Carceri, il linguaggio del cambiamento di Marcello Bortolato La Repubblica, 7 aprile 2017 Sono un magistrato di sorveglianza e mi occupo di carcere da molto tempo. A proposito della circolare dell’Amministrazione penitenziaria in tema di linguaggio sono d’accordo con Michele Serra su un punto: la vita concreta dei detenuti non cambierà. Ma il linguaggio, anche se non è tutto, non è poco perché quasi sempre rappresenta ciò che pensiamo realmente. Se continuassimo a chiamare "scopini" e "spesini" i detenuti che lavorano in carcere per conto dello Stato, continueremmo a trattarli come bambini ma non insegneremmo le parole corrette che tutti vorremmo utilizzassero una volta usciti. Lo Stato ha l’obbligo di rendere la vita in carcere quanto più possibile simile a quella fuori. Basta con "celle" e "piantoni": il carcere cambia, a partire dal linguaggio di Teresa Valiani Redattore Sociale, 7 aprile 2017 La cella diventa "camera di pernottamento", lo "scopino" sarà l'addetto alle pulizie. Cambia il linguaggio negli istituti di pena: la rivoluzione, partita dagli Stati generali, prende il via con una circolare del Dap. Bortolato: "Un risultato importante, perché non c’è niente di più difficile che sradicare una mentalità". Niente più "domandine", "dame di compagnia", "piantoni" o "scopini". Il carcere cerca di cambiare volto e lo fa iniziando a cambiare linguaggio. La strada, per riconsegnare dignità all’esecuzione penale è ancora molto lunga, ma direttive, come quella appena emanata dal capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Santi Consolo, raccontano un percorso che è già partito. È datata 30 marzo 2017, la circolare attraverso la quale il vertice del Dap invita "i provveditori regionali, i direttori degli istituti, i direttori generali, la direzione generale e il servizio informatico" a "intraprendere tutte le iniziative necessarie al fine di dismettere nelle strutture penitenziarie, da parte di tutto il personale, l’uso, sia verbale che scritto, della terminologia infantilizzante e diminutiva, nonché le interlocuzioni orali, soprattutto quelle dirette al detenuto". Un argomento su cui si era pronunciato energicamente il Tavolo 2 degli Stati generali sull’esecuzione penale, coordinato dal magistrato di sorveglianza, Marcello Bortolato. Ecco la lista delle "terminologie concordate per le quali si deve procedere senza indugio alla modifica". Cella diventa camera di pernottamento, dama di compagnia (detenuto che trascorre le ore di socialità con un 41 bis che è ristretto in un’area riservata in attesa di essere trasferito in sezione) diventa compagno di socialità, domandina (il modulo da compilare per inoltrare richieste alla direzione o al comando) diventa modulo di richiesta, scopino (detenuto che lavora nella squadra impegnata nella pulizia dell’istituto) diventa addetto alle pulizie, piantone (detenuto incaricato di assistere un compagno con disabilità) diventa assistente alla persona, spesino (detenuto che raccoglie l’elenco delle spese degli altri ristretti)diventa addetto alla spesa detenuti, portavitto/portapane/portapranzi diventa addetto alla distribuzione dei pasti, cuciniere diventa addetto alla cucina, casario (detenuto che nelle colonie agricole lavora il formaggio) diventa casaro, stagnino diventa idraulico, pascolante diventa pastore, lavorante diventa lavoratore. "In ogni comunità - spiega Consolo nella circolare - il linguaggio svolge un ruolo fondamentale. Anche le regole penitenziarie europee prevedono che la vita negli istituti deve essere il più possibile simile a quella esterna e questa "assimilazione" deve comprendere anche il lessico. I termini in uso nelle carceri riferiti ai detenuti sono spesso avulsi da quelli comunemente adottati dalla collettività e questo è causa di una progressiva e deprecabile infantilizzazione e di isolamento del detenuto dal mondo esterno che crea ulteriori difficoltà per il possibile reinserimento, oltre ad assumere in alcuni casi una connotazione negativa. Prassi errate - prosegue il capo del Dap - e terminologie persistenti sono state evidenziate in occasione di alcune visite in carcere svolte dal comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti. I lavori degli Stati generali - Tavolo 2, hanno evidenziato l’uso di una scorretta terminologia utilizzata nel gergo corrente negli istituti, proponendo l’eliminazione dei termini infantilizzanti. Non si può non sottolineare - conclude Consolo - che queste espressioni non sono rispettose delle persone detenute, determinando delle errate considerazioni, oltre ad essere utilizzate con accezione negativa". La necessità di una sostituzione dei termini in uso nelle carceri era stata ribadita anche nel corso dell’ultima riunione convocata dal ministro Andrea Orlando per fare il punto sui risultati del "dopo Stati generali". "Era una nostra proposta - sottolinea Marcello Bortolato - e prevedeva espressamente che l’amministrazione diramasse un atto formale per evitare l’uso dei termini infantilizzanti nei documenti ufficiali e nelle comunicazioni verbali. Sono soddisfatto, è il primo successo del Tavolo 2. Il linguaggio non è tutto ma questa circolare è un grande passo avanti, una piccola luce che comincia a vedersi perché non c’è nulla di più difficile che sradicare una mentalità, in questo caso il linguaggio carcerario che lo Stato aveva fatto proprio. Perché quelli che oggi andiamo a rimuovere sono termini che i detenuti usano da sempre e che lo Stato aveva fatto propri e la loro sostituzione è un primo segnale di controtendenza. Significativo anche perché, se gli Stati generali avevano come primo scopo quello di un mutamento culturale, direi che siamo difronte a un passaggio importante. Il principio sotteso alla proposta è che la vita in carcere deve assomigliare quanto più possibile alla vita fuori e di conseguenza anche il linguaggio. Nella vita concreta dei detenuti non cambia molto, i numeri e tutti gli altri problemi rimangono invariati, ma resta la conquista culturale". "Potrebbe sembrare una innovazione puramente nominalistica - sottolinea Glauco Giostra, coordinatore del comitato scientifico degli Stati generali, commentando la circolare -. In realtà le parole sono indicatori del tipo di relazione che si intende instaurare. Usare termini "adulti" significa restituire dignità alla persona ristretta e chiarire che non si intende più forgiare un "buon detenuto", prono alle prescrizioni delle autorità, ma preparare un futuro buon cittadino". Dal 1992 ad oggi 25mila persone ingiustamente carcerate di Francesco Petrelli linkiesta.it, 7 aprile 2017 I giudici in Italia sbagliano molto. E per chi è sottoposto a giudizio, e sanzionato con il carcere, molto spesso è impossibile far valere i propri diritti. Ecco perché siamo la maglia nera della giustizia. Pubblichiamo un estratto dell’intervento tenuto dall’avvocato Francesco Petrelli, segretario dell’Unione Camere Penali Italiane, in occasione del dibattito con Alberto Matano e Francesco Specchia sugli errori giudiziari alla seconda edizione di LexFest, festival nazionale dedicato alla giustizia e agli operatori del diritto e dell’informazione (www.lexfest.it). Dal 1992 ad oggi l’Italia ha pagato oltre 630 milioni di euro di riparazioni per ingiuste detenzioni. Solo nel 2016, secondo i dati ufficiali del Ministero, sono stati pagati 42 milioni di euro. Sono 25.000 i cittadini ingiustamente privati della libertà personale in questo periodo di tempo. È come se un’intera città avesse subito una ingiusta detenzione. Considerato che solo 1 domanda su 7 viene accolta e che in molti casi (per varie ragioni) le domande per l’equa riparazione neppure vengono avanzate, il fenomeno assume proporzioni davvero sconcertanti. È come se un’intera città avesse subito una ingiusta detenzione. Considerato che solo 1 domanda su 7 viene accolta e che in molti casi (per varie ragioni) le domande per l’equa riparazione neppure vengono avanzate, il fenomeno assume proporzioni davvero sconcertanti Sebbene la legge sulla custodia cautelare sia stata più volte riformata e abbia subito, meno di due anni fa, un’ulteriore modifica volta a ridurre ulteriormente l’utilizzo della custodia in carcere, il numero dei detenuti in attesa di giudizio è ancora cresciuto. Ed è questa con tutta evidenza una condizione che inevitabilmente innalza i rischi dell’ingiustizia. Alberto Matano con la trasmissione televisiva "Sono innocente" ha dato una voce e un volto a quelle migliaia di vittime silenziose dell’ingiustizia, e ha con questo compiuto un gesto "politico" di verità, mostrando al pubblico che il processo penale può essere una macchina micidiale che può stritolare un innocente e per questa ragione deve sempre essere usato can cautela, dai media e dalla magistratura, e deve sempre rispettare la libertà e la dignità della persona. Questa operazione di verità ci deve consentire, tuttavia, anche di svelare quei meccanismi che in profondo producono l’errore, nonché di mostrare la tipica fallacia di alcuni percorsi investigativi e la mancanza di un sano e reale controllo da parte del giudice sull’operato dei pubblici ministeri. Svelare l’eziogenesi degli errori giudiziari ci aiuta a impedire che essi si ripetano ancora. Ci si dimentica, infatti, che l’errore giudiziario è quasi sempre il frutto di una erronea prassi giudiziaria e investigativa, e di un troppo superficiale approccio alla valutazione della prova. È vero che non tutti i casi di errore corrispondono a una responsabilità del magistrato, ovvero a una sua colpa inescusabile, è tuttavia vero che un procedimento viziato nel metodo spesso produce un risultato scorretto. Ciò che spesso accade è che il pubblico ministero non verifichi con sufficiente accuratezza il metodo investigativo adottato dalla polizia giudiziaria, e che a sua volta il giudice della misura cautelare operi un eccessivo affidamento sui risultati probatori offerti dal pubblico ministero. Ciò che spesso accade è che il pubblico ministero non verifichi con sufficiente accuratezza il metodo investigativo adottato dalla polizia giudiziaria, e che a sua volta il giudice della misura cautelare operi un eccessivo affidamento sui risultati probatori offerti dal pubblico ministero Accade così che giudice e pubblico ministero, anziché rivestire i ruoli che gli spetterebbero del controllore e del controllato, si trovano spesso affiancati in una medesimo ruolo di "scopritori della verità", facendo venire meno ogni possibile rimedio all’eventuale errore investigativo, e sottovalutando spesso gli effetti devastanti delle loro scelte. Quello che vale per la ricerca scientifica dovrebbe valere anche per le indagini e per i processi. Le ipotesi investigative, così come le ipotesi scientifiche, dovrebbero essere controllate, non cercando esclusivamente gli elementi che le confermano, ma soprattutto confrontando quelle ipotesi con tutti gli elementi capaci di contraddirle e di confutarle. A ben vedere si tratta di un metodo che offre maggiori garanzie per l’indagato e limita grandemente i margini di errore, ma che mal si concilia con quella cultura mediatico-giudiziaria che attraversa vincente la nostra società e che pretende soluzioni rapide dei casi giudiziari, che pretende un colpevole a tutti i costi da offrire all’appetito onnivoro dei media e da somministrare ad una opinione pubblica impaziente. La cosiddetta "fallacia del tiratore scelto", esemplificata dall’immagine del tiratore che prima tira il colpo e poi ci disegna intorno il bersaglio, laddove sia anche accompagnata dal clamore di un pubblico plaudente, è la strada maestra che conduce all’errore giudiziario. Nelle carceri aumentano le aggressioni ai medici, la Fimmg protesta con il Dap quotidianosanita.it, 7 aprile 2017 La Fimmg chiede l’intervento del ministero della Giustizia e del Dap. A Firenze Sollicciano un medico è stato aggredito, analoghi episodi sono stati segnalati in Sardegna, Campania e Basilicata. Da qui la richiesta della Fimmg Medicina Penitenziaria per un immediato intervento del ministero della Giustizia e del Dap. Al ministero della Salute e alle Regioni richiesti invece interventi mirati alla salvaguardia del posto di lavoro della categoria. "Viva preoccupazione - scrive in una nota inviata, tra gli altri, al ministero della Giustizia e al ministero della Salute Franco Alberto, Segretario Nazionale Fimmg settore Medicina Penitenziaria - per i molteplici episodi di aggressione ai medici che lavorano in carcere durante la loro attività, ormai non si contano più gli episodi che stanno avvenendo su tutto il territorio nazionale. Due giorni fa, a distanza di soli 15 giorni, nuovo episodio di aggressione presso il carcere di Barcellona Pozzo del Gotto, tra l’altro dello stesso detenuto. Ma le segnalazioni sono numerose". "A Firenze Sollicciano - prosegue Alberto - un medico è stato aggredito per cui è ricorso al Pronto Soccorso e l’Azienda Sanitaria ha dovuto assegnarlo a un altro servizio esterno per la sua sicurezza. Analoghi episodi sono stati segnalati in Sardegna, Campania e recentemente in Basilicata. La situazione diventa sempre più grave e a quanto pare incontrollabile da parte dell’ Amministrazione Penitenziaria". "Non viene più garantita - denuncia il Segretario Nazionale Fimmg Medicina Penitenziaria - la sicurezza da parte dell’Amministrazione Penitenziaria degli operatori sanitari che svolgono la loro preziosa opera all’interno degli istituti penitenziari a salvaguardia della salute della popolazione detenuta. Con il passaggio al Ssn della Sanità Penitenziaria dal Ministero della Giustizia si sta assistendo a uno scarica barile delle competenze dimenticando l’estremo disagio di chi opera in carcere, polizia penitenziaria inclusa, e facendo finta che nulla stia succedendo". "I medici e tutto il personale sanitario - prosegue il Segretario - che opera negli Istituti penitenziari si trova a dovere fronteggiare una situazione critica dove oltre ai problemi cronici dell’ambiente carcerario dovuti al sovraffollamento con le relative tensioni interne si sovrappone una logica di gestione della sanità penitenziaria al di fuori della realtà, spesso poi sta nelle mani di dirigenti senza nessuna esperienza e senza specifiche conoscenze, considerando questo servizio come un servizio esterno senza considerare la specificità dell’ambiente e delle persone a cui è rivolto". "Si continua a lavorare in un clima di precarietà - denuncia Alberto - dal 2008 salvo rare eccezioni, le regioni non hanno concordato con i sindacati di categoria l’inquadramento e il ruolo dei medici penitenziari che dovrebbe essere previsto nel nuovo Acn per la medicina generale determinando una situazione variegata, non uniforme, a macchia di leopardo su tutto il territorio nazionale e diseguaglianze non solo per il personale sanitario, ma anche per gli stessi detenuti". "È stato tollerato troppo - scrive nella nota il Segretario Fimmg -, nel passato alcuni medici hanno pagato con la vita il fatto di lavorare in carcere, vogliamo arrivare di nuovo a questo prima di un intervento in merito? È giunto il momento di dire basta. Fino ad ora i medici e tutti gli operatori sanitari hanno lavorato nel silenzio conoscendo la realtà dell’ambiente e che eventuali azioni di protesta danneggerebbero solo una popolazione che già di per se è penalizzata". "Chiediamo - conclude Alberto - un intervento immediato del Ministero della Giustizia e del Dap per fare si che tali episodi non si ripetano e al Ministero della Salute e alle Regioni interventi mirati alla salvaguardia del posto di lavoro, coinvolgendo i medici che da anni lavorano in carcere e conoscono le problematiche del carcere facendo presente che qualora perduri la situazione non si esclude una dimissioni in massa di tutto il personale medico operante negli Istituti penitenziari, e non si pensi che sia facile sostituirlo, quello che lavora all’interno a contatto con i detenuti e che rischia ogni giorno, non certo quello che dall’esterno pontifica, ma si guarda bene dall’entrare e operare con i detenuti. La categoria qualora non vi siano risposte in merito si vedrà costretta a proclamare lo stato di agitazione". Ddl penale, Orlando e il "no" ai ritocchi sollecitati dall’Anm di Errico Novi Il Dubbio, 7 aprile 2017 La magistratura chiede interventi su avocazione obbligatoria e trojan. "Modificare ancora la riforma significa doverla rimandare al senato e non approvarla più", come spiega il Capogruppo Pd in commissione giustizia Walter Verini. Con la nuova presidenza dell’Anm Andrea Orlando dialogherà senza preclusioni. Ma dovrà subito rispondere con un "no" ad Eugenio Albamonte, appena subentrato a Piercamillo Davigo: non accoglierà la richiesta di modificare il ddl penale. Non presenterà alla Camera interventi sull’avocazione obbligatoria o sulla disciplina dei trojan. Sarà un rifiuto tutt’altro che irrilevante politicamente. E il motivo è presto detto. La prima giunta presieduta da Albamonte, riunitasi l’altro ieri, ha deciso si inviare alle massime cariche istituzionali un dettagliato parere sulla riforma del processo. Oltre allo stesso ministro della Giustizia e ai deputati che a fine maggio, secondo il calendario della commissione Giustizia, dovrebbero apporre l’ultimo sigillo sul disegno di legge, i magistrati intendono sensibilizzare anche i giornali. Nei prossimi giorni sarà convocata una conferenza stampa per spiegare le ragioni del dissenso su alcuni aspetti della riforma. Due in particolare: l’automatismo con cui il procuratore generale dovrebbe acquisire tutti i fascicoli per i quali il pm, dopo 3 mesi, non ha ancora esercitato l’azione penale; e l’esclusione delle associazioni a delinquere non mafiose dal novero dei reati per i quali i trojan horse sono sempre utilizzabili. Due passaggi molto delicati dell’ampio ddl, che nella sua versione uscita a metà marzo da Palazzo Madama contava qualcosa come 94 articoli (formalmente tutti commi di un unico maxiemendamento). Proprio la stratificazione e la complessità dell’impianto legislativo impediscono, a questo punto, alla Camera e allo stesso ministro della Giustizia, di aggiustare i punti contestati. "È noto come su questa legge restino alcuni dissensi", osserva il capogruppo del Pd in commissione Giustizia Walter Verini, "ma ci sono anche diversi innegabili passi avanti. Chi volesse modificare ancora il provvedimento si assumerebbe la responsabilità di correre un rischio: non arrivare all’approvazione definitiva. La mia è un’opinione personale", spiega Verini, "ma così come mi auguro che il Senato non ci rimandi modificato il testo su magistrati e politica, allo stesso modo credo che la Camera dovrebbe scongiurare una nuova navetta sulla riforma del processo". Le obiezioni del deputato dem si fondano anche su una specifica questione. Nel testo sono contenuti due passaggi, assai qualificanti, per i quali sarà necessario emanare decreti delegati al più tardi entro la fine della legislatura: intercettazioni e riforma penitenziaria. Nel primo caso, una "clausola" inserita proprio nell’ultima lettura in Senato ha stabilito che parte delle norme attuative dovrà essere approvata entro tre mesi dall’entrata in vigore della riforma. Nel secondo si dovrà comunque fare in fretta, perché le leggi delega non sopravvivono alla fine della legislatura: se le Politiche fossero anticipate anche solo di pochi mesi, i decreti sul carcere resterebbero nel cassetto, tutta la riforma penitenziaria andrebbe a farsi benedire e Orlando vedrebbe svanire il lavoro degli Stati generali, da cui provengono i principi della delega. Ce n’è abbastanza per essere costretti e sentirsi anche un po’ giustificati nell’opporre un garbato rifiuto alle richieste di Albamonte. Le cui argomentazioni hanno fondamento. Ma nel caso dell’avocazione obbligatoria, per esempio, va detto che si tratta di un surrogato delle norme che l’avvocatura aveva reclamato e che avrebbero dovuto sancire un vincolo più stringente per i pm a iscrivere subito il nome dell’indagato nell’apposito registro, pena possibili sanzioni disciplinari. Una modifica al codice di rito che avrebbe reso più certo il tempo effettivo delle indagini. Fu proprio l’Anm a opporsi e a indurre via Arenula a ripiegare sull’avocazione obbligatoria. Riguardo ai trojan, Albamonte ricorda che "circoscrivere l’adozione incondizionata di tale strumento investigativo alla sola associazione a delinquere di stampo mafioso e al terrorismo vuol dire perdere una marea di informazioni utili nelle inchieste su reati associativi con finalità diverse. Comprese la corruzione e la criminalità informatica". C’è un dettaglio che da una parte sembra appesantire ancora di più il quadro e dall’altra nei fatti mette una pietra sopra ogni residua possibilità di emendare ancora la riforma: l’aspra presa di posizione dell’Unione Camere penali, appena reduce da una settimana di astensione dalle udienze e a propria volta furibonda per due passaggi completamente diversi dell’articolato: l’allungamento della prescrizione e i processi in videoconferenza. Da una parte accontentare l’Anm significherebbe suscitare proteste ancora più dure da parte dei penalisti. All’inverso, limare gli aumenti sulla prescrizione o eliminare le udienze in video per i detenuti non farebbe certo felice la magistratura inquirente ma soprattutto comprometterebbe uno snodo dal quale il governo si aspetta di realizzare dei risparmi. La prova che una riforma del genere, per le sua complessità, non può che scontentare a destra e a sinistra. Ma anche che cambiarla a questo punto è impossibile, come dice Verini. Ce la si dovrà tenere così com’è. E piuttosto, nell’ultimo scorcio del suo mandato da guardasigilli, a Orlando toccherà anche il difficile compito di ricucire sia con l’Anm che con le Camere penali. Dopo aver passato una parte dei suoi 3 anni a via Arenula proprio a mediare tra le due opposte posizioni. La giustizia ai tempi del conflitto di Luigi Covatta Il Mattino, 7 aprile 2017 C'erano una volta le "toghe rosse": e quelle bianche, verdi, nere. C'erano cioè i "partiti giudiziari" (che pudicamente si autodefinivano "correnti"), più o meno collaterali ai partiti politici. Questi ultimi non ci sono più da un quarto di secolo. Ma anche i "partiti giudiziari" sopravvivono solo come lobbies finalizzate a tutelare le carriere dei propri aderenti, e non più come rappresentanti di diverse culture della giurisdizione. La mutazione genetica si è verificata ben prima di Tangentopoli. Tutto è partito precisamente da quando l'evoluzione dell'ambiente mediatico, che risale a molto prima della diffusione di Internet, ha consentito ai giudici di rivolgersi direttamente all'opinione pubblica senza più bisogno della mediazione della politica. Da allora il rapporto fra la magistratura ed il sistema politico non si è più sviluppato nella forma dell'alleanza fra élites, ma in quella del conflitto (come sempre accade quando una élite si emancipa dalla subordinazione ad un'altra): fino a dar luogo ad un unitario "partito dei giudici" che poi, non avendo conseguito l'obiettivo massimo cui mirava, si è ridotto a corpo autoreferenziale (come sempre accade quando un potere difende se stesso rispetto ad altri poteri). E uno dei capitoli della crisi della democrazia rappresentativa, anch'essa risalente a molto prima che Grillo calcasse le scene della politica. Quasi vent'anni fa lo spiegò bene Alessandro Pizzomo, che proprio a questa crisi collegò l'esondazione del potere giudiziario. Pizzorno osservava che - in un contesto in cui quell'insieme impalpabile che si usa definire "sfera pubblica" si sovrappone all'arena elettorale - è inevitabile che la magistratura assuma come criterio di verifica del proprio operato il "riconoscimento politico", prima ancora che il rigore nell'applicazione della legge. Ed è anche inevitabile - dati i parametri che regolano la sfera pubblica, non necessariamente coincidenti con quelli dello Stato di diritto e rispettosi del principio di legittimità - che dal controllo di legalità si passi al "controllo della virtù", pretendendo di penalizzare non solo i reati ma anche i comportamenti discutibili dal punto di vista deontologico. In questo quadro non c'è da stupirsi se all'interno della corporazione è cresciuto il ruolo delle Procure e di quella specie di loro protesi che sono diventati i Gip: se l'obiettivo è il "riconoscimento politico", essi possono conseguirlo a prescindere dall'esito finale dei processi. Perfino a prescindere da quanto decidono, qualche settimana dopo, i Tribunali del riesame: una retata come quella realizzata a Napoli, per esempio, è immediatamente "riconoscibile" dall'opinione pubblica, mentre le revisioni successive sono sempre sospettabili di cavillosità e di formalismi. Che la politica si sia resa conto del problema non si può dire. La prima Repubblica finì come finì: ma anche la seconda non ha brillato. A cominciare da Berlusconi, che non solo riteneva di essere perseguitato da "toghe rosse" ormai evanescenti, ma pretendeva di sfidarle con leggi ad personam di dubbia efficacia. Senza dire che il suo garantismo si rivelava piuttosto peloso quando si accompagnava alle pulsioni forcaiole dei suoi alleati, puntualmente tradotte in una serie di leggi securitarie che hanno riempito le galere di tossici ed immigrati. Eppure non sarebbe stato difficile intervenire. Contrariamente a quello che si pensa, non c'era neanche bisogno di revisioni costituzionali. Perfino la separazione delle carriere non contraddice lo spirito e la lettera della Costituzione, se è vero che essa (art. 107) distingue fra le garanzie riconosciute ai magistrati giudicanti (elencate nel primo comma), e le prerogative del pubblico ministero, rinviate nell'ultimo comma alle norme sull'ordinamento giudiziario: solo "provvisoriamente" quelle del 1941, come recita la VII disposizione transitoria. Né il principio dell'obbligatorietà dell'azione penale preclude leggi applicative meno irragionevoli di quelle in vigore. La verità è che, piuttosto che sulla Costituzione formale, occorre intervenire sulla costituzione materiale del nostro sistema giudiziario: sul sistema elettorale per il Csm (ultimo proporzionale puro rimasto in Italia); sulla legge Breganze, che garantisce l'automatismo delle carriere; sulla deresponsabilizzazione dei capi degli uffici; sull'abuso della custodia cautelare e delle intercettazioni (magari senza dimenticare che la Costituzione si premura di tutelare il "segreto postale", non potendo all'epoca tutelare il rispetto della privacy da intrusioni tecnologicamente più sofisticate). Già diversi anni fa (sulla Repubblica del 25 luglio 2008) Gustavo Zagrebelsky, commentando uno dei tanti conflitti fra politica e giustizia, osservava che si stavano divaricando "le strade della legittimità e della legalità (la prima, adeguatezza ad aspettative concrete; la seconda, conformità a norme astratte)", ed ammoniva che senza una riforma che andasse "alla radice, per colmarlo, dello scarto tra legalità e legittimità, ci possiamo attendere uno svolgimento tragico del conflitto tra una legalità illegittima e una legittimità illegale". Zagrebelsky concludeva ricordando che "di legalità si vive, quando corrisponde alla legittimità, ma altrimenti si può anche morire": e noi in questo momento non ci sentiamo troppo bene. Processi "inutili" e custodia preventiva, i dubbi delle toghe di Viviana De Vita Il Mattino, 7 aprile 2017 Un sistema processuale che non funziona e che rischia di "stritolare" troppi innocenti a causa di un uso eccessivo della custodia cautelare preventiva che si traduce, poi, in centinaia di procedimenti per riparazione da ingiusta detenzione. Era stato lo stesso procuratore generale della Corte d’Appello di Salerno, Leonida Primicerio, nel corso dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, a lanciare l’allarme sostenendo che "l’azione penale va esercitata con grande responsabilità", puntando il dito contro l’uso indiscriminato della custodia cautelare e inviando un preciso monito ai magistrati affermando che "qualora gli elementi acquisiti nella fase delle indagini preliminari, non siano idonei a sostenere l’accusa in giudizio, il pubblico ministero ha il dovere di chiedere l’archiviazione". Ogni anno la Corte d’appello di Salerno definisce tra i 40 ed i 50 procedimenti per riparazione ingiusta detenzione ed ogni anno la spesa si aggira tra un milione e un milione e mezzo di euro (un milione e 142mila euro liquidati dalla Corte d’appello solo nell’ultimo anno all’esito di 44 procedimenti): numeri e cifre che fanno rabbrividire e che celano storie, ansie e trepidazioni che, un assegno, anche di migliaia di euro, non può cancellare. A questi 44 procedimenti, conclusisi nell’anno passato, devono inoltre essere aggiunti i 31 procedimenti, ancora pendenti e i 48 pervenuti nel corso dell’anno passato. È una lista che negli ultimi anni appare sempre più lunga, quella contenuta nei registri della cancelleria della Corte d’appello, frutto di errori, sbagli o, come sostenuto dal presidente di collegio presso la Corte d’appello di Salerno Claudio Tringali, semplicemente, di un "sistema processuale che non funziona". Più che di errori, infatti, si tratta, a parere del presidente Tringali, "di conseguenze frutto di un sistema processuale sbagliato secondo il quale la prova si forma solo nel corso del dibattimento. Ciò significa che gli elementi raccolti nella fase delle indagini preliminari se non sono confermati dal dibattimento e, quindi, non si sono trasformati in prova, non hanno più alcun valore. Sulla base di quegli elementi, però, è consentito al Gip, su richiesta del Pm, emettere misure cautelari": è proprio questa contraddizione, questo "scollamento" tra indagini preliminari e dibattimento il primo elemento da cui occorre partire per comprendere il problema relativo agli errori giudiziari e alle ingiuste detenzioni. C’è poi il problema relativo all’uso eccessivo della misura cautelare preventiva che, a parere del presidente Tringali, "deve essere uno strumento al quale ricorrere con molta parsimonia ed estrema attenzione poiché un essere umano dovrebbe essere privato della libertà personale, solo in caso di evidente gravità indiziaria e per un concreto pericolo di inquinamento probatorio. Spesso, invece, si commettono degli abusi frutto, il più delle volte, di poca attenzione e di scarsa responsabilità con la conseguenza che in carcere, spesso, ci sono troppi detenuti in attesa di giudizio". Legittima difesa. Convocato dal Csm il giudice che scrisse "mi armo" La Repubblica, 7 aprile 2017 Aperta la procedura per il trasferimento d'ufficio per incompatibilità. Dopo aver subito un inseguimento in auto, scrisse in una lettera aperta: "Lo Stato non è più in condizioni di garantire la sicurezza dei cittadini, anzi semplicemente non c'è più. D'ora in poi faccio da me". Il Consiglio superiore della magistratura ha aperto la procedura per il trasferimento d'ufficio del gip di Treviso Angelo Mascolo, divenuto improvvisamente popolarissimo per aver annunciato in una lettera aperta la decisione di armarsi, "come mio diritto", dopo essere stato inseguito in auto. La Prima Commissione, presieduta dal laico del Pd Giuseppe Fanfani (vice presidente è il togato di Unicost Luca Palamara) ha anche disposto non solo la convocazione di Mascolo perché si possa difendere, ma anche quella del presidente del tribunale Aurelio Gatto e del prefetto di Treviso Laura Lega. Al magistrato di Treviso la Commissione contesta l'incompatibilità sia ambientale sia funzionale. Il che vuol dire che se all'esito della procedura i consiglieri ritenessero che Mascolo vada trasferito, dovrebbe lasciare non solo Treviso ma anche il suo ruolo di giudice. Le audizioni di Gatto e Treviso sono state fissate per la prossima settimana, quando anche Mascolo potrebbe essere ascoltato, a quanto si è appreso. Il magistrato ha la facoltà di farsi assistere da un difensore, che può essere anche un altro giudice o un avvocato. "Lo Stato non c'è, io mi armo" aveva scritto Mascolo nella missiva indirizzata ai quotidiani veneti di Finegil, ribadendo la sua posizione anche nelle successive interviste. La sera dell'inseguimento si era imbattuto in una pattuglia dei carabinieri, ai quali i due soggetti che il giudice aveva percepito come aggressori avevano spiegato che loro intenzione era solo di "esprimere critiche al suo stile di guida". Ragionando a freddo, Mascolo aveva allora ammesso che se avesse avuto un'arma probabilmente l'avrebbe usata di fronte a quella che aveva avvertito essere una minaccia alla sua persona. Sapendo che poi sarebbe andato incontro "all'iradiddio dei processi". Ecco perché Mascolo aveva criticato quei colleghi che, in certi processi per eccesso di legittima difesa, non mostrano comprensione verso lo stress provato dai cittadini nelle situazioni di pericolo che li hanno visti protagonisti. Stigmatizzando, in generale, uno Stato in cui "leggi e leggine" tutelano "gentiluomini" come i suoi inseguitori nei processi e nella detenzione. "Lo Stato non è più in condizioni di garantire la sicurezza dei cittadini, anzi semplicemente non c'è più - aveva concluso Mascolo. D'ora in poi faccio da me: quando esco di casa mi metto in tasca la pistola". A Genova fu tortura, l’Italia ammette e paga di Eleonora Martini Il Manifesto, 7 aprile 2017 G8 del 2001. Il governo patteggia davanti a Strasburgo per sei ricorsi (su 65). Alle vittime di Bolzaneto che hanno accettato, lo Stato verserà 45 mila euro a testa. Ci sono voluti sedici anni perché un governo italiano ammettesse che a Genova, durante il G8 del 2001, lo Stato ha praticato la tortura. Il patteggiamento con il quale l’Italia ha chiuso sei ricorsi pendenti davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo per violazione dell’articolo 3 della Convenzione, quello che vieta la tortura e i trattamenti inumani e degradanti, è un riconoscimento di colpa. Ai sei cittadini, vittime delle violenze inflitte all’interno della caserma di Bolzaneto, che hanno richiesto l’intervento di Strasburgo denunciando l’inefficacia delle condanne penali comminate dai tribunali italiani (nel 2013 la Cassazione aveva respinto la richiesta di contestare il reato di tortura), e che hanno accettato - unici, tra i 65 ricorrenti, italiani e stranieri - la "risoluzione amichevole" proposta dal governo di Roma, lo Stato dovrà risarcire una somma di 45 mila euro a testa, per danni morali e materiali, e per le spese di difesa. Con l’accordo raggiunto con Mauro Alfarano, Alessandra Battista, Marco Bistacchia, Anna De Florio, Gabriella Cinzia Grippaudo e Manuela Tangari, il governo afferma di aver "riconosciuto i casi di maltrattamenti simili a quelli subiti dagli interessati a Bolzaneto come anche l’assenza di leggi adeguate. E - riferisce la Cedu - si impegna a adottare tutte le misure necessarie a garantire in futuro il rispetto di quanto stabilito dalla Convenzione europea dei diritti umani, compreso l’obbligo di condurre un’indagine efficace e l’esistenza di sanzioni penali per punire i maltrattamenti e gli atti di tortura". Un modo un po’ gattopardesco di fare riferimento ad una legge specifica sulla tortura richiesta invece esplicitamente da Strasburgo e per ultimo qualche giorno fa anche dal Comitato diritti umani dell’Onu. E infatti, tanto sfuggente è la posizione di Roma che subito dopo il governo mette a verbale il proprio impegno "a predisporre corsi di formazione specifici sul rispetto dei diritti umani per gli appartenenti alle forze dell’ordine". Sempre benvenuti, ma non basta. Perché la tortura in Italia viene contemplata "strutturalmente", come ha sottolineato la stessa Cedu nella sentenza Cestaro, malgrado il 50% degli italiani, secondo un sondaggio Doxa per Amnesty, non lo creda possibile. "Sono 30 anni che l’Italia prende impegni, e speriamo che la vittima di turno delle promesse non rispettate non sia stavolta la Corte di Strasburgo", commenta il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella, che è "in attesa della sentenza sulle torture subite nel carcere di Asti da due detenuti che dovrebbe arrivare da un giorno all’altro". Sul caso di questi detenuti, prima ancora della Cedu, fu lo stesso tribunale di Asti a fare presente che il reato contestato sarebbe stata la tortura, se solo il reato - nella fattispecie delle Convenzioni internazionali - fosse presente nel nostro ordinamento. "Il giorno in cui l’Italia arriverà a riconoscere che, oltre alla Diaz e a Bolzaneto, ha compiuto violenze contro liberi cittadini anche nelle strade e nelle piazze, sarà finalmente un vero atto di giustizia. Se poi riuscisse persino a concedere un processo a Carlo Giuliani, che non lo ha mai avuto per l’archiviazione decisa da un giudice, allora sarebbe davvero una rivoluzione per la giustizia". Sono le parole accorate di Haidi Giuliani, la madre del ragazzo ucciso da un carabiniere a Piazza Alimonda. Per Nicola Fratoianni, segretario di SI che a Genova era tra i manifestanti contro il G8, "nessun risarcimento potrà mai cancellare quello di cui lo Stato Italiano si rese responsabile in quei giorni". Purtroppo dalla stessa sua parte, allora, c’era anche l’attuale sottosegretario alla Giustizia, Gennaro Migliore. Ma sulla tortura l’impegno dell’Italia ancora non c’è di Antonio Marchesi* Il Manifesto, 7 aprile 2017 L'ammissione di colpa del governo italiano, davanti alla Corte europea dei diritti umani, con relativo patteggiamento per le sei vittime di Bolzaneto, è un piccolo passo avanti ma non certo la buona notizia che aspettiamo da tanto tempo. Un piccolo passo avanti forse sì, non certo la buona notizia che aspettiamo da tanto tempo. Quella - se mai ci sarà - sarà la notizia che è stato introdotto un reato specifico di tortura (adeguatamente definito e sanzionato) nel nostro codice penale. Fino a quel momento, la situazione resterà sostanzialmente immutata. La decisione della Corte di Strasburgo di "benedire" il regolamento amichevole tra il Governo italiano e 6 (su 65) vittime di torture nella caserma di Bolzaneto, del resto, non è dovuta principalmente all’offerta di risarcimento. In altre occasioni, infatti (si veda il caso di Cirino e Renne, due detenuti torturati nel carcere di Asti), la proposta di riconoscere una cifra di denaro e nient’altro, in cambio della rinuncia a portare avanti un ricorso per violazione dell’art.3, era stata ritenuta dalla Corte non compatibile con il rispetto della Convenzione. E di conseguenza respinta al mittente. Questa volta, però, in più, oltre a un’ammissione di colpevolezza, c’è il riconoscimento da parte del nostro governo della "assenza di leggi adeguate", accompagnato da un impegno ulteriore: quello di "adottare tutte le misure necessarie a garantire in futuro il rispetto di quanto stabilito dalla Convenzione europea dei diritti umani, compreso l’obbligo di condurre un’indagine efficace e l’esistenza di sanzioni penali per punire i maltrattamenti e gli atti di tortura". Un impegno, in sostanza, a introdurre il reato di tortura. Perché è questo il problema italiano. Non tanto quello di alcuni episodi, più o meno gravi, ma per fortuna non frequentissimi, di tortura, ma un problema ulteriore, più generale: un problema di impunità strutturale, di lacune normative che rendono (quasi) impossibile punire, possibilmente in modo serio, chi di tortura si sia reso colpevole. Non c’è un’impossibilità di accertare i fatti, perché in diversi casi i giudici sono arrivati (sia pure dovendo superare non pochi ostacoli) ad accertare episodi di tortura (le stesse sentenze sui "fatti di Genova" sono esemplari in questo senso). E il problema non è neppure quello di rispettare l’obbligo di risarcire le vittime: perché la giustizia civile, almeno in alcuni casi, ha potuto fare il suo corso. Il problema è proprio quello di punire, secondo quanto impongono non solo la Convenzione europea (si veda la sentenza Cestaro, relativa ai fatti della scuola Diaz) e, in modo ancora più esplicito, la Convenzione contro la tortura delle Nazioni Unite (ratificata - lo ricordo - dall’Italia nel 1989). È sulla punizione adeguata di chi commette atti di tortura del resto che si combatte, da decenni, nel nostro paese una battaglia politica senza esclusione di colpi. È su questo che si scontrano coloro che ritengono che gli appartenenti alle forze di polizia si debbano proteggere sempre e comunque, anche se autori di violazioni dei diritti umani, e chi ritiene, invece, che questo, in uno stato di diritto, nel quale la polizia sta dalla parte dei cittadini, non sia ammissibile. Nel frattempo, mentre questa battaglia si prolunga all’infinito, i giudici hanno fatto uso di ciò che le leggi in vigore mettono loro a disposizione: reati generici come l’abuso di ufficio o le lesioni, puniti con pene lievi, e che vanno rapidamente in prescrizione. Con i risultati che sappiamo. Impunità per i fatti di Genova, ma impunità anche per le torture di Asti, e - e questo è forse un fatto meno noto - non collaborazione con altri paesi che vorrebbero fare i conti con il proprio passato (come l’Argentina) perché se il reato è prescritto non si può, oltre che punire in Italia, neppure estradare. Il piccolo passo in avanti, dunque, è che il nostro governo ha riconosciuto che le nostre leggi non sono adeguate e ha preso un impegno a introdurre il reato di tortura. Poiché, però, di promesse l’Italia, davanti agli organi internazionali, ne ha fatte tante e spesso non le ha mantenute, la vera buona notizia ci sarà soltanto quando entrambi i rami del Parlamento (magari a seguito di un’iniziativa del Governo) avranno approvato una buona legge sulla tortura. Aggiungo - ma vorrei sbagliare - che le prospettive attuali non ci autorizzano a credere che questa novità sia dietro l’angolo. *Presidente di Amnesty International-Italia Richiedenti asilo. Per l'Avvocato Ue l'audizione del migrante non è sempre necessaria di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 7 aprile 2017 Corte di giustizia Ue, conclusioni dell'Avvocato generale del 6 aprile 2017 nella causa C-348/16. Suonano un po’ anche come un assist al Governo le conclusioni dell’Avvocato generale della Corte Ue depositate ieri in materia di procedimento sui migranti. Perché, mentre il Parlamento sta discutendo il decreto legge che rivede tutto il procedimento per la concessione dello status di rifugiato, sulla scia dell’emergenza degli uffici giudiziari invasi dalle richieste presentate dopo l’aumento degli sbarchi sulle nostre coste, dalla Corte Ue arrivano osservazioni che appaiono in sintonia con le norme appena varate (ma in vigore solo dall’estate). Qui il tema è quello della partecipazione dello straniero a un procedimento che si articola in due fasi, una amministrativa e una giurisdizionale. I fatti: nel 2016, la Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale presso la Prefettura di Milano, dopo l’audizione di un cittadino del Mali, ne ha respinto la richiesta, negandogli lo status di rifugiato o di beneficiario della protezione. La Commissione ha accertato invece l’esistenza di ragioni solo economiche e, in particolare, l’inesistenza di probabili rischi di persecuzione. Il cittadino maliano ha quindi impugnato il rifiuto della Commissione davanti al Tribunale di Milano, aprendo la fase giurisdizionale). Il Tribunale ritiene che la richiesta di asilo sia manifestamente infondata nel merito, essendo stato verificato che egli l’ha presentata mosso soltanto dalla propria condizione di estrema povertà. In questo contesto, il Tribunale ha chiesto, in via pregiudiziale, alla Corte di Giustizia, se, in base al diritto Ue, il Tribunale può decidere immediatamente oppure se deve procedere a una nuova audizione del richiedente asilo. Per il diritto italiano, infatti, nella fase giurisdizionale non è necessario che il richiedente asilo sia sentito nuovamente, se egli è già stato sentito nella fase amministrativa. Una previsione di partecipazione personale solo eventuale che è stata rafforzata dal decreto legge che ha reso normale l’acquisizione da parte dei giudici del materiale video del procedimento amministrativo e solo eventuale l’audizione dello straniero che chiede asilo. Previsione, tra l’altro, criticata dal Csm, che, nel recente parere dato al decreto, sottolineava, tra l’altro, "la contemporanea e diffusa compressione delle garanzie del richiedente asilo (che) fa ritenere non adeguato il sistema disegnato dal legislatore: la previsione in tema di struttura del giudizio richiede come necessaria l’introduzione di un procedimento innanzi al Tribunale non meramente cartolare in cui sia resa obbligatoria l’audizione del richiedente". Di diverso parere l’Avvocato Ue per il quale il Tribunale può pronunciarsi senza l’audizione del richiedente asilo su un’impugnazione da quest’ultimo proposta contro un precedente diniego, a due condizioni: a) che la richiesta di asilo sia manifestamente infondata; b) che la decisione del Tribunale sia adottata dopo un esame completo delle circostanze di fatto e di diritto del caso concreto, comprese le informazioni contenute nell’audizione personale tenutasi nella fase amministrativa che, a giudizio del Tribunale, sia sufficiente per risolvere la causa. Maltrattamenti in famiglia, il dolo abituale va motivato di Enrico Bronzo Il Sole 24 Ore, 7 aprile 2017 Corte di cassazione - Sentenza 17574/2017. Un genitore è stato condannato in secondo grado per maltrattamenti - articolo 572 del codice penale - e ha presentato ricorso in Cassazione chiedendo l’annullamento della sentenza per "avere erroneamente riconosciuto l’abitualità delle condotte aggressive e il dolo unitario. Inoltre si parla di reformatio in pejus. Quindi: in 1° grado il tribunale aveva escluso una condotta abituale osservando che il clima familiare non era sempre teso; in 2° grado gli elementi di prova erano gli stessi e legittimamente non c’è stato dibattimento (già Cassazione 41736/2015; 45453/2014) ma il tribunale ha deciso appunto in pejus; non motivando, sostiene la Cassazione, il necessario elemento psicologico del dolo abituale "che caratterizza il reato di maltrattamenti, limitandosi a richiamare il generico criterio per il quale non è necessario uno specifico programma criminoso, ma è sufficiente la consapevolezza di persistere in un’attività vessatorio diretta a ledere la personalità della vittima, senza argomentare circa la coscienza e la volontà dell’imputato di persistere in un’attività vessatoria". Per questo è stato richiesto un nuovo giudizio sul punto, con la sentenza numero 17574 del 2017. Mafia. Intestazione fittizia con aggravante solo se si rafforza il clan di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 7 aprile 2017 Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 6 aprile 2017 n. 17546. L’aggravante dell’agevolazione mafiosa grazie all’intestazione fittizia di quote di società, scatta solo se si fa crescere la forza del clan. La Cassazione (sentenza 17546) accoglie il ricorso contro l’applicazione dell’obbligo di dimora. La ricorrente era accusata di aver dato il consenso - come socio amministratore titolare del 50% delle quote di una Snc - ad intestare fittiziamente, ad parente coindagato il restante 50 per cento. Una mossa che serviva a "nascondere" il socio occulto, fratello della "testa di legno", parente dell’indagata e vero dominus, per evitare la confisca dell’azienda. La ricorrente contesta sia i presupposti del reato di intestazione fittizia, sia l’aggravante del favoreggiamento. Secondo l’indagata non c’erano prove né dell’offensività della condotta né del dolo specifico richiesti per il reato di intestazione fittizia (articolo 12-quinquies, legge 356/1992). Non era inoltre stata accertata la provenienza illecita di beni intestati fittiziamente né dimostrato il fine di eludere le misure patrimoniali. Mancava poi l’accertamento della confiscabilità dei beni che non è, di norma, configurabile nei riguardi di prossimi congiunti, soggetti a loro volta all’ambito di operatività della misura di prevenzione patrimoniale. La Cassazione, sul punto, respinge il ricorso. C’è, infatti, intestazione fittizia anche in relazione a beni che non necessariamente provengono da un delitto, ma la cui origine illecita sia deducibile dalla presunta pericolosità sociale "qualificata" della persona nel cui interesse l’intestazione "finta" è stata realizzata. Il reato non è escluso neppure dal fatto che i beni di chi é sottoposto o é a " rischio" di una misura di prevenzione patrimoniale siano intestati a, fratelli, figli, conviventi ecc. o parenti e affini entro il quarto grado, per i quali opera la presunzione d’interposizione fittizia prevista dal Codice antimafia. Anche per "dimostrare" il dolo specifico, rispetto al fine di eludere la confisca, non è serve che l’azione avvenga a "ridosso" dell’applicazione della misura: basta il timore del possibile inizio del procedimento. Sulla finalità elusiva "pesa" in particolare il fatto che l’agente sia o sia stato sottoposto alle indagini per il reato previsto dal 416-bis. Il ricorso passa invece per quanto riguarda l’aggravante del favoreggiamento. Il delitto scatta solo se l’occultamento giuridico dell’attività imprenditoriale di un soggetto, attraverso la fittizia intestazione ad altri è utile a rafforzare il sodalizio mafioso, determinando "un accrescimento della sua posizione sul territorio attraverso il controllo di un’attività economica". Per la Cassazione, la prova è mancata. La Corte d’appello si è concentrata sulla caratura mafiosa del soggetto "schermato", secondo le accuse, dalla ricorrente, senza spiegare perché l’intenzione della ricorrente sarebbe andata oltre l’obiettivo di favorire l’interesse personale del boss suo parente evitandogli la confisca della società. Ammenda, il pagamento parziale impedisce l'estinzione della pena di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 7 aprile 2017 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 6 aprile 2017 n. 17228. Il parziale pagamento dell'ammenda da parte del condannato impedisce l'estinzione della pena per decorso del tempo. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 6 aprile 2017 n. 17228, respingendo il ricorso di un uomo che dopo aver sospeso il versamento rateale del dovuto era stato raggiunto dall'emissione di diversi ruoli coattivi. Il Tribunale di Brescia, in funzione di giudice dell'esecuzione, nel rigettare l'opposizione contro l'ordinanza di rigetto dell'istanza di declaratoria di estinzione delle pene pecuniarie per decorso del tempo ex articolo 173 del codice penale, aveva già rilevato che la "durata temporale dell'attività di recupero coattivo è irrilevante ai fini della prescrizione della pena, purché il recupero abbia effettivamente avuto inizio". Sulla stessa linea la Suprema corte secondo cui "in mancanza di espressa previsione normativa, la disciplina dettata in materia di prescrizione della pena non contempla cause di sospensione od interruzione". Infatti, proseguono i giudici, "non esistono in tale ambito disposizioni corrispondenti agli articoli 159e 160 c.p., i quali devono intendersi come riferiti alla sola prescrizione del reato". Con riguardo all'estinzione della "pena" per decorso del tempo, invece, "rileva quale fatto impeditivo, il solo momento dell'inizio dell'esecuzione, a partire dal quale le concrete modalità e le concrete tempistiche dell'esecuzione stessa risultano irrilevanti". In altri termini, spiega la Corte, "l'inizio dell'esecuzione è sufficiente ad evitare l'estinzione della pena e nessuna rilevanza - in mancanza di una previsione legislativa in tal senso - assume la circostanza se tale inizio sia avvenuto coattivamente o con la collaborazione del condannato". Per cui, con riferimento alla pena pecuniaria "deve ritenersi che l'effettuazione del pagamento, anche parziale, ne impedisca l'estinzione, indipendentemente dalla circostanza se a tale pagamento parziale seguano altri pagamenti fino al completo adempimento del debito". Il pagamento parziale preclude perciò, in via definitiva, l'estinzione della pena per decorso del tempo; con la conseguenza che "l'eventuale successiva notificazione di una cartella esattoriale per la somma residua risulta irrilevante a tal fine". Tornando al caso concreto, la Cassazione statuisce che le pene pecuniarie "non si sono estinte, perché i primi pagamenti erano stati effettuati ben prima del decorso del termine quinquennale di estinzione di cui all'art. 173 c.p., da computarsi a partire dall'irrevocabilità delle relative sentenze". Ed essendo l'esecuzione già iniziata, peraltro con la collaborazione dello stesso condannato, "non assumono alcuna rilevanza né la circostanza che questo abbia poi smesso di pagare, né eventuali ulteriori atti esecutivi successivi". Campania: il Garante "poche camere di sicurezza e in ospedale reclusi in stanza" di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 aprile 2017 I primi risultati della vista in Campania del Garante dei detenuti. Solo al Cardarelli esiste una sala per i colloqui con i familiari, mentre nelle altre strutture non esiste la possibilità dell’ora d’aria e della socialità. Nei reparti detentivi ospedalieri della regione Campania, i reclusi restano nella stanza per 24 ore al giorno. Nessuna ora d’aria, niente socialità e neanche la possibilità di fare telefonate. A denunciarlo è Mauro Palma, il Garante nazionale dei detenuti, che ha monitorato i reparti detentivi dell’ospedale Cotugno e del Cardarelli di Napoli e dell’Azienda ospedaliera San Giovanni di Dio-Ruggi d’Aragona di Salerno. Solo la struttura del Cardarelli ha previsto una sala per i colloqui con i familiari, la cui porta però non consente il passaggio di una carrozzina. Oltre ai reparti detentivi ospedalieri, il Garante ha visitato le strutture di Napoli, Salerno e Pozzuoli, i due Istituti penali per minori di Nisida e Airola e i Centri di prima accoglienza per minori di Napoli e di Salerno, le camere di sicurezza delle forze dell’ordine, due Residenze per le misure di sicurezza (Rems) e una comunità per tossicodipendenti di Salerno che ospita persone in misure alternative alla detenzione. Anche in Campania è emersa la carenza di camere di sicurezza delle forze di polizia, in gran parte chiuse perché inidonee. Si tratta di un problema che il Garante ha già illustrato al Parlamento nella prima Relazione sulla propria attività. Il Garante, ricordiamo, ha potuto osservare che tale criticità riguarda tutte le Forze di polizia e ha come conseguenza l’accompagnamento della persona in carcere, anche per periodi brevissimi, riattivando il fenomeno delle "porte girevoli" del carcere, in cui si entra per una sola notte con grave danno per la persona, a cui in molti casi potrebbe essere evitata tale non semplice esperienza, e per il sistema detentivo che deve assolvere a una serie di inutili incombenze, dall’immatricolazione, al reperimento del posto letto. Sempre Palma ha spiegato che la caratteristica principale di una camera di sicurezza è la sua adeguatezza strutturale a ospitare una persona fermata, anche se per un breve periodo di tempo, in termini di spazio, stato di mantenimento, possibilità di aria e luce naturale, presenza di servizi sanitari, disponibilità di un pulsante che permetta di chiamare l’agente in servizio in caso di necessità: in sintesi di tutti quegli elementi che le norme internazionali indicano come necessari per alloggiare una persona privata della libertà personale in condizioni di rispetto della sua dignità, di sicurezza nonché di tutela della sua persona rispetto a rischi autolesivi. Talvolta però gli ambienti visitati dal Garante pur se non troppo dissonanti dagli standard nazionali e internazionali, presentavano delle criticità: spazi angusti e stanze, buie e inospitali, strutturalmente poco adatte ad accogliere, seppur per breve tempo, le persone fermate o arrestate. Nel corso della visita nella regione Campania, il Garante Nazionale ha incontrato il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, l’assessore alla qualità della vita e alle pari opportunità Daniela Villani della Regione Campania, la presidente del Tribunale di Sorveglianza di Napoli Adriana Pangia e i questori di Napoli e Salerno Antonio De Iesu e Pasquale Errico. Toscana: prima c’era l’Opg, ora le liste di attesa per entrare nella Rems di Giulio Gori Corriere Fiorentino, 7 aprile 2017 Gemma Brandi: l’unica struttura protetta è a Volterra, ma con 30 posti per Toscana e Umbria. La chiusura degli Opg era ispirata a principii di umanità, però in buona parte la riforma è rimasta lettera morta. "Una rivoluzione ispirata da principi di umanità, ma che è ancora in buona parte lettera morta", incompleta, parziale. Chiusa l’epoca degli ospedali psichiatrici giudiziari, ora è iniziata quella delle Rems (residenze protette per pazienti socialmente pericolosi). Ma non ci sono posti. Tanto che in Toscana, molti malati psichiatrici sono in lista d’attesa, tanti altri sono parcheggiati nelle carceri. E non mancano i malati di mente, in attesa di una sentenza che sono liberi di circolare nelle strade malgrado possano rappresentare un pericolo per gli altri. A spiegare le difficoltà del sistema di gestione dei casi psichiatrici è la dottoressa Gemma Brandi, che dirige il Centro di salute mentale per adulti di Sollicciano. La psichiatra ammette che del caso di Dimitru Grosu, "il bullo di via Baracca", più volte ricoverato e di volta in volta rimesso in circolazione, libero di girare per Novoli a molestare o minacciare persone con una spranga, non si è mai occupata. Mentre l’Asl precisa che si tratterebbe di un caso di alcolismo e non psichiatrico. Ma resta il problema di come gestire chi gestibile non è. "Fino a prima della riforma, negli Opg non si entrava direttamente: si trattava di una misura sanitaria che si rendeva necessaria per chi era già in carcere - spiega Brandi - l’ospedale era la soluzione per gestire i casi che una prigione non poteva gestire". Ora, il giudice, in accordo con i periti e con le autorità sanitarie, potrebbero inviare alle Rems anche chi è a piede libero. Gestire i casi complessi sembrerebbe più facile, quindi. Ma è solo teoria. L’Opg di Montelupo aveva 110 posti, mentre "l’unica Rems attualmente aperta per la Toscana e per l’Umbria è quella di Volterra, con 30 posti, tutti già occupati, e con una trentina di persone già in lista d’attesa", dice Brandi, citando l’ultima relazione semestrale del commissario sugli Opg Franco Corleone. Così, secondo la psichiatra si pone anche un problema di umanità: "Un terzo degli ex ricoverati a Montelupo oggi è in carcere". Mentre, nelle strade, ci sono persone potenzialmente pericolose, ma ancora non oggetto di una sentenza di condanna, che restano senza assistenza. "Una Rems è l’ultima ratio - spiega ancora Brandi. Un giudice decide di inviare un paziente solo quando sono esaurite le alternative sul territorio, quando non è possibile ricorrere a una comunità, a una casa famiglia, a un percorso ospedaliero". Insomma, le soluzioni intermedie esistono, non c’è solo il trattamento sanitario obbligatorio che per sua natura è temporaneo e, quindi, inutile a contenere la pericolosità di chi non è curabile. Ma "è un percorso complesso - spiega la psichiatra. Da questo punto di vista Firenze è all’avanguardia, con un protocollo siglato nel 2014, che intende costruire una collaborazione tra Asl e magistratura. Questo dialogo è fondamentale per inquadrare di volta in volta la soluzione giusta, ma per realizzarlo a pieno serve tempo. Non è semplice". Taranto: detenuto morto, dalla perizia ombre sull'operato dei sanitari lecceprima.it, 7 aprile 2017 "Quadro clinico non valutato e trattato nei tempi e nei modi prescritti dalle regole dell'arte". È uno dei passaggi di rilievo della consulenza sulla morte di un 31enne di San Cesario di Lecce". "I disturbi dell'alimentazione dei giorni precedenti il ricovero" molto probabilmente erano "manifestazioni della gravissima condizione clinica del paziente", alla luce della documentazione successiva. Sono alcuni fra i passaggi chiave della perizia depositata dall’anestesista rianimatore Salvatore Silvio Colonna e dal medico legale Alberto Tortorella, gli esperti nominati dalla Procura di Taranto, per fare luce sul caso sulla morte di Antonio Cesario Fiordiso, avvenuta a soli 31 anni nel carcere della città jonica, in circostanze ancora poco chiare. Qui, il giovane, di San Cesario di Lecce, stava scontando una pena per una rapina. E qui ha visto anche i suoi ultimi giorni, con la famiglia che denuncia: fino all’ultimo avrebbe avuto estreme difficoltà nell’ottenere informazioni dettagliate sulle condizioni del giovane. Tanto che il giorno del decesso, risalente all’8 dicembre del 2015, la comunicazione piovve sulla testa del padre del ragazzo praticamente inattesa. Da allora i parenti più stretti del giovane salentino, la zia Oriana Fiodiso in testa, che andava a trovarlo di continuo in carcere, non si danno pace e chiedono verità e giustizia. Ecco perché si sono affidati agli avvocati Paolo Vinci del Foro di Milano, esperto in casi di malasanità, e Panataleo Cannoletta del Foro di Lecce. Otto sono i medici indagati per omicidio colposo (sei di guardia e due psichiatri). Il 29 dicembre scorso, dopo riesumazione del cadavere dal cimitero di San Cesario di Lecce, s’è svolta l’autopsia. La consulenza che ne discende, per l’avvocato Vinci pone pochi dubbi: dimostrerebbe, cioè, come ha sempre sospettato, responsabilità della struttura penitenziaria in ambito sanitario. E sarà sicuramente questa la linea di condotta che si continuerà a seguire nelle eventuali fasi successive di un’inchiesta, che ha visto, peraltro, proprio la zia Oriana nei giorni scorsi, ascoltata dal sostituto procuratore Maria Grazia Anastasia come persona informata sui fatti. Il 3 aprile, infatti, la donna, 42enne, ha avuto un lungo colloquio con il magistrato, durato circa due ore. C’è la perizia, dunque, come primo caposaldo, e alcuni passaggi sono piuttosto netti. "L'entità del danno documentato all'arrivo in ospedale a carico dei vari organi, ed in particolare della funzione renale, era tale da far ritenere che il quadro clinico, rapidamente ingravescente, fosse già presente nei giorni precedenti; e che esso non sia stato valutato e trattato nei tempi e nei modi prescritti dalle regole dell'arte", scrivono ancora i periti. A loro avviso, "l'esecuzione di esami ematochimici di base avrebbe probabilmente consentito di giungere a diagnosi in tempi più brevi, di ricoverare Fiordiso più precocemente e di avviare più tempestivamente il trattamento della gravissima forma morbosa". Nella disamina ora in mano alla Procura tarantina, medico legale e rianimatore aggiungono anche che se "per converso […] i medici della Casa Circondariale ebbero certamente difficoltà a rilevare le condizioni cliniche del Fiordiso a causa del grave quadro psicopatologico preesistente e della conseguente impossibilità di instaurare con il paziente una efficace comunicazione, ed ottenere dallo stesso informazioni utili sulla sua sintomatologia" bisogna tener conto, "d'altra parte, che assai scarne (come già ripetuto più volte) sono le annotazioni del diario clinico penitenziario, soprattutto in relazione alle condizioni cliniche generali del paziente ed al quadro obiettivo in particolare". A ben vedere, è tutta la vicenda in sé a essere ricca di situazioni poco chiare (a lato tutti gli altri capitoli della vicenda, Ndr). Fiordiso era stato recluso inizialmente nel carcere di Borgo San Nicola, a Lecce, per poi essere trasferito in quello di Taranto, passando però anche dalla casa circondariale di Asti. Ritornato a Taranto, però, era poi finito in ospedale e da allora c’era stata una vera e propria rapida decadenza, nell’impotenza della famiglia e con la zia che ha aperto una vera e propria battaglia giudiziaria, riuscendo con forza d’animo a far riaprire un caso che sembrava destinato all’archiviazione. Cosenza: i Radicali "detenuti con problemi psichici lasciati senza cure ed assistenza" quicosenza.it, 7 aprile 2017 I Radicali denunciano la condotta omissiva dell’Asp di Cosenza, affinché venga reso effettivo alle persone detenute il godimento del diritto fondamentale alla tutela della salute. Nelle scorse settimane, una Delegazione dei Radicali Italiani integrata da Dirigenti ed Istruttori Sportivi, autorizzata dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia, ha fatto visita alla Casa Circondariale di Cosenza "Sergio Cosmai". La Delegazione, guidata da Emilio Enzo Quintieri, già membro del Comitato Nazionale, era composta da Valentina Moretti, Roberto Blasi Nevone, Adamo Guerrini e Francesca Stancati, questi ultimi due, rispettivamente, Presidente Provinciale dell’Acsi di Cosenza e Delegato Provinciale del Coni di Cosenza. A ricevere la Delegazione c’era il Direttore Filiberto Benevento, la Responsabile dell’Area Giuridico Pedagogica Bruna Scarcello ed il Comandante di Reparto Facente Funzioni della Polizia Penitenziaria, Ispettore Capo Pasquale Picarelli. Nell’Istituto di Cosenza, al momento della visita, a fronte di una capienza di 218 posti disponibili, erano presenti 272 detenuti, 50 dei quali di nazionalità straniera, aventi le seguenti posizioni giuridiche: 63 giudicabili, 51 appellanti, 18 ricorrenti e 140 definitivi di cui 2 ergastolani. Durante la visita è stato accertato che tra i 272 detenuti, vi sono 14 tossicodipendenti di cui 2 in terapia metadonica, 1 con disabilità motoria e 57 con patologie psichiatriche nonché 3 semiliberi dipendenti da datori di lavoro esterno e 2 lavoratori ex Art. 21 O.P. Qualche giorno fa, gli esiti della visita, sono stati comunicati, al Capo dell’Amministrazione Penitenziaria Santi Consolo, al Provveditore Regionale della Calabria Cinzia Calandrino, al Magistrato di Sorveglianza di Cosenza Paola Lucente ed all’Ufficio del Garante Nazionale dei Diritti dei Detenuti presso il Ministero della Giustizia. La Delegazione, nella relazione, si è particolarmente soffermata sulla gravissima situazione riscontrata in ordine alla tutela della salute delle persone detenute con patologie psichiatriche, ristrette nell’Istituto. Sulla questione, i Radicali Italiani, hanno effettuato puntigliosi accertamenti dai quali è emersa l’assoluta veridicità e fondatezza delle rimostranze dei detenuti. Lo stesso Direttore Benevento, non ha potuto far altro che confermare l’esistenza del problema, precisando di aver fatto tutto quel che era nelle sue possibilità, segnalando la situazione venutasi a creare agli Uffici Superiori ed alle altre Autorità competenti ivi compresa la Procura della Repubblica di Cosenza per quanto di competenza. Riferiva, altresì, di aver ripetutamente sollecitato, negli ultimi mesi, i vertici dell’Asp di Cosenza affinché nell’Istituto fosse garantita alla popolazione ristretta l’assistenza psichiatrica. Ma tutte le richieste e le sollecitazioni effettuate sono rimaste tutte inesitate. Anche quelle del Provveditorato Regionale della Calabria e dall’Ufficio di Sorveglianza di Cosenza. "Mi domando come sia possibile - dice l’esponente radicale Quintieri - che l’Asp di Cosenza abbia ridotto il monte ore per il servizio intramurario di psichiatria da 30 ore settimanali prima a 12 e poi a 6 ore alla settimana, nella Casa Circondariale di Cosenza, l’Istituto più grande della Provincia di Cosenza, ove sono presenti mediamente circa 300 detenuti, 60 dei quali affetti da patologie psichiatriche, bisognosi di cura ed assistenza continua, in misura efficace ed appropriata. Lo scorso 20 dicembre 2016, il Direttore Generale dell’Asp di Cosenza Raffaele Mauro, rendeva noto con apposito avviso pubblico che erano disponibili i turni di attività specialistica ambulatoriale presso la Casa Circondariale di Cosenza (25 ore di psichiatria e 5 di otorinolaringoiatria) ed invitava gli Specialisti ad inviare entro il 10 gennaio 2017 la propria disponibilità al Comitato Consultivo Zonale della Provincia di Cosenza. Per la pubblicazione delle ore di specialistica ambulatoriale per garantire l’assistenza alla popolazione detenuta, i vertici dell’Asp di Cosenza, avevano finanche preteso l’autorizzazione del Commissario del Governo per la Sanità Massimo Scura che l’ha accordata. Nonostante la disponibilità manifestata dagli Specialisti ed il notevole lasso di tempo trascorso - prosegue il capo della delegazione Quintieri - l’Asp di Cosenza, non ha assunto alcun provvedimento al riguardo, mantenendo una condotta deliberatamente omissiva comprimendo ai soggetti detenuti il diritto alla tutela della salute, tutelato dalla Costituzione. Peraltro, ultimamente, il servizio di psichiatria, viene assicurato da 5 Medici secondo un calendario prestabilito, per un turno di 3 ore, che è del tutto inefficace ed inappropriato perché non garantisce la continuità del trattamento terapeutico. L’Asp, inoltre, non ha provveduto nemmeno a sottoscrivere il Protocollo di Intesa con l’Amministrazione Penitenziaria, per la prevenzione e gestione degli eventi suicidari, nonostante la disponibilità fornita durante gli incontri del 7 maggio e l’8 settembre 2016." La Delegazione dei Radicali Italiani, visto che ogni tentativo posto in essere dalla Direzione della Casa Circondariale di Cosenza, dal Provveditorato Regionale della Calabria e dall’Ufficio di Sorveglianza di Cosenza è risultato vano, ha chiesto al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria presso il Ministero della Giustizia, di adoperarsi per sollecitare l’intervento sostitutivo della Regione Calabria e del Ministero della Salute, in luogo dell’inadempiente Azienda Sanitaria Provinciale di Cosenza, affinché venga reso effettivo alle persone detenute, ristrette nella Casa Circondariale di Cosenza, il godimento del diritto fondamentale alla tutela della salute, al pari dei cittadini in stato di libertà, come prevede la normativa vigente in materia. In particolare, è stato chiesto, che si provveda con sollecitudine ad una migliore organizzazione del servizio di assistenza psichiatrica intramoenia, mediante implementazione del monte ore settimanale e nomina di uno o al massimo due Specialisti Psichiatri in pianta stabile ed alla stipula del Protocollo di Intesa per la prevenzione del rischio suicidario. Il Capo dell’Amministrazione Penitenziaria Santi Consolo, appena ricevuta la relazione dei Radicali Italiani, ha assicurato al Capo della delegazione Emilio Enzo Quintieri il suo personale ed immediato intervento per quanto di competenza. Milano: Ministero della Giustizia e Federlegno firmano protocollo per lavoro ai detenuti giustizia.it, 7 aprile 2017 Il ministro della Giustizia Andrea Orlando e il presidente della Federlegno Arredo, Emanuele Orsini, hanno siglato oggi un protocollo d’intesa per l’elaborazione di specifiche iniziative nel settore della formazione relativa alle attività artigianali di falegnameria, volto ad agevolare il recupero e il reinserimento sociale dei detenuti, riguardante gli istituti penitenziari di Sulmona, Lecce e Monza. Obiettivo specifico dell’accordo è la razionalizzazione sul territorio nazionale della produzione di arredi per i locali di detenzione, attraverso la formazione dei detenuti coinvolti, sia su ciò che riguarda il ciclo produttivo, sia su ciò che appartiene tipicamente alla commercializzazione e al trasporto dei manufatti. L’intesa, che si inserisce nella complessiva azione programmata dal Ministero per la promozione di progetti di cooperazione istituzionale e consta di una prima fase, dedicata all’avvio di progetti-pilota presso i tre istituti detentivi individuati, finalizzati al potenziamento delle falegnamerie penitenziarie già presenti. La fase successiva, prevede l’individuazione da parte della Federlegno Arredo di uno o più soggetti interessati alla gestione della falegnameria penitenziaria, che si avvalga, per la produzione, del lavoro dei detenuti e si occupi della collocazione sul mercato dei prodotti realizzati. Il Ministero della Giustizia, attraverso il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e le sue articolazioni regionali, provvederà ad individuare i detenuti da inserire nel progetto, tenendo conto del tempo di pena residuo e dell’attitudine personale ad inserirsi in un percorso formativo; la Federlegno Arredo, dovrà a sua volta individuare formatori idonei che guidino i detenuti nella lavorazione dei prodotti all’interno delle falegnamerie penitenziarie e si occupino di gestire canali di comunicazione all’esterno per pubblicizzare i risultati raggiunti, aprendo (oppure, offrendo) al mercato le lavorazioni intramurarie. Il Protocollo d'intesa, finanziato con fondi nazionali, regionali e comunitari, verrà successivamente dettagliato da specifiche Appendici operative, sottoscritte dai soggetti individuati, e potrà essere rinnovato alla scadenza dei due anni di durata prevista. Milano: il Papa "fede e calore, a San Vittore è stata una visita indimenticabile" di Giampiero Rossi Corriere della Sera, 7 aprile 2017 Una "indimenticabile giornata di preghiera, di dialogo e di festa". Papa Francesco definisce così, in una lettera indirizzata all’arcivescovo Angelo Scola, la sua visita a Milano del 25 marzo scorso. Il Pontefice ricorda di aver vissuto "momenti di grande comunione con codesta comunità diocesana", "sperimentando l’entusiasmo della fede e il calore dell’accoglienza dei milanesi". E rivolge il suo esplicito ringraziamento al cardinale e a tutti i collaboratori "per la buona riuscita" e "per lo spirito con cui sono stati vissuti i vari incontri, come anche per l’organizzazione che ha consentito la partecipazione di tutti e ha dato modo, specialmente ai giovani e agli adolescenti, di esprimere la loro gioia e la loro vivacità contagiosa". Ieri l’arcivescovo Scola, al termine della celebrazione per la Festa del Perdono (che dal 1459 si celebra ogni anno dispari per concedere l’indulgenza plenaria e raccogliere donazioni per l’antico Ospedale Maggiore, oggi Policlinico) è ritornato alla visita del Papa. Il momento più emozionante - "A San Vittore è arrivato al cuore dei detenuti, colpendomi per il modo con cui giustificava la sua presenza in quel luogo, dicendo che ciascuno di loro era Gesù dal cuore ferito. Ho visto molti detenuti piangere e commuoversi". Quindi, a proposito dello "stile" del Pontefice, il cardinale ha aggiunto: "La novità di Papa Bergoglio è rappresentata dalla sua figura e dal suo stile, inteso in senso forte e non artificioso. È come se impostasse la sua persona con una cultura di popolo tipica di chi ha vissuto la realtà sudamericana, ed è proprio grazie a questo che riesce ad arrivare al cuore della gente". Cagliari: sovraffollamento in carcere, 567 posti ma i detenuti sono 623 castedduonline.it, 7 aprile 2017 "Crescita esponenziale di ristretti nella Casa Circondariale di Cagliari-Uta dove ogni mese aumenta il numero delle persone private della libertà. Sono infatti presenti 623 detenuti (110 stranieri; 26 donne) per 567 posti (109%). Erano 588 al 31 gennaio scorso. Un incremento preoccupante a cui non corrisponde un analogo aumento di personale amministrativo, Agenti di Polizia Penitenziaria e di Educatori. Il rischio, con una popolazione detenuta particolarmente difficile per la consistente presenza di tossicodipendenti e persone con disturbi psichici, è la riduzione drastica dei progetti riabilitativi. L’Istituto inoltre non ha un Direttore in pianta stabile né alcun Vice Direttore". Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione "Socialismo Diritti Riforme", con riferimento ai dati diffusi dal Ministero della Giustizia che fotografano la realtà delle 10 strutture penitenziarie isolane al 31 marzo 2017. "La situazione è peggiorata anche nell’Istituto di Sassari-Bancali dove - osserva Caligaris - sono presenti 459 detenuti rispetto a 455 posti letto con 150 stranieri (32,4%) e 90 ristretti in regime di massima sicurezza (41bis). Resta difficile la situazione al "Paolo Pittalis" di Tempio-Nuchis con 177 reclusi, tutti in alta sicurezza (per 167 posti), a Oristano-Massama 259 AS (per 260) e a Lanusei dove 41 detenuti convivono in 33 posti. È invece a norma regolamentare la presenza di cittadini privati della libertà nella Casa di Reclusione di Alghero che ha 113 ristretti per 156 posti e "Badu e Carros" 168 reclusi per 273 posti (anche se ci sono due sezioni chiuse). "Le Colonie all’aperto di "Is Arenas" (119 per 176), Isili (103 per 154) e Mamone (206 su 392) stanno iniziando a colmare qualche vuoto ma nonostante l’annuncio di iniziative di valorizzazione lasciano ancora a desiderare il lavoro costante e le produzioni agricole. A Mamone inoltre è concentrata la percentuale più alta di stranieri. Sono infatti 162 su 206 detenuti pari al 78,1%". "Come ben sanno i responsabili del Dap e del Ministero, in Sardegna è necessaria una svolta. Nei prossimi giorni dovrebbero essere resi noti gli esiti dell’interpello per l’assegnazione degli incarichi ai Direttori in modo tale da superare le difficoltà di sopperire in 4 alla gestione di 10 Istituti. È però forse indispensabile indire un concorso per assegnare i Vice Direttori. L’ultimo risale a 20 anni orsono. Pensare di continuare a gestire la reclusione in chiave contenitiva - conclude la presidente di Sdr - appare non rispettoso del dettato costituzionale e controproducente". Belluno: oggi un’iniziativa per i detenuti organizzata dall’Associazione Jabar bellunopress.it, 7 aprile 2017 Primo evento marchiato Jabar all’interno del carcere di Baldenich. L’associazione bellunese impegnata nella tutela dei diritti delle persone socialmente svantaggiate, in particolare detenuti ed ex detenuti, ha organizzato un incontro all’interno della Casa circondariale di Belluno, nella quale è attiva con un corso di informatica e la redazione della rivista "Sconfinamenti", uscita in prima edizione a dicembre dello scorso anno. L’incontro di venerdì 7 aprile alle 18.30, dal titolo "Sconfinare nella letteratura", sarà l’occasione per le persone detenute nel carcere di Baldenich per incontrare il regista teatrale e scrittore Giancarlo Capozzoli, autore del libro "Lì dove c’è pericolo cresce anche ciò che salva". L’opera ha la peculiarità di lanciare uno sguardo non convenzionale sul carcere, luogo fisico della reclusione in cui Capozzoli è impegnato da anni con laboratori e spettacoli teatrali, realizzati con le persone detenute. Egli ha collaborato a diversi progetti culturali in ambito sociale e periferico, mettendo in scena spettacoli nel carcere di Rebibbia, di Regina Coeli e con i richiedenti asilo politico. L’associazione Jabar è nata a maggio del 2014: da luglio di quell’anno entra ogni sabato pomeriggio nel carcere di Baldenich per tenere alle persone recluse aderenti un corso di informatica frontale e personalizzato strutturato su vari livelli di apprendimento. Proprio in seno al corso è nata la volontà di esprimersi e far sentire la propria voce anche all’esterno delle mura carcerarie: solerte il lavoro per realizzare la rivista del carcere di Belluno "Sconfinamenti". Il secondo numero è in lavorazione e sarà stampato all’inizio del mese di maggio grazie a un contributo del Csv di Belluno. Volterra (Pi): torna l’appuntamento con le "Cene Galeotte" gonews.it, 7 aprile 2017 Venerdì 21 aprile nuovo imperdibile appuntamento al carcere di Volterra, dove la brigata galeotta di cucina sarà impegnata nella realizzazione di una cena gourmet sotto la guida di Beatrice Segoni, chef del ristorante Konnubio di Firenze (konnubio.it). La serata sarà preceduta giovedì 20 da un altro importante momento, novità di questa edizione. Gli chef coinvolti infatti, come sempre a titolo gratuito, non solo affiancano i detenuti ai fornelli, ma tengono anche incontri inseriti nel calendario didattico dell’Istituto Alberghiero nato nel 2012 proprio all’interno del carcere di Volterra con classi miste formate dai carcerati e dagli oltre venti ragazzi che ogni giorno varcano le porte della struttura per seguire gli studi. Un’occasione unica per conoscere e scoprire dalla voce di rinomati professionisti del settore aneddoti, esperienze e consigli utili ad integrare il proprio bagaglio formativo, da utilizzare una volta terminato percorso didattico e, nel caso dei carcerati, pena detentiva. Di origini marchigiane, che spesso fanno capolino nelle sue ricette, Beatrice Segoni - ormai fiorentina d’adozione - è tra gli chef più stimati del panorama cittadino e non solo. Ex allieva di Gianfranco Vissani, dalla lunga esperienza, è portavoce della semplicità e di una cucina pronta a rallegrare i sensi senza confonderli. È così che al Konnubio Beatrice porta a tavola sapori italiani interpretati con leggerezza ed eleganza, per regalare al visitatore un viaggio unico ed appagante attraverso la vista, l’olfatto ed il gusto. Prestigioso ospite anche nel bicchiere: il menu sarà infatti accompagnato dai vini offerti dalla Cantina Italo Cescon di Treviso (cesconitalo.it), storica e fra le più apprezzate realtà del panorama enologico veneto. In beneficenza come sempre l’intero incasso della serata, destinato in questa occasione alla Fondazione Francesca Rava - Nph Italia Onlus (nph-italia.org), che aiuta l’infanzia in condizioni di disagio in Italia e nel mondo e che rappresenta in Italia N.P.H. - Nuestros Pequeños Hermanos (I nostri piccoli fratelli), organizzazione umanitaria internazionale, che dal 1954 salva i bambini orfani e abbandonati nelle sue case orfanotrofio ed ospedali in 9 paesi dell’America. In particolare il ricavato della serata sarà destinato al progetto Casa San Marcos in Repubblica Dominicana, un centro di riabilitazione per 15 bambini disabili con patologie psichiatriche e neurologiche, strutturato all’interno della Casa NPH Sant’Ana e comprensivo di zona residenziale, aree riabilitative, e piscina terapeutica e dove i bambini sono seguiti giorno e notte da personale attento e dedicato. Avellino: ad Ariano Irpino i detenuti fanno i modelli per Brett Lloyd di Valentina Stella Il Dubbio, 7 aprile 2017 Il direttore, Gianfranco Marcello, spiega come funziona il regime aperto nel suo Istituto. Istruzione, arte e lavoro: questa la formula che applicano nel carcere di Ariano Irpino per dare un futuro ai detenuti. Aperto nel 1980 in seguito al terremoto che colpì l’Irpinia, il carcere della provincia di Avellino da maggio del 2014 ha un nuovo padiglione detentivo a sorveglianza dinamica, che richiama il concetto di "carcere aperto", per cui le celle divengono solo luogo di pernotto, mentre la vita del detenuto si svolge al di fuori di esse. "La sorveglianza dinamica è dare la speranza di un reinserimento" racconta al Dubbio il direttore del carcere, Gianfranco Marcello. Ardita e Davigo, nel recente libro Giustizialisti, criticano però proprio la sorveglianza dinamica perché estesa anche ai detenuti ad alto rischio. Invece Lei che bilancio può fare di questa misura? Tengo a precisare che l’Istituto di Ariano non è a custodia attenuata ma ospita i detenuti più problematici della Campania: da noi arrivano reclusi diciamo difficili da Poggioreale e Caserta, perché la struttura del carcere è quella di massima sicurezza. Tornando alla sua domanda, ho un po’ di difficoltà a chiamarla effettivamente sorveglianza dinamica, perché, per quello che dovrebbe essere, ci vorrebbero più risorse per applicare realmente tutte le direttive del Dipartimento. Purtroppo abbiamo solo 2 educatori per 340 detenuti. Tuttavia le posso dire che il bilancio è positivo, a patto di utilizzare bene gli strumenti che si hanno a disposizione. Tutte le sezioni dell’Istituto eccetto una - sono a sorveglianza dinamica o meglio a regime aperto. I detenuti sono all’aperto nelle sezioni e noi cerchiamo di impiegarli in tutte le attività che possiamo; lo scopo è quello di non farli stare in ozio. Accanto a questi obiettivi usiamo anche fermezza nei confronti di chi sbaglia; coloro che sbagliano, infatti, non danneggiano solo la società ma anche i compagni, se queste iniziative andassero male, dall’esterno la prima reazione sarebbe quella di dire "buttate la chiave". Il nostro rigore serve a preservare il percorso trattamentale degli altri. Dall’altro lato abbiamo un numero elevatissimo di detenuti a cui sono concessi i permessi: 50 di loro, 1 su 6 circa, vanno in permesso, più di 10 lavorano all’esterno, sia per attività dell’Istituto sia per le cooperative. Dunque pugno di ferro con chi sbaglia e nuove possibilità per chi vuole cambiare? Diamo rigore e speranza, il vero motore che può innescare il cambiamento. Si tratta di un discorso quasi di banale psicologia. Noi ci siamo dovuti confrontare con questo proprio per la tipologia di detenuti che arrivavano qui, e che in altri istituti si sono resi a volte autori di aggressioni. Se qui li avessimo trattati come bestie in gabbia avremmo ottenuto solo la ripetizione dei comportamenti precedenti. Quindi, quando arrivano qui, la prima cosa che dico loro è "qui si può ripartire da zero". Non è determinante cosa abbiano fatto negli altri istituti: dando subito loro la speranza di poter ricominciare, abbiamo visto che quelli veramente aggressivi altrove qui da noi, dopo uno due tre anni, riescono ad ottenere il permesso. Noi non abbiamo mai avuto una revoca di un permesso. Ne abbiamo mandati fuori a centinaia negli ultimi cinque anni, non abbiamo mai avuto un problema. Tra le varie attività, pochi giorni fa, nell’Istituto da lei diretto è andata in scena una sfilata di moda dei detenuti. Marchi nazionali ed internazionali hanno messo a disposizione i loro abiti e il celebre fotografo Brett Lloyd, già noto in Campania per aver realizzato negli anni scorsi un libro dal nome Scugnizzi, li ha immortalati col suo obiettivo. Ad organizzare l’iniziativa è stata la rivista di moda Odda magazine con la director Alba Melendo García. Perché questa scelta così particolare? Si inquadra in un percorso che l’Istituto ha intrapreso anni fa per incrementare tutte le attività artistiche. Siamo partiti dal territorio: Ariano ha una tradizione artistica delle ceramiche e 5 anni fa, per la prima volta, abbiamo iniziato il quinquennio del liceo artistico e quest’anno avremo i primi diplomati. All’interno di questo contesto si sono sviluppate tutta una serie di iniziative che hanno come sfondo l’arte, sia in chiave ricreativa sia in chiave lavorativa: arte intesa come lavoro della ceramica, del vetro, come fotografia e come arte culinaria. Abbiamo fatto corsi per pizzaioli, in modo da offrire una opportunità ai detenuti una volta usciti dal carcere. Questo è il terzo anno che facciamo un corso di fotografia con una cooperativa di Ariano con cui abbiamo vinto anche due premi nazionali. Quest’ultimo evento è stato davvero speciale perché i detenuti si son calati bene nella parte del modello con una serietà e con una professionalità che mai avrei immaginato. Al termine hanno letto una lettera commovente ai fotografi e alla Alba Melendo. I fotografi mi hanno riferito che un paio di loro, una volta fuori, potrebbero intraprendere la carriera di modelli. Insomma, con un mix di fermezza e di speranza riusciamo quasi tutti a riportarli alla produttività, alla costruttività. I Grandi diano una risposta alla violenza contro le donne di Linda Laura Sabbadini La Stampa, 7 aprile 2017 Vorremmo che non fosse così, ma anche nei Paesi del G7 la violenza contro le donne è fenomeno ampio e diffuso e il problema non è risolto. Insieme, totalizzano 4608 omicidi di donne in un anno, più della metà di questi omicidi è opera di partner o ex. È un dato che parla da solo. Dunque, la violenza più diffusa per le donne è quella domestica, la violenza inattesa giunge da parte di chi la donna ama o ha amato. Nel gruppo dei 7, gli Stati Uniti sono il Paese che presenta i valori più alti. Ma i femminicidi sono solo la punta di un iceberg, prima vengono maltrattamenti, violenza fisica, psicologica, economica, sessuale, stalking. Si tratta di violenza di genere, cioè le donne la subiscono in quanto donne, riguarda trasversalmente donne di tutte le classi sociali. Esistono, però, gruppi più vulnerabili di altri. In Italia, sono le donne migranti che subiscono la violenza più grave, e anche le donne disabili sono molto esposte. Negli Stati Uniti, le donne nere sono più colpite delle bianche, in Canada le donne aborigene. Le forme della violenza possono assumere caratteristiche diverse e più gravi, se si combinano con altri fattori come l’orientamento sessuale, la religione, l’ origine etnica, la classe sociale, l’età, la nazionalità, la disabilità. La vulnerabilità si accentua laddove l’empowerment economico delle donne è basso e la maggior parte delle donne non lavora, dipendendo tra l’altro dal permesso di soggiorno del marito, come nel caso italiano delle marocchine e delle albanesi. Le donne migranti di alcune comunità specifiche sono anche più esposte al traffico di esseri umani e alle mutilazioni genitali, problema presente per i Paesi del G7 con movimenti migratori di particolari comunità ed etnie. La violenza contro le donne pone una barriera all’empowerment femminile, cioè allo sviluppo della libertà e indipendenza delle donne, genera paura e insicurezza nella loro vita e rappresenta un grande ostacolo al raggiungimento della parità, dello sviluppo, del benessere. Vittime sono anche bambini e bambine che assistono alla violenza della loro madre, e rischiano di vedere la loro vita futura fortemente segnata da questa esperienza. È diffusa l’idea che in presenza di tante vittime si debba correre ai ripari attraverso politiche di sola tutela e di aiuti alle donne. In realtà non basta, la via è un’altra. Per combattere la violenza è necessario sviluppare programmi di empowerment, azioni che potenzino la libertà delle donne. Le politiche, le stesse pratiche delle associazioni devono rapportarsi alle donne non come a vittime e soggetti vulnerabili, ma a soggetti che possono essere protagonisti del percorso di uscita dalla violenza, pratica che da tanti anni viene portata avanti dai centri antiviolenza e anche in strutture pubbliche sanitarie di eccellenza. Si tratta di sviluppare azioni che potenzino la libertà femminile, sostenere i centri antiviolenza, che già mettono in pratica questo approccio da anni nei vari Paesi, potenziare e formare adeguatamente gli operatori e le operatrici dei servizi sociali, sanitari, di polizia, le forze armate, perché agiscano in un’ottica di empowerment femminile. La sinergia di tutti gli attori in campo è la chiave del successo di queste politiche. Per prevenire, e contrastare la violenza contro le donne, c’è bisogno di una grande rivoluzione culturale che abbatta gli stereotipi di genere in tutti i Paesi e metta in discussione profondamente la radice della violenza contro le donne, il desiderio di dominio dell’uomo sulla donna. C’è bisogno di una grande offensiva educativa nelle scuole e più in generale nella società a tutti i livelli, verso gli uomini perché perdano il loro desiderio di possesso e per le donne, per far crescere il loro livello di autostima, fondamentale antidoto contro la violenza. C’è bisogno che gli uomini scendano in campo e non solo le donne. E che i media si facciano sentire, ma nel modo giusto, rinunciando alle immagini femminili irrispettose e stereotipate e dando spazio paritario alle donne e alle loro vite reali in trasmissione. È venuto il momento di lavorare intensamente in sinergia su questo a livello di G7, imparando gli uni dagli altri, perché i problemi sono gli stessi. Sarebbe un grande passo in avanti per tutti. Egitto. Il muro di sabbia che protegge gli assassini di Regeni di Carlo Bonini La Repubblica, 7 aprile 2017 La fine di Giulio, torturato e ucciso al Cairo a 28 anni, ricostruita con documenti e testimonianze inedite in una grande inchiesta multimediale: un dossier di otto pagine in edicola venerdì e una serie di cinque puntate online su Repubblica.it. E un docu-film di 52 minuti che verrà presentato sabato alle 19 in anteprima al Festival internazionale di giornalismo di Perugia e successivamente in televisione e in streaming. Quattordici mesi sono un tempo lunghissimo per chi ha perso un figlio e chiede di conoscere i nomi dei responsabili del suo omicidio. E sono un tempo lunghissimo per uno Stato sovrano che esige non una qualsiasi verità ma una verità solida. Ebbene, a distanza di 14 mesi gli assassini e i mandanti dell’omicidio di Giulio Regeni non hanno ancora un nome. E tuttavia questo tempo non è trascorso inutilmente. Di quanto accaduto al Cairo tra il 25 gennaio e il 3 febbraio 2016 si conoscono oggi sufficienti circostanze che consentono di documentare, al di là di ogni ragionevole dubbio, il pieno coinvolgimento nella fine di Giulio Regeni di appartenenti agli apparati di sicurezza egiziani. Di più: il pieno e consapevole depistaggio della ricerca della verità di almeno uno dei due uomini forti del Regime, il ministro dell’Interno, Abdel Ghaffar, autorità politica cui fa capo l’ubiquo servizio segreto interno egiziano, la National security. Le mosse dilatorie del Regime di Al Sisi, le sue menzogne, cominciate nell’immediatezza del ritrovamento del corpo di Giulio, non sono finite. E la ragione è che mai, come in questo momento, gli apparati della sicurezza egiziana sono in un angolo cieco. E, con loro, il vertice politico del Paese. Per questo Repubblica, a chiusura di oltre due mesi di lavoro e ricerche, ha deciso di rimettere insieme i frammenti di questa vicenda. Arricchendoli di dettagli oggi cruciali. Di testimonianze inedite, a cominciare da quelle dei genitori di Giulio, dell’ex ambasciatore al Cairo, Maurizio Massari, degli investigatori che stanno lavorando al caso. Di materiali audio e video inediti. Il tutto per dare un senso, una logica, dunque una sequenza non meramente cronologica a quanto accaduto. E di dimostrare quanto riassunto nel titolo del Super 8 che sarà pubblicato domani: Il muro di sabbia. Per descriverlo era necessario, per la prima volta, uno sforzo multimediale. Un giornalismo che tenesse insieme l’immagine e la parola. Declinato su tutte le piattaforme e nei diversi formati che queste consentono. Nella consapevolezza che ogni formato ha un suo linguaggio e una sua forza specifica. Che lì dove fatica ad arrivare la forza della scrittura, arriva quella del linguaggio per immagini. E viceversa. Repubblica, insieme a 42° Parallelo, ha per questo realizzato un docu-film di 52 minuti intitolato "Nove giorni al Cairo - Il sequestro e l'omicidio di Giulio Regeni" che verrà presentato sabato alle 19 in anteprima al Festival internazionale di giornalismo di Perugia e successivamente in televisione e in streaming e una web serie in cinque puntate che sarà su Repubblica.it dalla prossima settimana e che seguiranno, appunto, la pubblicazione di un’inchiesta di otto pagine con il Super 8 di domani. "Un’inchiesta per Giulio" è il titolo che abbiamo dato all’intero progetto. Perché la verità sulla sua morte è questione civile che riguarda e interpella ciascuno di noi. Siria. Gli Stati Uniti lanciano attacco contro base aerea: oltre 50 missili di Francesca Caferri La Repubblica, 7 aprile 2017 Messaggio del presidente americano dopo il raid: "Non si possono discutere responsabilità su uso armi chimiche". La Russia e Assad: "Atto di aggressione", e chiede la riunione urgente dell'Onu. Appoggio a Trump da Israele e Gran Bretagna. Damasco: "Morti 5 militari". Con 59 missili Tomahawk lanciati da due portaerei al largo del Mediterraneo Donald Trump dà una svolta alla sua presidenza e a sei anni di guerra in Siria. La reazione americana per la strage di Khan Sheikhoun in cui martedì mattina sono morte più di 80 persone, fra cui 28 bambini, è arrivata poco dopo le 8.30 ora di New York, quando nel Mediterraneo era notte (le 2.30 in Italia). Gli americani hanno preso di mira la base di Al Shayrat da cui, secondo le loro informazioni, erano partiti gli aerei con le armi chimiche. Prima di colpire, riferiscono fonti del Pentagono ai media Usa, i russi sarebbero stato avvertiti, ma su questo punto non c'è una conferma ufficiale. E l'attacco porterà "danni considerevoli" alle relazioni tra Russia e Stati Uniti, si legge nella nota del Cremlino. Il raid "viola la legge internazionale. Washington ha compiuto un atto di aggressione contro uno Stato sovrano", ha detto il presidente russo Vladimir Putin, citato dal portavoce del Cremlino Dmitri Peskov, secondo i media russi. Poco dopo che la notizia del bombardamento è diventata ufficiale, da Mar-a -Lago, residenza in Florida dove si trova per il vertice con l'omologo cinese Xi Jin Ping, Trump ha dichiarato spiegato la decisione: "Martedì il dittatore della Siria, Bashar al-Assad, ha lanciato un terribile attacco con armi chimiche contro civili innocenti, uccidendo uomini, donne e bambini. Per molti di loro è stata una morte lenta e dolorosa. Anche bambini piccoli e bellissimi sono stati crudelmente uccisi in questo barbaro attacco. Nessun bambino dovrebbe mai soffrire tale orrore". Poi ha annunciato: "Questa sera ho ordinato un attacco mirato contro la base da cui è partito l'attacco chimico. È un interesse vitale degli Stati Uniti prevenire e fermare la diffusione e l'uso di armi chimiche mortali", ha detto. La Siria, ha aggiunto, "ha ignorato gli avvertimenti del Consiglio di sicurezza dell'Onu" perché "non si possono discutere le responsabilità della Siria nell'uso delle armi chimiche". Per rivolgersi infine "a tutte le nazioni civilizzate" per chiedere di interrompere il bagno di sangue in corso: "Il mondo - ha detto Trump - si unisca agli Usa per mettere fine al flagello del terrorismo". L'operazione è scattata alle 2,45, ora italiana. I missili, lanciati da due navi americane presenti nel Mediterraneo, avrebbero colpito piste, velivoli e zone di rifornimento. Secondo fonti militari siriane e esplosioni avrebbero causato vittime. Reazioni contro. La televisione di Stato siriana definisce il raid missilistico "un'aggressione" da parte degli Stati Uniti. I missili avrebbero colpito piste, velivoli e zone di rifornimento. Cinque militari siriani, secondo l'Osservatorio siriano per i diritti umani (Osdh), sono rimasti uccisi. L'Iran anche ha condannato "energicamente" i bombardamenti e ritiene che "rafforzino i gruppi terroristici". Il portavoce del ministero degli Esteri, Bahran Ghasemi, ha detto che gli attacchi stati "un'azione unilaterale pericolosa, distruttiva e che viola i principi del diritto internazionale". Il governo russo ha annunciato la richiesta della riunione urgente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Reazioni a favore. Trump è appoggiato dal premier israeliano Netanyahu ("Messaggio Usa forte e chiaro, siamo con loro") e della premier inglese Theresa May che parla di "risposta appropriata" all'attacco barbaro con armi chimiche lanciato dal regime siriano. L'Arabia Saudita anche dà il suo "pieno appoggio" all'attacco statunitense. Lo ha dichiarato una fonte del ministero degli Esteri di Riad, citata dall'agenzia di stampa ufficiale Spa. La fonte ha quindi elogiato il presidente Usa Donald Trump, definendolo "coraggioso", e sottolineato al contrario che "la comunità internazionale ha fallito nel fermare le azioni del regime". Nel corso della giornata di ieri, era trapelata notizia che il Pentagono stesse studiando i piani per un intervento militare in Siria. L'opzione scelta da Trump - attacco mirato da una portaerei - è secondo gli esperti Usa la più restrittiva fra quelle che gli aveva messo sul tavolo il segretario alla Difesa Jim Mattis. Il Pentagono temeva che l'uso di aerei avrebbe fatto scattare la contraerea e l'aviazione russa. Ma è destinata comunque a scatenare polemiche: Trump è intervenuto senza chiedere l'autorizzazione del Congresso, come lo autorizzano a fare le leggi approvate dopo l'11 settembre, ma come aveva scelto di non fare il suo predecessore, Barack Obama. Che nel 2013 fermò all'ultimo minuto un attacco militare contro la Siria - che pure aveva usato armi chimiche contro la popolazione civile - giustificando la sua scelta con la contrarietà del Congresso. Attacco Usa alla Siria, è tornato il "gendarme del mondo" di Vittorio Zucconi La Repubblica, 7 aprile 2017 È tornato il "gendarme del mondo", nella figura di quel Presidente Trump che aveva promesso di porre "America First" e il resto del mondo ben dietro il suo ritrovato super nazionalismo, E ora la domanda è: come risponderà Vladimir Putin al salvo di 59 missili Cruise "mirati", ha detto Trump, sulla base aerea della Siria dalla quale partì l’attacco con armi chimiche contro il suo protetto e principale cliente in Medio Oriente, Bashar al-Assad’ Accetterà Mosca, che continua a negare che quelle armi chimiche siano state impiegate da Assad, di permettere che il suo cliente siriano sia preso a schiaffi dagli americani senza reagirè Per spiegare la sua repentina conversione da isolazionista e gendarme che punisce chi viola la legge, Trump ha detto, in un breve, e molto ansimante discorso, che la rappresaglia missilistica era "nell’interesse nazionale degli Stati Uniti" anche se nessun soldato o civile americano, nessuna installazione americana è stata colpita in quel massacro, ma la vera ragione era punire chi si era macchiato di "orribili crimini". Di fatto, dopo avere predicato la religione del neo isolazionismo anche Trump torna a recitare la parte del "gendarme del mondo" che muove per fermare o per punire chi viola sfacciatamente i minimi standard delle norme internazionali, come già Clinton fece in Serbia e Bush pretese di fare in Iraq, contro il "macellaio di Baghdad" e il suo inesistente arsenale chimico e nucleare, Saddam. Ma lo stormo di Tomahawk con testate da mezza tonnellate di esplosivo convenzionale ciascuna non è la guerra, non è la spallata militare che potrà far cadere Assad, non è - ancora - una riedizione della sciagurata strategia del "Cambio di Regime" che tanto bene ha fatto al mondo arabo dopo l’invasione dell’Iraq nel 2003. È un "segnale", come stanno dicendo dalla serata di Washington, gli specialisti, ma un "segnale" a chì Quei missili, che volano a velocità subsonica e a quote relativamente modeste, hanno sorvolato, partendo dalle unità della US Navy nel Mediterraneo che li hanno lanciati, le aree della Siria controllate dall’Armata Russa, come la base aereo-navale di Lantaka e sicuramente i radar russi li hanno visti e tracciati. Mosca e i suoi militari in Siria erano stati preavvertiti, per evitare equivoci e per chiarire da subito che quei missili non erano diretti contro installazioni o personale loro. Ma se gli obiettivi militari non erano le forze di Putin, l’obiettivo politico diventa sicuramente lui, il Lord Protettore senza il quale Bashar al-Assad sarebbe forse già caduto, sotto la spinta congiunta dei ribelli assortiti e delle milizie dell’Isis. Se questa azione, più spettacolare che militarmente devastante, più diretta a dimostrare agli americani che Trump è uomo d’azione e non un guerriero riluttante come Obama, sarà letta da Putin per quello che è, una pura dimostrazione di forza e di decisionismo di un Presidente americano disperatamente alla ricerca di un colpo di scena per risollevare il proprio prestigio cadente, non ci saranno reazioni più che retoriche da Mosca. Ma il gioco nel quale Trump si è gettato, sperando che questa azione largamente dimostrativa e molto "chirurgica" come sempre si dice, sia conclusa in se stessa, è, come tutte le azioni di forza, non una porta che si chiude, ma una porta che si apre. Riprendendo le armi che Obama non aveva voluto usare, se non con occasionali attacchi di droni, Trump ha voluto dire di essere pronto alle azioni militari almeno a distanza e l’ha fatto nella sera nella quale era a cena con il Presidente Cinese Xi, a sua volta protettore di un altro sinistro despota, il coreano Kim. Si vuole sperare, contro le lezioni del passato, che questa porta aperta non lasci passare nuove escalation e azioni simili, magari allargandosi contro la Corea del Nord protetta dall’ospite a cena di Trump, perché ogni conflitto, dimostrativo o punitivo che sia, è sempre molto più difficile da chiudere che da aprire. E la parola, oggi, è a Putin. Australia. Quando la sofferenza dei rifugiati produce profitti di Riccardo Noury Corriere della Sera, 7 aprile 2017 Nel 2012 l’Australia ha inaugurato un sistema volutamente crudele di "gestione offshore" sull’isola di Nauru e su quella di Manus, appartenente a Papua Nuova Guinea. I richiedenti asilo e i rifugiati sono isolati in località remote e vengono sottoposti a trattamenti crudeli e degradanti, in alcuni casi per anni, solo per aver cercato riparo sulle coste australiane. Nel suo rapporto "L’isola della disperazione", reso pubblico nell’ottobre 2016, Amnesty International aveva denunciato la violazione intenzionale e sistematica, da parte dell’Australia, dei diritti dei richiedenti asilo e dei rifugiati e che le condizioni nell’isola di Nauru erano così volutamente crudeli da arrivare a costituire tortura. Ora, un nuovo rapporto di Amnesty International rivela che la crudeltà produce affari lucrosi. I due centri di Nauru e Manus sono gestiti dall’australiana Broadspectrum, acquisita dalla spagnola Ferrovial nell’aprile 2016. Nell’anno finanziario 2016, le attività di Broadspectrum che riguardano i due centri hanno prodotto 1,646 miliardi di dollari australiani, un incredibile 45 per cento del totale delle entrate dell’azienda. Da quando ha acquisito Broadspectrum, Ferrovial ha accumulato ricavi per 1,4 miliardi di euro, buona parte dei quali grazie alle attività a Nauru e Manus. Il valore totale del contratto tra il governo australiano e Broadspectrum - che terminerà a ottobre - è di 2,5 miliardi di dollari australiani in tre anni e mezzo. Se comparato ad altri ambiti in cui opera Broadspectrum, è evidente che si tratta di un contratto più che conveniente. Il suo margine di profitto del settore Difesa, sociale e proprietà - che comprende le attività svolte a Nauru e Manus - era del 17,8 per cento nell’anno finanziario 2016, enormemente più alto rispetto al 2,8 per cento del settore Infrastrutture e all’1,6 per cento del settore Risorse e industria. I ricavi di Ferrovial dal settore Servizi - in cui sono incluse le operazioni di Nauru e Manus - è invece aumentato del 24,1 per cento nel 2016, l’anno dell’acquisizione di Broadspectrum. Mentre Ferrovial e Broadspectrum fanno ampi profitti, le persone intrappolate sull’isola di Nauru trascorrono un’esistenza inimmaginabilmente tetra, con poche speranze di uscirne fuori. Non solo è stato negato loro l’ingresso in Australia ma non sanno neanche se e quando sarà loro permesso di lasciare Nauru. Recentemente si è parlato di un accordo con gli Usa. Persino persone riconosciute rifugiate non possono lasciare l’isola. I richiedenti asilo e i rifugiati subiscono aggressioni, anche di natura sessuale, da parte del personale del centro e nessuno viene chiamato a risponderne. Broadspectrum non solo è a conoscenza delle condizioni in cui si trovano i richiedenti asilo e i rifugiati ma in alcuni casi i suoi impiegati e personale in subappalto (quello della Wilson Security) si sono resi responsabili di comportamenti negligenti e abusivi. Alla data 30 del aprile 2015 erano state presentate nei loro confronti 30 denunce di abusi su minori, 15 denunce di aggressioni sessuali o stupro e quattro denunce relative a prestazioni sessuali in cambio di fornitura di merce di contrabbando. Il governo australiano ha orgogliosamente difeso l’intenzione di far soffrire le persone trattenute a Nauru e Manus con l’obiettivo di far desistere altri richiedenti asilo dal tentativo di entrare irregolarmente in Australia. Nonostante questa candida ammissione, nessuno vuole assumersi la responsabilità di quanto accade nel centro di Nauru. Broadspectrum ha risposto ad Amnesty International che "non opera nel centro" e lo stesso ha fatto sapere Ferrovial. Il governo australiano a sua volta afferma che il centro è gestito dal governo di Nauru, che ha addossato ad altri la responsabilità. Dalle ricerche di Amnesty International è emerso invece che Broadspectrum gestisce quotidianamente il centro e esercita un controllo effettivo sulla vita quotidiana dei richiedenti asilo e dei rifugiati, per conto del governo australiano e con la supervisione e il controllo finali di quest’ultimo. Il governo australiano sta facendo di tutto per nascondere la reale dimensione delle violazioni in corso a Nauru e Manus: gli operatori sanitari che denunciano le condizioni di vita possono incappare in un reato penale mentre ai fornitori di servizi è richiesto di sottoscrivere una clausola di confidenzialità. In un documento interno trapelato all’esterno, Broadspectrum ha avvisato i suoi dipendenti che possono essere licenziati se forniscono informazioni sulle attività svolte a Nauru. La segretezza si estende anche al contratto sulla base del quale Broadspectrum e Wilson Security operano a Nauru e Manus, le cui clausole non sono completamente pubbliche. Ferrovial ha annunciato che, alla scadenza di ottobre 2017, non rinnoverà il contratto e si prevede che il governo australiano pubblichi un bando per una nuova fornitura di servizi. Amnesty International sta chiedendo a Ferrovial di porre fine al più presto alle sue operazioni a Nauru e Manus e sollecita tutte le aziende a non subentrarle.