Sul corpo di Antonio di Marilù Mastrogiovanni Il Manifesto, 9 aprile 2017 Antonio Fiordiso, detenuto a Lecce, è morto nel 2015 in ospedale. Ora la perizia medico-legale documenta l’assenza di cure e i tanti punti oscuri di una vicenda simile a quella che uccise Cucchi. Picchiato da detenuti romeni, le sue condizioni di salute sono peggiorate irreversibilmente. Senza controlli medici, esami di routine, nel disinteresse generale del personale. Nelle cinquantacinque pagine dell’autopsia sui resti di Antonio Fiordiso, morto a 32 anni nell’ospedale Moscati di Taranto, è raccontato il dramma dei suoi ultimi mesi di vita, trascorsi tra ricoveri e detenzione. La relazione porta la firma di Alberto Tortorella, medico legale e Salvatore Silvio Colonna, anestesista rianimatore, consulenti tecnici incaricati dalla sostituta procuratrice Maria Grazia Anastasia, che ha disposto "accertamenti tecnici irripetibili", come aveva richiesto il giudice delle indagini preliminari Pompeo Carriere. Il gip ha infatti accolto la richiesta di Oriana Fiordiso, zia di Antonio e sua unica parente, respingendo la richiesta di archiviazione del pm Lelio Festa, il quale, in prima istanza, non aveva riscontrato profili di responsabilità penalmente rilevanti nella condotta del personale medico dell’ospedale. Una relazione complessa e in alcuni passaggi salomonica, in cui però i medici non lasciano spazio a dubbi quando scrivono che dal carcere Borgo San Nicola di Lecce "Fiordiso è giunto in ospedale in condizioni critiche; mancano una attendibile documentazione medica e dati di laboratorio e strumentali dei giorni precedenti il ricovero". "D’altra parte - continuano i consulenti tecnici della procura - alla luce delle evidenze documentali successive si può ritenere che i disturbi dell’alimentazione dei giorni precedenti il ricovero fossero manifestazioni della gravissima condizione clinica del paziente. Inoltre - scrivono - l’entità del danno documentato all’arrivo dell’ospedale a carico dei vari organi, e in particolare della funzione renale, era tale da far ritenere che il quadro clinico, rapidamente ingravescente, fosse già presente nei giorni precedenti; e che esso non sia stato valutato e trattato nei tempi e nei modi prescritti dalle regole dell’arte". In sintesi, la gravità della condizione di salute psico-fisica di Antonio, morto solo, in ospedale, immerso nelle sue feci, si sarebbe potuta e dovuta affrontare per tempo, somministrandogli le cure adeguate. Dalla perizia invece risulta che, soprattutto negli ultimi tempi, nel carcere di Lecce non siano eseguiti neanche gli esami di base per monitorare il suo stato di salute. Scrivono infatti i consulenti: "L’esecuzione di esami ematochimici di base avrebbe probabilmente consentito di giungere a diagnosi in tempi più brevi, di ricoverare Fiordiso più precocemente, e di avviare più tempestivamente il trattamento della gravissima forma morbosa". Antonio Fiordiso è morto la notte dell’8 dicembre 2015. Quanto tempo è intercorso da quando si sarebbe potuto fare qualcosa, per "giungere a diagnosi in tempi più brevi", come dicono i medici, a quando effettivamente si è intervenuti, e che cosa è stato fatto in quest’arco temporale? Scrivono Tortorella e Colonna: "In base agli elementi in nostro possesso riteniamo che a partire dal 16 ottobre si sia instaurata una sindrome rabdomiolitica acuta (…). Abbiamo già sottolineato che Fiordiso è giunto in ospedale in condizioni critiche; e che mancano una attendibile documentazione medica e dati di laboratorio e strumentali dei giorni precedenti il ricovero". È come se in carcere si fossero perse le tracce di quello che è accaduto ad Antonio Fiordiso prima che fosse ricoverato. Dunque è anche su questa assenza di "attendibile documentazione medica" che si sposterà necessariamente l’indagine. "Sono moderatamente ottimista - ha affermato Paolo Vinci, avvocato di Oriana, zia di Fiordiso, dal cui esposto sono partite le indagini della Procura - perché la perizia afferma quanto si evince dalla testimonianza resa dalla zia di Antonio, sentita come persona informata dei fatti, e come si evince dalle foto e dai video che ella ha messo a disposizione degli inquirenti". Foto e video che la zia di Antonio girò appena si trovò di fronte al nipote moribondo e incosciente. Non lo vedeva da tre mesi e l’ultima volta che l’aveva visto, era in salute. Invece, quando lo rivide dopo tre mesi in cui nessuno le aveva comunicato, nonostante numerose richieste, dove lo stessero trasferendo, Antonio era irriconoscibile: semi-incosciente, denutrito, contratto, con vistosi ematomi lunghi e stretti sui fianchi, escoriazioni. Dopo la denuncia del manifesto, i deputati Elisa Mariano e Salvatore Capone (Pd) hanno presentato una interrogazione al Ministro della Giustizia che ha risposto ricostruendo gli ultimi mesi di vita del detenuto. Così si apprende che Antonio era stato picchiato in carcere da alcuni detenuti di origine rumena. Dalla perizia del consulenti della procura, che analizzano vari documenti e diari medici, si ha traccia di fratture del naso, contusioni, escoriazioni, e traumi vari. Tre mesi dopo morirà, ridotto così: "Stato settico in paziente con polmonite a focolai multipli bilaterali. Diabete tipo 2. Grave insufficienza renale. Tetraparesi spastica", "versava in uno stato di progressiva astenia, con tremori, ipoalimentazione e progressiva chiusura relazionale". Secondo i consulenti della procura la causa plausibile della morte è "sindrome rabdomiolitica acuta", una sorta di implosione, di collasso muscolare e schiacciamento, simile a quello che si verifica nelle vittime dei terremoti. Tale sindrome, spiegano, è anche farmaco-indotta, in quanto anche un mix letale di psicofarmaci può causare un collasso muscolare di tale entità. A Fiordiso, un povero cristo vissuto ai margini della società, originario di San Cesario, paesino alla porte di Lecce, erano somministrati psicofarmaci anche se, negli ultimi periodi, si rifiutava di prendere medicinali. Però, come scrivono i consulenti, la documentazione medica è carente, dunque molto dipenderà dalle successive acquisizioni e ascolti della pm, che ha iscritto nel registro degli indagati gli otto medici di guardia la notte in cui Antonio è morto. Troppo diritto, pochi diritti di Michele Ainis La Repubblica, 9 aprile 2017 Il nostro generoso ordinamento ospita 35mila reati (stima del Consiglio d’Europa, 2012). Per castigarli abbiamo armato 4 forze di Polizia nazionali (Carabinieri, Polizia di Stato, Guardia di finanza, Polizia penitenziaria), che rispondono a 4 diversi ministeri (Difesa, Interno, Economia, Giustizia). In proporzione i loro uomini (310 mila, uno ogni 190 abitanti) sono il doppio rispetto all’Inghilterra (un agente ogni 390 abitanti), il 40% in più rispetto alla Francia e alla Germania (un agente ogni 280 abitanti). Ma li fronteggia un esercito altrettanto numeroso d’avvocati (246 mila), che piazza l’Italia al secondo posto in Europa (dopo la Spagna) in questa classifica togata. Da qui la colata lavica che sommerge la giustizia penale (1,24 milioni di processi pendenti in tribunale, al 30 settembre 2016), il cui arretrato infatti resta stabile, quando nella giustizia civile si è alleggerito del 20% negli ultimi tre anni. Da qui, infine, la doppia ingiustizia allevata dal nostro sistema di giustizia. Verso le vittime dei reati, con un milione e mezzo di processi prescritti in un decennio. E verso il popolo dei rei, attraverso il sovraffollamento delle carceri. Nel 2006 fu tamponato con l’indulto, salvo ripetersi nel 2012 con cifre ancora più imponenti (68 mila detenuti per 45 mila posti letto). Ora va meglio, ma sempre peggio rispetto ai parametri della normalità (tasso d’affollamento al 108%). Per forza: l’abuso del diritto penale rende abusivi sia i ladri che le guardie, ne gonfia gli organici, ne scompiglia i ruoli. Sennonché l’eccesso di divieti e di manette non lascia in panne soltanto la macchina penale. E non dipende dalla supplenza dei magistrati sui politici, né dall’invadenza dei politici sui magistrati. Dipende piuttosto da una questione culturale, che investe il modo stesso con cui ci rapportiamo gli uni agli altri, le condizioni del nostro vivere comune. E in ultimo apre una ferita nel corpo vivo della democrazia italiana. Sta di fatto che le istituzioni dovrebbero esserci amiche; il più delle volte le percepiamo, viceversa, come nemiche. Per innumerevoli ragioni, che in Italia derivano anche dai percorsi della nostra storia nazionale, dalla fragilità del nostro Stato. Ma derivano altresì da un malinteso circa il ruolo stesso del diritto, e quindi delle sentinelle del diritto. Come dicevano gli antichi romani? Dura lex, sed lex. E dunque la spada della legge, il bastone della legge. Da qui un proibizionismo a tutto tondo, che non sa più distinguere fra vittime e colpevoli. In sintesi: troppo diritto, pochi diritti. E di conseguenza molta repressione, nessuna comprensione. Le prove? Un paio di settimane fa il Consiglio d’Europa ci ha appuntato sul petto una medaglia: vantiamo il record europeo di detenuti per droga. Un crimine assurdo, quantomeno rispetto al consumo di cannabis, che coinvolge oltre 6 milioni di italiani: tutti delinquenti? Ciò nonostante, il disegno di legge che ne disporrebbe la legalizzazione - sorretto da 221 deputati - rimane fermo al palo. Eppure il proibizionismo non risolve i problemi: li crea. Vale per la marijuana, vale per la prostituzione o per il gioco d’azzardo, come in passato valeva per l’aborto. Ma invece no, in Italia i nuovi reati piovono come un acquazzone d’autunno. A ciascun giorno la sua pena, recita il Vangelo di Matteo; e i nostri politici lo prendono sul serio. Solo a considerare gli ultimi mesi, il Parlamento ha introdotto i reati di frode processuale, depistaggio, intermediazione illecita, omessa bonifica, impedimento di controllo, omicidio stradale, e via punendo e castigando. Tuttavia il diritto non serve unicamente per reprimere; può anche svolgere una funzione "promozionale", per usare l’espressione resa celebre dagli studi di Norberto Bobbio, sul volgere degli anni Sessanta. Questa categoria evoca l’adozione di specifiche tecniche d’incoraggiamento - un premio, un contributo a fondo perduto, un’esenzione fiscale - che s’aggiungono alle tradizionali misure repressive. Le prime intendono propiziare i comportamenti indicati dalla norma; le seconde si limitano invece a scoraggiare i comportamenti non desiderati. Così, se amo gli animali, se voglio contrastare il randagismo, ho sempre due leve fra cui scegliere: posso multare chi abbandoni il proprio cane per strada, ma posso anche premiare chi deciderà di prendersene cura. E la seconda soluzione non soltanto può rivelarsi più efficace della prima, ma ha inoltre il vantaggio di rendere le istituzioni più simpatiche, più cordiali. Risparmiandoci una vita da cani. Il diritto alla difesa e quello di informare di Giuliano Pisapia La Repubblica, 9 aprile 2017 Per evitare gogne mediatiche e fughe di notizie nelle inchieste basta applicare correttamente le norme già esistenti. Le indagini sono segrete, il dibattimento è pubblico. Sembra un’affermazione ovvia per tutelare la ricerca della verità giudiziaria, evitare che i colpevoli possano darsi alla fuga, costruirsi un alibi o sviare le indagini. Ho scritto "sembra" perché nella realtà non è così. Le informazioni sulle indagini, anche quelle coperte dal segreto, vengono divulgate spesso dai media, anche quando vi è solo una iscrizione sul registro degli indagati e talvolta lo stesso interessato apprende la notizia dai giornali. Per analizzare questa stortura Repubblica ha ospitato nei giorni scorsi gli interventi di Giuseppe Pignatone, di Stefano Rodotà e di Gherardo Colombo. I contributi del capo della Procura di Roma, dell’ex Garante della privacy e di un autorevole pm che si è dimesso dalla magistratura dopo decenni di impegno per la giustizia, hanno il merito di basarsi su esperienze vissute arrivando a conclusioni che, pur con approcci in parte diversi, hanno molto in comune. E soprattutto hanno lo stesso obiettivo: ribadire la necessità delle intercettazioni, ma evitarne l’abuso; arginare, per quanto possibile, le fughe di notizie; tutelare la privacy e porre fine alle frequenti "gogne mediatiche", innanzitutto nei confronti di chi è stato casualmente intercettato. La questione è complessa perché in gioco c’è più di un diritto di rilevanza costituzionale: il diritto di difesa, il diritto di informare e di essere informati, la tutela della privacy. D’altra parte c’è il dovere, in presenza di un reato, di fare le necessarie indagini e individuare il responsabile. Quello che bisogna raggiungere, dunque, è un equilibrio molto delicato e difficile. La bilancia non deve pendere da una parte o dall’altra, nessuno dei diritti in gioco può essere sacrificato. Non voglio semplificare troppo, ma a me pare che non siano le norme vigenti a dover essere modificate. Quello che bisogna riuscire ad ottenere è la loro corretta applicazione. Sulle intercettazioni la legge è chiarissima: il giudice, su richiesta del pm, può autorizzare questo "strumento di ricerca della prova" solo in presenza di "gravi indizi di reato e se assolutamente indispensabile per la prosecuzione delle indagini". I dati, e i risultati, ci dicono che spesso non è così. Unanime è il "sì" alle intercettazioni, ma senza abusi. I dati, e soprattutto i risultati, ci dicono invece che di questo delicatissimo strumento non raramente si è abusato. Tanto è vero che, là dove i procuratori della Repubblica hanno invitato i loro sostituti a una maggiore attenzione, sono diminuite le intercettazioni, le fughe di notizie e i costi, senza incidenze negative sulle indagini e sul loro esito. Norma, quindi, non da modificare, ma da applicare correttamente. Diversa, invece, è la questione della fuga di notizie e la divulgazione di informazioni segrete, che costituiscono un reato definito gravissimo da Pignatone in quanto danneggiano le indagini "più o meno gravemente". Rodotà ricorda che, come Garante della privacy, in più occasioni aveva stigmatizzato la diffusione di notizie non rilevanti e pregiudizievoli per l’interessato e che influiscono negativamente sulle indagini. Eppure, anche qui, le norme sono chiare: è vietata la pubblicazione, anche parziale o per riassunto, degli atti coperti dal segreto e degli atti non più segreti fino a che non siano concluse le indagini preliminari (art.114 c.p.p.). Gli atti di indagine sono coperti dal segreto fino a quando l’imputato non ne possa venire a conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari (art. 329 c.p.p.). Il riferimento alla conoscenza da parte dell’imputato (e non della persona sottoposta ad indagini) è significativa: solo con la richiesta di rinvio a giudizio, infatti, e quindi al termine delle indagini, un soggetto "assume la qualità di imputato". Eppure, pur in presenza di continue violazioni di tali norme, le inchieste sulle fughe di notizie sono limitatissime e i processi ancora più rari. Certo, si tratta di accertamenti non facili, ma l’obbligatorietà dell’azione penale è un principio costituzionalmente garantito. Ed è vero, come ricorda Pignatone, che il reato previsto per chi pubblica atti di cui sia vietata la pubblicazione può essere estinto con l’oblazione e col pagamento di una somma limitata, ma è altrettanto vero che il giudice può respingere la richiesta di oblazione "in caso di gravità del fatto". Già oggi, quindi, sono possibili maggiori controlli e, quando necessario, sanzioni, anche solo disciplinari e deontologiche (sono da sempre contrario alla pena del carcere per i giornalisti, anche in caso di diffamazione). Se però, come spesso avviene, vi sono interpretazioni diverse, bisogna trovare una soluzione che ponga fine a una situazione non più tollerabile e che incide negativamente sulla fiducia nella giustizia. Un primo importante passo avanti è stato fatto da alcuni procuratori della Repubblica, tra cui per primo proprio Pignatone, che hanno impartito direttive, tese ad evitare la trascrizione delle intercettazioni processualmente non rilevanti o che riguardano persone non indagate. Ed è positivo che il Consiglio superiore della magistratura si sia espresso favorevolmente, invitando tutte le procure a seguire quelle indicazioni. Non solo: in Parlamento è in corso di approvazione, tra polemiche e divisioni (tanto per cambiare!), una legge delega che va in tale direzione. Il ministro della Giustizia ha già dichiarato che per il necessario decreto legislativo chiederà la collaborazione di quei magistrati che già hanno istituito prassi virtuose. Siamo a un bivio che può fare chiarezza su interpretazioni parziali e differenti delle norme esistenti. Ma non si dica che si intende limitare la libertà di stampa. Ogni diritto, del resto, prevede, e non può che prevedere, il rispetto di altri diritti. Il signor K. e quell’arresto alle sei del mattino di Nicola Quatrano Corriere del Mezzogiorno, 9 aprile 2017 Quando alle sei di mattina sentì bussare insistentemente alla porta, e poi due ufficiali cortesi (ai colletti bianchi si riservano certe attenzioni) gli consegnarono un’ordinanza di custodia cautelare di 1.500 pagine nella quale doveva cercare le ragioni del suo arresto, quando infine colse l’angoscia nel viso dei suoi figli e vide gli occhi di sua moglie riempirsi di lacrime, il signor K. sentì il mondo crollargli addosso. Ma fu un attimo, subito si consolò pensando che quanto gli stava accadendo dimostrava "la possibilità di punti di vista diversi nella fisiologica dialettica processuale". Ossia, come ha spiegato il Procuratore della Repubblica facente funzioni qualche giorno fa, commentando una raffica di arresti annullati da parte del Tribunale del Riesame. Così poi, mentre chiuso nella sua cella tentava di decifrare la ponderosa ordinanza del Gip, mentre leggeva che i Pm avevano dichiarato ai giornalisti che la sua colpevolezza era certa e indiscutibile (non semplicemente un "punto di vista"), il signor K. dominò la rabbia che sentiva montargli dentro e, sia pur con difficoltà, si sforzò di accettare le imperiose esigenze della "dialettica processuale", e di comprendere quanto era giusto che la sua insignificante persona fosse immolata alla sacralità dei "diversi punti di vista". Solo un dubbio continuava a turbare la ritrovata serenità del signor K. "Se si ammette che i punti di vista possono essere diversi, vuol dire che gli stessi Pm non sono del tutto certi del loro. Ma anche la sola possibilità di una ipotesi alternativa - ragionava tra sé - non dovrebbe escludere che si ricorra alla custodia cautelare in carcere, la famosa ultima ratio?". In fondo, pensava, la differenza tra un cittadino e un suddito è tutta qui: il cittadino gode di diritti assoluti e inviolabili, mentre gli interessi del suddito sono sempre subordinati a quelli superiori dello Stato (e quindi della "fisiologica dialettica processuale"). Che, poi, non gli riusciva proprio di vederlo, questo "Stato della Costituzione più bella del mondo", nelle immagini televisive della conferenza stampa in Procura, nella parata di carabinieri impettiti e nel Pm di turno che, anziché illustrare con continenza il suo "punto di vista", si esibiva in disquisizioni di vaga impronta sociologica, impartendo lezioni di moralità. Giunse persino a sospettare - ma bisogna capirne lo stato d’animo - che il suo arresto potesse essere usato da qualcuno come un’occasione di carriera, e questo non gli pareva una cosa propriamente morale. Pensò che la sua storia avrebbe potuto entrare in qualche libro scritto da un Pm (magari a quattro mani con un cronista giudiziario), che lo avrebbe bollato per sempre come un delinquente, anche se di qui a mille anni il processo dovesse assolverlo o ridimensionare le accuse. E non gli sembrò giusto. Pensò che quello del Gip è proprio un mestiere difficile. Dover valutare il lavoro di decine di poliziotti e di vari Pm, studiare migliaia di carte e poi, da solo, decidere della sorte di persone in carne ed ossa (non delle carte). Giunse a immaginarselo piccolo piccolo, pressato dalla Procura perché facesse presto, "esitasse" in fretta le richieste. E magari pure i suoi superiori, periodicamente, gli chiedevano conto degli arresti sui quali non aveva ancora deciso. E pensò che così non va bene, che sarebbe meglio non dargli premura, perché il giudice frettoloso, diversamente dalla gatta, arresta tutti. Pensò che hanno torto Ministero della Giustizia e Csm a considerare la riduzione dei tempi come un’auspicabile "performance". Certo, il processo deve avere una durata "ragionevole", ma la vera "performance" per un giudice è decidere bene, non decidere in fretta. Perché la decisione richiede pazienza: "conta dieci volte prima di parlare", figuriamoci prima di arrestare! E, a questo punto, venne preso dallo sconforto. Si immaginò di vivere una storia in cui la sua vicenda personale non contava nulla o quasi. Lui, i suoi comportamenti, la sua famiglia, il suo futuro, poco più di un fondale di scena per attori diversi, per un altro copione. Quello di gente impaurita che chiede di essere protetta dalla criminalità, di poliziotti e giudici che tentano di rassicurarla con raffiche di arresti e conferenze stampa, poco importa se seguiti da condanne o assoluzioni. Una storia di "fisiologica dialettica processuale", in cui tutti possono dimostrare di avere ragione salvo il malcapitato di turno che ci si trova in mezzo. Di statistiche per provare che lo Stato combatte il crimine efficacemente, di cifre asettiche, falsamente dimostrative. Una storia di carriere costruite su questi numeri. E lo sconforto si trasformò in paura. Calano i reati ma è boom di richieste di porto d’armi. Il questore "non faccio che dire no" La Repubblica, 9 aprile 2017 Nonostante i reati in calo a Milano è boom di richieste di porto d’armi. Lo ha detto il questore Marcello Cardona, in città da qualche settimana. "Da quando sono arrivato, non ho mai smesso di firmare dinieghi", ha spiegato lo stesso Cardona. I reati, per quanto riguarda tutta l’area di Milano e Monza, sono in calo rispetto all’anno scorso. Tutti. Nonostante questo però, si registra un aumento esponenziale delle domande di chi chiede di poter tenere un’arma con sé. Perché guardare ai dati "non basta - sottolinea il questore - al di là della diminuzione dei reati quella che attende le forze dell’ordine è la sfida della percezione di sicurezza tra i cittadini. E questa sfida si vince con un rapporto costante e con una sempre maggior rapidità di intervento". Vedi, ad esempio, ricorda, quello che è avvenuto in viale Monza, dove un uomo armato di due coltelli è stato bloccato in mattinata dalla polizia, che ha fatto fuoco e lo ha colpito alle gambe. "In pochi minuti gli agenti sono intervenuti e l’hanno neutralizzato e hanno stabilito in tempi brevi che non si trattava di terrorismo". "Adotteremo tutti gli strumenti che ci consentono le norme - ha aggiunto il questore - per incentivare l’attività di prevenzione". La considerazione arriva nel giorno in cui, sull’onda dell’ultimo episodio di cronaca - quello del ristoratore che ha sparato e ucciso un ladro nel Lodigiano - Forza Italia è nelle piazze dei municipi della città con i suoi banchetti per raccogliere le firme e chiedere al parlamento di calendarizzare la proposta di legge sulla legittima difesa presentata da Fi. A Milano, però, i numeri raccontano che c’è meno criminalità. Calano i furti e le rapine in abitazione (-3,6%, -17,6%) e, nonostante i ripetuti e recenti episodi soprattutto nelle farmacie, sarebbero in diminuzione le rapine negli esercizi commerciali (-13%); di contro, aumentano quelle in banca (+11%), così come aumentano i furti con destrezza (+6,1%). Il periodo di riferimento è quello che va da marzo dell’anno scorso a marzo di quest’anno. E, nonostante le notizie che quotidianamente raccontano di violenze sulle donne, fa ben sperare la diminuzione del 6% dei maltrattamenti in famiglia e dei reati di stalking (-13%). Rimane stabile il dato degli omicidi volontari: 20 nell’ultimo anno, come nei 12 mesi precedenti. Il lavoro dell’Ufficio prevenzione generale, quello che coordina le ‘volanti’, è pressoché raddoppiato: dai 56mila interventi si è passati ad oltre 122mila in un anno. Capitolo droga. Che sia in aumento a Milano è confermato dall’aumento della quantità di droga sequestrata dalla polizia: oltre 32 kg di eroina (contro i 28 dell’anno prima), con una nuova impennata della cocaina: ne sono sequestrati 158 kg contro gli 89 del 2015-2016. Diminuisce l’hashish dai mille ai 600 chili, mentre aumenta di nuovo la marijuana che passa da 100 a 157 kg. In questo senso il Questore si è detto "grato al Sindaco per l’opera di riqualificazione progettata per zone come Rogoredo". Carico di lavoro moltiplicato quello dell’ufficio immigrazione: solo le richieste di asilo politico hanno raggiunto quota 6mila in un anno, almeno 2mila in più rispetto all’anno precedente. Si impenna il numero di stranieri accompagnati alla frontiera: erano 291, sono diventati 749 nel giro di pochi mesi. E proprio il tema dell’immigrazione e dell’integrazione è stato al centro della riflessione del questore: "Dobbiamo garantire diritti umani e sicurezza. In questo il prefetto Lucia Lamorgese sta facendo un lavoro straordinario. Ma se uno straniero non è in regola deve andare via, perché in questo Paese non teniamo chi commette reati", ha assicurato Cardona. Movimento 5 Stelle: stop alle toghe in politica, ci sarà un voto sul blog di Stefania Piras Il Messaggero, 9 aprile 2017 Ovazione della platea quando il pm Ardita dice che i magistrati eletti non dovrebbero più tornare in tribunale. La conferma che è arrivato il momento anche per i pentastellati di approfondire il tema toghe e politica, arriva quando il pm Sebastiano Ardita, intervistato da Gianluigi Nuzzi, incassa l’applauso scrosciante della platea e dice che i magistrati in politica non dovrebbero tornare a giudicare. Non ci sarebbe stata quell’ovazione in una qualsiasi festa del M5S perché Ivrea ha volutamente polarizzato un pubblico molto diverso che ha bisogno di capire in quale direzione sta andando il Movimento e se abbia il coraggio di affrontare vecchi e italianissimi tabù. Ecco perché i parlamentari della commissione Giustizia (ce ne erano diversi all’officina H ieri) che stanno lavorando al programma elettorale hanno commentato positivamente le parole del pm siciliano. Al punto che nei quesiti che verranno caricati sul blog di Grillo per essere sottoposti a votazione online ci potrebbe essere anche questo delicatissimo tema che fa parte di una più ampia riforma della giustizia che il Movimento studia a trecentosessanta gradi: dai paletti ai magistrati in politica, appunto, fino, udite udite, alla separazione delle carriere tra magistratura inquirente e giudicante. Tema che nelle pause caffè cattura l’attenzione trasversale di diversi Cinque Stelle e che anche a un non addetto ai lavori della commissione Giustizia come Stefano Vignaroli fa domandare: "Ma non c’era già anche un referendum dei radicali che lo diceva?". Sì, nulla si crea e nulla si distrugge, anche se poi fioriscono chiose stizzite come quella del senatore Mario Michele Giarrusso: noi non siamo Forza Italia È un argomento di rango costituzionale, ci penseremo e ne parleremo. Intanto cominciamo a mettere dei limiti ai magistrati in politica". E su questo c’è una strada battuta. Al momento è solo una proposta emendativa sulla legge da poco passata alla Camera e che arriverà in Senato. A dare battaglia, in prima linea c’era il deputato e legale Alfonso Bonafede che ha provato con un emendamento, appunto, ad allungare il periodo di vacatio tra l’esperienza in politica e quella del ritorno in tribunale o procura. Bonafede si dice molto d’accordo con le considerazioni espresse da Ardita e lascia capire che in commissione si sta lavorando a tutto tondo "anche solo per difendere quei magistrati che nella vita fanno solo quello mentre i loro colleghi in Parlamento fanno carriera". "Abbiamo le mani libere e dobbiamo iniziare a ragionare seriamente sull’immagine di terzietà e indipendenza della categoria dei magistrati", dice il senatore e avvocato Maurizio Buccarella, uno che usa senza imbarazzo la parola garantismo e che è disposto a ragionare di giustizia senza preconcetti parlando (male) del correntismo nel mondo delle toghe, altro tema che ha strappato applausi ieri a Ivrea e, riflettendo ancora sulla separazione delle carriere immaginando due organi di autogoverno distinti per pm e giudici. "Al primo reato, i giovani visitino le carceri" di Massimo Marnetto Corriere della Sera, 9 aprile 2017 Avevo appena finito di parlare della Costituzione in un carcere. Strette di mano, apprezzamenti, battute con i reclusi. Poi, un "fine-pena-mai" mi ha detto una cosa che mi torna spesso in mente. "Portateci i ragazzi qui dentro. Quelli che vivono nelle borgate (lui le periferie le chiamava ancora così). Quelli che fanno i galletti, i prepotenti, i capetti. Quelli a rischio, insomma. Portateli qui, che ce parlo io. Je faccio vedè le sbarre, i corridoi, le donne nude dei calendari sulla parete, le uniche che vedi, le celle co’ le brandine a castello, i bagni dove te fai il caffè co’ la puzza di chi c’è appena stato. E dopo mezza giornata da carcerato je direi: vedi tu fra un po’ te ne vai perché non hai fatto cazzate. Ne basta una e te ritrovi come niente qui dentro. Per anni. O per sempre, come è capitato a me. Mo lo sai. Pensace prima de fà er boss. Questo gli direi. E ‘na bella visita guidata come questa, se la fai da ragazzetto, te rimane in testa. E t’aiuta a non rovinatte". Queste poche parole mi tornano in mente quando leggo di gravi reati commessi da giovani, come il mortale pestaggio fuori da una discoteca di Alatri. Se i ragazzi che hanno ammazzato a calci e pugni un coetaneo avessero fatto quella "visita guidata" al primo problema con la giustizia; se avessero sentito le parole di un ergastolano, forse non sarebbero arrivati a tanto. Forse. La giustizia risorga a Pasqua di Paolo Izzo Gazzetta del Mezzogiorno, 9 aprile 2017 Lentezza dei processi e condizioni critiche delle carceri sono tormentoni ricorrenti quando si parla del nostro sistema giudiziario, anche se non sembrano interessare più di tanto chi non sia coinvolto direttamente in un processo o condannato a una pena detentiva. Tuttavia, approfondendo la questione da un punto di vista economico, si saprebbe che in particolare quei due elementi gravano sui portafogli di tutti: l’irragionevole durata dei procedimenti penali e civili porta a un onere stimato nell’1 percento del Pil, mentre le patrie galere costano quasi tre miliardi di euro all’anno, portando a risultati di rieducazione scarsissimi, visto che siamo tra i Paesi con la più alta recidiva, e rappresentando, a detta dello stesso ministro della Giustizia, Orlando, strutture di fatto "criminogene". Un necessario punto di ri-partenza, insieme a una strutturale riforma della Giustizia, sarebbe quel decreto di amnistia e indulto - strumenti pur previsti dalla nostra Costituzione, ma quasi abbandonati dalle istituzioni - che il partito Radicale continua a invocare. Il prossimo appuntamento è la Marcia per l’amnistia indetta il giorno di Pasqua, a cui personalmente parteciperò con la speranza di una resurrezione (laica) dello Stato di diritto. Le distorsioni della giustizia di Domenico Ciruzzi La Repubblica, 9 aprile 2017 Ho letto l’intervista rilasciata dal giurista professor Daniele Marrama sulle pagine di questo giornale e ritengo opportuno esprimere alcune sintetiche considerazioni. L’accertamento giudiziario è gravemente carente, come da decenni denunziano gli avvocati penalisti assieme ad altri - purtroppo non numerosi - garantisti. Da decenni, si è consentito di violare le basilari regole della presunzione di innocenza in materia di terrorismo e di criminalità organizzata. Sono state così introdotte norme spurie che hanno progressivamente infettato il sistema processuale e soprattutto la cultura di chi investiga ed, ancor peggio, di chi poi giudica. Tale infezione giuridico-culturale ha aggredito l’intero sistema, giungendo ad incriminare perfino i professori universitari. Tralascio considerazioni sulla barbarie delle nostre prigioni sancita indelebilmente dalla Corte Europea. Prigioni disumane abitate ogni anno ingiustamente da migliaia di presunti innocenti, la quasi totalità dei quali sono "poveri cristi". Comprendo perfettamente che quando vengono ingiustamente incarcerate persone autorevoli e conosciute - professori universitari, ad esempio - l’eco mediatica si accresce ed aumenta la giusta critica verso il sistema di accertamento giudiziario. Ed è proprio in questi momenti che si ha l’occasione di denunziare ad una autorevole platea finalmente vasta ed attenta gli orrori di un sistema che non funziona anche e soprattutto nei confronti di soggetti deboli e sconosciuti, solitamente travolti dall’oblio e dal disinteresse. Infine è evidente che se l’incensuratezza è un valore - e sicuramente lo è - deve valere per tutti, anche per il presunto camorrista o rapinatore. La custodia preventiva non va applicata, o comunque va applicata con la medesima prudenza ponderata sia nei confronti di chi ha una reputazione da difendere, sia nei confronti di chi quella reputazione non ha potuto costruirla per incolpevoli differenze di nascita e di opportunità. In caso contrario - ribaltando l’aforisma di Don Milani - significherebbe infatti applicare strumenti diseguali a persone eguali. La privazione della libertà ha un inumano e barbaro tasso di patimento che colpisce in egual misura chi è abituato a vivere in una villa e chi è nato e cresciuto nel "basso". Per comprendere ciò - che tutto è fuorché demagogico non è mai troppo tardi. Sondrio: nuova vita per l’ex carcere di Tirano. Cecco Bellosi: "ora educhiamo alla libertà" La Provincia di Sondrio, 9 aprile 2017 Il coordinatore Cecco Bellosi: "Da corpo estraneo, a parte integrante della città". La comunità punta ad ampliare la coltivazione di vigneti e grano saraceno. "Se oggi c’è il Gabbiano a Tirano, lo dobbiamo alla mediazione di padre Camillo De Piaz". Ricordo intenso del padre servita, ieri mattina, a Tirano da parte di Aldo Bonomi, presidente onorario dell’associazione Comunità il Gabbiano e direttore del consorzio Aaster, al convegno "Ottavia - la città della rete" organizzato in occasione della presentazione della nuova struttura polifunzionale destinata all’accoglienza, alla cura e alla riabilitazione di persone in situazioni di gracilità psico-fisica o di conclamata precarietà sociale, che ha trovato spazio all’interno dell’ex carcere cittadino. "Con padre Camillo e David Maria Turoldo condivido la "valtellinesità" e con loro si è ragionato molto sul Gabbiano che prima è andato in "convento" (nella struttura in piazza Basilica) e ora transita in un ex carcere ristrutturato. Ricordo di Camillo il suo senso della religione che non può essere vissuta se non messa all’interno della storia, un rapporto che oggi andrebbe recuperato. Camillo era molto più laico di tanti laici. Mi spiace che oggi non ci sia a vedere questo Papa che mette in pratica l’empatia da religione e società. Camillo aveva una rubrica sui giornali locali intitolata "Dogana", avendo ben chiaro che le differenze non stanno sui confini e sul margine. La frontiera era un punto di comunicazione non un muro, tema centrale questo in un momento in cui emergono muri per le persone, quando sono stati abbattuti i muri per le merci". De Piaz ha fortemente voluto, negli ultimi anni della sua vita, l’insediamento di una comunità, come il Gabbiano, di fronte alla "sua" basilica. "Non ci sarebbe stato il Gabbiano senza questa visione di Camillo - ha aggiunto il sociologo. Oggi celebriamo il passaggio dal luogo costruito per sorvegliare e punire a luogo della cura e dell’includere". Un attestato di riconoscenza a padre Camillo e a quello che il Gabbiano sta facendo oggi è stato espresso anche da padre Antonio Santini, dell’ordine Servi di Maria. "Sono in contatto con il Gabbiano da 23 anni e vedo come la ricchezza di operatori sia andata crescendo. Abbiamo l’impegno di guardare in questa società complessa puntando sugli aspetti positivi e di speranza, coltivandoli. Il Gabbiano sta operando bene, si occupa di accoglienza dove prima di tutto occorre "collocare" la persona umana. Quando nel 1994 il Gabbiano fu accolto a Tirano c’è stata una trasformazione anche della città, perché in un primo momento gli abitanti e gli amici del convento erano contrari, ma la comunità dei frati con padre Camillo si è imposta e ha realizzato questa accoglienza". Al territorio va riconosciuta l’apertura progressiva che ha portato ieri a presentare il nuovo centro lungo l’Adda dove, nel giro di alcune settimane, saranno operative una casa alloggio per malati di Aids accreditata per 10 ospiti e, in uno spazio separato, la comunità per il recupero e reinserimento dei soggetti tossicodipendenti per 29 utenti. "Da corpo estraneo siamo diventati una parte di Tirano e della Valtellina. Credo che questo sia un dato significativo perché vuol dire che le due parti - il territorio e l’associazione - si sono parlate e conosciute". Cecco Bellosi, coordinatore dell’associazione Comunità Il Gabbiano, con queste parole esprime il senso della giornata di ieri, partita alla mattina con una tavola rotonda nella sala consigliare del municipio e proseguita nel pomeriggio con la visita al nuovo centro, progettato dall’architetto Filippo Crucitti, e una conversazione sul tema del sociale. "Quando siamo arrivati 23 anni fa a Tirano - spiega Bellosi, l’impatto con la città è stato forte, come spesso accade per servizi come il nostro che accolgono persone escluse, gli ultimi della società. Abbiamo portato a Tirano, in piazza Basilica, una casa alloggio per malati di Aids e una comunità terapeutica a bassa soglia per le persone più emarginate. Grazie all’attenzione della popolazione e dell’amministrazione comunale e anche grazie a noi, che abbiamo sempre cercato il dialogo, oggi Il Gabbiano è presente con diversi servizi: le due comunità, lo Sprar che accoglie i rifugiati, una cooperativa che sta crescendo bene e sta coltivando grano saraceno e vigneti, da cui produce un vino molto buono insieme alla cantina vinicola Nino Negri e, infine, un housing a Villa di Tirano per le persone del territorio in difficoltà. Si tratta, in quest’ultimo caso, di un servizio di sollievo che gli Uffici di piano stessi ci chiedono". Il trasferimento - Significativo il passaggio da piazza Basilica all’ex carcere. "La Curia di Como, proprietaria dell’attuale sede in piazza, non ci ha mai fatto fretta, ma da 15 anni ormai dovevano spostarci da lì - aggiunge. Abbiamo trovato l’ex carcere grazie al Comune di Tirano. Dal punto di vista simbolico vuol dire avere trasformato un carcere con sbarre e muro di cinta in luogo di educazione alla responsabilità e alla libertà. Tutte le istituzioni locali (Comune, Provincia e Ats) ci hanno chiesto di mantenere i due servizi qui, questo ci fa dire che, pur con i nostri limiti, errori, con le fatiche e, a volte, le sconfitte, svolgiamo un servizio riconosciuto". Secondo Bellosi, inoltre, si deve parlare di innovazione nel sociale che deve avere una connotazione più ampia rispetto al passato, non solo di assistenza, ma anche del prendersi cura, in un interscambio con il territorio. Innovazione per Bellosi significa anche agricoltura sociale. "Credo che sia bello che abbiamo cominciato a coltivare vigneti dismessi - conclude. Stiamo coltivando quattro ettari e puntiamo a crescere ancora. Il tipo di welfare, che finora è stato assistenziale, deve essere per noi partecipato e le persone devono diventare protagoniste della propria vita". "Partire sempre dai bisogni, avere l’orecchio a terra e le antenne sui territori". Ha riassunto così l’atteggiamento della Comunità il Gabbiano Albino Gusmeroli di AaasterLab cui, ieri, è toccato il compito di presentare l’associazione. Un gruppo che "ha fatto un grande sforzo nel diversificarsi sui bisogni del territorio ha sottolineato. Quando ho iniziato a conoscere l’associazione, avevo l’idea di una comunità di recupero di tossicodipendenti chiusa su se stessa, invece è dinamica, in un positivo rapporto dialettico con il territorio. In questo sforzo di cambiamento voglio citare Massimo Pirovano che ne è stato uno dei fautori". Oggi il Gabbiano ha sette unità fra Tirano, Morbegno, Colico, Piona Olgiasca, Caloziocorte, Pieve Fissiraga e Milano. Occupa novanta persone, ha accolto 4mila ospiti dal 1983 al 2015, ha contattato 15.968 ragazzi dal 2013 al 2015 e attivato 163 nello stesso arco di tempo. Coltiva vigneti con una produzione stimata di 20mila bottiglie all’anno, 12mila metri quadrati di meleti (45mila chili di mele di cinque varietà, duemila bottiglie di succo di mele), 6mila metri quadrati di terreni per la produzione di ortaggi e grano saraceno. "Ammonta a 4 milioni di euro l’investimento fatto per la riqualificazione dell’ex carcere, per il quale dobbiamo ringraziare gli sponsor fra cui Fondazione Cariplo - ha aggiunto Gusmeroli. Per assicurare la copertura finanziaria mancano, però, ancora 400mila euro. Siamo all’ultimo miglio, per cui chiediamo un aiuto per raggiungere il traguardo". È possibile sostenere il "progetto Ottavia" (la città nella rete, ovvero il nuovo centro de Il Gabbiano a Tirano) con bonifico bancario o versamento su conto corrente. Tutte le informazioni si trovano sul sito internet www.gabbianoonlus.it. Nel corso del pomeriggio, Giuseppe Frangi, direttore del periodico "Vita" (non era presente, come annunciato, il giornalista Gad Lerner), nella conversazione con Aldo Bonomi, ha sottolineato il valore di quanto fatto "in un territorio periferico come Tirano - ha detto -, che possiamo prendere come laboratorio rispetto a quello che avviene nelle città". Il sindaco di Tirano, Franco Spada, ha sottolineato come il terzo settore in città dia 350 posti di lavoro e il valore delle cooperative sociali. Larino (Cb): posta a singhiozzo in carcere "lettere unico contatto con le nostre famiglie" primonumero.it, 9 aprile 2017 I detenuti del penitenziario frentano hanno scritto al direttore delle Poste del Molise per chiedere che lo smistamento delle lettere e dei pacchi torni ad avvenire con frequenza quotidiana, come accadeva fino a un anno fa. "Ma non abbiamo avuto risposta. Eppure per noi è un grave problema: non abbiamo né telefono né internet, e questa è l’unica forma di comunicazione con il mondo esterno". Il disagio implica conseguenze pesanti sul piano psicologico e non solo: "Se mi mandano un telegramma con una brutta notizia, io la scopro solo a cose finite, quando è troppo tardi: non è giusto". La Posta, questa sconosciuta. Le lettere scritte a mano: chi è, nel 2017, che prende carta e penna per dire qualcosa che arriva al destinatario giorni dopo, quando basta un whatsapp? Chi si sogna di mandare un telegramma quando con una telefonata l’informazione arriva in tempo reale? Qualcuno c’è. Sono quelli che il telefono non lo possono usare se non in situazioni straordinarie, che whatsapp e facebook non ce l’hanno e non li usano. E per loro i disservizi postali pesano, eccome. Non ricevere lettere è una forma di isolamento psicologico, che si aggiunge all’isolamento materiale. Sono i detenuti. Quelli che vivono rinchiusi, e possono comunicare con il mondo esterno proprio attraverso la Posta. E solo con quella. Scontato quindi che se la Posta non funziona a dovere, per loro non si tratta semplicemente di un disguido, ma di un problema concreto, che comporta tutta una serie di conseguenze pesanti. "La Posta - racconta Pasquale - ci tiene vicini ai nostri affetti e ai nostri familiari - con una semplice lettera noi possiamo tenere i contatti. Ma se le lettere non arrivano come facciamo?". Pasquale è uno dei detenuti della casa circondariale di Larino. Frequenta il corso di studi dell’Istituto Alberghiero, e con i suoi compagni di banco sottolinea un disservizio per il quale "qua dentro ci troviamo a patire le pene dell’inferno". Se fino a un anno fa la Posta arrivava in maniera abbastanza regolare, cioè con frequenza quotidiana, ora "avviene in modo irregolare - aggiunge Francesco - perché ricevere una lettera è come vincere un terno al lotto". "Abbiamo difficoltà a comunicare con l’esterno - dice Gesualdo - perché le lettere arrivano a singhiozzo. Il postino arriva solo due volte a settimana, quando va bene". Loro però scrivono tutti i giorni, e si aspettano di avere notizie dalle mogli, dai figli, dai fratelli, dai loro cari insomma, con altrettanta frequenza. Per Salvatore "il disagio è enorme: è l’unica fonte di comunicazione con le nostre famiglie". Pasquale ricorda che "non è giusto che mia mogie spenda 20 euro per spedire un pacco che dovrebbe arrivare in due giorni e il pacco invece arriva dopo due settimane. Va bene che siamo detenuti, e probabilmente non interessiamo a nessuno, ma forse i vertici delle Poste si dovrebbero mettere nei nostri panni e provare a capire cosa significa, stando qua dentro, un disagio simile". La cosiddetta razionalizzazione del personale delle Poste Italiane, che comporta una oggettiva carenza di postini, ha creato e sta creando in tutto il Molise una caterva di problemi. Sono numerosi i cittadini che hanno segnalato il disagio della posta a singhiozzo, delle bollette che arrivano addirittura oltre la scadenza, dei giornali acquistati in abbonamento che arrivano con grande ritardo nella buca delle lettere. Ma per i detenuti il problema è molto più serio. "Riceviamo le lettere due volte a settimana, ma anche meno - racconta Alfredo, aggiungendo un tassello al puzzle di lamentele collettive - e io che ho diversi parenti ospiti di altre carceri posso dire che solo in Molise si verifica il disservizio. La posta arriva tutti i giorni ovunque tranne che qua, forse senza sapere che in carcere non sono autorizzate altre forme di comunicazione". Gli fanno eco anche Nunzio, Carmelo, Alfonso e gli altri, chiedendo che venga ripristinata al più presto la regolarità del servizio. "È importante che la Posta torni a funzionare bene" dicono. "Abbiamo scritto una lettera al direttore delle Poste del Molise, ma non abbiamo avuto nessuna risposta. Speriamo - concludono - che il nostro problema sia preso in considerazione, e che ci aiutino in questa semplice richiesta, che per noi significa moltissimo". Roma: "Donne oltre il muro", Rebibbia e il teatro in carcere di Simone Nebbia teatroecritica.net, 9 aprile 2017 Amleta è il lavoro ideato da Francesca Tricarico con Le Donne del Muro Alto per la sezione femminile di Rebibbia. Ma il teatro in carcere è a forte rischio. È il tempo della riqualificazione, che si tratti di aree urbane lasciate al disfacimento o il comparto monumentale delle città d’arte, il gran lavorio attorno al ripristino sta via via affermando una volontà di aumentare la qualità della vita a contatto con i luoghi della comunità. Ma se tale è l’impegno per ciò che ravviva il paesaggio su larga o ridotta scala, per paradosso quando necessario è convogliare energie in direzione della riqualificazione dell’uomo ciò non appare con tanta evidenza, ignorando bisogni e così disumanizzando l’umano. Nel territorio della colpa, precisamente, questo assunto sembra far coesistere il reato con la condanna, confluite in un comune destino che proprio sull’uomo incombe e che definisce la difficoltà alla traduzione della condanna stessa in un percorso di riabilitazione. Là dove la reclusione costringe lo sguardo in un luogo oscuro in cui avvertire la privazione di libertà, a partire proprio dal divieto di proiezione verso lo spazio esterno, proprio il teatro ha fornito - per poco noti o altri celebri casi - il campo di sperimentazione tra i più fruttuosi di recupero, attraverso un movimento contrario all’alienazione, un processo che potremmo chiamare di "riumanizzazione", capace di ricostituire il contenuto spirito nella forma corpo, per forse la prima volta fornire strumenti di gioco e discutibilità degli eventi, dimenticati con la prima infanzia. In tali contesti l’attività teatrale, oltrepassando l’ovvietà tuttavia non banale dell’intrattenimento ludico in ogni caso determinante, riconferma la propria essenza originaria di profondità, come rinvenisse nel fondo dell’animo umano quegli elementi che una volta fuori, messi in discussione perché rappresentati, possono diventare materiali con cui ricostruire l’edificio uomo, minato dall’abbrutimento distruttivo in cui il disagio prima, il reato e la detenzione poi, hanno finito per comprimerlo. Se dunque noto è il percorso quasi trentennale della Compagnia della Fortezza, fondata e diretta da Armando Punzo all’interno della Casa di Reclusione di Volterra, se il lavoro di Fabio Cavalli a Rebibbia è stato portato dal cinema all’attenzione nazionale con il Cesare deve morire firmato dai fratelli Taviani nel 2012, tanti e meno noti sono i progetti che attraversano le carceri italiane, cercando di sopravvivere contro il disinteresse istituzionale e le condizioni di lavoro ridotte al ribasso. Tra di esse è quella de Le Donne del Muro Alto che Francesca Tricarico dirige nella sezione femminile del carcere di Rebibbia e che permette alle detenute di misurare loro stesse con un’arte di relazione, di conflitto rappresentato, permette cioè di comparare il dato reale della loro reclusione alle motivazioni profonde di donne, ossia al vero grande rimosso della loro identità reclusa. Nel teatro della sezione femminile, minuto ma confortevole, capace di ospitare anche una piccola ma efficiente dote tecnica, in occasione della Giornata Nazionale del Teatro in Carcere del 27 marzo, le detenute hanno dato vita ai materiali che compongono il lavoro Amleta, rilettura al femminile del capolavoro shakespeariano; non molte scene, utilizzate quasi esclusivamente in forma dimostrativa, ma che stimolano curiosità per l’intenzione poetica affascinante di far risuonare nella condizione femminile le proporzioni del disagio interiore amletico. Molti i presenti, anche - e soprattutto viene da dire - provenienti dall’istituzione carceraria, ma a stupire è la mescolanza di pubblico "estraneo" e pubblico "interno", ossia le altre detenute ammesse per sostenere le proprie compagne. Già perché non si tratta di esclusivo conforto emotivo all’arte della scena, ma di un vero e proprio atto di presenza per un’attività che sta rischiando fortemente di essere cancellata, in virtù di una sostenibilità inadeguata alla necessità (qui è possibile acquisire informazioni migliori e versare una quota di sostegno). Se dunque il teatro, proprio perché morente in un’epoca che non ne riconosce il valore, può riformulare i canoni della società civile a partire dalla relazione, non è comprensibile tale disinteresse a un’attività a tal punto primaria e vitale: il carcere è un terreno più fertile di altri per rinnovare il patto di acquisizione di coscienza tramite il passaggio in arte, perché del mondo libero non ha esperienza che dal sogno, da quello scarto tra realtà e apparizione in cui più facile, più nobile, è trovare il seme nascosto dal quale germoglia, imprevisto, teatro. Taranto: nella Casa circondariale l’evento artistico-culturale "L’altra città". di Marcella D’Addato canale189.it, 9 aprile 2017 Prenderà il via il prossimo 6 maggio, nella Casa circondariale "Carmelo Magli" di Taranto, l’evento artistico-culturale "L’altra città". Un percorso partecipativo e interattivo nella realtà carceraria italiana. L’evento è curato dal teorico e critico d’arte Achille Bonito Oliva e da Giovanni Lamarca, comandante del reparto di Polizia Penitenziaria della locale casa circondariale, con il contributo di detenuti, personale in servizio e in pensione (Anppe), artisti, esperti e scrittori tra i quali Giulio De Mitri (artista e docente), Roberto Lacarbonara (giornalista e critico), Anna Paola Lacatena (sociologa e scrittrice), Giovanni Guarino (attore e animatore). L’installazione consiste in un’opera site specific realizzata nella sezione femminile del carcere di Taranto. Si tratta di un percorso artistico, culturale e sociale che presenta l’esperienza detentiva come reale opportunità di crescita interiore e di apertura a possibili cambiamenti, dando modo al visitatore di percepire ciò che sono i luoghi della pena oggi al di là dei luoghi comuni proposti dal cinema o da certa informazione sensazionalistica. Il progetto si articola in tre momenti. Innanzitutto un laboratorio sulla didattica dell’arte che ha coinvolto un gruppo di detenute fornendo non solo le basi conoscitive sulle pratiche artistiche dell’arte contemporanea ma anche, e soprattutto, sollecitando una riflessione personale sul proprio percorso esistenziale e sull’esperienza della detenzione. L’arte, dimorando nella fantasia e non solo, avvia un processo di sublimazione che blocca le pulsioni negative, producendo qualcosa di socialmente positivo. Il successivo momento è stato caratterizzato da interventi artistici che hanno mutato la natura di quella che precedentemente era un’ordinaria sezione detentiva, realizzando con segni, scritture, simboli e immagini un’eccezionale installazione site specific. Per i detenuti è stata questa una significativa opportunità formativa ed educativa che ha contribuito alla "ricostruzione" della propria identità sociale e culturale. Il terzo momento è rappresentato dall’apertura del carcere alla società civile, rendendo fruibile, a chi ne farà domanda, l’installazione stessa. Un’occasione, unica e straordinaria, per stimolare un’ulteriore riflessione sulla condizione dei ristretti, come metafora della personale condizione di prigionia che ciascuno racchiude nel proprio vissuto. Viterbo: il Centro per gli Studi Criminologici organizza concerto di Pasqua per i detenuti di Tiziana Mancinelli quintaepoca.it, 9 aprile 2017 "Un concerto per festeggiare la Pasqua assieme ai detenuti. Stare al loro fianco e renderli partecipi di uno degli aspetti più belli della vita: la musica". L’iniziativa è organizzata dal Centro per Gli Studi Criminologici di Viterbo (CSC) che spiega: "Il concerto organizzato per i detenuti della casa circondariale "Mammagialla" di Viterbo, vedrà salire sul palco gli "Hotel Supramonte" che proporranno il repertorio di Fabrizio De Andrè. Martedì 11 aprile, a partire dalle ore 15. "Noi crediamo - spiega Marcello Cevoli Presidente del CSC - e per noi intendo anche Rita Giorgi, Direttore scientifico del CSC, nel valore della partecipazione e siamo convinti che sia tra i percorsi migliori per garantire il pieno reinserimento del detenuto nella società. E lungo questo percorso il Centro per gli Studi Criminologici vuole dare il suo contributo, grazie alla collaborazione di un gruppo di musicisti che si è messo a disposizione spinto dai valori umani che caratterizzano i principi democratici del nostro Paese. Valori - prosegue Cevoli - che hanno attraversato tutta l’opera di Fabrizio De Andrè che con le sue canzoni, che gli Hotel Supramonte proporranno ai detenuti, ha più volte evidenziato le condizioni carcerarie degli scorsi decenni, partecipando con la sua musica al percorso di riforma che ha poi caratterizzato gli istituti penitenziari italiani. Ringrazio assieme a Rita Giorgi ed a tutto il Comitato Scientifico del CSC, infine tutto il personale del carcere di Viterbo e la sua direttrice, Teresa Mascolo che, con il lavoro di questi ultimi anni, ha finalmente reso Mammagialla - conclude Marcello Cevoli - parte integrante del tessuto cittadino, con eventi e manifestazioni che hanno portato al suo interno sviluppi e processi culturali che caratterizzano la società al di là delle sue mura". Politiche sociali da migliorare di Danilo Taino Corriere della Sera, 9 aprile 2017 L’Italia potrebbe salvare ogni anno 1.506 vite che invece vengono perse in incidenti stradali. Potrebbe anche riuscire a tenere nella scuola secondaria un milione e 166 mila studenti in più. Governare non è solo politica, cioè lotta per il potere. Dovrebbe essere anche, oggi soprattutto, politiche, cioè lo studio e la realizzazione di decisioni che migliorano la vita dei cittadini. La raccolta di dati in diversi Paesi e la loro messa a confronto può essere un buon metodo per individuare cosa si può fare e come. Il Boston Consulting Group (società di consulenza globale) ha sviluppato un metodo per misurare i risultati delle politiche pubbliche e il potenziale di miglioramento: Public Impact Gap. Il metodo è in linea di principio semplice. Su un singolo soggetto, a esempio la sicurezza stradale o la partecipazione all’istruzione, misura come vanno le cose in un Paese, cioè la performance delle politiche di un governo, e poi le confronta con un benchmark calcolato su quella che è la performance di altri Paesi confrontabili, quelli aderenti all’Ocse, per dire. La differenza è il margine di miglioramento possibile. Il Boston Consulting Group stabilisce il benchmark all’inizio del terzo quartile delle performance dei diversi Paesi. Significa che chi è sopra (il 25%) va molto bene, chi è sotto (il 75%) ha un gap da colmare, più o meno grande a seconda della posizione che occupa nella classifica generale. Sulla sicurezza stradale, il benchmark dei Paesi dell’Ocse è ad esempio di 4 morti all’anno ogni centomila abitanti. L’Italia è a 7, quindi ha un gap di 3. Se lo recuperasse, ogni anno ci sarebbero 1.506 morti in meno sulle strade. Si tratta di studiare le politiche di Paesi come Svezia, Regno Unito, Svizzera che sono nel quarto superiore della classifica. Sulle strade, si muore più che in Italia solo in Belgio, Lussemburgo, Stati Uniti ed Emirati Arabi. Nel caso dell’istruzione, il benchmark è stabilito al 10% dei 25-34enni che non hanno un diploma di scuola secondaria superiore. Anche qui l’Italia va male: in quella condizione è il 26% della popolazione compresa tra i 25 e i 34 anni. La differenza è del 16% e può essere recuperata: si tratta di un milione e 166 mila persone da trattenere a scuola. Con un gap superiore, solo Portogallo, Spagna, Turchia e Messico. Affiancare le politiche alla politica non viene facile, in Italia. Rom, centinaia sgomberati a Napoli mentre l’Europa rinuncia a condannare l’Italia di Riccardo Noury Corriere della Sera, 9 aprile 2017 Per le famiglie rom dell’ormai ex campo di Gianturco, a Napoli, il fatto che oggi sia la Giornata internazionale dei rom suona come una beffa. Nelle casette auto-costruite in mattoni, legno e lamiere di Gianturco, negli ultimi sei anni, avevano trovato spazio circa 1300 persone, tra cui moltissimi bambini. A partire dallo scorso anno, hanno iniziato a circolare voci sul loro imminente trasferimento, senza specificare quando né dove. Pur avendo avuto più di un anno di tempo, nessuna reale consultazione è stata effettuata dal Comune di Napoli per valutare tutte le alternative possibili allo sgombero e le opzioni di alloggio alternative per tutte le famiglie. Ieri mattina alle 7, dopo che nei giorni scorsi già molte famiglie rom avevano lasciato Gianturco, è iniziato lo sgombero. Nel giro di quattro ore, tutto ciò che restava del campo erano armadi, materassi, bombole del gas, vestiti e giochi che molti avevano dovuto abbandonare. Ai giornalisti è stato vietato di entrare nel perimetro del campo. Duecento rom sono stati trasferiti in un altro campo segregato e fatto di container, realizzato in via del Riposo, nella stessa zona cui nel 2011 era stato appiccato un incendio. Per alcune delle famiglie sgomberate, il Comune di Napoli ha reperito piccoli appartamenti confiscati alla criminalità organizzata; saranno anche messi a disposizione 75.000 euro come sostegno temporaneo a 25 famiglie per un contributo all’affitto da privati, se verranno soddisfatte determinate condizioni. Tuttavia, come ammesso dalle stesse autorità locali, centinaia di persone, bambini compresi, resteranno escluse da qualsiasi programma di alloggio alternativo. In poche parole, resteranno in mezzo alla strada. Lo sgombero forzato di Gianturco, la ricollocazione di 200 residenti in un altro campo etnicamente segregato e la prospettiva, per molti altri, di rimanere senza un tetto mettono in evidenza il mancato rispetto, da parte dell’Italia, dei diritti umani dei rom e la mancata attuazione della Strategia nazionale d’inclusione adottata oltre cinque anni fa. A Gianturco si stanno vedendo anche le conseguenze della mancata azione della Commissione europea di fronte alle ripetute violazioni, da parte dell’Italia, della Direttiva anti-discriminazione dell’Unione europea. Nonostante abbia aperto, ormai cinque anni fa, un’indagine preliminare contro l’Italia per la discriminazione dei rom, la Commissione europea deve ancora iniziare la procedura d’infrazione. E come rivelato due giorni fa dal Financial Times, la procedura è ostacolata ai più alti livelli della Commissione europea. Consulta per i diritti dei Rom di Torino: "record di manifestazioni contro di noi" di Jacopo Ricca La Repubblica, 9 aprile 2017 "In città è in atto una caccia alle streghe: nessuno si preoccupa delle soluzioni abitative per superare i campi". I rom torinesi fondano una Consulta per rappresentare le loro istanze e denunciano: "La politica continua a organizzare manifestazioni contro gli insediamenti presenti in città". Hanno scelto l’8 aprile, data fondamentale per la cultura nomade dove si ricorda il primo congresso mondiale svoltosi a Londra nel 1971 e si celebra il "Romano Dives", la Giornata Internazionale del popolo rom, per lanciare la prima consulta torinese che riunirà i rappresentanti degli insediamenti e delle tante comunità rom e sinte presenti in città. L’organo politico sarà ospitato nella sede dell’associazione Idea Rom, presieduta da Vesna Vuletic, che in questi anni ha portato avanti le battaglie anche legali, come la costituzione di parte civile nel processo contro gli autori del rogo della Continassa, del popolo rom. Gli organizzatori però raccontano una situazione difficile in città, con la politica, da destra a sinistra, che continua a battersi contro di loro: "La Consulta Rom di Torino nasce in un clima da caccia alle streghe - attaccano - Proprio nella settimana in cui ricorre il primo atto politico mai messo in atto dalle comunità Rom, è stato raggiunto un record tutto particolare e cioè ben cinque manifestazioni politiche contro di noi. Si è iniziato con un incontro del Movimento 5 Stelle sul tema dei roghi tossici e della sicurezza sul bus 69, per poi passare a un convegno del Partito democratico sull’inquinamento ambientale prodotto dai rom, poi un presidio dei comitati contro l’insediamento di via Germagnano, quindi una conferenza stampa di Alemanno all’interno di un campo nomadi, fino a concludere la settimana con una manifestazione fascista nuovamente a ridosso di un insediamento". Parole dure che denunciano un clima di ostilità diffusa: "Nessuno o quasi che affronti il tema delle tante risorse in questi anni gettate al vento anziché utilizzate per affrontare i problemi - continuano gli animatori della Consulta - Pochi a sfiorare il tema delle soluzioni abitative e del lavoro come possibile via d’uscita per il superamento dei campi nomadi e degli annessi problemi". Secondo la stima della consulta, che si è definisce "un organismo politico di auto-rappresentanza che darà voce a chi non viene mai ascoltato, smascherando gli interessi che finora hanno impedito la vera soluzione dei problemi", a Torino le persone di origine rom e Sinte sono circa 2.800 persone, che salgono a 5mila nella provincia e arrivano a 7mila se si considera tutto il Piemonte. "Anche Torino è una delle tante città italiane in cui migliaia di rom vivono ammassati nelle baraccopoli, istituzionali e non, che ne punteggiano le aree più marginali e degradate - concludono - Si tratta di persone a cui in pochi riconoscono la dignità di esseri umani, percepiti e trattati piuttosto come problema o corpo estraneo da espellere". Spagna. L’Eta consegna le armi, resta il nodo dei prigionieri politici di Luca Tancredi Barone Il Manifesto, 9 aprile 2017 L’organizzazione basca rivela alla polizia francese le coordinate dei suoi depositi. Duro il governo di Madrid: "Operazione mediatica per mascherare la sconfitta" L’8 aprile 2017 sarà ricordato nei manuali di storia come quello in cui, 58 anni dopo la sua nascita e 860 morti rimasti sul terreno, l’Eta ha cessato definitivamente di esistere. Quasi sei anni dopo l’annuncio della fine definitiva della lotta armata, ieri ha avuto luogo nella città francese di Bayona la consegna delle armi. L’Eta ha passato alle autorità francesi la geolocalizzazione di 8 depositi, in cui sarebbero custodite 118 pistole, quasi 3000 chili di esplosivo e più di 25mila fra detonatori e munizioni. Il gesto, anticipato da un comunicato che l’organizzazione armata aveva fatto avere alla Bbc venerdì, era atteso da molto tempo dalle autorità basche, francesi e spagnole. È stato il presidente della Commissione internazionale di verifica costituita nel 2011, il cingalese Ram Manikkalingam, che ha confermato davanti alla stampa in mattinata l’avvenuta consegna delle armi. Manikkalingam è il fondatore del Dialogue Advisory Group, con sede ad Amsterdam, un think tank che facilita il dialogo politico per ridurre i conflitti violenti. "Questo passo storico costituisce il disarmo dell’Eta", ha assicurato. E ha aggiunto che la Commissione spera che "aiuti a consolidare la pace e la convivenza" nella società basca. Manikkalingam non ha dato dettagli né sulla quantità, né sul tipo di armi, e non ha precisato se fra le armi consegnate alla polizia francese fossero presenti quelle rubate a fine 2006 in Francia. "L’importante è che l’Eta è completamente disarmata", ha dichiarato Micheal Tubiana, uno dei cosiddetti "artigiani della pace" che hanno facilitato il processo in questi mesi. Dal 2011 la polizia francese ha continuato a sequestrare piccoli quantitativi di armi di un arsenale che comunque tutte le fonti della polizia francese, basca e spagnola indicavano da tempo come molto ridotto. Il presidente del governo basco, Íñigo Urkullu, del partito nazionalista basco (destra nazionalista moderata) aveva informato qualche giorno fa il primo ministro spagnolo Mariano Rajoy di quanto stava per accadere. L’obiettivo di Urkullu era evitare che il governo spagnolo, come già accaduto in passato, frapponesse ostacoli. Stavolta questo non è accaduto, anche se il governo del Pp si è distinto in questi sei anni da un immobilismo estremo. Dal momento in cui assunse il potere a fine 2011, due mesi dopo l’annuncio della fine delle ostilità, fino a oggi il Pp non ha fatto nessun passo per facilitare il consolidamento della pace, né formalmente né informalmente. L’Eta avrebbe voluto negoziare il passo di ieri con Madrid, ma i rappresentanti del governo spagnolo hanno sistematicamente disertato le riunioni organizzate dai mediatori internazionali. Il tema più caldo dopo anni di terrorismo è ancora oggi quello del carcere. Per il momento i condannati per terrorismo sono quasi sempre rinchiusi in carceri molto lontane da Euskadi, il paese basco, e questa è una misura punitiva che il governo finora si è sempre rifiutato di discutere, nonostante le pressioni della società civile e dello stesso governo basco. Se il governo spagnolo, che non era presente all’atto di Bayona, per bocca del ministro degli interni Juan Ignacio Zoido ieri ha mantenuto che si tratta solo di "un’operazione mediatica per mascherare la sconfitta" e Madrid non farà "nessuna valutazione" sull’armamento fino a che non venga esaminato dalle autorità francesi, la reazione degli altri partiti è stata più sfumata. Il Partito socialista in Euskadi era stato molto criticato dal Pp perché martedì aveva appoggiato (assieme ai nazionalisti baschi, a Bildu, il braccio politico dell’Eta - oggi contrario alla violenza - e a Podemos) un documento in cui incitavano il governo a sostenere il processo di disarmo dell’Eta. La posizione dei socialisti è rilevante perché rompe con il blocco "centralista" che storicamente aveva visto Pp e Psoe arrivare a governare assieme Euskadi in funzione anti-nazionalista. Secondo, perché il presidente di quel governo era Patxi López, uno tre candidati alla segreteria nazionale del Partito socialista, assieme a Pedro Sánchez e alla favorita Susana Díaz. E terzo perché indica che soprattutto le versioni locali del partito socialista sono su posizioni molto meno granitiche del partito di Madrid rispetto alle rivendicazioni nazionaliste di Euskadi, Catalogna e Galizia. Medio Oriente. Barghouti, sciopero contro Israele per sfidare i vertici di Fatah di Michele Giorgio Il Manifesto, 9 aprile 2017 Il 17 aprile il popolare Mandela palestinese, alla testa di circa tremila detenuti di Fatah, darà inizio a uno sciopero della fame per chiedere migliori condizioni di vita nelle carceri israeliane. Ma è anche una contestazione dei vertici del suo partito e della linea dell’Anp. Lo sciopero della fame dei detenuti politici di Fatah, che si appresta a lanciare Marwan Barghouti, è una protesta contro Israele e per migliorare le condizioni di vita nelle carceri. Ma ha anche un evidente obiettivo politico interno: mettere sotto pressione i vertici del partito e dell’Anp. Barghouti, noto come il "Mandela palestinese" e il dirigente di Fatah più popolare nei Territori palestinesi occupati, è stato messo in disparte nonostante sia risultato il più votato tra i membri del Comitato centrale al recente congresso del partito. E dal carcere, forte del sostegno di circa 3000 detenuti di Fatah, ora sfida coloro che si sono candidati a sostituire l’82enne presidente Abu Mazen. Da giorni la moglie Fadwa, esponente anche lei di primo piano di Fatah, sui social, lancia accuse ai piani alti del partito. L’inizio del digiuno è previsto il 17 aprile. Barghouti ha presentato diverse richieste alle autorità israeliane tra le quali l’aumento dei giorni di visita per i familiari dei prigionieri, soluzione all’affollamento delle celle e installazione di telefoni pubblici a disposizione dei detenuti. Intende intavolare una trattativa che il ministro israeliano per la sicurezza interna Gilad Erdan invece respinge e ha già disposto l’allestimento di un ospedale da campo vicino al carcere di Katziot, il più interessato dalla protesta, per curare i prigionieri che potrebbero avere problemi di salute a causa del digiuno prolungato, senza doverli mandarli negli ospedali. Barghouti punta molto sul successo di questo sciopero della fame che coinvolge circa metà dei detenuti politici palestinesi. Se riuscirà a costringere Israele ad accogliere le sue richieste, allora dimostrerà in modo inequivocabile la sua leadership forte dell’appoggio di migliaia di prigionieri, dei loro familiari e di tanti altri palestinesi che saranno chiamati a scendere in strada in appoggio alla protesta. Barghouti è anche alla ricerca di una rivincita. Nonostante l’enorme popolarità di cui gode, non è stato nominato vice presidente del partito come si aspettava lo scorso dicembre. La carica è stata assegnata a Mahmud al Aloul, personalità politica stimata ma non carismatica e popolare come lui. Al Aloul ora è nelle condizioni per ambire alla poltrona di presidente dell’Anp. Barghouti e i suoi sostenitori non ci stanno. Il Mandela palestinese peraltro non condivide la linea morbida di Abu Mazen e contesta apertamente il proseguimento della cooperazione di sicurezza tra l’Anp e Israele. E non è un caso che la protesta dei detenuti di Fatah avrà inizio mentre il presidente dell’Anp si prepara a partire per Washington dove sarà ricevuto da Donald Trump alla Casa Bianca. "Di fronte ad un successo dello sciopero della fame i vertici del partito e dell’Anp non potranno continuare a tenere Barghouti nel congelatore. Allo stesso tempo (Barghouti) avrà bisogno che il digiuno dei detenuti vada avanti senza defezioni per alcune settimane, in caso contrario perderà la sua battaglia", spiega al manifesto N.A. un anziano militante di Fatah che ha chiesto l’anonimato. Non è chiaro se al digiuno aderiranno anche i detenuti di Hamas. Il movimento islamico è tentato dal partecipare a una iniziativa che mette in difficoltà i leader del partito rivale. Ora però è impegnato nelle indagini sull’assassinio di Mazen Faqha, un suo importante comandante militare, che ha attribuito ad agenti di Israele. A metà settimana sono stati giustiziati in pubblico tre presunte spie tra le proteste dei centri per la tutela dei diritti umani. Allo stesso tempo Hamas hanno dato il via libera alla riapertura di Gaza, sigillata dopo l’assassinio di Faqha. Le tensioni nella Striscia sono molto forti in conseguenza anche del peggioramento delle condizioni di vita. Ieri decine di migliaia di palestinesi sono scesi in strada contro il taglio del 30% del salario degli ex dipendenti pubblici dell’Anp, decisi dal governo del premier di Ramallah, Rami Hamdallah. Dopo la presa del potere a Gaza da parte di Hamas nel 2007, l’Anp intimò ai suoi dipendenti, circa 70mila persone, di non lavorare per le autorità che definiva "golpiste" (Hamas impiega suoi dipendenti, oltre 40mila) e ha continuato a retribuirli in questi dieci anni. Malesia. Oltre 600 persone sono morte nei centri per migranti e nelle prigioni Reuters, 9 aprile 2017 I dati sono stati diffusi dal gruppo per i diritti umani della Malesia Suhakam, che denuncia la situazione nei centri detentivi del paese Secondo quanto scritto nel report, i detenuti sono morti principalmente per infezioni ai polmoni, problemi cardiaci e leptospirosi. Il gruppo per i diritti umani nazionale della Malesia ha affermato martedì 4 aprile che più di 600 persone sono morte all’interno dei centri di detenzione per i migranti e delle prigioni negli ultimi due anni, e ha chiesto una riforma immediata di questo settore. Nel suo report del 2016, il gruppo, conosciuto con il suo nome malese Suhakam, ha affermato che più di 100 morti sono avvenute nei centri di detenzioni per i migranti e 521 sono state le morti in prigione tra il 2015 e il 2016, più della metà dei morti nei centri per migranti proviene dalla Birmania. Secondo Suhakam gran parte delle morti deriva da malattie presenti in tutte le prigioni e i centri di detenzione e il governo dovrebbe cercare di migliorare le condizioni e l’assistenza sanitaria. "C’è uno scarso interesse nei diritti umani dei detenuti", ha affermato il direttore Razali Ismail. "Questa attitudine si ritrova nelle priorità del governo nel bilancio e nelle risorse messe a disposizione". In particolare, secondo Ismail, nei centri di detenzione per migranti le persone vivono lunghi periodi senza la possibilità di movimento o di dormire in condizioni decenti, tanto da arrivare a vivere in situazioni "inumane". Alcuni ex detenuti delle prigioni e dei centri per migranti hanno denunciato di aver vissuto ricevendo quantità di cibo non sufficienti, con scarse condizioni di igiene e mancanza di acqua, oltre ad aver affrontato malattie contagiose. Questi testimoni raccontano inoltre delle violenze subite da loro o da altri detenuti. Il documento diffuso da Suhakam mostra che i detenuti sono morti principalmente per infezioni ai polmoni, problemi cardiaci e leptospirosi. Nessuna causa è stata attribuita alla morte di circa 50 persone. Vietnam. Ritorna la fucilazione per risolvere il sovraffollamento nei "bracci della morte" notiziecristiane.com, 9 aprile 2017 Lo ha chiesto il ministro della Pubblica sicurezza: ci sono 678 persone in attesa di esecuzione ed è difficile rifornirsi di agenti chimici per l’iniezione letale. Il Vietnam vuole ricominciare a eseguire le sentenze di pena di morte usando i plotoni di esecuzione. È quanto rivelano oggi i quotidiani di regime vietnamiti, secondo cui il ministro della Pubblica sicurezza, Tran Dai Quang, ha chiesto all’Assemblea nazionale di permettere l’uso della fucilazione almeno fino alla fine del 2015. Iniezione letale. Il paese comunista aveva vietato questa pratica nel 2011, quando ha deciso di ricorrere all’uccisione dei detenuti attraverso l’iniezione letale per "motivi di umanità". Ma secondo quanto riportato dai media locali, Hanoi da agosto non riesce più a procurarsi gli agenti chimici necessari all’iniezione letale e per questo il ministro avrebbe chiesto temporaneamente di riprendere la pratica dei plotoni di esecuzione. Carceri sovraffollate. A fronte di 678 persone che sono attualmente nel braccio della morte in Vietnam, da agosto "solo" sette persone sono state uccise con l’iniezione letale a causa dei problemi indicati. La richiesta del ministro di ricorrere alla fucilazione servirebbe anche a svuotare le carceri, attualmente "sovraffollate" a causa dei ritardi nell’esecuzione delle pene capitali.