Suicidi nelle carceri: ieri due detenuti morti, si uccide anche un agente Il Messaggero, 10 dicembre 2017 In poco meno di due giorni l’emergenza carceri torna a mostrarsi nella sua gravità: due detenuti si sono suicidati, uno ieri a Regina Coeli, uno oggi a Terni, e un agente di polizia penitenziaria si è tolto la vita mentre era di guardia nella portineria dell’istituto penitenziario a Tolmezzo. Sull’ultimo caso il Sindacato autonomo di Polizia Penitenziaria (Sappe) ha dichiarato: “Sembra davvero non avere fine il mal di vivere che caratterizza gli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria. Siamo sconvolti. L’uomo era benvoluto da tutti, molto disponibile e lavorando all’Ufficio Servizi del carcere era sempre a disposizione degli altri”. Secondo i dati riferiti dall’associazione “Antigone”, negli ultimi tre anni sono stati 56 gli agenti che si sono tolti la vita. Sale invece a 50, con il detenuto marocchino che si è impiccato nella sua cella a Terni, il numero dei suicidi tra i reclusi. “Ogni suicidio è sicuramente una storia a sé, un gesto individuale di disperazione - ha dichiarato Patrizio Gonnella, presidente di Antigone - detto questo, ogni suicidio è anche il fallimento di un processo di conoscenza e presa in carico della persona. I suicidi non si prevengono con la sorveglianza asfissiante ma con i colloqui individuali, il sostegno psicosociale, la liberalizzazione delle telefonate, la sorveglianza dinamica, l’umanità del trattamento”. Secondo Gonnella “vanno chiusi tutti i reparti di isolamento di fatto o di diritto a partire dal carcere romano di Regina Coeli. Tutti i detenuti devono stare almeno 8 ore fuori dalla cella”. “Siamo convinti - dice ancora - che con la riforma della legge penitenziaria, che speriamo arrivi presto, la vita in carcere potrebbe essere meno dura di quello che è oggi. E che sia meno dura anche per lo staff penitenziario tutto, ivi compreso il personale di polizia”. “Il suicidio di un agente a Tolmezzo, il cinquantaseiesimo negli ultimi tre anni - sottolinea Gonnella - al di là delle motivazioni personali, è un grido di allarme verso le istituzioni. Va assicurato prestigio sociale ed economico a tutti gli operatori penitenziari. E vanno subito assunti giovani direttori, educatori, assistenti sociali e psicologi. In questo modo ci sarà anche meno carico sui poliziotti”. “Antigone” ricorda come il sovraffollamento negli istituti di pena in Italia continua a crescere. A fine novembre i reclusi risultano aver superato quota 58 mila con un affollamento del 115,1%. Nello stesso periodo del 2016 i detenuti erano 4 mila in meno. Arrestati con la droga, ora dovranno pagare le tasse sui guadagni dello spaccio La Stampa, 10 dicembre 2017 La guardia di finanza di Gela (Caltanissetta) ha tassato i guadagni realizzati da alcuni spacciatori di droga, finiti al centro di alcune indagini. In particolare, con l’operazione denominata “Samarcanda”, condotta dalla polizia, era stata posta fine all’attività di commercializzazione di ingenti quantitativi di cocaina proveniente dalla Calabria, con l’arresto di una banda dedita allo spaccio di sostanze stupefacenti. La compagnia della guardia di finanza di Gela ha avviato una serie di controlli per quantificare e tassare i proventi generati dallo spaccio. Sulla base delle indagini eseguite e degli incroci con i dati acquisiti dalle altre forze di polizia, i finanzieri di Gela hanno così concluso due controlli di carattere fiscale nei confronti del capo della banda e di uno dei favoreggiatori, per attrarre a tassazione, per l’anno d’imposta 2015, i proventi frutto delle loro attività illecite. I due, secondo quanto ricostruito dai finanzieri, con il traffico illegale di droga avevano realizzato grossi guadagni e mantenuto un tenore di vita elevato e di certo non proporzionato a quanto dichiarato al fisco. Infatti, come emerso dalle indagini, con redditi dichiarati pari a zero, avevano ottenuto in realtà proventi per oltre 50mila euro. Bersani: “Dell’Utri deve curarsi fuori dalla prigione” di Brunella Bolloli Libero, 10 dicembre 2017 L’esponente di “Liberi e uguali” a sostegno dell’ex senatore, che spiega: “Non voglio la grazia, ma giustizia”. Non c’è solo il centrodestra a chiedere la scarcerazione di Marcello Dell’Utri. Non ci sono solo gli appelli dei familiari, le battaglie dei Radicali, e la raccolta firme lanciata dal quotidiano Il Tempo. A dire che l’ex senatore azzurro deve essere lasciato libero di curarsi fuori dalla galera è anche Pier Luigi Bersani, già segretario dei dem ora esponente di Liberi e Uguali, più a sinistra del Pd. “Esiste un concetto che si chiama umanità”, ha spiegato Bersani a Sky. “Che sia Dell’Utri o che sia Pincopallino, se è uno nelle condizioni che vengono descritte, non può essere lasciato in prigione”. Che il fondatore di Forza Italia stia male, soffra di cardiopatia e debba affrontare anche un tumore alla prostata non vi sono dubbi, visto che è tutto certificato dalle cartelle cliniche e da tre perizie su quattro disposte dai medici e dal pm. Eppure i giudici del tribunale di Sorveglianza hanno dato parere negativo alla richiesta dei legali. L’ultimo verdetto è arrivato la settimana scorsa: il condannato per concorso in associazione mafiosa Dell’Utri deve rimanere dentro. Gli appelli per la sua scarcerazione sono diventati, quindi, preghiere affinché il presidente Mattarella gli conceda la grazia, ipotesi che però l’ex azzurro rifiuta. “Non voglio la grazia, chiedo giustizia”, ha confidato al senatore Francesco Giro, che ieri gli ha fatto visita a Rebibbia. “Marcello ha iniziato lo sciopero del vitto carcerario. Non mangia il cibo del penitenziario, ma qualche fetta biscottata, cracker e beve acqua. L’unico sollievo sono gli studi universitari”, ha spiegato l’azzurro, “sta preparando l’esame di antropologia culturale aiutato da un altro detenuto, laureato in Sociologia, condannato per omicidio”. Con Giro ha parlato di politica: “Se Berlusconi porta Fi al 20% è straordinario, ma per vincere serve un’idea forte”. Anche Renato Brunetta è andato a trovare l’amico Marcello: “È un uomo di 76 anni, ingiustamente detenuto e legittimamente arrabbiato”. Dell’Utri è stato condannato a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, condanna confermata dalla Cassazione nel maggio 2014. Arrestato a Beirut, dopo un breve periodo di latitanza Marcello Dell’Utri, 76 anni, eletto senatore nel 2001: sta scontando una condanna a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa Terni: si impicca in carcere, muore 36enne di origine magrebina umbriaon.it, 10 dicembre 2017 L’uomo, di origine magrebina, era recluso per reati connessi allo spaccio di droga. I Sindacati: “Situazione delle carceri è critica”. Tragedia, nel primo pomeriggio di sabato, all’interno del carcere di Terni. Un uomo di 36 anni di origine magrebina, detenuto nella sezione media sicurezza per reati connessi allo spaccio di droga, si è impiccato legando una coperta alla finestra della propria cella. Il personale della Polizia penitenziaria di Terni in servizio si è immediatamente accorto dell’accaduto e altrettanto tempestivo è stato l’intervento dei sanitari che lo hanno trasferito al Santa Maria di Terni dove l’uomo è deceduto nella notte fra sabato e domenica. Sin da subito le sue condizioni erano apparse disperate. Osapp - Secondo Giovanni Cesareo, delegato provinciale dell’organizzazione sindacale autonoma di polizia penitenziaria Osapp, l’accaduto “è la consegna della politica al ribasso dell’amministrazione centrale e periferica. A discapito sempre e comunque dei poliziotti penitenziari impegnati nel sempre più pesante compito di vigilanza ed osservazione dei detenuti”. Il Sappe - Così il sindacato autonomo di polizia penitenziaria Sappe, attraverso il segretario nazionale per l’Umbria, Fabrizio Bonino, e il segretario generale Donato Capece: “Le donne e gli uomini della polizia penitenziaria hanno sventato, nelle carceri del paese, più di 19 mila tentati suicidi ed impedito che quasi 145 mila atti di autolesionismo potessero avere nefaste conseguenze. Il dato oggettivo è che la situazione nelle carceri resta allarmante. Altro che emergenza superata”. Uil-Pa - “Questa organizzazione, per l’ennesima volta, si vede costretta ad esprimere il suo forte disappunto verso chi, crede che si possa continuare a gestire in questo modo, un carcere come quello di Terni. Perché dopo vari appelli, anche da parte della segreteria nazionale, la situazione non solo non è migliorata, ma è peggiorata ancora, inesorabilmente”, commenta il segretario regionale Uil-Pa Raffaele Tagliafierro. “Un Istituto penitenziario come quello di Terni non può arrivare ad ospitare il 68% in percentuale di detenuti di nazionalità straniera, contro il circa 46% della media del resto d’Italia. Un modo di fare che ingigantisce e moltiplica le situazioni di tensione e le criticità, all’interno del sistema penitenziario, riguardo la gestione di questi soggetti”. Rimini: trans tenta il suicidio per protesta “detenuta in un buco e isolata da tutti” Corriere di Romagna, 10 dicembre 2017 La disperazione rispetto alle condizioni in cui era costretta a scontare la sua pena nel carcere di Rimini, relegata nella sezione “Vega” destinata ai transessuali: questa la ragione che ha spinto una trans 32enne peruviana e tentare il suicidio giovedì ai Casetti. Ha ingerito una quantità eccessiva di farmaci che aveva scientemente accumulato nei giorni precedenti. Ad accorgersi della situazione la vicina di cella che ha subito dato l’allarme. La 32enne è stata trasportata d’urgenza in ospedale a Rimini dove ora si trova ricoverata in rianimazione, non prima di aver spiegato le ragioni del gesto: la segregazione forzata, l’isolamento, le condizioni di freddo e umidità in cui, al reparto, i detenuti sono costretti, separati dagli altri per evidenti misure di sicurezza. Una transessuale peruviana di trentadue anni, stufa delle condizioni di isolamento che è costretta a vivere all’interno del carcere, ha tentato il suicidio in segno di protesta. Adesso è ricoverata in terapia intensiva nel reparto di Rianimazione dell’ospedale “Infermi” di Rimini. L’episodio è accaduto nel tardo pomeriggio di giovedì scorso. A notare qualcosa che non andava è stata la dirimpettaia di cella, un’altra transessuale. Sono le uniche due detenute della sezione “Vega”, relegate in una vera e propria gattabuia, proprio perché c’è l’esigenza di tenerle separate dal resto dei detenuti maschi. Una situazione che porta a una segregazione interna, tanto che le due detenute non hanno la possibilità di condividere né gli spazi né le attività con gli altri, più volte segnalate all’amministrazione penitenziaria. La peruviana ha espresso più volte il proprio disagio di fronte a un isolamento imposto suo malgrado e privo di alcun fondamento giuridico in uno spazio ridotto con un lucernario che fa da finestra e in condizioni di freddo e umidità che non hanno riscontro nelle altre sezioni della casa circondariale riminese. La sezione “Vega” è da tempo nel mirino del garante dei detenuti e la chiusura è data per imminente. A sopperire alle carenze strutturali sono spesso gli agenti della polizia penitenziaria che anche l’altro giorno hanno dato prova di grande affidamento e professionalità. Il poliziotto intervenuto, infatti, non si è basato sulle risposte della peruviana, ancora piuttosto coerenti, ma l’ha subito accompagnata in infermeria. La trans è collassata davanti al medico ed è stata trasportata d’urgenza in ospedale. Un ritardo sarebbe stato fatale. “Non ce la faccio più a vivere il carcere in condizioni di isolamento, di difficoltà dovute a carenze evidenti: chiedo solo di poter scontare la mia pena in condizioni dignitose”. È difesa dall’avvocato Enrico Graziosi che, avuta notizia dell’accaduto, è accorso in ospedale per sincerarsi di persona dello stato di salute della sua assistita. “Non è ancora fuori pericolo”, conferma il legale. “Spero si riprenda presto perché le prospettive, a dispetto di una situazione giudiziaria difficile (ha un cumulo di pene per vecchie rapine, estorsione ed evasione fino al 2020 ndr) sono buone: ha chiesto di essere espulsa e potrà uscire già a primavera per tornarsene da persona libera nel proprio Paese”. Il suo gesto richiama ancora una volta l’attenzione sulla sesta sezione, “Vega”, destinata ai detenuti transessuali e ridotta a un ripostiglio: una vergogna alla quale qualcuno dovrà porre rimedio. Napoli: emergenza carceri, corteo della Camera penale e associazioni ex detenuti di Arnaldo Capezzuto cronaca.il24.it, 10 dicembre 2017 Un corteo per denunciare l’emergenza carceri a Napoli e invocare la riforma degli istituti penitenziari. È fissata per lunedì mattina a Napoli la manifestazione indetta dalla Camera Penale di Napoli che vede l’adesione dell’associazione Ex Detenuti Organizzati Napoletani con il suo presidente Pietro Ioia che in questi anni ha sollevato lo scandalo e le violenze della cosiddetta ‘Cella zero’ sfociata nel rinvio a giudizio di 12 agenti della polizia penitenziaria. “Una marcia per i detenuti” è il titolo del corteo che partirà dalla sede della Camera Penale partenopea, presso il Tribunale al Centro Direzionale, lunedì alle 11 per concludersi all’esterno del carcere di Poggioreale. Tanti i temi sollevati come le inefficienze e disfunzioni del tribunale di sorveglianza di Napoli che ostacolano l’esercizio del diritto di difesa dei detenuti; il trattamento disumano e degradante dei detenuti, denunciato anche nel rapporto del comitato prevenzione tortura del consiglio d’Europa. Poi c’è il sovraffollamento delle carceri, tornato ad essere una vera e propria emergenza nazionale (7.450 detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare, di cui 1.142 in Campania) a questo c’è da aggiungere l’uso eccessivo delle misure cautelari in carcere (su 57.994 detenuti presenti negli istituti di pena, 20.515 non hanno riportato condanne definitive). Alla mobilitazione, inoltre, hanno aderito anche associazioni o gruppi esterni al mondo dell’avvocatura: in particolare saranno presenti i Radicali sia nella pattuglia che si riconosce e milita nel Partito Radicale con l’associazione Penna Bianca, sia alcuni militanti di Radicali Italiani che a Napoli collaborano con il dirigente nazionale del movimento, Raffaele Minieri e gruppi di volontariato, mirante a evidenziare ancora una volta le problematiche insite nel sistema giudiziario. Cosenza: protesta contro l’ergastolo, detenuti a digiuno quicosenza.it, 10 dicembre 2017 Domenica 10 dicembre, per l’anniversario della dichiarazione universale dei diritti umani, migliaia di detenuti e tutti gli uomini ombra, digiuneranno affinché l’ergastolo, la pena di morte in vita, possa essere cancellato per sempre dal nostro ordinamento. “Una barbarie giuridica e soprattutto una vergogna umana. Assieme agli ergastolani digiuneranno familiari, intellettuali, artisti, attivisti, semplici cittadini per dare voce e dignità ad una lotta che da troppi anni viene strumentalizzata dalla politica per alimentare la fabbrica penale nell’indifferenza di buona parte della società che, ancora oggi, è convinta che l’ergastolo equivale a 25 anni di carcere. L’ergastolo - scrivono in una nota congiunta Cosenza contro il Carcere, Non Solo Marange collettivo di mutuo soccorso Bari, Liberiamoci dal carcere Napoli - è la condanna più crudele che la mente umana possa aver concepito, più crudele dei delitti stessi che prevedono questa condanna. Una condanna senza tempo che rende vano qualsiasi tentativo di cambiamento o di rielaborazione critica della propria vita, dei propri crimini, delle ferite aperte in una società che non si ferma a riflettere sulle devastazioni sociali, prima ancora che ambientali, che sono state perpetrate al sud. Territori dove la presenza dello Stato si manifesta solo in divisa o con amministratori abbuffini che continuano a ricattare la gente e a speculare sui bisogni, creando miseria economica ed umana. Ed è proprio qua che anche le mafie e le cosiddette criminalità organizzate trovano terreno fertile. Quelle riconosciute come tali e quelle dei colletti bianchi che pure all’ergastolo non ci finiranno mai. Alla retorica securitaria tripartisan fa troppo spesso da cornice un’antimafia di sola facciata che ha costruito l’ennesimo carrozzone che recita da oltre 25 anni sempre lo stesso copione funzionale alla gestione della paura e delle politiche penali. Le poche voci libere, che si “sporcano le mani” realmente (dentro e fuori le carceri) cercando di costruire alternative concrete, non hanno spazio. Quasi fosse un disegno preordinato, un circolo vizioso dove si rincorrono fatti e luoghi, dove si bruciano vite da vittime o da carnefici. Assassino o vittima del proprio fratello di strada. Fratelli di sangue che dovrebbero lottare assieme alla propria gente per un riscatto reale del sud. Lottare assieme per la giustizia sociale, sottraendosi aprioristicamente ai meccanismi perversi di un potere malato che porta morte e galere per la gente del sud. Domenica all’esterno dei penitenziari di Cosenza, Bari e Napoli si terranno dei presidi di solidarietà per rendere visibile lo sciopero della fame dei detenuti, per dare voce alle ragioni di questa lotta. A Cosenza l’appuntamento è per le 12.00 di domenica sotto il carcere di via Popilia, a Bari alle 11.00 e a Napoli dalle 10.00 sotto il carcere di Secondigliano. Non lasciamoli soli”. Bari: presidio sotto il carcere in solidarietà ai detenuti in sciopero della fame ilsudest.it, 10 dicembre 2017 Negli ultimi 20 anni la repressione penale e il carcere hanno assunto un ruolo centrale - prima ancora che della stessa lotta ai fenomeni criminali che necessiterebbe di strumenti ben più efficaci di prevenzione - per la gestione, il controllo e la stessa creazione delle paure sociali variamente indotte e declinate attraverso l’esaltazione mediatica di singoli episodi particolarmente violenti che favoriscono la percezione di una permanente “emergenza sicurezza” attraverso cui garantirsi la gestione e il controllo del potere tout court. Populismo penale e stato d’eccezione permanente sono i paradigmi entro i quali i governi promuovono le politiche securitarie attraverso cui contenere le “pericolosità sociali”. Quest’ultima risulta essere una categoria ambigua, indefinita ed eminentemente politica, un marchio stigmatizzante che autorizza la repressione al fine di disciplinare e controllare chiunque, libero o detenuto che sia, sulla base del nulla, arrivando alla brutale sospensione e limitazione delle libertà individuali attraverso l’applicazione delle misure di prevenzione per le persone libere o del 14 bis/41 bis per i detenuti. Un’ideologia securitaria che estende sempre più il confine della carcerazione trasformando le nostre stesse città in carceri a cielo aperto, sacrificando sull’altare del giustizialismo lo stato di diritto. Un’ideologia diffusa ed egemone che dobbiamo affrontare attraverso la decostruzione dell’armamentario emergenziale e giustizialista che tanto ha contribuito a far crescere tra la gente la richiesta di pene esemplari, per qualsiasi condotta fuori dagli schemi tracciati dalla “decorosa normalità” delle classi dominanti. I destinatari dei processi di criminalizzazione e carcerazione appartengono a specifiche categorie sociali (ceti popolari-migranti-attivisti) e prevalentemente provenienti da aree geografiche specifiche (meridione-sud del mondo). Tra le 57.994 persone detenute, 19.915 sono migranti mentre oltre il 90% dei 38.000 italiani provengono dalle regioni del Sud Italia a confermare il carattere profondamente classista e razzista dell’istituzione carceraria e del sistema repressivo. I dati numerici della popolazione carceraria preannunciano una nuova fase di emergenza carceri e possiamo scommettere fin da subito che, svanite le aspettative di (finta) riforma dell’ordinamento penitenziario con un governo ormai agli sgoccioli, questa sarà cavallo di battaglia bipartisan per le prossime elezioni politiche con la promessa ovviamente della costruzione di nuove carceri, l’introduzione di nuovi reati e il raddoppio delle pene esistenti. Questi sono i temi che portano voti e consenso in una società preda alla paura e all’insicurezza, in cui si lavora costantemente per la guerra tra gli ultimi. In questo quadro politico è sempre più urgente rimettere al centro i temi del garantismo e del diritto, dell’amnistia, dell’abrogazione del codice Rocco e di tutte le leggi liberticide e classiste sino ad oggi varate, dell’abolizione del 41bis e dell’ergastolo in quanto massime espressioni dello stato penale che torturano e uccidono giorno dopo giorno. Negli ultimi anni, tra mille limiti, nonostante i circuiti differenziati impongano il divieto di comunicazione tra le diverse sezioni di Alta Sicurezza, la popolazione detenuta si è organizzata per far emergere i meccanismi perversi che li costringono ad essere marchiati a vita come “socialmente pericolosi” senza che abbiano alcuna possibilità di cambiamento o di uscita da questi gironi infernali, perché abbandonati a se stessi, con condanne lunghe ed ergastoli che l’ostatività del 4 bis trasforma in pena di morte quotidiana in barba al valore rieducativo della pena sancito nella nostra costituzione. Il prossimo 10 dicembre migliaia di uomini ombra e di detenuti “temporanei” in diverse carceri italiane aderiranno alla giornata di digiuno e mobilitazione per l’abolizione dell’ergastolo lanciata da Carmelo Musumeci assieme a diverse associazioni, in occasione dell’anniversario della dichiarazione universale dei diritti umani. È una data che dobbiamo sostenere tutti per rafforzare la lotta e amplificare la voce dei detenuti oltrepassando il silenzio mediatico cui saranno sottoposti, attraverso una rete di solidarietà esterna che si faccia carico di organizzare in contemporanea qualsiasi forma di mobilitazione. Bologna: il digiuno dei penalisti contro l’ergastolo Corriere di Bologna, 10 dicembre 2017 La Camera Penale di Bologna invita al digiuno contro l’ergastolo. “Facciamo nostre le riflessioni dell’Osservatorio carcere nazionale dell’Unione Camere Penali Italiane e invita i propri iscritti ad aderire alla giornata di digiuno” domani, domenica dieci dicembre, da parte di molti detenuti. Questo digiuno è una “forma di protesta contro l’ergastolo ostativo” al fine di partecipare all’iniziativa organizzata all’associazione “Liberarsi Onlus” e indirizzata a sensibilizzare principalmente la politica e le istituzioni affinché recepiscano i contenuti evocati nella dichiarazione dei diritti dell’uomo del 10 dicembre 1948 e decidano di promuovere riforme legislative rivolte all’abrogazione delle norme sull’ergastolo ostativo, che nei fatti costituisce un “fine pena mai”. Pescara: domani sit-in davanti al carcere per i diritti dei detenuti Il Centro, 10 dicembre 2017 L’Associazione dei difensori d’ufficio (Adu) di Pescara (presidente Stefano Sassano) aderisce alla giornata di manifestazioni sui problemi dei tribunali di sorveglianza e delle condizioni dei detenuti proclamata dall’Unione Camere penali italiane per lunedì prossimo. È previsto un sit-in, alle 15, davanti al carcere. L’Adu denuncia “la cronica condizione di degrado e sovraffollamento delle carceri italiane, l’abuso della carcerazione preventiva rispetto al dettato normativo, la proliferazione di nuove fattispecie incriminatrici foriere di confusione e lesive dei diritti di cittadini e detenuti che tradiscono il dettato dell’articolo 27 della Costituzione privilegiando il trattamento repressivo in loco di terapie e metodologie di rieducazione del reo in vista del reinserimento nella società una volta scontata la pena, l’intollerabile numero di suicidi di detenuti, i ritardi nell’applicazione della legge del 17 febbraio 2012 n. 9 che, dopo aver soppresso gli ospedali psichiatrici giudiziari, ha creato le Rems lasciando un gran numero di soggetti con problemi psichici in cella con detenuti comuni, innalzando di molto i problemi di convivenza all’interno delle celle e rendendo ancor più difficile il lavoro della polizia penitenziaria, da anni alle prese con una gravissima carenza di organico”. L’Adu invita cittadini e associazioni forensi operanti in tribunale ad aderire alla protesta e a partecipare al sit-in davanti al carcere di Pescara. Pesaro: più che un carcere una bolgia infernale “il ministero effettui subito l’ispezione” di Luca Senesi Corriere Adriatico, 10 dicembre 2017 “La casa circondariale non è più in condizione di gestire le troppe tipologie di detenuti”. Protesta il Sindacato della Polizia penitenziaria ma anche un pool di legali. Lunedì sit in e digiuno. Disagi e una situazione sempre più intollerabile nel carcere di Villa Fastiggi. All’allarme, più volte lanciato e spiegato dal Sappe, si aggiunge anche quello di diversi legali di detenuti che sottolineano come la situazione interna al penitenziario sia in balia di una crescente anarchia. L’appello è uno, quello di un’ispezione interna da parte degli organi competenti. Situazione d’emergenza - La stessa Polizia Penitenziaria in servizio nel carcere di Pesaro è pronta a protestare per le pesanti condizioni lavorative e, lunedì 11 dicembre dalle 10 alle 13, terrà una manifestazione sotto forma di sit-in davanti alla struttura di Strada Fontasecco. Aderiranno alla protesta anche quelli in servizio, che affiancheranno le rivendicazioni dei manifestanti astenendosi dal consumare i pasti nella mensa di servizio del carcere. Cominciamo dagli agenti: “La situazione interna al carcere è sempre più invivibile - spiega Nicandro Silvestri, segretario regionale Sappe per le Marche: gli agenti di Polizia Penitenziaria protestano per la mancanza di personale, il mancato rispetto dei diritti soggettivi, una organizzazione dei servizi assolutamente fallimentari e fatiscente, una situazione di precaria sicurezza individuale per chi lavora in prima linea nelle sezioni detentiva e, più in generale, del carcere stesso”. Silvestri rammenta che da mesi il Sappe chiede, inascoltato, un’ispezione ministeriale in carcere per verificare le molte anomalie che si registrano sistematicamente sull’organizzazione del lavoro del personale di Polizia Penitenziaria, con conseguente inasprimento della tensione nella Casa Circondariale di Pesaro. L’indifferenza - “Ed è grave che non sia stata fatta, questa ispezione, perché avrebbe accertato la fondatezza delle lamentele sindacali - prosegue - ormai a Pesaro il carcere è allo sbando e per questo, con il sit-in di lunedì prossimo, torneremo a chiedere pubblicamente che chi di dovere tenga in considerazione le criticità di un istituto che non è più in condizione di gestire le troppe tipologie di detenuti, con una presenza di soggetti dalla personalità particolarmente violenta, senza alcuna possibilità di diversa collocazione all’interno dell’istituto. E non è un caso che a lamentarsi di come sia gestito il carcere vi sono anche avvocati per conto di loro assistiti ristretti nel penitenziario pesarese”. Sono proprio questi avvocati a ribadire la gravità della situazione interna anche dal punto di vista dei loro detenuti; tutto sarebbe documentato dalla telecamere interne al penitenziario presenti in ogni stanza ad eccezione del reparto doccia. Basterebbe visionare i filmati per rendersene conto. Ecco perché i legali insistono, proprio come il Sappe, che le autorità ministeriali intervengano per un’ispezione rilevando tali situazioni. Si parla di detenuti che rubano ad altri detenuti, attività lavorative o di studio che alcuni fanno ed altri no, incompatibilità tra detenuti nella stessa cella (persone che hanno compiuto reati troppo diversi tra loro). Piccole faide con tanto di capi banda che controllano la situazione e fanno il buono e cattivo tempo. La segnalazione - Sulla questione interviene anche Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria: “Abbiamo segnalato al Dipartimento dell’amministrazione Penitenziaria di Roma le significative disfunzioni e inconvenienti che riflettono sulla sicurezza e sulla operatività della Casa Circondariale di Pesaro e del personale di Polizia Penitenziaria che vi lavora con professionalità e abnegazione nonostante una grave carenza di organico ed una organizzazione del lavoro assolutamente precaria e fatiscente. Tutto questo conferma con chiarezza come la gestione e l’organizzazione della Casa Circondariale di Pesaro sono decisamente deficitarie per cui occorre che le Autorità ministeriali intervengano con la massima sollecitudine, con una ispezione interna e con l’avvicendamento del direttore e del comandante del reparto di Polizia Penitenziaria, che non sono in grado di fare fronte alle costanti e quotidiane criticità”. Firenze: seduta straordinaria del Consiglio comunale al carcere di Sollicciano 055firenze.it, 10 dicembre 2017 La prossima seduta del Consiglio comunale di Firenze si terrà al carcere di Sollicciano. Il consiglio è convocato per lunedì 11 dicembre, dalle ore 15, e si tratterà di una una seduta tematica su “Problematiche relative alla vita delle presone private della libertà e del personale di sorveglianza della casa Circondariale di Sollicciano”, come riporta una nota del comune di Firenze. La seduta si aprirà con l’intervento di Fabio Prestopino e Carlo Berdini della direzione del carcere. A seguire si terranno gli interventi di Margherita Michelini, Direttrice Casa Circondariale Mario Gozzini, di un rappresentante del Ministero di Grazia e Giustizia, di Claudio Caretto, Tribunale di Sorveglianza, Antonio Fullone, Provveditore Regionale dell’Amministrazione penitenziaria della Toscana e Umbria, del sindaco Dario Nardella, dell’Assessore al welfare Sara Funaro, di Rappresentanti dei detenuti (femmine, maschi, transessuali), di Franco Corleone, Garante Regionale dei diritti dei detenuti, di Eros Cruccolini, Garante del Comune di Firenze, di Massimo Mencaroni, Comandante della casa circondariale a nome degli agenti di Polizia Penitenziaria in servizio a Sollicciano, e di altri operatori all’interno dell’Istituto Penitenziario di Sollicciano. Seguiranno gli interventi dei consiglieri comunali. La seduta del Consiglio comunale non sarà aperta al pubblico. Dichiarazione di Massimo Lensi, associazione per l’iniziativa radicale “Andrea Tamburi”. “Lunedì prossimo si terrà dentro il carcere di Sollicciano un Consiglio comunale straordinario sui problemi dell’istituto penitenziario fiorentino. Un Consiglio importante, richiesto con determinazione e insistenza negli ultimi mesi da alcune delle persone che da anni sono in prima fila nella lotta per risolvere i tanti problemi del carcere fiorentino. Mi riferisco a Don Vincenzo Russo, cappellano del carcere, a Tommaso Grassi, Consigliere comunale del gruppo ‘Firenze riparte a Sinistrà, agli amici della Camera Penale fiorentina e del suo Osservatorio Carcere, e ai militanti radicali dell’associazione Andrea Tamburi. Il Consiglio si farà e me ne rallegro, ma tradirei il mio impegno se non segnalassi uno dei rischi, forse il principale, di un Consiglio in carcere: la trasformazione, anche involontaria, dell’evento in una surreale passerella di politici e personalismi. Un rischio che deve essere evitato per non tradire le attese riposte in questo Consiglio da chi il carcere lo vive sulla propria pelle: detenuti, lavoratori, operatori e volontari dell’area carceraria. Suggerisco, perciò, a quanti parteciperanno al Consiglio di lunedì di ambire unicamente a osservare e capire il carcere fiorentino per quello che è oggi: una discarica sociale, dove tutto è difficile, anche curare la propria igiene, o un malanno di stagione, o fare il proprio lavoro secondo il dettato della Costituzione. Saluto infine l’arrivo del nuovo direttore di Sollicciano, Fabio Prestopino, persona di grande esperienza e sensibilità. La sua dichiarazione di apertura per una forte interazione tra il carcere e la municipalità fa ben sperare e noi radicali ci attendiamo di instaurare con questa sua nuova direzione una proficua e sincera collaborazione. Va, infatti, intensificato e reso agibile il rapporto tra città e carcere per poter finalmente riattivare, nella pienezza del dettato costituzionale, il complesso dei percorsi di rieducazione e reinserimento sociale del detenuto”. Napoli: regalo di Natale al detenuto con la cirrosi, potrà curarsi a casa di Viviana De Vita Il Mattino, 10 dicembre 2017 Detenuto dal 2013, affetto da una gravissima forma di cirrosi epatica, gli è stato finalmente riconosciuto il diritto alla salute. Ha lasciato il carcere di Secondigliano dove doveva scontare una condanna divenuta ormai definitiva a sette anni per rapina, truffa e lesioni, e potrà curarsi a casa dove dovrà scontare gli ultimi 3 anni di pena. Giuseppe Danise, il 45enne di Siano già dichiarato dal Tribunale di sorveglianza di Salerno incompatibile con il regime carcerario eppure finito nuovamente in cella nel febbraio 2015 alla scadenza dei 12 mesi di beneficio accordatigli, ha vinto la sua battaglia combattuta per anni dal suo legale, l’avvocato Gerardo Di Filippo che, a suon di ricorsi, prima davanti al tribunale di sorveglianza di Salerno e, poi, a quello di Napoli, ha ottenuto la scarcerazione del detenuto che, titolare di una pensione di invalidità, potrà finalmente curarsi provvedendo autonomamente alle terapie necessarie a tenerlo in vita fino al trapianto di fegato che, solo, potrà salvarlo. Finito in cella nel 2014 per scontare un definitivo relativo a reati commessi nel 2005, quella di Giuseppe Danise è una storia drammatica per la quale scesero in campo anche i Radicali per chiedere la scarcerazione dell’uomo trasferito nell’aprile 2015 dal penitenziario di Fuorni al Cotugno di Napoli ma, poi, finito nuovamente in cella a Poggioreale. Negli ultimi due anni il suo legale, il penalista Gerardo Di Filippo, non ha mollato la presa presentando continui ricorsi suffragati da una capillare documentazione clinica atta a dimostrare l’incompatibilità delle condizioni di salute del 45enne con il regime carcerario. Così giovedì sera è arrivato finalmente il provvedimento di scarcerazione che riconosce il diritto alla salute del detenuto. Nel provvedimento i giudici ripercorrono la drammatica storia personale di Giuseppe Danise che “ha una serie di patologie fisiche serie e deve, altresì, convivere con la sofferenza mentale”. Nel provvedimento i giudici fanno riferimento al passato del detenuto e al suo equilibrio mentale “fortemente compromesso all’età di 10 anni” quando, davanti ai suoi occhi, si consumò l’omicidio del padre. Da quel giorno, scrivono i giudici, “Danise non ha più frequentato la scuola, per lungo tempo non è uscito di casa, ed ha poi iniziato a fare uso di sostanze stupefacenti”. I giudici fanno infine riferimento ai numerosi precedenti penali dell’uomo evidenziando che “allo stato, non risulta un’appartenenza diretta del condannato a sodalizi criminali anche se, in considerazione dei reati per i quali è stato condannato, e delle sue frequentazioni, non può escludersi un collegamento con clan camorristici locali”. Grande soddisfazione per il provvedimento del tribunale è stata espressa dall’avvocato Di Filippo. “La potestà punitiva dello Stato - afferma - ha un limite costituito della tutela della salute come fondamentale diritto dell’individuo”. Asti “La piuma” di Giorgio Faletti al carcere di Quarto, laboratorio con i detenuti di Elisa Schiffo La Stampa, 10 dicembre 2017 La piuma sfuggita dalle pagine del libro di Giorgio Faletti vola, si fa spettacolo. Diventa lo spazio libero e dinamico che permette di far maturare in ciascuno lo spazio di libertà anche dove manca, come in carcere. “La piuma… e il suo viaggio tra carcere e città” è il filo conduttore dell’originale momento di riflessione con il contributo di vari professionisti ed esperti che si è tenuto nella casa di reclusione di Quarto, che proprio attraverso la contaminazione tra le arti ha raccontato l’ambizioso progetto avviato con la compagnia teatrale Il Volo e con l’associazione di volontariato La Brezza. “Leggendo il libro di Faletti ho captato un senso di musica, di movimento - ha raccontato Josephine Ciufalo della compagnia Il Volo - La piuma era fatta per volare, doveva diventare il simbolo di speranza e apertura verso la vita”. E così è partito il percorso, prima il laboratorio di Arteterapia alla casa circondariale Lorusso e Cotugno di Torino, poi la piuma perduta e quella ritrovata è arrivata nelle case di riposo di Cocconato e Montafia, ha accarezzato la comunità di recupero per ragazzi con disagio psichico e gli alunni delle scuole, di burattini e marionette di Monale, la primaria di Montafia. Fino all’incontro con i detenuti della casa di reclusione di Asti, iniziato un anno fa, quando la compagnia aveva portato in scena lo spettacolo di burattini, marionette e ombre “La piuma…e il suo viaggio”. “L’idea della prima nel nostro teatro è stata di Roberta Bellesini Faletti, presidente della Biblioteca Astense che, qualche mese prima era stata ospite della struttura in occasione della presentazione dei risultati del progetto Scripta Manent - hanno ricordato la direttrice Elena Lombardi Vallauri e l’educatrice Maria Vozza - In quell’occasione l’Associazione La Brezza aveva presentato le lampade realizzate dai detenuti delle carceri di Torino e Vercelli nell’ambito del progetto Scambi in luce. È stata intesa a prima vista, abbiamo cominciato a lavorare insieme”. E così Josephine e Lucia Sartoris (La Brezza) hanno condotto settimanalmente due laboratori artistici nelle salette hobby dell’istituto, la prima ha lavorato alla realizzazione dell’Uomo dal foglio bianco (uno dei protagonisti della favola di Faletti), la seconda ha realizzato con i detenuti lavori in creta, rame, materiale di riciclo”. Con le foto dei lavori sono state realizzate 30 lampade, donate ai relatori del convegno e al Comune di Asti. È nata anche Tigro, marionetta alta 3 metri (realizzata dai detenuti di Quarto con i bambini della scuola di burattini di Monale) che giovedì, nello spazio dell’Informagiovani è stata protagonista dell’originale flash mob danzando sulle note del gruppo Sesta Corsia dell’associazione Insieme al Margine, del gruppo Ethnoclassic e dell’associazione Aso (Asti Sistema Orchestra) e cantato con la voce di Valentina Ciufalo. C’erano anche le allieve di ritmica dell’Olimpia Asti. La marionetta ha dialogato con le associazioni Via Madre Teresa di Calcutta e Genitori Insieme. I 30 violini sono quelli realizzati dai detenuti della casa circondariale di Asti con il materiale offerto dall’associazione Effatà che grazie ad ASO hanno cominciato a suonare. Una serie di emozioni e di contaminazioni che l’illustratrice Rebecca Valente ha immortalato in un dipinto donato a Roberta Bellesini. Tra gli ospiti c’erano anche gli studenti del liceo Monti che da tempo collaborano con la Casa di reclusione astigiana nell’ambito di un progetto di educazione alla legalità. Avellino: pigotte in vendita per salvare i piccoli migranti di Stefania Marotti Il Mattino, 10 dicembre 2017 Solidarietà, tutela dei diritti dei minori, integrazione, sensibilizzazione alla protezione delle madri e dei bambini meno fortunati. Il Comitato Provinciale dell’Unicef, guidato da Amalia Benevento, continua la sua campagna umanitaria sul territorio, con l’adozione delle pigotte, le bambole simbolo dell’associazione. Oggi, nel piazzale antistante la Chiesa del Rosario, lo stand espositivo, che consentirà a chi adotta una delle bambole, realizzate artigianalmente, di salvare la vita ad un piccolo migrante. “L’Unicef - spiega Amalia Benevento - opera per la salvaguardia dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza nel mondo. Con le pigotte, l’obiettivo è garantire la sopravvivenza ai piccoli migranti non accompagnati, che vivono il dramma della guerra, della fame, delle malattie stabilendosi nel nostro Paese, per cercare un avvenire dignitoso. Persiste, infatti, l’emergenza umanitaria in Siria, in Libano, ad esempio, e l’Unicef opera instancabilmente per assicurare le cure necessarie, il sostentamento ai minori ed alle loro madri. Lo spot nazionale, infatti, è “Una pigotta adottata, una vita salvata”. L’associazione è riuscita ad avvicinare al volontariato tanti giovani di città e provincia, che contribuiscono a diffondere la cultura della solidarietà. Nei prossimi giorni - continua la presidente saremo presenti nell’ex Carcere Borbonico, dove continueremo le nostre attività, inserite nel programma culturale della rassegna L’Altro Natale. In particolare, grazie alla collaborazione tra l’associazione e la casa circondariale Antimo Graziano, di Bellizzi Irpino, abbiamo realizzato un laboratorio didattico con le detenute. L’idea è nata da un’intuizione di Gloria Rigione, educatrice carceraria, ed una nostra volontaria laureata in Sociologia, Genevieve Azzurra Testa. Grazie pure all’intesa con i volontari della Caritas, da sempre impegnati nelle attività di rieducazione carceraria, abbiamo lavorato in sinergia con le detenute, madri sensibili ai problemi dell’infanzia violata, che hanno realizzato delle pigotte ispirate ai personaggi delle fiabe. I loro lavori saranno esposti nel Complesso Monumentale di via Dalmazia il 20 dicembre, insieme ad altri manufatti realizzati dagli alacri membri della Caritas cittadina. Inoltre, sarà allestita una mostra fotografica a cura di Antonia Di Nardo. Il 22, laboratorio didattico sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza con le rappresentanze di allievi delle scuole. All’iniziativa partecipano, oltre alle nostre volontarie, gli studenti dell’alternanza scuola lavoro del Liceo Polivalente Imbriani. Nella sede irpina dell’associazione, lavorano con entusiasmo due operatori del servizio civile. Già da due anni - precisa Benevento è attivo il servizio civile. Come operatore locale del progetto, sono fiera della collaborazione dei due ragazzi, che sono stati impegnati nel percorso di cittadinanza attiva e tutela dell’ambiente. Da gennaio, saranno sostituiti da altri due operatori, che si dedicheranno alla tutela dei diritti dei minori e degli adolescenti, insieme ai nostri volontari. Con la nostra attività, siamo anche riusciti a creare un’integrazione tra i bambini irpini ed i coetanei di altri Paesi, contribuendo ad abbattere la barriera del pregiudizio verso gli stranieri”. “A che cosa serve il diritto”, di Vincenzo Di Cataldo recensione di Sabino Cassese Il Sole 24 Ore, 10 dicembre 2017 Pochi sanno a che cosa serva il diritto, nonostante che ognuno si serva del diritto, perché questo riguarda tutti. Il diritto ha i suoi “sacerdoti”, gli esperti, gli addetti ai lavori, ma neppure questi riescono a padroneggiarlo tutto, per il gran numero di regole, la loro complessità, la loro “artificialità”. I giuristi, i magistrati, gli avvocati, poi, si concentrano sul diritto isolatamente considerato, e perdono così di vista le altre regole di cui è intessuta la società, quelle religiose, quelle etiche, il piccolo nucleo di regole primordiali, valide dovunque. Questi tre sono solo alcuni dei paradossi che il fenomeno giuridico presenta, e ai quali è dedicato il libro di uno dei nostri più acuti studiosi di diritto commerciale, con una vasta esperienza di aule di tribunale e di pratiche d’impresa, che quindi porta nel libro sia la sua conoscenza teorica, sia la sua pratica del diritto, illustrandone fisiologia e patologia. Vincenzo Di Cataldo parte dalle domande più importanti: a che cosa serve il diritto? Chi sono e che fanno legislatori, giudici e giuristi? Qi ai rapporti vi sono tra diritto e uomini/cittadini, visto che il diritto è di tutti e i giuristi sono soltanto “mediatori”. A queste domande e ad altre di analoga importanza gli addetti ai lavori cercano una risposta da secoli, ma la loro risposta rimane nel mondo chiuso degli esperti, perché raramente i giuristi escono dal loro ambiente. Si produce così una asimmetria: il diritto interessa tutti, ma non tutti sono padroni almeno di un “corpus” elementare di conoscenze giuridiche. In questo spazio vuoto si colloca il volume di Di Cataldo, scritto per tutti, in modo piano e convincente. Il lettore è preso per mano e condotto lungo un percorso molto difficoltoso che passa dalle regole alla loro interpretazione, alla soluzione dei conflitti che in ordine ad esse nascono. L’autore prende le mosse dalle regole, quelle del legislatore e quelle del giudice, per esaminare come vengono prodotte e quale ne è la funzione, spiegando che svolgono il compito di assicurare la cooperazione nella società. Passa poi a trattare il tema difficile della interpretazione delle norme, spezzando una lancia a favore della interpretazione funzionale, alla quale devono accodarsi quella letterale, quella storica e quella sistematica. Spiega, infine, che l’espansione del mondo giuridico, delle norme e dei conflitti ha prodotto una esplosione del contenzioso al quale il sistema giudiziario non può far fronte. Per cui auspica che le liti vengano composte al di fuori delle corti e che gli avvocati vengano educati a svolgere il ruolo di compositori delle controversie. Frequentigli esempi, tratti da ogni ramo dello scibile giuridico (dalle locazioni alla procreazione assistita, al penale, alla previdenza sociale, alle pratiche commerciali). Un esempio è nelle pagine in cui l’autore spiega come la pratica ha ampliato la nozione di imprenditore agricolo, inizialmente limitata dal codice civile del 1942 all’allevamento del bestiame, giungendo a permettere l’allevamento di api e pesci, fino a quando, nel 2001, la norma stessa è stata modificata per includere ogni forma di allevamento di animali. Nonostante che sia programmaticamente diretto a un pubblico vasto di non addetti ai lavori, il libro non è, tuttavia, divulgativo, un termine usato per indicare il caso del cultore di una disciplina che spezza il pane della scienza per nutrire l’incolto o il non specialista. Infatti, esso contiene ragionamenti e approfondimenti che interessano anche il mondo chiuso di giuristi e accademici. Negli anni passati, numerosi economisti, incaricati di cariche pubbliche nell’amministrazione statale, hanno scoperto di aver bisogno di “mediatori culturali” per intendere il linguaggio e la cultura dell’amministrazione italiana, che è il linguaggio giuridico. Se altri giuristi seguissero l’esempio dell’autore di questo libro, diverrebbe più facile superare il fossato tra diritto e mondo circostante. “Scritti 1953-1980”, di Franco Basaglia. Sbarre manicomiali, contro la furia del controllo di Franco Lolli Il Manifesto, 10 dicembre 2017 Psichiatria. Morbida, buona, tollerante, la Comunità terapeutica conservava tuttavia la logica della soggezione del malato al curante e andava dunque superata: la rivoluzione di Franco Basaglia testimoniata nei suoi “Scritti”, ora dal Saggiatore. Spesso l’opera di un autore ruota intorno a non più di due, tre temi di fondo che, per qualche motivo (a volte personale) più insistentemente lo interrogano: è dalla necessità di rispondere a questi quesiti che nascono e si sviluppano sistemi di pensiero complessi, attraversati da quei sottili fili conduttori che ne costituiranno la trama essenziale. Ebbene, dalle intense pagine degli “Scritti 1953-1980”, di Franco Basaglia (Il Saggiatore, pp. 915, euro 42,00), la questione che emerge come un vero assillo intellettuale, riproponendosi come una urgenza al tempo stesso etica professionale e politica, è riassumibile nella necessità di evitare che una idea innovativa si trasformi in ideologia. Scongiurare il rischio che i fattori di cambiamento venissero riassorbiti all’interno della logica contestata, questo era il problema, insieme all’esorcizzare la traduzione del pensiero in dottrina e il livellamento delle sporgenze dialettiche. Rieducare i terapeuti - Sin dai primi testi di antropofenomenologia della fine degli anni Cinquanta è evidente tanto lo sforzo di comprendere la condizione psicopatologica del malato - postura clinica che Basaglia ereditò dall’insegnamento fenomenologico ma che ebbe il merito originale di introdurre all’interno delle istituzioni manicomiali - quanto l’attitudine critica nei confronti di posizioni teoriche dogmatiche e, soprattutto, slegate dalla prassi terapeutica. Ma è proprio nei testi dedicati alla progressiva elaborazione di un nuovo modo di pensare la psichiatria istituzionale (dai primi resoconti della rivoluzionaria esperienza di Gorizia fino alle ultime considerazioni della fine degli anni Settanta), che è possibile apprezzare il raffinato e implacabile procedimento dialettico che Basaglia applicherà alla propria riflessione teorico-clinica: all’iniziale critica della logica manicomiale, sarebbe seguita la presentazione della prima proposta operativa, concreta, realizzabile: la Comunità Terapeutica, ambito operativo di trattamento della malattia mentale affermatosi in area anglosassone, che Basaglia si sforzò di introdurre in Italia come possibile superamento dell’istituzione manicomiale. Era la prima metà degli anni Sessanta e stava facendosi strada un nuovo modo di pensare la cura del malato mentale nella quale alla comprensione della sua sofferenza, si rendeva necessario associare - ed è questo il rivoluzionario innesto concettuale - una radicale trasformazione dell’ambiente terapeutico, una ridefinizione - o meglio una vera fondazione - di un setting inedito, capace di fare spazio all’aggressività del paziente, di eliminare le derive autoritarie presenti nella relazione curante-curato, di rieducare i terapeuti, non solo in termini professionali. La svolta fu straordinaria e certamente resa possibile anche dalla sintonia con il clima culturale dell’epoca: l’esperienza di Gorizia germogliò in questa fase. Ancora una volta, tuttavia, fu lo stesso Basaglia a mettere in discussione questa svolta, sin dalla seconda metà degli anni Sessanta, avviando così, una nuova fase di revisione dell’esperienza realizzata (questa volta, la propria): di attualità era ora l’osservazione di come il regime di tolleranza che caratterizzava la Comunità Terapeutica non avesse fondamentalmente intaccato la logica della violenza del precedente ricovero manicomiale. La Comunità Terapeutica - afferma Basaglia - libera il malato psichiatrico all’interno dell’istituzione ma continua a escluderlo dal “fuori”. Le barriere interne all’ospedale sono cadute, ma non quelle che lo separano dalla vita sociale. Così, la critica al modello della Comunità Terapeutica (che si estenderà alla psicoterapia istituzionale) sarà tanto dura da sfociare in una affermazione inesorabile: la Comunità è l’istituzione terapeutica del neocapitalismo; è un intervento tecnico supino alla politica che lo controlla, una nuova istituzione al suo servizio: molle, buona, tollerante ma che conserva, del vecchio modello di cui si propone come superamento, la stessa logica di soggezione del malato al curante. Si tratterà, allora, di oltrepassare l’esistente, di conquistare un nuovo campo di possibilità: ed ecco che all’ulteriore fase di destrutturazione farà seguito una nuova epoca di progettazione, quella che condurrà Basaglia a formulare le considerazioni teoriche e i principi etici sui quali la legge 180 fonderà l’inedita presa in carico della malattia mentale. Qualunque forma di istituzionalizzazione, anche quella più morbida, che più si ispira ai principi democratici, conserva la sua funzione essenziale, quella di controllo sociale (sebbene mascherata da intervento tecnico innovatore). Occorrerà dunque uno strappo ulteriore per far definitivamente cadere le barriere che separano il manicomio dal mondo esterno, impedire nuove ammissioni di malati e la costruzione di nuovi ricoveri psichiatrici, aprire quelli che ci sono alla quotidianità sociale, includere gli uni nell’altra istituendo servizi territoriali, ambulatori e reparti psichiatrici in ospedali comuni. Non un approdo - La grande stagione di Psichiatria Democratica inaugura così l’epoca dell’entusiasmo e del contagio che il nuovo pensiero porta con sé. Sarebbero stati necessari molti anni per realizzare in pieno l’auspicata chiusura dei manicomi, ma il processo riformatore era ormai, irreversibilmente, avviato. Una volta di più, tuttavia, Basaglia rifiutò di fare di questo traguardo un approdo: la consapevolezza di quanto la realtà sociale restasse immutata a dispetto delle idee che cambiavano, gli impedì di compiacersi dei risultati raggiunti e lo spinse a metterne alla prova la tenuta. La qualità intellettuale di Basaglia si misura proprio con l’assoluta inflessibilità della sua postura etica e teorica che, da Crimini di pace in poi, lo avrebbe condotto a formulare considerazioni penetranti e incisive sul delicato rapporto tra tecnica e politica e sul ruolo sociale degli intellettuali, il cui compito - afferma nei testi degli anni Settanta - è mettere in crisi l’equilibrio sociale generale, “svelando il lato ideologico dei suoi principi”. Liberarsi - per quanto si può - dell’involucro borghese che lo avvolge è il dovere etico di ogni intellettuale, che deve emanciparsi dalla propria posizione di funzionario del consenso nella quale si punta a ridurlo, rinunciando a svolgere mandati educativi, ed essendo, soprattutto, disposto a “pagare di persona”: l’inestricabile intreccio tra tecnica, sapere e politica, tra teoria e prassi sociale - di cui la vita di Basaglia rappresentò un paradigma esemplare - sarebbe stato al centro delle sue riflessioni fino al termine della vita. La sua idea di cultura - In quello che appare come una sorta di testamento, scrive: “non credo si faccia cultura scrivendo libri, si fa cultura soltanto nel momento in cui si cambia la realtà”. In un’epoca dominata da una produzione editoriale sempre più conforme al pensiero dominante e dalla proliferazione capillare di festival che trasformano i cittadini in consumatori dello spettacolo della cultura, le parole di Basaglia ci danno la misura della distanza che separa la figura di un intellettuale, come lui lo intedeva, dalle sue caricature. Il Papa: “Per i migranti non solo buone leggi ma vicinanza umana” di Salvatore Cernuzio La Stampa, 10 dicembre 2017 Udienza alle missionarie del Sacro Cuore di Gesù per il centenario della morte di Santa Francesca Saverio Cabrini: “Come lei guardiamo i poveri e gli ultimi negli occhi”. È vero, i migranti hanno bisogno “di buone leggi, di programmi di sviluppo, di organizzazione”, ma anche e prima di tutto hanno bisogno “di amore, di amicizia, di vicinanza umana”. Hanno bisogno “di essere ascoltati, guardati negli occhi, accompagnati”; hanno bisogno, insomma, di incontrare Dio “nell’amore gratuito” magari di una donna come s anta Francesca Saverio Cabrini che si pose accanto a loro come “sorella e madre”. Per Papa Francesco l’esempio della missionaria italiana morta cento anni fa a Chicago è la chiave per affrontare la sfida delle migrazioni ritornata preponderante nell’attuale scenario internazionale. “Dopo tanti anni, la realtà dei migranti, a cui Santa Francesca Saverio ha dedicato tutta la sua vita, si è evoluta ed è più che mai attuale”, dice il Papa alle suore del Sacro Cuore di Gesù, ricevute in udienza in Vaticano in occasione del centenario della morte della fondatrice (17 dicembre 1917). Davanti ai nostri occhi ci sono oggi “nuovi volti di uomini, donne e bambini, segnati da tante forme di povertà e di violenza”, sottolinea il Papa, e “attendono di trovare sulla loro strada mani tese e cuori accoglienti come quelli di Madre Cabrini”. Lei che con le sue ventiquattro traversate per l’oceano per assistere i migranti delle Americhe, aveva fatto di questa gente in fuga da fame e povertà e in cerca di una vita migliore il centro della sua vita e della sua opera, tanto da esserne proclamata patrona. La sua fu “una vita vertiginosa”, rammenta il Papa. Un’esistenza “carica di lavoro, viaggi a non finire a piedi, in treno, in nave, in barca, a cavallo”, arrivando fino alle Ande e l’Argentina; “creando dal nulla sessantasette opere tra asili, scuole, collegi, ospedali, orfanotrofi, laboratori…”. Tutto “per propagare la forza del Vangelo, che le aveva dilatato il cuore perché appartenesse a tutti”. In mente la missionaria aveva il motto di San Paolo: “Tutto posso in Colui che mi dà la forza”, nell’animo l’esempio di San Francesco Saverio, “pioniere dell’evangelizzazione in Oriente”. Suo desiderio era infatti di recarsi in Cina: “In quella terra lontana sperava di portare l’annuncio del Vangelo”, ricorda Francesco. Quell’obiettivo veniva prima di ogni altra missione. E non pensava affatto alle “migliaia e migliaia di emigranti che a causa della fame, della mancanza di lavoro e dell’assenza di un futuro si imbarcavano con le loro poche cose per raggiungere l’America, spinti dal sogno di una vita migliore”. Fu poi Papa Leone XIII che, con lungimirante umorismo, le fece cambiare rotta: “Non ad Oriente, Cabrini, ma all’Occidente!”. Così la giovane capì che la missione non era “dove lei voleva andare, ma dove Lui aveva preparato per lei la strada, la strada del servizio e della santità”, dice il Papa. “Ecco l’esempio di una vera vocazione: dimenticare sé stessi per abbandonarsi pienamente all’amore di Dio”. Questo carisma, oggi, è “di un’attualità straordinaria”, sottolinea il Pontefice. Ed esorta le discepole della Santa ad avere uno “sguardo attento e misericordioso verso i poveri che vivono nelle nostre città e nei nostri Paesi”. “Madre Cabrini - aggiunge - aveva il coraggio di guardare negli occhi i bambini orfani che le venivano affidati, i giovani senza lavoro che erano tentati di delinquere, gli uomini e le donne sfruttati per i lavori più umili; e perciò oggi siamo qui a ringraziare Dio per la sua santità. In ognuno di quei fratelli e sorelle, lei riconosceva il volto di Cristo e, geniale com’era, fu capace di mettere a frutto i talenti che il Signore le aveva affidato”. Come lei, allora, conclude Bergoglio, dobbiamo saper “cogliere il momento di grazia che si vive”. E, “per quanto difficile possa sembrare”, dobbiamo cogliere anche “i segni del nostro tempo” per “leggerli alla luce della Parola di Dio e viverli in modo da dare una risposta” che raggiunga ogni persona. Nessuna esclusa. Honduras. Violazioni dei diritti umani come dopo il golpe del 2009 di Riccardo Noury Corriere della Sera, 10 dicembre 2017 Al termine di una visita in Honduras effettuata dopo le contestate elezioni presidenziali del 26 novembre, Amnesty International ha accusato le autorità del paese centramericano di aver attuato, di fronte a una delle peggiori crisi politiche degli ultimi 10 anni, tattiche illegali e pericolose per ridurre al silenzio chiunque osi dissentire, persino impedendo ad avvocati e difensori dei diritti umani di visitare i manifestanti imprigionati. I livelli di violenza attuali sono comparabili a quelli che seguirono il colpo di stato del 28 giugno 2009, quando le forze di sicurezza si resero responsabili di gravi violazioni dei diritti umani favorite da vari stati d’emergenza e coprifuoco. Almeno 14 persone sono morte, la maggior parte delle quali colpite da pallottole, e decine sono rimaste ferite durante le manifestazioni, in larga parte pacifiche, che si sono svolte dal 26 novembre. Secondo informazioni fornite ad Amnesty International dalla Polizia nazionale, solo un agente è stato portato di fronte a un giudice per aver aperto il fuoco contro un manifestante. Il 1° dicembre le autorità hanno imposto il coprifuoco, che consente alle forze di sicurezza di agire con la massima impunità. Un difensore dei diritti umani ha riferito che da allora le aggressioni e i pestaggi da parte delle forze di sicurezza nel corso delle manifestazioni sono diventate prassi comune e che la situazione è diventata più pericolosa per chiunque si trovi in strada. Il coprifuoco sta avendo un impatto su ogni aspetto della vita quotidiana. Molte persone sono costrette a cambiare i loro programmi, altre perdono ore di lavoro o non possono visitare parenti e amici. Se allo scattare del coprifuoco si trovano ancora in strada, rischiano di non poter tornare a casa o di subire atti di violenza da parte della polizia. Le persone arrestate per aver violato il coprifuoco vengono trattenute nelle stazioni di polizia fino al termine, ovvero le 5 del mattino. Durante questo periodo viene loro negata ogni forma di assistenza legale, dato che i difensori dei diritti umani e gli avvocati non possono violare il coprifuoco per visitarli o presentare istanza di scarcerazione. Il coprifuoco, modificato due volte dal punto di vista delle zone interessate e degli orari, non rispetta le previsioni del diritto internazionale e pare una misura sproporzionata a fronte di casi limitati di violenza. Se il governo vorrà estendere ulteriormente il provvedimento, dovrà argomentare in modo adeguato la sua necessità e rispettare le procedure costituzionali e internazionali, compreso l’obbligo di darne notifica al segretario generale dell’Organizzazione degli stati americani e alle Nazioni Unite. In ogni caso, secondo Amnesty International, dovrebbero essere urgentemente adottate salvaguardie efficaci per impedire ulteriori violazioni dei diritti umani e tutte le persone accusate di aver violato i diritti umani dovrebbero essere posti immediatamente sotto indagine. L’Honduras è uno dei paesi più violenti al mondo, con alti livelli di omicidio e insicurezza. La sfiducia nei confronti delle istituzioni è elevata, anche a causa dell’impunità ricorrente nella maggior parte dei reati e dei ripetuti episodi di corruzione o di coinvolgimento delle forze dello stato in attività criminali. L’Honduras è anche uno dei paesi più pericolosi di tutta l’America latina per i difensori dei diritti umani, soprattutto per coloro che si occupano della difesa della terra e dell’ambiente.