ovale di Massimo Calandri La Repubblica, 11 dicembre 2017 La Drola di Torino è una squadra di detenuti. Gioca in serie C di rugby Chi esce non torna dentro. E l’esperimento si diffonde ad altri sport. Dei centocinquanta che negli ultimi sette anni hanno lasciato il carcere torinese, neppure uno è tornato dentro. Recidiva zero. Però dietro le sbarre se le davano di santa ragione, ogni giorno. Azzuffandosi pure con chi veniva a trovarli in prigione. “Rugby”, spiega Walter Rista, ex nazionale che nel 2011 ha convinto Pietro Buffa, allora direttore dell’istituto di pena “Lorusso Cotugno”: “Mettiamo su una squadra di detenuti, li facciamo allenare duramente. La domenica giocheranno sul campo della prigione, ma in un campionato vero. Con gli “altri”. Secondo le regole”. Oggi la Drola, serie C piemontese, è un esempio. Una rosa di 26 atleti, dentro per reati contro il patrimonio: 9 italiani, 5 albanesi, un costaricano, 6 rumeni, 5 africani. Ogni stagione cambiano quasi tutti: chi finisce di scontare la condanna, esce. E non torna più. “Facendo sport, ho imparato a rispettare me stesso. I compagni, gli avversari. Ho capito che non è finita, che posso ancora rendermi utile, confrontarmi. E non restare chiuso tutto il giorno in una cella a impazzire”, racconta Angelo, 24 anni, pilone, precedenti per furto. La haka degli All Blacks, le cornamuse della Scozia, i francesi e la Marsigliese: nel rugby prima del calcio d’inizio ogni squadra racconta orgogliosa la propria storia. Ma loro? Sul campo piccolo spelacchiato si mettono in cerchio, gridano insieme una sola parola: “Libertà”. Un urlo che mette i brividi, sale altissimo: oltre il muro di cinta, il filo spinato. Più forte del rumore delle grate e dei catenacci. Lo sport dietro le sbarre. I detenuti italiani che lo praticano sono quasi un migliaio, su 54mila: rugby, calcio, basket, pugilato, pallavolo, tennis tavolo, ginnastica. La squadra di calcio a 5 del carcere di Lanciano partecipa al campionato di serie D. Quelle di calcio a 7 di San Vittore (in porta c’è Fabrizio Corona) e Monza al torneo Csi lombardo. In primavera toccherà alla formazione del Beccaria, istituto minorile milanese, che ha perso di un solo gol (6-7) con gli allievi nazionali dell’Inter ma schierava Javier Zanetti. E poi il team di pallavolo di San Vittore, allenato da Giancarlo Bolognino, l’ex arbitro di calcio. Le partite si giocano solo in “casa”. Al di qua del muro. “Una grande esperienza anche per i loro avversari”, racconta Mattia Basile, allenatore della Drola. Che per una domenica e il tempo di una partita scoprono un mondo silenzioso in bianco e nero, con un’unica macchia di colore: il campo con le porte, la palestra. Giovanni Malagò ha appena rinnovato con Gennaro Migliore, sottosegretario alla Giustizia, il protocollo d’intesa siglato nel 2013 dopo che il Consiglio d’Europa aveva dato all’Italia la maglia nera delle condizioni di vita carceraria. “Considerando l’attività sportiva in carcere elemento essenziale del trattamento dei detenuti”, è la premessa. Il Coni si impegna a fornire tecnici e materiale, tutte le regioni sono coinvolte, in particolare la Lombardia, con 18 strutture. In serie C di rugby c’è anche la Dozza di Bologna. Lo scorso anno quelli della Drola sono andati a trovarli, per una trasferta che pareva impossibile e invece: “Il viaggio nel furgone blindato. Tanto emozionati, che abbiamo perso. Ma di poco”, racconta Mirush, albanese, mediano. Con l’ovale si gioca a Brescia, Pescara, Padova, Cremona, Isola d’Elba, Prato, Firenze, Livorno, Bollate. I minori a Nisida (Napoli), al Beccaria. Nella struttura di massima sicurezza di Frosinone, non più: uno dei Bisonti ha tentato di evadere, addio progetto. “Le percentuali di recidiva sono quasi nulle: è un risultato straordinario”, confermano al Coni. Due settimane fa Rino Gattuso - che aveva lasciato il telefonino all’ingresso, da regolamento - ha saputo da un agente di custodia di San Vittore che era il nuovo allenatore del Milan. “Ma non ha mica finito il suo intervento, anzi. È rimasto a parlare coi ragazzi ancora per quasi un’ora”. Massimo Achini, presidente del Csi milanese, è a capo del progetto carceri lombardo. È grazie a lui se molti campioni vengono in prigione per raccontare la loro storia: tra successi e sconfitte, come tutti. Sta organizzando per la primavera un super derby Inter-Milan cui prenderanno parte anche i giocatori delle due squadre milanesi. “In prigione lo sport decuplica la sua funzione educativa. Vogliamo dare un’altra opportunità alle persone? Questa è la strada giusta”. Ferrara: calcio in carcere, amichevole tra detenuti e “La Compagnia” di Corlo estense.com, 11 dicembre 2017 Nel primo pomeriggio di sabato 9 dicembre il campo sportivo della Casa Circondariale Costantino Satta di Ferrara ha ospitato una bella partita di calcio a 11. La partita ha ha visto impegnata la squadra dei detenuti del carcere estense e, dall’altra, la squadra amatoriale di Corlo “La Compagnia”, impegnata nel campionato Csi e presieduta dal Davide Fratini, promotore da quindici anni del Torneo della Solidarietà che si svolge a Ferrara. La partita, iniziata alle ore 14, ha visto la presenza quale pubblico di oltre cento detenuti, di volontari dell’associazione Noi per loro e del personale di Polizia Penitenziaria che, con professionalità ma anche con sorrisi, ha assicurato lo svolgimento di una gran bella occasione di trattamento alla luce del sole invernale. Presenti anche il direttore Paolo Malato e il comandante di Reparto Comm. Capo Annalisa Gadaleta. Ancora una volta, trattamento e sicurezza sono un binomio perfetto, infallibile. Questa partita, dove regnano la disciplina e il rispetto delle regole, ma anche la piena sinergia tra tutti gli ingredienti del nostro ordinamento, ne è la testimonianza più vera e bella. Lo sport insegna ai detenuti a raggiungere obiettivi con lavoro e fatica. Come nel pieno spirito della rieducazione. La squadra di Corlo per l’occasione ha donato ai detenuti 24 palloni da calcio, nonché mute e scarpe da gioco, sia nuove che usate, pane per i detenuti meno abbienti. I detenuti hanno ricambiato donando un oggetto realizzato nell’ambito dell’attività di bricolage portata avanti da anni dai detenuti: una piccola panchina del gioco del calcio e una imbarcazione in legno da loro realizzata. Per la cronaca, per la terza volta, la squadra dei detenuti ha vinto contro la squadra di Corlo. Questa volta per 3 a 0, in un match più equilibrato. E già si pensa alla rivincita richiesta ai detenuti dal Corlo. Rimini: “Non me la racconti giusta”, l’arte pubblica in carcere art-vibes.com, 11 dicembre 2017 La realtà del carcere attraverso la dimensione sociale dell’arte: un progetto a cura di Collettivo Fx e Nemòs. Dal 26 giugno al 1 luglio 2017, il gruppo di Non me la racconti giusta ha fatto tappa presso la Casa circondariale di Rimini vivendo un’intensa settimana e portando a casa un nuovo bagaglio di esperienze. Un progetto nato nel 2016 grazie alla collaborazione tra il magazine di arte e cultura contemporanea ziguline, gli artisti Collettivo Fx e Nemòs, e il fotografo e videomaker Antonio Sena. L’arte si mette a disposizione di un progetto sociale che vuole aprire una finestra sulla dimensione carcere e far conoscere questa realtà all’esterno, nella speranza di abbattere il muro di pregiudizi che caratterizzano questo luogo, conosciuto da pochi ma che ci riguarda tutti profondamente. Dopo una prima tappa nella Casa circondariale di Ariano Irpino, nella quale il gruppo ha lavorato con 7 detenuti a un murale raffigurante Ulisse, e una seconda tappa nella Casa di reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi, nella quale la rappresentazione di un Totò alato è stata resa possibile grazie al lavoro degli artisti con 10 detenuti, Nmlrg è approdato nella Casa circondariale di Rimini. Un appuntamento reso possibile grazie al sostegno di diverse realtà, tra queste l’Associazione Il Palloncino Rosso, e in particolare Jessica Valentini e Daniele Pagnoni, e ancora Antonio Libutti, docente e videomaker che si è fatto carico delle incombenze burocratiche, gli sponsor e, infine, tutto il personale del carcere. Due grandi novità hanno riguardato questa nuova esperienza, la collaborazione con Filippo Mozone, artista riminese che ha lavorato con Collettivo Fx e Nemòs, e la divisione del progetto in due laboratori con due differenti sezioni, Andromeda e Vega. Il metodo di lavoro è rimasto invariato, ovvero un iniziale tavolo di discussione sul quale il gruppo di Nmlrg ha posto tematiche, problematiche e altre interessanti argomentazioni da sviluppare e tradurre in immagini. “Dopo un potente brainstorming, in cui sono emerse le problematiche dell’essere donna all’interno di un corpo maschile e fare una scelta naturale, ovvero “modificare” il proprio aspetto per somigliare alla propria idea di se´, e quelle legate all’essere donne isolate all’interno di un carcere maschile, abbiamo deciso di dipingere “L’Angelo incarnato” di Michelangelo. Questo angelo rappresenta bene la condizione delle due detenute nel carcere e probabilmente di tutta la comunità, infatti, le sembianze, lo sguardo e il contesto di questo dipinto richiamano l’ambiguità della regolamentazione delle donne trans nel carcere. L’immagine, infatti, raffigura un personaggio dalla sessualità ambigua, vista la compresenza di un pene in erezione e di un torso femminile con il seno in evidenza. “La seconda parte del progetto è stata altrettanto interessante, infatti, abbiamo avuto l’opportunità di lavorare con i ragazzi della Sezione Andromeda, ovvero quella che ospita detenuti tossicodipendenti in fase di riabilitazione. Andromeda è una sezione speciale, in quanto situata al di fuori delle mura di cinta del carcere, inoltre, i detenuti al suo interno godono di un regime rieducativo speciale che gli consente di vivere come in una vera e propria comunità, in cui ognuno di loro ricopre un ruolo con dei compiti precisi che cambiano di settimana in settimana. Giuseppe, Angelo, Denny, Vittorio, Antonio, Federico, “Volpi”, Jimmy, Salvatore e Carlo hanno lavorato con Nemòs, Collettivo Fx e Mozone alla rappresentazione del mito di Andromeda che casualmente ricorda un po’ la loro condizione nel carcere.” Andromeda era figlia di Cefeo e di Cassiopea, la quale per vanità osò dichiarare di essere più bella finanche delle Nereidi, ninfe marine conosciute per la loro impressionante grazia. Una di queste, Anfitrite, era la sposa del re del mare Poseidone, a cui chiese di punire Cassiopea, il quale inviò un mostro marino, Ceto, a devastare le coste del regno di Cefeo. Per arrestare la furia del mostro marino, l’oracolo Ammone suggerì a Cefeo e Cassiopea di sacrificare la vita della bella Andromeda. La ragazza era incatenata a uno scoglio, in procinto di essere divorata dal mostro ma, in quel momento, si trovava a passare da quelle parti l’eroe Perseo, in groppa al suo cavallo alato, Pegaso, di ritorno dall’impresa che lo aveva portato alla decapitazione della Medusa. Perseo, attirato da quella figura che inizialmente sembrava una statua, si trovò di fronte Andromeda che interrogò sul perché si trovasse incatenata a uno scoglio, lei per umiltà inizialmente non rispose ma poi raccontò le sue sventure. Poco prima di essere divorata dal mostro, Andromeda volo via tra le braccia di Perseo, di cui divenne sposa. Ai detenuti della sezione Andromeda questa storia è piaciuta, così come la metafora tra la loro condizione e quella di Andromeda, entrambi finiti nei guai per un “errore”, entrambi in attesa di un aiuto. Il disegno dai toni pulp si trova all’interno della sezione ed è stato un lavoro importante che ha coinvolto tutti. Tra caffè, torte e fette di melone, i detenuti hanno accolto il gruppo di Nmlrg con entusiasmo. Come per le altre due tappe, anche a Rimini l’esperienza è stata forte, intensa e appagante. Nmlrg ha sconvolto la quotidianità dei detenuti con un progetto culturale, li ha coinvolti attivamente nelle decisioni, ha offerto spunti di riflessione e stimoli, ha raccolto testimonianze, sia da parte loro che del personale del carcere, evidenziando anche questa volta enormi difficoltà nella gestione di un luogo così lontano e così vicino al mondo esterno. Attualmente il carcere è un argomento relegato ai margini del dibattito sociale e il fine ultimo che si propone questo progetto è coinvolgere attivamente l’opinione pubblica per superare i pregiudizi e capire insieme come questo luogo-non-luogo possa assolvere alla sua funzione riabilitativa e non meramente punitiva. Il progetto Non me la racconti giusta continua nei prossimi mesi a Palermo e Napoli. Roma: “Rebibbia 24”, docu-film con gli studenti del Dams e i detenuti-attori di Rebibbia rbcasting.com, 11 dicembre 2017 Grazie al Bando Sillumina, con il supporto di Mibact e Siae, un gruppo di studenti del Dams Dipartimento di Filosofia, Comunicazione e Spettacolo dell’Università Roma Tre ha avuto la possibilità di portare le telecamere all’interno dell’Auditorium di Rebibbia: da allievi del Laboratorio di Arti dello Spettacolo sono diventati collaboratori professionali nel progetto “Rebibbia 24” che racconta il dietro le quinte dell’arte in carcere, a 24 fotogrammi al secondo. Dopo mesi di presenza sul palcoscenico del carcere romano, fianco a fianco con i detenuti-attori del Teatro Libero di Rebibbia, nella realizzazione di “Hamlet”, con la regia di Fabio Cavalli, sette studenti affiancano venti detenuti nella realizzazione di un docufilm che prova a raccontare frammenti delle biografie di ciascuno dei protagonisti. “Rebibbia 24” sarà presentato al Teatro di Rebibbia N.C. il 20 dicembre alle ore 16.00. Ingresso gratuito con accreditamento obbligatorio entro il 13 dicembre 2017. Per accreditarsi è necessario indicare nome, cognome, data e luogo di nascita di ciascun partecipante. L’accreditamento può ritenersi effettuato solo dopo aver ricevuto conferma. Per info e prenotazioni: nricomariasalerno.it, tel: 069078326 - 069079216, mail: rebibbiafestiva@gmail.com. Le memorie di un ambasciatore nell’inferno di Regina Coeli di Paolo Brogi Corriere della Sera, 11 dicembre 2017 Perché non c’è un magistrato di sorveglianza anche per i detenuti in attesa di giudizio? Perché a Regina Coeli non c’è una celletta per l’educazione fisica? Sono gli interrogativi minimi che a un quarto di secolo dalla sua detenzione nella prigione romana della Lungara un diplomatico di rango, di area socialista, fa riemergere inquietanti da un testo scritto allora e lasciato in un cassetto, pubblicato oggi da Editori Riuniti in una situazione penitenziaria non tanto diversa. Con “Un ambasciatore a Regina Coeli” Claudio Moreno ripercorre la dolorosa esperienza che prese il via nel 1993 con l’arresto per concussione nel campo della cooperazione internazionale allo sviluppo. Accusa destinata a cadere, ma solo dopo 13 anni. Per Moreno, che al momento dell’arresto guidava l’ambasciata di Buenos Aires, la riabilitazione ha comportato incarichi di prestigio, però non ha mai dimenticato quei sei mesi in cella “in cui - ricorda nell’introduzione la radicale Rita Bernardini - il detenuto continua a essere scaraventato in un inferno”. Fin dalle prime pagine è questa la sensazione del diplomatico cacciato nell’isolamento del carcere, “rappresentazione plastica - scrive - della violenza carceraria come metodo di dissuasione”. Non aspettatevi però una dura requisitoria, la discesa agli inferi avviene con grande capacità di misurarsi con un posto in cui tra il vomito di chi è in crisi di astinenza e la disperazione regnano anche sentimenti di solidarietà, come gli spaghetti fumanti che un detenuto offre allo spaesato Moreno. Si entra nel buio regno popolato di letti “a canestro” che spezzano le schiene, acqua eternamente gelida, nonnismo e coatteria, regole oscure con in cima a tutto la “domandina” per chiedere anche le cose più semplici, il bagno-cucina dai confini incerti, la “conta” 5 volte al giorno, gli autolesionismi, la rete anti suicidi, l’aids, le perquisizioni e le cariche in caso di tafferugli. Non ci vuole molto perché Moreno, taccuino in mano, diventi il saad saphyr degli arabi o el señor embajador dei sudamericani. Ricorda il diplomatico: “Dove sedevo si creavano gruppi che con aria distratta mi facevano domande di vario genere”. Poi tutti in cella e a sera le gocce, sonniferi “a cui la maggioranza dei detenuti non rinuncia”. Che fare? “Regina Coeli è nel ristretto gruppo di penitenziari forse tra i più disumani e incivili d’Italia”. La post verità e altre bufale nelle parole di un filosofo di Furio Colombo Il Fatto Quotidiano, 11 dicembre 2017 Ferraris e la crudeltà delle fake news: perché tanti scelgono di credere? Una gelida mattina invernale, proprio all’inizio dell’epoca Trump, un giovane uomo bianco, con una piccola croce al collo e una potente arma automatica, ha fatto fuoco nella pizzeria per bambini “Ping Pong” di Washington, ma ha frantumato solo il soffitto. Due poliziotti presenti per caso, gli hanno deviato la raffica, lo hanno ammanettato e lo hanno portato a dire al giudice le sue ragioni. Il giovane uomo bianco, padre anche lui di un bambino, sapeva che “Ping Pong” era un centro di prostituzione minorile, nelle mani di Hillary Clinton. Serve poco dire “non è possibile, non è vero”. Lui era stato bene informato in rete. Lui lo sapeva e ha sparato, anche in difesa del suo bambino. Adesso è in carcere perché ha sparato e ha messo in pericolo molte vite, non a causa della post verità o verità alternativa. Sono cose che sai e che dirigono la tua vita, dal voto alla morte. Ho usato uno degli eventi meno importanti ma tipici della strana vita che stiamo vivendo per accostarmi all’oscuro mondo della non verità, che è diventata strumento di politica e di governo. Lo faccio seguendo Maurizio Ferraris, di vocazione filosofo, di professione indagatore dell’assurdo, cioè del presente, che, con il suo libro “Post verità e altri enigmi”, (editore Il Mulino) ha deciso di guidarci verso il vasto sottomondo nel quale la bravura, prontezza, agilità in un gioco variegato di falsificazioni cambia per sempre la realtà, e non restano che indignate denunce e un penoso reclamo di essere creduti solo sulla base dei fatti. Ferraris ci porta davanti ai diversi spettacoli della falsificazione (smascheramento, istituzionalizzazione, liberalizzazione, verità alternativa, post verità) affinché ci si renda conto della vitalità di questa operazione in corso che, negando il reale, è in grado di deragliarlo e di distruggerlo. Pensate al capolavoro, che sta guidando l’intera politica europea (ma è nato presso l’alt right l’estrema destra americana: far credere che la fuga disperata dei profughi da Paesi affamati o distrutti, sia un grande business, guidato da personaggi della finanza che mirano alla sostituzione dei popoli. E rovescia i sentimenti. Se sei dalla parte dei profughi, li devi fermare, per esempio nei campi in Libia. Giustamente Ferraris usa nel sottotitolo la parole “enigma”. Con questo libro sappiamo molto di più sulla crudeltà dalla post verità. Resta la domanda: perché tanti scelgono di credere? Il nuovo simbolo per la pace è un’atomica fatta a pezzi di Maurizio Tropeano La Stampa, 11 dicembre 2017 Un torinese ispira il movimento antinucleare. “Un fumetto non può certo fermare la proliferazione atomica ma un disegno, con il suo linguaggio, può dar forza ad un messaggio di pace e può spingere tanti ad impegnarsi per fermare la corsa alla Bomba”. Marcello Restaldi ha 27 anni ed è l’autore del nuovo simbolo del movimento contro il nucleare che ha ridato segni di vita a Torino negli ultimi mesi. “Per la prima volta - racconta - ho affrontato un tema politico. Per la mia generazione il simbolo del nucleare è il fungo prodotto dalle esplosioni di Hiroshima e Nagasaki. Ho provato ad utilizzarlo in vari bozzetti ma non mi convinceva”. Così nasce un nuovo tratto: un ramoscello d’ulivo che fa in mille pezzi la riproduzione di Fat Man (grassone). Così era stato soprannominato l’ordigno della seconda e distruttiva esplosione del 1945. “L’ulivo - racconta Restaldi - è uno dei simboli della pace. È un ramo fragile, ma che diventa forte se passa di mano in mano, diventando uno strumento che può rompere e mandare in frantumi come una pietra la Bomba prima che esploda”. Quando Restaldi aveva poco più di un anno, in Italia e in Europa si esaurivano le ultime proteste del movimento per la pace: correva l’anno 1991. A Torino, nei mesi scorsi, ex comunisti, cattolici, buddhisti e un nugolo di associazioni si mobilitano per chiedere al governo di ratificare il trattato internazionale contro la proliferazione nucleare. Tra raccolte di firme, presidi e volantinaggi, il movimento “Senza Atomica” incrocia l’”Anonima Fumetti” e nasce l’idea di usare un disegno per far breccia tra le giovani generazioni. Fino ad oggi, infatti, malgrado l’adesione all’appello di politici, consigli comunali (compreso Torino) e quello regionale, la mobilitazione ha solo sfiorato i Millennials. Restaldi non sa se l’obiettivo sia stato raggiunto, ma è convinto che “l’uso di simboli con un messaggio contrapposto abbia dato forza all’idea di un mondo senza atomica. Il disegno, poi, è stato affisso sul balcone del Comune di Torino. L’hanno visto in tanti: è un buon punto di partenza”. L’Unione Africana annuncia il rimpatrio di 20.000 emigranti detenuti in Libia lanuovabq.it, 11 dicembre 2017 Dopo la diffusione di filmati che riprendono la vendita come schiavi di emigranti clandestini arrestati in Libia, detenuti in centri governativi, e dopo che l’Organizzazione internazionale per le migrazioni ha dichiarato di aver raccolto prove a conferma, l’Unione Africana sembra essersi finalmente accorta del fatto che da anni centinaia di migliaia di Africani percorrono il continente clandestinamente, affidandosi a organizzazioni criminali, diretti in gran parte in Libia da dove sperano di raggiungere via mare l’Europa. Quelli che non riescono nell’intento, arrestati prima di imbarcarsi, vengono rinchiusi in centri di raccolta, in condizioni deplorevoli. Si stima che attualmente siano 20.000 gli emigranti in questa situazione. Durante il summit Unione Europea-Unione Africana svoltosi a fine novembre ad Abidjan è stato deciso un piano di evacuazione urgente che dovrebbe consentire di rimpatriarli tutti entro sei settimane. L’organismo pananfricano informa che sta già predisponendo i necessari servizi consolari e si è attivato per ottenere i permessi di atterraggio per gli aerei che riporteranno a casa gli emigranti. Alcuni stati africani pare abbiano già incominciato a rimpatriare i propri cittadini. Entro fine anno almeno 15.000 emigranti dovrebbero aver lasciato la Libia, sostiene il vicepresidente della Commissione dell’Unione Africana, Kwesi Quartey. I rimpatri saranno volontari, ha specificato Quartey, e verranno gestiti in collaborazione con l’Organizzazione internazionale per le migrazioni. L’Azerbaigian non rilascia un prigioniero: procedura d’infrazione del Consiglio d’Europa di Riccardo Noury Corriere della Sera, 11 dicembre 2017 Il 5 dicembre il Consiglio d’Europa ha preso la decisione, la prima sulla base dell’articolo 46 della Convenzione europea dei diritti umani (“Forza vincolante ed esecuzione delle sentenze”), di aprire una procedura d’infrazione nei confronti dell’Azerbaigian, che rifiuta di rilasciare un prigioniero di coscienza nonostante così avesse stabilito, già nel 2014, la Corte europea dei diritti umani. Il prigioniero è Ilggar Mammadov, leader del gruppo di opposizione “Real” (acronimo di Movimento per l’alternativa repubblicana), arrestato nel febbraio 2013 insieme al giornalista Tofig Yagublu. Il 23 e 24 gennaio i due si erano recati nella città di Ismayili per osservare lo svolgimento di una serie di proteste e la brutale reazione delle forze di polizia. Nel marzo 2014 Mammadov e Yagublu erano stati giudicati colpevoli di “organizzazione di disordini di massa” e “violenza contro pubblico ufficiale” e condannati rispettivamente a sette e a cinque anni di carcere. Immediatamente, Amnesty International li aveva considerati prigionieri di coscienza. Il 22 maggio la Corte europea dei diritti umani aveva preso in esame il caso di Mammadov giungendo alla conclusione che l’uomo era stato condannato solo per aver criticato il governo e chiedendone il rilascio immediato e incondizionato. Il 5 novembre 2015 la Corte si era espressa allo stesso modo anche su Yagublu, poi rilasciato nel marzo 2016 a seguito di un’amnistia presidenziale. Così l’Azerbaigian aggiunge un altro record alla sua pessima performance in materia di diritti umani: il caso Mammadov rappresenta la prima volta in cui la Corte è chiamata a pronunciarsi sull’inosservanza, da parte di uno stato membro del Consiglio d’Europa, di una sua propria decisione.