Scarcerazioni facili? I dati smentiscono gli allarmisti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 aprile 2017 Si fa confusione con l’utilizzo delle misure alternative. Arresti domiciliari e misure alternative non significano libertà. Dai dati forniti dal Dap risulta che in carcere, al 31 dicembre 2016, ci sono 12.191 detenuti per furto (7.917 italiani e 4.274 stranieri), dei quali 9.589 condannati, mentre quelli reclusi per rapina sono 16.765 (12.344 italiani e 4421 stranieri), con 11.920 condannati. Va considerato, chiaramente, che ci sono anche le persone che vengono prosciolte perché innocenti e altre che non sono messe in libertà, ma ai domiciliari o affidati ai servizi sociali per la messa alla prova. La maggioranza, quindi, rimane in carcere. Da qualche giorno su alcuni quotidiani sta prendendo piede una tesi secondo la quale ci sarebbe un boom di scarcerazioni dovuto dallo "svuota carceri". In particolar modo, in un articolo di Repubblica, si fa riferimento ai condannati per rapine e furti nelle abitazioni che non rimangono in carcere quanto dovrebbero. Ancora una volta si invoca mancata certezza della pena. In realtà i fatti sono diversi. In questi anni, grazie anche al lavoro di giuristi, associazioni come Antigone e movimenti e partiti politici, con i Radicali in testa, ha preso sempre più piede l’idea che il carcere non è sempre la soluzione per punire e riabilitare chi sbaglia nella vita. Per questo motivo i legislatori hanno studiato delle leggi che puntano alle misure alternative, esecuzioni penali esterne, lavoro di pubblica utilità e messa alla prova. Il decreto "svuota carceri", diventato legge nel febbraio 2014 è stato un provvedimento che puntava a sfoltire la presenza nelle carceri, in virtù di alcune misure che prevedono sconti di pena, incremento dell’uso del braccialetto elettronico e innovazioni relative all’affidamento in prova ai servizi sociali. Uno solo dei provvedimenti adottati ha avuto caratteristica eccezionale: si tratta del provvedimento di "liberazione anticipata speciale" che per cinque anni ha aumentato la riduzione discrezionale - secondo parametri normativamente definiti - della sentenza residua per ogni semestre di comportamento detentivo di positiva adesione al programma trattamentale, portandola da 45 a 75 giorni. Il provvedimento è stato previsto solo per il quinquennio 2010 - 2015, in funzione chiaramente deflattiva. L’introduzione più rilevante - che prima riguardava solamente i detenuti minorenni - è l’istituto giuridico della sospensione del procedimento penale con messa alla prova per gli adulti. La sua introduzione nell’ambito penale degli adulti ha effetti sull’espansione del sistema penale esterno e rafforza di contenuto rieducativo l’esecuzione delle misure non detentive e di comunità richiedendo, alla persona alla quale viene concesso, di aderire a un progetto, che può includere lavori di pubblica utilità e azioni di riparazione del danno commesso o a favore della vittima. Se negli ultimi tre anni in ambito minorile le cifre dei casi di sospensione del procedimento penale con messa alla prova non hanno subito grandi variazioni oscillando di poche centinaia tra un anno e l’altro (al 31 dicembre 2016 si contavano 3.581 casi contro i 3.340 dell’anno precedente), la portata della diffusione dell’utilizzo del recente istituto giuridico diventa palese nell’ambito degli adulti: l’incremento dei casi di sospensione del procedimento è particolarmente importante, dai dati messi a disposizione dal ministero della Giustizia si passa da 511 nel 2014 a 9598 al 31 marzo di quest’anno. Al 31 dicembre 2016, sempre secondo via Arenula, sono 12811 i detenuti in affidamento in prova, 756 in semilibertà e 9857 ai domiciliari. Come ha illustrato recentemente il garante nazionale Mauro Palma nella sua relazione annuale, l’introduzione di istituti giuridici diversi dalla reclusione "permette di superare l’impraticabilità di fatto dell’osservazione scientifica della persona all’interno del carcere e il rischio di produrre un mero "alloggiamento" di persone delle quali non è possibile prevedere un trattamento individualizzato perché spesso sconosciute agli operatori penitenziari". Diverse ricerche hanno dimostrato che attraverso un percorso diverso, soprattutto con l’esecuzione penale esterna, si ha un’importante riduzione della recidiva. Tradotto vuol dire più sicurezza per i cittadini. Andando sullo specifico, ovvero sulla percezione che chi fa rapine non finisce in galera, prendiamo in esame i dati generali, forniti dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, al 31 dicembre 2016 dai quali risulta che in carcere ci sono 12191 detenuti per furto (7917 italiani e 4274 stranieri), dei quali 9589 condannati, mentre quelli reclusi per rapina sono 16765 (12344 italiani e 4421 stranieri), con 11920 condannati. Va considerato, chiaramente, che ci sono anche le persone che vengono prosciolte perché innocenti e altre che non sono messe in libertà, ma ai domiciliari o affidati ai servizi sociali per la messa alla prova. La maggioranza, quindi, degli arrestati rimane in carcere. Il vero allarme è che si utilizza ancora troppo poco l’affidamento in prova visto che viene concessa quando c’è una situazione familiare e lavorativa idonea a supportare questa ultima fase dell’esecuzione della pena. Sono misure necessarie anche per contenere l’evidente trend di crescita del sovraffollamento carcerario. Anche l’ultimo dato del Dap, aggiornato al 31 marzo conferma la crescita del tasso di detenzione: 56.289 reclusi su - senza considerare le celle inagibili che si stimano intorno alle 5000 - una capienza massima di 50.177 posti. La certezza della pena, costituzionalmente riconosciuta, si confonde molto spesso con la certezza del carcere. Dal 1975 il nostro Ordinamento penitenziario prevede che il magistrato di Sorveglianza possa modificare la pena stabilita dal giudice della cognizione, se questo serve alla rieducazione come impone la Costituzione, e ciò soprattutto nella parte finale dell’espiazione, attraverso le misure alternative. Molto spesso l’informazione, dove ci specula gran parte della politica, fornisce percezioni errate. Le misure alternative costituiscono una modalità diversa di espiare la pena, non è assolutamente libertà piena. Prendiamo in esame la semilibertà. Significa esattamente che la persona detenuta sta in carcere di notte e di giorno esce a lavorare. Non una libertà totale quindi, ma una semi- libertà e una persona ha un lavoro, a un certo punto della pena può esserle concesso di esercitarlo fuori dal carcere, ma sotto controllo, con grosse e giuste limitazioni, e se viola le prescrizioni può essergli revocata la misura; quindi egli è ancora completamente all’interno della struttura penitenziaria, salvo la possibilità di uscire per alcune ore e solo per lavorare. Questo è di uno dei maggiori fattori di rieducazione: attraverso il lavoro una persona comincia a risocializzare con gli altri, a guadagnare lecitamente, ad apprendere un mestiere. Prendiamo in esame una seconda misura alternativa come la detenzione domiciliare. Si tratta di un beneficio per alcune tipologie di condannati, perché è meglio espiare la pena a casa che in carcere, però comunque ha una forte natura contenitiva e restrittiva, perché il condannato non può uscire per lavorare, non può uscire per portare i bambini a scuola: ha delle restrizioni che comunque gli consentono per il momento di rientrare nella famiglia dove poi dovrà rimanere quando la pena sarà terminata. Quindi un po’ alla volta si abitua al rientro nella società, dove prima o poi dovrà tornare. Ciò non vuol dire non punire ed evitare la certezza della pena, ma riabilitare ed evitare la recidiva per il loro bene e del Paese intero. Ecco perché le misure alternative al carcere dovrebbero essere concesse, senza allarmismi, con più facilità. Le donne delinquono meno degli uomini ma in carcere trovano condizioni peggiori di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 aprile 2017 A sei anni dalla legge di riforma per le madri detenute sono ancora una quarantina i bambini che vivono in cella, sono ancora poche quelle in Icam, mentre 9 sono in gravidanza. Si può parlare di "questione di genere" anche per quanto riguarda le carceri. Le condizioni di detenzione delle donne appaiono infatti di gran lunga peggiori di quelle maschili. È quanto si evince da un dossier del Servizio Studi del Senato dal titolo "Emergenza carceri. Tra sovraffollamento cronico, condanne Ue e legislazione svuota-penitenziari". Le donne delinquono di gran lunga di meno degli uomini: in tutto il decennio 2006-2016 la loro incidenza è inferiore al 5% dell’intera popolazione detenuta. Eppure ciò, invece di costituire un fattore da valorizzare, si è trasformato in un "elemento penalizzante", come ha rilevato il Garante Nazionale dei detenuti nella propria Relazione. In particolare le sezioni femminili delle carceri "rischiano di essere reparti marginali - si legge nel dossier - in cui le donne hanno meno spazio vitale, meno locali comuni, meno strutture e minori opportunità rispetto agli uomini". Il divario emerge anche nelle attività di intrattenimento, che risentono di una visione stereotipata che relega le donne a soli lavori sartoriali o culinari, riservando agli uomini invece le più "nobili" attività di informatica e di tipografia. C’è poi il capitolo delle detenute con figli piccoli. A sei anni dalla legge di riforma delle madri sono ancora una quarantina i bambini che vivono nelle carceri con le loro madri. Per le detenute mamme il legislatore ha inteso privilegiare il ricorso a istituti a custodia attenuata come le case (Icam), ampliando anche l’ambito di applicazione della detenzione domiciliare speciale per le detenute con figli. I dati mostrano però come la presenza di detenute in Icam, a partire dal 2014, appaia poco significativa, con numeri pari a sole 3 o 4 unità. Quanto al numero delle detenute presenti in carcere insieme ai figli minori, al 31 dicembre 2011 se ne contavano 51, scese a 40 al 31 dicembre del 2012 e del 2013, e diminuite ulteriormente a 27 nel 2014 (con 28 bambini). Nel 2015 c’è stato un deciso incremento (50 bambini e 49 madri in detenzione) e nel 2016 una nuova riduzione (34 madri e 37 bambini). Molto variabile, ma sempre al di sotto delle 20 unità, il numero delle detenute in stato di gravidanza, che dalle 13 del 2011 sono scese alle 9 del 2016, con un picco nel 2013 pari a 17. Il dossier sottolinea che l’Italia non è ancora in grado di garantire il rispetto di quegli standard di vivibilità detentiva che ci viene richiesto dal Consiglio d’Europa. Il nostro paese infatti è sesto nel ranking europeo per affollamento penitenziario. A partire dal 2016 il tasso di affollamento del nostro sistema carcerario - pur essendo di gran lunga più basso rispetto al picco raggiunto nel 2010 - appare in lenta risalita. Nel 2015 gli istituti penitenziari italiani ospitavano 49.592 persone, pari al 105% dei posti letto disponibili (cioè c’erano 105 persone ogni 100 posti). Nel 2016 la popolazione detenuta è salita a 50.228, con un tasso di sovraffollamento pari al 109%. Tale trend sembra essere peraltro confermato dalle ultime rilevazioni dell’amministrazione penitenziaria: al 28 febbraio 2017 i detenuti sono circa 56mila con un tasso di sovraffollamento intorno al 111%. Ancora più evidenti sono i tassi di sovraffollamento rilevabili a livello regionale. Sono ben 10 le Regioni con un tasso di sovraffollamento superiore al totale nazionale: la Puglia (140%); la Lombardia (132%); il Molise (131%); la Liguria (130%); il Friuli Venezia Giulia (127%); la Basilicata (127%); l’Emilia Romagna (122%); il Lazio (119%); la Campania (116%) e il Veneto (115%). "Il cammino verso una più umana concezione della detenzione può dirsi perciò non ancora concluso - si legge nel dossier - anche se l’8 marzo 2016 il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa ha deciso di archiviare la procedura di esecuzione delle sentenze contro l’Italia in tema di sovraffollamento carcerario, valutando positivamente l’attuazione del Piano presentato nei sei mesi successivi alla famosa sentenza Torreggiani!. Cambia il lessico carcerario: la cella diventa "camera di pernottamento" di Federica Cravero La Repubblica, 6 aprile 2017 Una circolare del direttore del Dap rivoluziona il gergo: "Ci adeguiamo all’Europa". La cella non si chiamerà più così, ma "camera di pernottamento". E chi in carcere prende le ordinazioni per il sopravvitto non dovrà essere più definito "spesino", ma "addetto alla spesa dei detenuti", così come non si potrà più usare il termine "scopino" per il detenuto che si occupa tenere puliti i locali preferendogli la perifrasi "addetto alle pulizie" e non si dirà più "piantone", ma "addetto alla persona" per indicare il detenuto che viene pagato per assistere il compagno di cella che, dietro certificazione medica, non riesce a badare a sé stesso. Sono alcuni degli esempi che compaiono in una circolare inviata dal direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Santi Consolo, che ha divulgato le nuove disposizioni in tutti gli istituti di pena del territorio italiano per adeguarsi alle regole europee: "La vita all’interno del carcere deve essere il più possibile simile a quella esterna e questa assimilazione deve comprendere anche il lessico - si legge nel documento. I termini attualmente utilizzati nelle carceri riferiti ai detenuti sono spesso avulsi da quelli comunemente adottati dalla collettività ed è causa di una progressiva e deprecabile infantilizzazione, di un isolamento del detenuto dal mondo esterno che crea ulteriori difficoltà per il possibile reinserimento, oltre ad assumere in alcuni casi una connotazione negativa". In realtà il termine "camera di sicurezza" compare fin dal 2000 nel regolamento penitenziario "e si tratta di una disposizione che non ha solo valore lessicale - spiega Domenico Minervini, direttore della saca circondariale Lorusso e Cutugno di Torino - L’espressione si riferisce al fatto che le carceri dovrebbero prevedere una zona giorno in cui trascorrere gran parte del tempo e una zona notte da usare quasi solo per dormire. In realtà il problema è che in molti istituti di vecchia concezione è difficile strutturare gli spazi in questo modo. A Torino tre anni fa si iniziò a tenere le porte delle celle aperte per tutta la giornata e proprio in questi giorni si sta mettendo mano ai cortili di passeggio dei tre padiglioni più affollati per sistemare un tappeto sintetico per l’attività sportiva e migliorare tettoie e bagni permettendo così ai detenuti di trascorrere più tempo all’aperto". Tuttavia, oltre alla "camera di pernottamento", la circolare del capo del Dap va a toccare un gergo consolidato dietro le sbarre: lo "stagnino" per l’idraulico, il "cuciniere" per l’addetto alla cucina, il "lavorante" per chi ha un lavoro in carcere, la "dama di compagnia" che adesso si chiamerà "compagno di socialità". Ed è difficile immaginare che nel linguaggio tra detenuti le nuove disposizioni possano attecchire. "Tuttavia è importante che nelle comunicazioni formali e anche nel linguaggio usato dal personale vengano impiegate queste nuove espressioni", conclude Minervini. Critici invece i sindacati della polizia penitenziaria, che irridono il provvedimento. In particolare l’Osapp, con il segretario Leo Beneduci, parla di "un’Amministrazione ormai giunta alla frutta" che dovrebbe invece "affrontare e risolvere i gravissimi problemi del personale di polizia penitenziaria e della popolazione detenuta nell’attuale e scadente sistema penitenziario italiano". Le "innocenti evasioni" del Comitato europeo per la prevenzione della tortura di Mattia Feltri La Stampa, 6 aprile 2017 Un bel giorno i signori del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (che impegno gravoso!) hanno visitato le nostre carceri per vedere se è tutto a posto. E invece, guarda un po’, sono rimasti scandalizzati da quello che hanno trovato: un’autentica piaga. Il sovraffollamento? Sì ma non è proprio una piaga. I detenuti in attesa di giudizio? Vabbè, ma la vera piaga non è quella. La vera piaga è il linguaggio. Pensate, nelle prigioni italiane non si dice idraulico, ma stagnino. Non si dice modulo di richiesta, ma domandina. Non assistente alla persona, ma piantone. Non addetto alle pulizie, ma scopino. Tenetevi forte: si usa il termine cella, invece del più propizio camera di pernottamento. Non siete allibiti? Questa, hanno spiegato, è infantilizzazione, è isolamento dal mondo esterno, complica il reinserimento. E la nostra amministrazione, così storicamente sensibile alle condizioni dei detenuti, è corsa ai ripari, ratta come la folgore. Una circolare urgentissima ha sistemato le cose: finalmente si dirà compagno di socialità invece di dama di compagnia, e addetto alla spesa invece di spesino. Che sollievo. Però rimane un dubbio: che quelli del Comitato, usciti dalla loro sede di Bruxelles, siano andati a destra anziché a sinistra e per errore abbiano visitato i penitenziari norvegesi. Perché se fossero passati da Regina Coeli o Poggioreale avrebbero suggerito di chiamarli "Ricoveri per diversamente suiformi", al posto di "spaventosi porcili". Contro il mercato della paura. Indagine su una grande balla italiana di Claudio Cerasa Il Foglio , 6 aprile 2017 I casi di cronaca nera si sono impossessati dell’agenda mediatica e stanno alimentando un mostro a tre teste chiamato "insicurezza". Problema: ma siamo davvero un paese insicuro? Indagine su una grande balla italiana. Il mercato della paura è il cugino del mercato del malumore e quando il sonno della politica (il congresso del Pd, zzzz) apre immense voragini sui giornali, crea sconvolgenti vuoti sui telegiornali e genera panico totale nei talk-show succede sempre quello che stiamo vedendo in questi giorni: i piccoli casi di cronaca nera si impadroniscono dell’agenda del nostro paese e improvvisamente il mondo dell’informazione entra in un cortocircuito letale all’interno del quale si alimenta un mostro chiamato insicurezza. A guardare con attenzione le notizie meglio valorizzate nelle ultime settimane dai giornali, dai telegiornali, dai talk-show e dalla classe politica, l’impressione è che l’Italia sia un paese integralmente dominato da giovani tossici pronti a uccidere il loro prossimo con una spranga, figli inevitabilmente destinati a essere rinchiusi in una valigia e gettati in mare, uomini pronti a uccidere le proprie compagne dopo averle likate su Facebook, padri tentati dall’uccidere i propri figli facendoli precipitare in un burrone, baristi o farmacisti destinati a essere preda di un qualche rapinatore senza scrupoli. Il sottotitolo di ogni notizia e di ogni articolo è più o meno sempre lo stesso: l’Italia è un paese sempre più insicuro che per colpa di una politica assente, che non sa rispondere come dovrebbe all’emergenza sicurezza, sta precipitando verso un baratro senza ritorno. Il ritorno poderoso della cronaca nera sulle prime pagine dei giornali e sulle copertine di molti talk-show è una scelta editoriale legittima ma che si fonda su un falso storico che nessuno ha il coraggio di denunciare, perché dicendo la verità su questo tema sarebbe più complicato per tutti trasformare episodi di cronaca locale in casi di scandali nazionali. La verità riguarda la risposta a una domanda precisa: ma l’Italia è o non è un paese insicuro? Qualche giorno fa abbiamo letto un bellissimo corsivo sulla Stampa di Mattia Feltri, che ha ricordato che gli omicidi in Italia calano ininterrottamente dal 1992, quando furono quasi tremila e cinquecento e che le rapine diminuiscono da tre anni. Dopo aver letto il corsivo di Feltri abbiamo preso tutti i dati messi a disposizione dall’Istat, dall’Eurostat e dal ministero dell’Interno, li abbiamo miscelati con un bellissimo rapporto sulla "Criminalità predatoria" realizzato nel novembre del 2016 dall’Associazione bancari italiani e abbiamo messo insieme un po’ di numeri per smontare una delle grandi fake news che tengono in ostaggio il nostro paese: l’insicurezza dell’Italia. La premessa ce la offre l’Istat, con un rapporto sulla sicurezza presentato il 7 dicembre 2016. Pronti? Via. "Il complesso degli indicatori soggettivi e oggettivi che misurano l’evoluzione della sicurezza nel nostro Paese mostra una generale tendenza al miglioramento. Continua la diminuzione degli omicidi, ma non nel caso delle donne vittime dei partner (o ex partner), e inizia a consolidarsi il calo dei reati predatori, con l’unica eccezione delle truffe informatiche. Nel contesto europeo, l’Italia si colloca tra i paesi con la più bassa incidenza di omicidi, mentre per quanto riguarda i furti e le rapine la situazione è ancora problematica. È sostanzialmente stabile la percezione della sicurezza, rispetto al 2009, mentre sono in miglioramento nel 2016 gli altri indicatori soggettivi. Diminuisce la preoccupazione per sé o per altri della propria famiglia di subire una violenza sessuale e si notano meno di frequente segni di degrado sociale nella zona in cui si vive. Inoltre, sono in calo alcune forme di violenze sessuali subite dalle donne". Basterebbe questo ma l’Istat va oltre. "In Italia, gli omicidi segnano una continua diminuzione dagli anni 90, quando il tasso raggiungeva il livello di 3,4 omicidi per 100 mila abitanti. Nel 2015, sono state uccise 469 persone (pari allo 0,8 per 100 mila abitanti), un numero che è diminuito di 4 volte in 25 anni. La diminuzione ha caratterizzato anche i tentati omicidi, 2 ogni 100 mila abitanti nel 2015, con un andamento analogo a quello degli omicidi (erano 3,9 ogni 100 mila abitanti nel 1991), sebbene più oscillante nei diversi anni". Si dirà: ma se non c’è un problema di sicurezza, ci sarà allora un problema legato alla percezione della sicurezza, sennò che senso avrebbe parlare a ogni ora del giorno dell’omicidio di Sarah Scazzi o della necessità di allargare il perimetro della legittima difesa? Scrive ancora l’Istat: "Anche sul fronte delle percezioni della popolazione emerge una situazione complessivamente positiva, si segnala una minore preoccupazione di subire una violenza sessuale, un più basso livello di degrado e una sostanziale stabilità delle persone che si sentono sicure". E per di più, ma guai a dirlo, "una netta diminuzione riguarda l’indicatore sulla preoccupazione di subire una violenza sessuale: nell’arco di sei anni la preoccupazione, per sé o per qualcuno della propria famiglia, è diminuita, passando dal 42,7 per cento del 2009 al 28,7 per cento del 2016". L’Italia del Far West non esiste ma l’emergenza sicurezza è diventata una nuova leva da usare come un manganello contro la casta della politica e in nome di questo principio si è perfettamente legittimati a trasformare l’episodio di cronaca in quello che diventa giorno dopo giorno lo specchio o l’anima di un paese. E di conseguenza si può fare anche a meno di guardare in faccia la realtà. Cambiamo documento e andiamo a prendere la relazione sullo stato della sicurezza in Italia presentata il 15 agosto del 2016 dal ministero dell’Interno. Dal 2011 al 2015 è successo questo: il numero totale di reati commessi è sceso del sette per cento; il numero totale dei furti è sceso del 9,2 per cento; il numero di rapine commesse è sceso del 10 per cento; il numero di omicidi commessi è sceso dell’il per cento passando dai 555 casi del 2011 ai 398 del 2015 (in tutta Italia ogni anno vengono uccise più o meno la metà delle persone uccise in un anno a Chicago, nel 2016 i morti sono stati 762); e confrontando i dati dei primi sei mesi del 2016 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, il totale dei delitti commessi è passato da un milione e 347mila, a un milione e 129 mila (-16,2 per cento). Passiamo al terzo documento, quello dell’Abi. Il dossier è stato strutturato sulla base dei dati operativi del dipartimento di Pubblica sicurezza del ministero dell’Interno. Riguarda la sicurezza di ambienti come le poste, le tabaccherie, le farmacie, gli esercizi commerciali, i distributori di carburante, il trasporto valori. Tenetevi forte. Punto primo: le rapine denunciate in Italia nel corso del 2015 sono state 34.957, pari ad un decremento del 10,9 per cento rispetto al 2014. In calo anche il tasso di rapine ogni 100 mila abitanti, passato da 64,6 rapine ogni 100 mila abitanti nel 2014 al 57,5 nel 2015. E non solo: "Il decremento registrato per il totale dei reati ha caratterizzato quasi tutte le categorie principali, tra le quali in particolare i furti di motocicli/ciclomotori (-9,9 per cento), i furti in abitazione (-8,6 per cento) e i furti con strappo (-7,2 per cento). L’unico incremento è stato registrato per i furti ai distributori di carburante (+2,4 per cento rispetto al 2014). Nel 2015 le rapine ai danni degli sportelli bancari sono state 772, pari a un calo del 2,4 per cento rispetto al 2014. Il trend degli ultimi anni mostra un continuo calo delle rapine in banca, rallentato solo da una stabilità dei casi che aveva contraddistinto il 2013. Le rapine consumate sono state invece 536, pari a un calo dell’8,7 per cento. Continua, inoltre, ad aumentare la percentuale di rapine fallite: si è passati, infatti, dal 17 per cento del 2010 al 30,6 per cento del 2015". Sintesi a uso e consumo delle info-grafiche dei talk: tra il 2015 e il 2014 le rapine ai danni degli esercizi commerciali sono diminuite del 13,9 per cento e i furti ai danni degli esercizi commerciali del 4,4 per cento. Tutto questo elenco di numeri, che difficilmente avrete trovato su altri giornali, non vuole dimostrare che in Italia non esista un problema legato alla sicurezza: esiste, e naturalmente il rischio terrorismo mescolato all’aumento dell’immigrazione clandestina può contribuire a generare una sensazione di insicurezza. Quello che non esiste è invece un caso Italia, una qualche grave anomalia relativa alla protezione del nostro paese. L’emergenza sicurezza è entrata a far parte della nostra agenda quotidiana - come in tutti i paesi europei e occidentali - ma l’Italia non è un paese insicuro e far credere il contrario significa alimentare una grande fake news. E alimentare le fake news di solito aiuta non a k fare i conti con la realtà ma a regalare voti ai populisti e agli irresponsabili specializzati nel capitalizzare il mercato della paura. Malagiustizia, chi risarcirà gli assolti? di Maurizio Tortorella Panorama, 6 aprile 2017 Compensare le spese di coloro che, in un processo, sono risultati innocenti. Da un’inchiesta di Panorama è nata una proposta di legge, che ora rischia di venir boicottata. Qualcuno sta cercando di sabotare il progetto di legge per il diritto al risarcimento delle spese legali per gli imputati assolti con formula piena, Presentato alla commissione Giustizia del Senato da Gabriele Albertini, di Alleanza popolare, il progetto nasce dalla copertina di Panorama del 4 febbraio 2016. Partendo da numerosi casi di cronaca, con imputati assolti "per non avere commesso il fatto o perché il fatto non sussiste", ma costretti comunque a pagare parcelle salate, Panorama aveva scoperto che 30 Paesi europei compensano in tutto o in parte le spese d’avvocato pagate da chi è stato processato senza motivo, in Italia non è così. Sul suo progetto per il "risarcimento dell’ingiusta imputazione", Alberti-ni aveva ottenuto la firma di 194 senatori: per gli assolti con formula piena prevedeva il rimborso delle spese d’avvocato e che lo Stato potesse rivalersi sul pubblico ministero "nel caso di dolo o di colpa grave". È stato forse questo particolare a far sì che il centrosinistra facesse di tutto per depotenziarla. La prima mossa è stata l’unificazione della proposta Albertini con quella di Maurizio Buccarella (M5s), che proponeva la deducibilità fiscale delle spese legali, ma non oltre 5 mila euro. Un testo unificato stabilisce ora che si possa chiedere la detrazione al massimo di 10.500 euro in tre anni. La maggioranza, che prevede di stanziare 12 milioni nel 2016 e 25 dal 2017, obietta che una copertura finanziaria più ampia sia impossibile. Per capire meglio quanto davvero potrebbe costare la norma, il senatore Giacomo Caliendo di Forza Italia, che in commissione è il relatore della legge, sta cercando dati certi sul numero delle assoluzioni piene negli ultimi anni. Poi si passerà al voto. Albertini annuncia battaglia: "Presenterò un emendamento che alzi almeno a 100 mila euro la detrazione fiscale e preveda il rimborso totale per gli incapienti". "Con la fiducia e inemendabile": le opposizioni mollano i lavori sul decreto Minniti di Eleonora Martini Il Manifesto, 6 aprile 2017 In Aula alla Camera da lunedì, il voto sul governo e il decreto "Minniti-Orlando" spacca pure Mdp. Arriva già blindato, inemendabile, non discutibile, di passaggio nelle commissione riunite Affari costituzionali e Giustizia della Camera per pura formalità, vincolato alla questione di fiducia che il governo vi apporrà la prossima settimana. E l’opposizione, tutta e non solo, abbandona i lavori: i deputati di M5S, Sinistra Italiana, Possibile, Forza Italia, Lega - e perfino Mdp - lasciano solo la maggioranza alle prese col decreto immigrazione licenziato dal Senato il 29 marzo scorso e da convertire in legge, pena decadimento, entro il 17 aprile. Tutti uniti nel ritenere inaccettabile "il metodo", giacché nel merito ciascuno va per la propria strada. Fino al voto di fiducia, però. La prossima settimana infatti, quando l’Aula dovrà rinnovare l’appoggio al governo prima del voto finale sul decreto "Minniti-Orlando" (le pregiudiziali saranno invece esaminate e votate oggi), la musica cambierà. Gli ex Sel del Movimento Democratico e Progressista, per esempio, hanno già pronti due "No" secchi, all’uno e all’altro quesito, mentre i cugini di stirpe Pd sono ancora alle prese con i mal di pancia, oscillanti tra il tentare a tutti i costi un’unità del neonato Mdp ancora mai riuscita o rinnovare la loro fiducia al governo Gentiloni. "Abbiamo deciso di mettere fine a un rito non democratico, visto che tutti gli emendamenti, tutti, sono stati respinti senza neppure essere discussi, e il governo si appresta a blindare il decreto con la fiducia", spiega Daniele Farina, di SI. È una posizione su cui concordano tutti coloro che, come Farina e la sua collega di partito Celeste Costantino, hanno lasciato i lavori delle commissioni riunite. Anche se, avvertono i deputati di SI, "le destre parlamentari hanno assunto la nostra stessa decisione in Commissione ma dietro la protesta di metodo c’è lì una condivisione nel merito". Sinistra Italiana invece attacca senza mezzi termini il decreto che ridisegna una "giustizia su base etnica" e cambia solo nome ai Centri di identificazione ed espulsione: "I dispositivi di concentramento contenuti nel decreto Minniti andavano cambiati e se ne è negata a priori la possibilità. Questo decreto ha sposato le linee di intervento delle destre italiane ed europee e ha respinto oggi alla Camera come prima al Senato ogni proposta diversa per la gestione dei flussi migratori e delle richieste di protezione internazionale". Furiosi anche i deputati pentastellati: "È una vergogna, un’ignobile farsa e un atto antidemocratico - affermano in una nota - aggravato dal fatto che i nostri emendamenti, tutti respinti, non erano dilatori, ma solo volti a migliorare il testo". Poi attaccano "il ministro Finocchiaro" che "non ha fatto nulla per opporsi a questa vergogna e ci chiediamo cosa ci stia a fare nel suo ruolo". Per Pippo Civati e Andrea Maestri di Possibile "i ministri Orlando e Minniti firmano l’apartheid giudiziaria per richiedenti asilo e migranti, dopo aver colpito, col decreto sicurezza urbana, poveri, tossicodipendenti, clochard e persino i writers". E spiegano che l’abrogazione del reato di clandestinità prevista anche nei loro emendamenti, "oltre ad essere un passo di civiltà giuridica e politica non rinviabile, consentirebbe anche economie (zero procedimenti penali davanti ai giudici di pace) utili a rinforzare il lavoro delle sezioni specializzate civili in materia di protezione internazionale". Naturalmente il punto di vista delle destre è opposto: uno per tutti, il capogruppo di Fi Renato Brunetta che vede nell’accaduto, chissà come, un "evidente tentativo di recuperare l’elettorato di sinistra". Molto particolare è invece la posizione di Mdp: Arcangelo Sannicandro, ex Sel della commissione Giustizia che ha pure abbandonato i lavori assicura al manifesto: "Non possiamo cambiare posizione dall’oggi al domani, dunque voteremo no alla fiducia e no al decreto che consideriamo gravemente sbagliato". Ma il suo capogruppo, Francesco Laforgia, ex Pd, pur ammettendo di condividere la posizione fortemente critica verso il decreto, ha chiesto al suo gruppo di discutere ancora per cercare una posizione unitaria da tenere in Aula. "Non siamo quelli della ventura e vogliamo distinguere il tema del rapporto con il governo al quale chiediamo di andare avanti", afferma. Dunque, malgrado i lavori in corso "perché si capisca che siamo uniti", Laforgia ammette: "Sì, potrebbe succedere. Una parte del Mpd, quella che ha affiancato il governo del Pd, voti per rinnovare la fiducia a Gentiloni". Avviso di garanzia, ecco perché va tenuto segreto di Guido Salvini (Magistrato) Il Dubbio, 6 aprile 2017 Bisogna cercare di essere un po’ meno, come hanno scritto l’on. Violante e il prof. Fiandaca, una "società giudiziaria", quella che i greci chiamavano "critocrazia", il governo dei giudici. L’esistenza di una informazione di garanzia non dovrebbe essere pubblicata almeno sino a quando l’indagato non abbia avuto la possibilità di difendersi, ad esempio con un interrogatorio. E non si obietti che questo divieto sarebbe un attacco alla libertà di stampa. L’Unione delle Camere Penali ha indetto a metà di aprile una seconda settimana di astensione dalle udienze per protestare contro le inadempienze e le proposte del Governo in tema di processo penale giudicate una controriforma. Non posso dire di essere d’accordo con tutti gli argomenti dell’organismo degli avvocati. Ad esempio alla fine si dovrà accettare un alleggerimento del secondo grado di giudizio, ma è certo che gli avvocati indicano alcune gravi patologie che rischiano anche di diventare invasive. Mi riferisco ad esempio alla proposta di aumentare i casi di udienze in videoconferenza. Se così dovesse avvenire, con l’intento di un risparmio economico in realtà assai dubbio, molti processi perderebbero di consistenza, diventerebbero processi a fantasmi rappresentati da sbiadite immagini e in qualche momento da una voce, con un impoverimento netto della possibilità per i giudici di comprendere le ragioni, la sincerità o meno, le incertezze di chi hanno di fronte o, meglio, di chi non hanno di fronte. Tra i temi più sensibili restano quelli dell’informazione di garanzia, intrecciato soprattutto alle sue conseguenze mediatiche e politiche, e quello della prescrizione e della durata dei processi. Proviamo a parlarne ancora una volta, non dimenticando che sono anche temi tra loro connessi. L’informazione di garanzia è un istituto subdolo. Dovrebbe, lo dice il nome, garantire l’indagato mentre in concreto l’unica cosa che garantisce è la sua immediata esposizione sulla stampa, spesso prima ancora che egli possa conoscere la consistenza dell’accusa e spesso anche prima che ne conosca la stessa esistenza. Senza parlare, per non essere sospettati di prendere le difese di soggetti ritenuti privilegiati indifendibili, delle informazioni di garanzia nei confronti di politici e amministratori, basti pensare al caso di Ilaria Capua. La ricercatrice, una cittadina normale quindi, ha appreso un giorno dalla copertina de L’Espresso di essere accusata di reati infamanti, il traffico di virus e aver provocato il pericolo di epidemie. Gettata nel tritacarne della comunicazione di massa prima ancora di potersi difendere, anni dopo, troppo tempo dopo, è stata liberata dalle gravi accuse, esito che certo non risarcisce gli enormi danni recati alla sua vita e alla sua professione. Casi simili non devono più succedere. I giornalisti non possono essere ricettatori di notizie riservate. L’esistenza di una informazione di garanzia non dovrebbe essere pubblicata almeno sino a quando l’indagato non abbia avuto la possibilità di difendersi, ad esempio con un interrogatorio. E non si obietti che un divieto almeno iniziale di pubblicazione sarebbe un attacco alla libertà di stampa. Già oggi in base al Codice di procedura penale i Pubblici Ministeri possono secretare le iscrizioni nel registro notizie di reato di chiunque per tre mesi e secretare e disporre il divieto di pubblicazione di qualsiasi atto di indagine qualora lo ritengano necessario. Sarebbe quindi, in favore dell’indagato, una limitazione del tutto speculare a quelle che già possono imporre le autorità inquirenti. Non meno incivile è l’immediata pubblicazione di conversazioni intercettate che si prestano, per loro natura, ad una pluralità di interpretazioni, pubblicazione istantanea prima ancora che l’indagato posso fornire la sua spiegazione del significato di quelle parole. Mi riferisco, tra i casi più recenti e senza ovviamente entrare nel merito delle indagini, al caso del chirurgo ortopedico di Milano indicato senza esitazione dalla stampa, sulla base di brani di conversazioni, come responsabile di rompere volontariamente femori alle vecchiette. Sugli effetti anche politici dell’informazione di garanzia sono poi d’accordo con quanto espresso più volte dall’ex- Procuratore di Venezia Carlo Nordio. Bisognerebbe fare un passo indietro. L’avviso di garanzia deve restare un atto "politicamente neutro": troppe archiviazioni e troppi proscioglimenti sono seguiti ad indagini partite con grande clamore e con effetti tali da incidere sensibilmente su scenari politici e amministrativi. Bisogna cercare di essere un po’ meno, come hanno scritto l’on. Violante e il prof. Fiandaca, una "società giudiziaria", quella che i greci chiamavano Critocrazia, il governo dei Giudici. Tutto questo, la distorsione di un istituto che dovrebbe essere a tutela dell’indagato, provocherebbe danni più contenuti se i processi si celebrassero nel giro di breve tempo e alcune archiviazioni e proscioglimenti, seguiti da semplici e quasi invisibili trafiletti in cronaca, non divenissero inutili e quasi superflui quando il processo con i suoi effetti anticipati ha già stritolato per anni la vita di una persona. I processi dovrebbero essere rapidi ma così non è. Le proposte finali del Governo aumentano di tre anni i termini di prescrizione. Il che non è poco, e forse era inevitabile, c’era addirittura qualcuno che proponeva la scomparsa della prescrizione dopo il primo grado di giudizio teorizzando così il processo infinito. Ma ciò non deve far perdere di vista il fatto che accanto all’istituto della prescrizione c’è anche il principio della ragionevole durata del processo e che, almeno di norma e salvo casi eccezionali, i processi penali dovrebbero concludersi, nell’interesse dell’imputato e anche delle persone offese e di tutti coloro che ne sono coinvolti di riflesso, in un tempo molto minore di 8 - 10 anni come troppo spesso avviene. Una sentenza per un reato ordinario emessa distanza di 10 anni può essere esatta, condannare il colpevole o assolvere l’innocente, ma non è mai giusta. Bussa alla porta di un’altra persona, una persona diversa che spesso si è messa ormai alle spalle quella fase della vita e spesso è eseguita per fatti che hanno perso ogni consistenza e significato. È se tale mutamento non vi è stato comunque una sentenza così tardiva non è in grado di esplicare nemmeno alcuna efficacia dissuasiva e preventiva. Molti magistrati prendono atto nelle udienze con un moto quasi di disappunto e di fastidio delle dichiarazioni degli avvocati di adesione all’astensione. Sarebbe meglio almeno sospendere il giudizio e riflettere un momento sulle molte distorsioni, moltiplicate spesso da una stampa maleducata e subalterna, cui anche noi spesso contribuiamo esenti da critiche perché posti su un gradino che ci sembra più alto. Albamonte (Anm): "bene il dialogo toghe-politica, ma alla giustizia servono più risorse" di Errico Novi Il Dubbio, 6 aprile 2017 "C’è un merito che tra gli altri va riconosciuto a Piercamillo Davigo: aver spezzato un certo isolamento che si era creato attorno all’Anm. Lo ha fatto con la sua capacità di spiegare questioni complesse in modo semplice". Il nuovo presidente dell’Associazione magistrati Eugenio Albamonte lo dice senza eccessi di diplomazia. Intanto toccherà a lui riannodare i fili di un dialogo che l’asprezza del predecessore ha messo a dura prova. Il magistrato della Procura di Roma ha un approccio molto aperto su temi che all’ex pm del Pool sono meno cari, come la tutela dei nuovi diritti. Ma sulla distensione tra toghe e politica fa subito intendere che la sostanza non è cambiata: "Una cooperazione tra politica e magistrati per restituire credibilità alle istituzioni? Credo che si debba partire dalle risorse per l’amministrazione della giustizia. Che negli anni scorsi sono state ridotte e che devono essere ancora in gran parte reintegrate, o recuperare credibilità sarà difficile". Però lei non è pessimista su un impegno reciproco. Ci sono due piani diversi, lo ripeto. Uno riguarda le risorse da destinare alla giustizia perché funzioni. Durante i governi di centrodestra sono state proposte riforme a costo zero e si sentiva ripetere di continuo che tribunali e magistrati rappresentavano un costo senza fine, da ridurre. Sono stati di parola. E ora? Al ministro Orlando l’intera magistratura ha manifestato un segno di apprezzamento, ma se non si dà continuità pluriennale ad alcuni suoi interventi la credibilità non la si recupera. Voi magistrati potreste favorire la distensione con una vigilanza ferrea sulle intercettazioni che violano la privacy? È il secondo aspetto della questione e su questo terreno la magistratura mi pare abbia dato segnali forti e chiari. Si è impegnata in modo fattivo nel tutelare la privacy di chi è intercettato, attraverso procedure virtuose mirate proprio a evitare che vengano diffuse conversazioni di privati estranei all’indagine. Ma su questo pure andrebbe fatto un chiarimento. Quale? Vanno tutelate le informazioni private e che però, nello stesso tempo non sono rilevanti per l’inchiesta. Se sono indagato per corruzione non c’è motivo di far sapere che ho un amante o quali siano i miei orientamenti sessuali. Ma se l’amante è un complice, l’aspetto privato si fonde con quello di rilevanza penale. Vanno inasprite le pene per chi pubblica atti giudiziari e viola così una precisa norma del codice? In generale non sono favorevole a nuove norme penali. Sarebbe più utile introdurre sanzioni pecuniarie significativamente più elevate delle attuali, non per il giornalista ma per la testata. Ma condivide l’appello a tutelare la privacy lanciato dal procuratore Pignatone su Repubblica? Trovo le sue considerazioni estremamente condivisibili. Ha dato una chiara rappresentazione di quale sia il punto di vista della magistratura più avveduta su un tema delicato come questo. Mi pare che Pignatone abbia fornito uno di quei segnali forti e chiari, di cui dicevo prima, offerti dalla magistratura sul piano della responsabilità. Nel rinvio della decisione del Csm su Emiliano non si potrebbe vedere un’oggettiva saggezza? In fondo nessuno potrà parlare di interferenza con le primarie del Pd. Ormai siamo abituati a fare di continuo dietrologie sulla giustizia. Persino sui dettagli di carattere temporale. Arriva un avviso di garanzia e si parla di inchieste a orologeria. La giustizia segue semplicemente i propri tempi e a volte si creano sovrapposizioni. Che qualcuno puntualmente strumentalizza. Sull’avocazione obbligatoria, prevista nel ddl penale, l’Anm protesterà con la stessa durezza mostrata sulle pensioni? La prima riunione della nuova giunta esecutiva si è chiusa venti minuti fa: abbiamo deciso di avviare una sottolineatura molto critica su alcuni aspetti della riforma del processo, e in particolare sull’avocazione obbligatoria. Abbiamo adottato un parere che verrà sottoposto a tutte le più alte cariche istituzionali, al Parlamento che deve ancora vagliare la legge e ai mezzi di informazione: nei prossimi giorni convocheremo una conferenza stampa per segnalare quanto sia pericolosa quella norma. Cos’altro non va in quel ddl? Finora c’è stata poca attenzione sul tema dei trojan. Un passaggio di assoluta gravità. Anche qui è necessario chiarire: non è che i trojan servano ad aumentare la capacità delle Procure di intercettare le telefonate, semplicemente consentono di tenersi al passo con l’evoluzione della tecnologia. Le conversazioni come quelle fatte attraverso whatsapp e messanger possono essere captate solo con i trojan. Ora, ridurre l’uso dello strumento ai soli casi di associazione mafiosa o di terrorismo è assolutamente sbagliato, va contro la linea indicata in precedenza della Cassazione e crea vertiginosi paradossi. A cosa si riferisce? Al fatto che non potremmo usare i trojan contro chi commette reati informatici utilizzando proprio i trojan. È solo un esempio. La stessa cosa vale per le intercettazioni ambientali: ma lei lo sa che in Mafia Capitale è emerso come alcuni indagati avessero acquistato su internet, per poche decine di euro, degli aggeggi che rivelano la presenza delle microspie? Nella norma che razionalizza i costi delle intercettazioni crede si nasconda un taglio delle risorse? È il solo aspetto della legge approvata dal Senato sul quale ci riserviamo un ulteriore approfondimento. Secondo quanto il ministero della Giustizia aveva assicurato, ne dovrebbe venire solo una maggiore uniformità nei costo delle intercettazioni per unità di tempo. Ma se dalla combinazione con altre norme ne conseguisse di fatto un taglio nei capitoli di spesa, sarebbe grave. Vi occuperete anche dell’obbligo di informare le scale gerarchiche previsto per la polizia giudiziaria? È un altro tema che la giunta precedente ci ha lasciato in eredità e che ci prepariamo ad affrontare. E quale modifica proporrete? Guardi, finché non è stato emanato il decreto in questione era stabilito che la polizia giudiziaria non potesse informare le scale gerarchiche a meno che non fosse espressamente autorizzata dalla Procura. La cosa più semplice sarebbe tornare all’antico, considerato che nel 99 per cento dei casi quell’autorizzazione veniva concessa. Altrimenti su può integrare la nuova norma con l’eccezione per cui se l’ufficio titolare delle indagini lo richiede, le strutture investigative devono necessariamente rispettare il segreto. È vero che la corruzione è più radicata oggi che ai tempi di Tangentopoli, come sostiene Davigo? Non è facile misurare in modo quantitativo un fenomeno quasi del tutto sommerso. Ma è la qualità, per così dire, del fenomeno che è geneticamente modificata. Emerge con sempre maggiore chiarezza che a corrompere sono spesso le organizzazioni criminali. Se prima l’alternativa, per il pubblico ufficiale, era semplicemente cedere o no alla lusinga, ora c’è un elemento in più: se cedi alla lusinga otterrai quella somma, ma se non lo fai potrebbero esserci conseguenze di segno opposto. Il dato coercitivo mi pare il vero aspetto di novità. E il caso di Mafia Capitale mostra come l’incrocio tra corruzione e criminalità organizzata si sia affrancato dai propri tradizionali limiti di insediamento. Ma insomma, le irruzioni mediatiche di Davigo, a quanto pare non sempre condivise nell’Anm, vi sono servite o no? Premessa: io ritengo che Davigo si sia sempre mosso in linea con le altre componenti associative dell’Anm. C’era un programma concordato all’insediamento della giunta. Poi ci sono argomentazioni che ciascuno può liberamente proporre in base alla sua sensibilità, e ciascun presidente ha uno spazio autonomo per rappresentarle. Detto questo, ripeto che la capacità di Piercamillo Davigo di continuare a far comprendere le posizioni della magistratura è stata preziosa. Ma non è che il gruppo di Davigo diventerà una specie di minoranza interna, nella giunta unitaria dell’Anm? Niente affatto. La prima riunione di giunta, appena conclusa, si è svolta in un ottimo clima e ne sono assolutamente soddisfatto. Il filosofo Gianni Vattimo assolto dall’accusa di falso ideologico di Simona Lorenzetti La Stampa, 6 aprile 2017 Sotto accusa perché fece visita in carcere a un militante no Tav accompagnato da due attivisti. "Il fatto non sussiste". Si chiude così, con una sentenza di assoluzione, il processo per falso ideologico a carico del filosofo Gianni Vattimo. I pm Antonio Rinaudo e Andrea Padalino lo accusavano di aver fatto entrare in carcere, sfruttando il suo ruolo di europarlamentare, due militanti No Tav, Nicoletta Dosio, la storica pasionara del movimento, e Luca Abbà, il giovane rimasto folgorato nel 2012 sul traliccio davanti al cantiere di Chiomonte. Il giudice Federica Florio ha assolto anche loro dall’accusa di falso. Il filosofo era entrato alle Vallette il 15 agosto 2013 per fare visita a Davide Giacobbe, arrestato pochi giorni prima dalla Digos di Torino a Varese con l’accusa di avere aggredito un membro delle forze dell’ordine durante un tafferuglio. Nell’occasione Vattimo, all’ingresso del carcere, aveva firmato un modulo in cui sosteneva che i due attivisti erano suoi "collaboratori". E loro avevano fatto lo stesso. "Nicoletta Dosio e Claudio Abbà erano persone con cui mi consultavo per avere informazioni sul movimento No Tav quando dovevo occuparmi come europarlamentare di temi inerenti all’alta velocità". Si era difeso così Vattimo nell’udienza del 5 ottobre. Per questa ragione l’europarlamentare portò con sé i due attivisti certificando che erano suoi collaboratori. "Mi sentivo tranquillo era una prassi che seguivo abitualmente" aveva detto. "È un reato che non sussiste - ha detto l’avvocato Carlo Blengino, difensore di Vattimo - perché il professore, come europarlamentare, aveva il diritto di farsi accompagnare da chiunque poteva essergli utile per il suo ufficio. L’autorità giudiziaria non può sindacare le sue scelte". Oggi in aula l’avvocato difensore di Abbà, Claudio Novaro, ha sottolineato come sia stato celebrato un processo "complicato e tortuoso" per un episodio "modesto", "bagatellare". I pm avevano chiesto una condanna a dieci mesi per Vattimo, a nove mesi per la pasionara Nicoletta Dosio e a sette mesi per Luca Abbà. Con la "condizionale" sì all’equa riparazione per la custodia cautelare di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 6 aprile 2017 Corte di cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 5 aprile 2017 n. 17192. Scatta il diritto alla equa riparazione per il protrarsi della custodia cautelare anche dopo la sentenza di condanna qualora la pena sia stata condizionalmente sospesa. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 5 aprile 2017 n. 17192, affermando che "va riconosciuta la natura di ingiustizia formale della detenzione patita da colui il quale sia attinto da misura cautelare in relazione a reato per il quale sia stato già condannato a pena condizionalmente sospesa, relativamente all’intera durata della misura se applicata successivamente alla sentenza di condanna, o al periodo di mantenimento in regime custodiale successivo alla sentenza stessa". Nei confronti dell’imputato ricorrente era stata emessa una ordinanza di custodia cautelare in carcere, per reati contro il patrimonio, il 3 maggio 2013. Il 16 dicembre dello stesso anno, il ricorrente era stato poi condannato dal Tribunale di Torino alla pena di un anno e otto mesi di reclusione, con concessione della sospensione condizionale della pena. Da qui la richiesta, bocciata dalla Corte di appello, di riparazione per ingiusta detenzione in relazione al periodo successivo in cui lo stesso era stato sottoposto a misura custodiale. La Suprema corte ha accolto la doglianza affermando che una "interpretazione sistematica" dell’articolo 314, comma 2, del codice procedura penale- che prevede la riparazione in favore del condannato per il provvedimento cautelare emesso, o mantenuto, senza i previsti presupposti - "conduce all’applicabilità dello stesso principio anche nel caso in cui (come nella specie) il procedimento nel quale la misura viene applicata si concluda con sentenza irrevocabile di condanna a pena sospesa (con conseguente operatività dell’art. 300, comma 3, c.p.p.) - senza che a ciò consegua la non esecutività delle statuizioni cautelari precedentemente adottate". In ambo i casi, infatti, prosegue la Corte, "si versa in condizioni di ingiustizia formale della sottoposizione a misura cautelare". Si tratta dunque di un caso diverso rispetto a quello, per il quale la Cassazione ha negato la riparazione, in cui, nell’ambito del subprocedimento cautelare, "la prognosi sulla possibilità di una futura sospensione condizionale della pena sia stata negativa, ma all’esito del giudizio di cognizione il beneficio sia stato nondimeno concesso". L’articolo 300, comma 3, del Cpp, infatti, "impone la declaratoria d’inefficacia della misura in caso di condanna a pena sospesa". Dal sistema, prosegue la Corte, "si ricava chiaramente l’incompatibilità tra il beneficio della sospensione condizionale della pena applicata in relazione a una determinata imputazione, e la sottoposizione o il mantenimento dell’imputato in regime cautelare (specie se custodiale) in relazione alla medesima accusa". La Suprema corte ricorda poi che la Consulta (sentenza n. 219/2008) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 314 del Cpp "nella parte in cui non prevede il diritto alla riparazione per la custodia cautelare che risulti superiore alla misura della pena inflitta". Così ponendo "in stretta correlazione la legittimità del titolo custodiale con la misura della sanzione finale applicata all’imputato". E nel caso di sospensione condizionale "se ne ricava a maggior motivo il convincimento dell’ingiustizia formale della detenzione eventualmente protratta (o, addirittura, applicata ex novo)". Del resto, con una "fondamentale sentenza" (310/1996) la Corte costituzionale aveva già dichiarato l’illegittimità dell’articolo 314 "nella parte in cui non prevede il diritto all’equa riparazione anche per la detenzione ingiustamente patita a causa di erroneo ordine di esecuzione". La puzza di fritto diventa reato: per la Cassazione è "molestia olfattiva" di Caterina Pasolini La Repubblica, 6 aprile 2017 Ristoranti senza canna fumaria, vicini di casa perennemente ai fornelli: dopo la sentenza della Cassazione sulle molestie olfattive, nei condominii cresce la protesta per i cattivi odori. Un milione di cause ogni anno per liti tra vicini. Amate il cibo speziato, l’aglio, i profumi forti e la passione per pentole e fornelli vi prende dall’alba al tramonto? Attenzione perché, senza saperlo, rischiate di commettere un reato e ritrovarvi a pagare i danni ai vicini di casa esasperati dalle vostre prodezze culinarie. Nei giorni scorsi infatti la Cassazione, con la sentenza 14467/2017 ha condannato per la prima volta una famiglia per "molestie olfattive", nuovo reato inquadrato in quello di "getto pericoloso delle cose". Una sentenza che arriva dopo le continue proteste da parte dei condomini di un palazzo a Monfalcone per le emissioni di fumi, odori e rumori molesti dalla cucina di un appartamento al piano terra. Ogni anno un milione di cause civili nascono da liti condominiali e quelle legate al cibo sono in continua crescita, sottolinea l’avvocato Matteo Santini, consigliere dell’ordine di Roma ed esperto in diritto condominiale che si è ritrovato più volte in questo campo a dirimere contese scaturite da intingoli e fritti, litigi tra culture alimentari diverse che rendono gli odori piacevoli o insopportabili. "Le proteste arrivano o per il vicino molesto o per il ristorante sotto casa le cui emissioni invadono il cortile, le scale comuni e le abitazioni perché molti locali non hanno le canne fumarie, non sono in regola con la legge. E sono tanti. Da qui le proteste, le richieste di danni morali e materiali". C’è chi racconta di disagi psicologici, di depressioni provocate dagli odori che arrivano dal locale o da casa dei vicini, c’è chi alla fine si è arreso all’invasione olfattiva ha cambiato casa non potendo più sopportare quello che riteneva senza mezzi termini una puzza. "Bisogna trovare sempre la giusta proporzione nelle cose: c’era un signore che voleva denunciare la vicina perché cucinava il brodo di pollo alle otto di mattina. Ma nelle liti di condominio direi che il problema di fondo, dal punto di vista culinario, è soprattutto culturale. Noi siamo abituati al profumo di pasta al pomodoro e lo troviamo gradevole mentre l’aglio che usano gli orientali ci risulta più indigesto come le spezie, il curry. Ora che le case hanno abitanti che vengono sempre più spesso da parti opposte del mondo, più di una volta mi è capitato di trovare orientali che protestavano per il fritto degli americani, gli statunitensi che non reggevano l’odoro dio curry degli indiani, e l’aglio dei i cinesi". Se si arriva la risarcimento, le cause tra vicini il danno può aggirarsi sui mille, millecinquecento euro. Se invece si tratta di un locale o di un ristorante la cifra cresce, e soprattutto i proprietari devono mettersi in regola con canne fumarie e affini. "Per arrivare al risarcimento bisogna confermare e provare l’esistenza del danno e quindi per quanto riguarda l’odore, confermare il disagio olfattivo. Così bisogna ricreare la puzza segnalata in quell’appartamento avendo fuori dalla porta un perito del tribunale che valuta la situazione" racconta l’avvocato Santini. Ma quali sono le situazioni che più scatenano tensioni tra vicini? L’uso disinvolto delle parti comuni, i rumori provenienti da altri appartamenti (il ticchettio di scarpe, lo stereo a tutto volume piuttosto che lo spostamento di mobili a tarda ora), gli animali domestici maleducati, l’innaffiatura di piante sul balcone, i danni prodotti da infiltrazioni, i fumi e i cattivi odori, il bucato gocciolante e perfino il disordine sul pianerottolo (magari la spazzatura parcheggiata in attesa di essere gettata nel cassonetto). Per quanto riguarda i cattivi odori, non è la cucina la prima causa, ma animali tenuti in casa, spazzatura abbandonata negli spazi comuni. Come testimonia l’associazione nazionale europea amministratori di immobili. Delle 67mila consulenze tecniche fornite in tutt’Italia, ventimila circa hanno guardato discussioni sui cattivi odori. Al primo posto puzza negli spazi comuni, al secondo posto odori legati alla presenza di animali che rappresentano il 30 % delle liti. L’urina del cane o gatto è la motivazione già citata. Al terzo posto i fumi delle attività commerciali, 15% per cento, ristoranti ma anche officine o artigiani che impiegano vernici. Sicurezza sul lavoro, pesa la tenuità di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 6 aprile 2017 Corte di cassazione - Sentenza 17163/2017. La tenuità del fatto scatta anche per la sicurezza lavoro. Soprattutto quando c’è un concorso di colpa da parte del lavoratore infortunato. Approda a queste conclusioni la Corte di cassazione con la sentenza n. 17163 della Quarta sezione penale depositata ieri. È stato così respinto il ricorso della Procura contro l’applicazione, tra l’altro, della nuova causa di non punibilità a una datore di lavoro accusato del reato di lesioni personali gravi ai danni di un dipendente che si era infortunato mentre stava svolgendo attività di manutenzione all’interno dello stabilimento produttivo. Pure riqualificando, rispetto al giudizio di primo grado, la condotta dell’operaio come non abnorme, la Corte d’appello di Milano aveva ritenuto di applicare comunque il fatto di particolare tenuità, valorizzando soprattutto la natura e la durata delle lesioni, il tempo della guarigione, la condotta risarcitoria del datore di lavoro e le altre modalità dell’azione criminale che potevano caratterizzare con la tenuità sia i profili oggettivi (azione e offesa) sia quelli soggettivi del fatto reato. Del tutto diversa la lettura della Procura che, nell’impugnazione, contestava proprio l’applicazione dell’istituto della tenuità, ritenendo che non ne ricorrevano i presupposti. A rappresentare un ostacolo, sosteneva la Procura generale, erano elementi come la gravità delle lesioni, la rilevanza penale della condotta del datore per effetto della violazione di norme antinfortunistiche. Nel ricorso si sottolineava inoltre come fosse illogico ritenere che la durata della malattia, 80 giorni, potesse essere considerata causa di non punibilità, visto che era proprio la stessa durata a fare definire come gravi le lesioni. Inoltre la causa di non punibilità non poteva certo discendere dall’entità del risarcimento, perché, semmai, avrebbe potuto avere un peso a titolo di riconoscimento dei benefici delle circostanze attenuanti. A tutte queste osservazioni la Cassazione risponde considerando valida la ricostruzione della Corte d’appello soprattutto sul versante della modalità della condotta e della gravità del pericolo. Non può poi essere considerato d’impedimento al riconoscimento della tenuità l’ambito lavoristico in cui si è realizzato l’infortunio, con il mancato rispetto di regole cautelari oppure il fatto che il legislatore abbia definito "gravi" le lesioni provocate al dipendente. Vale allora la considerazione che l’impresa non era del tutto priva di un sistema di controllo per garantire che le opere di manutenzione venissero compiute in sicurezza. L’imprenditore, comunque, dopo avere realizzato che i presidi antinfortunistici si erano rivelati insufficienti, aveva rafforzato gli elementi di sicurezza, sostituendo nuove tecnologie al sistema precedente in larga parte concentrato sull’auto-responsabilità del lavoratore. Quanto al nodo degli 80 giorni, è vero che si tratta di un periodo che porta alla qualificazione come gravi delle lesioni subite. Però, all’inizio, la diagnosi di riabilitazione era stata di 20 giorni poi stabilizzatisi in 80. E proprio quei 20 giorni sono stati messi in evidenza per concedere la tenuità. Da tenere presente c’era poi il concorso di colpa del lavoratore e, a ridurre il pregiudizio del lavoratore, il risarcimento reso disponibile dall’imprenditore. La bancarotta fraudolenta è un reato di pericolo concreto. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 6 aprile 2017 Reati fallimentari - Bancarotta fraudolenta per distrazione - Bancarotta preferenziale - Responsabilità dell’amministratore della società - Bancarotta documentale - Connotati. Risponde di bancarotta preferenziale e non di bancarotta fraudolenta per distrazione l’amministratore che, senza autorizzazione degli organi sociali, si ripaghi dei suoi crediti verso la società in dissesto relativi a compensi per il lavoro prestato, prelevando dalla cassa sociale una somma congrua rispetto a tale lavoro; integra, invece, il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione (articoli 216, comma 1, n. 1, e 223 legge fall.) la condotta dell’amministratore unico di una società che effettui prelevamenti dalle casse sociali, provvedendo a determinare ed a liquidare in proprio favore tali somme come compenso per l’attività svolta, senza nemmeno indicarne il titolo giustificativo. Il reato di bancarotta documentale è configurabile con riferimento alla irregolare tenuta delle rilevazioni contabili di magazzino, in quanto il regime tributario di contabilità semplificata, previsto per le cosiddette imprese minori, non comporta l’esonero dall’obbligo, previsto dall’articolo 2214 c.c., di tenuta dei libri e delle scritture contabili che siano richieste dalla natura e dalle dimensioni dell’impresa. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 30 marzo 2017 n. 16111. Reati fallimentari - Bancarotta fraudolenta - Elemento soggettivo - Mancato pagamento oneri previdenziali - Sistematicità - Dichiarazioni del curatore fallimentare - Fattispecie. È colpevole di bancarotta fraudolenta patrimoniale impropria l’amministratore che, pur non prevedendo né accettando il fallimento, è consapevole di dare al patrimonio sociale una destinazione diversa rispetto alla finalità dell’impresa e di compiere atti in danno ai creditori, cagionando in tal modo il fallimento della società. Può dichiararsi il fallimento della società sulla base delle dichiarazioni del curatore, principalmente a causa del mancato pagamento di contributi previdenziali, quando vi sia evidenza della creazione di una realtà aziendale fittizia con la finalità di sgravare i costi dei lavoratori ad altre imprese imputandoli alla società di cui risultavano apparentemente dipendenti, destinata a fallire sin dal momento della sua fraudolenta costituzione. (Nel caso di specie, l’amministratore di un’azienda agricola era condannato per bancarotta fraudolenta per avere cagionato, due anni dopo, il fallimento della società attraverso operazioni dolose consistite nel mancato sistematico pagamento dei debiti tributari, camerali e dei contributi obbligatori previdenziali). • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 28 marzo 2017 n. 15281. Reati fallimentari - Bancarotta fraudolenta - Cause concrete del dissesto - Irrilevanza - Operazioni manifestamente imprudenti - Bancarotta semplice (articolo 217 legge fall.). Ai fini della sussistenza del reato di bancarotta fraudolenta, data l’assoluta irrilevanza delle cause concrete del dissesto, non essendo necessaria l’esistenza di un nesso causale tra i fatti di distrazione ed il successivo fallimento, anche le operazioni manifestamente imprudenti proprie della bancarotta semplice descritte dall’articolo 217 legge fall., devono presentare, in astratto, un elemento di razionalità nell’ottica delle esigenze dell’impresa cosicché il risultato negativo sia frutto di un mero e riscontrabile errore di valutazione, laddove siano ravvisati oltre al grave depauperamento la volontà di determinare il dissesto. • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 24 marzo 2017 n. 14544. Reati fallimentari - Bancarotta fraudolenta - Amministratore di fatto - Concrete funzioni esercitate - Indizi sintomatici - Rilevanza. In tema di bancarotta fraudolenta e di effettività del ruolo dell’amministratore di fatto, i destinatari delle norme di cui agli articoli 216 e 223 legge fall. vanno individuati sulla base delle concrete funzioni esercitate - sulla base di indizi sintomatici quali, nel caso concreto, il conferimento di deleghe in suo favore in settori fondamentali della vita dell’impresa, la partecipazione diretta alla gestione della vita societaria, la costante assenza dell’amministratore di diritto e la mancata conoscenza di quest’ultimo da parte dei dipendenti -, non già rapportandosi alle mere qualifiche formali ovvero alla rilevanza degli atti posti in essere in adempimento della qualifica ricoperta. • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 24 marzo 2017 n. 14531. Reati fallimentari - Bancarotta fraudolenta per distrazione - Sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte - Concorso tra i delitti - Diversità del bene giuridico tutelato - Configurabilità. È configurabile il concorso tra il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte e quello di bancarotta fraudolenta per distrazione, atteso che le relative norme incriminatrici non regolano la stessa materia ex articolo 15 c.p., data la diversità del bene giuridico tutelato (interesse fiscale al buon esito della riscossione coattiva, da un lato, ed interesse della massa dei creditori al soddisfacimento dei propri diritti, dall’altro), della natura delle fattispecie astratte (di pericolo quella fiscale, di danno quella fallimentare) e dell’elemento soggettivo (dolo specifico quanto alla prima, generico quanto alla seconda). • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 24 marzo 2017 n. 14527. Reati fallimentari - Bancarotta fraudolenta - Reato di pericolo concreto - Dichiarazione di fallimento - Condizione oggettiva di punibilità. L’effettiva offesa alla conservazione dell’integrità del patrimonio dell’impresa costituisce la garanzia per i creditori e funge da parametro della concreta applicazione della norma incriminatrice consentendo di configurare il reato di bancarotta fraudolenta come di pericolo concreto. La dichiarazione di fallimento, in quanto evento estraneo all’offesa tipica ed alla sfera di volizione dell’agente, rappresenta una condizione estrinseca di punibilità, che restringe l’area del penalmente illecito imponendo la sanzione penale solo nei casi in cui alle condotte del debitore, di per sé offensive degli interessi dei creditore, segua la dichiarazione di fallimento. La dichiarazione di fallimento ha funzione di mera condizione oggettiva di punibilità; essa determina il "dies a quo" della prescrizione e vale a radicare la competenza territoriale, senza aggravare in alcun modo l’offesa che i creditori soffrono per effetto delle condotte dell’imprenditore, anzi, se mai, garantendo una più efficace protezione delle ragioni dei creditori stessi. • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 22 marzo 2017 n. 13910. Reati fallimentari - Bancarotta fraudolenta - Bancarotta riparata - Elemento materiale del reato - Reintegrazione del patrimonio dell’impresa antecedente la dichiarazione di fallimento. La bancarotta riparata si configura, determinando l’insussistenza dell’elemento materiale del reato, quando la sottrazione dei beni venga annullata da un’attività di segno contrario, che reintegri il patrimonio dell’impresa prima della soglia cronologica costituita dalla dichiarazione di fallimento, non rilevando, invece, il momento di manifestazione del dissesto come limite di efficacia della restituzione. Tuttavia, perché gli effetti del depauperamento del patrimonio vengano meno, occorre una immediata correlazione della condotta riparatoria a quella distrattiva, con l’intento dell’imprenditore di porvi specificamente rimedio, perché, in caso contrario, si dovrebbe ritenere che qualunque attività di finanziamento posta in essere da un socio-amministratore, a prescindere dall’epoca dell’apporto di liquidità, elida ipso facto la rilevanza penale di una sottrazione di risorse di pari od inferiore importo. • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 28 febbraio 2017 n. 9710. Reati fallimentari - Bancarotta fraudolenta - Bancarotta patrimoniale - Delitti di ricettazione e riciclaggio - Fatti di distrazione - Dichiarazione di fallimento. I delitti di ricettazione e riciclaggio riguardanti il provento del reato di bancarotta fraudolenta sono configurabili anche nell’ipotesi di distrazioni fallimentari compiute prima della dichiarazione di fallimento, in tutti i casi in cui tali distrazioni erano "ab origine" qualificabili come appropriazione indebita, ai sensi dell’articolo 646 c.p. Il rapporto in cui si trovano il delitto di appropriazione indebita, aggravata ex articolo 61 c.p., n. 11, in considerazione delle qualità dei soggetti agenti, quindi anche procedibile d’ufficio, e il delitto di bancarotta patrimoniale in ragione del quale il secondo assorbe il primo, divenendo l’appropriazione un elemento costitutivo della bancarotta, si realizza quando la società, a danno della quale l’agente ha realizzato la condotta appropriativa, che diviene distrattiva, venga dichiarata fallita. • Corte di Cassazione, sezione V, sentenza 5 gennaio 2017 n. 572. Reati fallimentari - Bancarotta fraudolenta - Elementi del reato - Fatti di distrazione - Dichiarazione di fallimento - Condizione di punibilità. Perché sussista il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale non è necessaria l’esistenza di un nesso causale tra i fatti di distrazione ed il successivo fallimento, essendo sufficiente che l’agente abbia cagionato il depauperamento dell’impresa, destinandone le risorse ad impieghi estranei alla sua attività, sicché, una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento, i fatti di distrazione assumono rilievo in qualsiasi momento siano stati commessi e, quindi, anche se la condotta si è realizzata quando ancora l’impresa non versava in condizioni di insolvenza. Mentre la condotta si perfeziona con la distrazione, la punibilità della stessa è subordinata alla dichiarazione di fallimento. • Corte di Cassazione, sezioni unite penali, sentenza 27 maggio 2016 n. 22474. Reggio Calabria: nella triste storia di Maria Rita la sofferenza delle donne di ‘ndrangheta di Davide Imeneo Avvenire di Calabria, 6 aprile 2017 Perdere la voglia di vivere a venticinque anni, pochi mesi dopo aver raggiunto la laurea triennale in economia col massimo dei voti. Strano il destino di Maria Rita, venticinquenne reggina, che lunedì mattina, poco prima delle 7, si è lasciata cadere dal quinto piano. Non hanno dubbi gli inquirenti: si tratta di suicidio, seppur per la madre è stata necessaria l’autopsia per chiarire che quella figlia-modello non fosse sotto sostanze di stupefacenti. Era da poco rientrata dall’estero, Maria Rita, dopo una vacanza-studio nei luoghi della finanza europea dove sognava di arrivare con il sacrificio dei suoi studi e della sua forza di volontà. Una storia triste, la sua, che ha lasciato sgomento e dolore. Ma anche una patina di amarezza in tutta la comunità di Reggio Calabria che ha visto questa giovane vita consumarsi con un salto nel vuoto: Maria Rita è la figlia di Giovanni Logiudice, pluripregiudicato, oggi detenuto, e componente della "storica" famiglia di ‘ndrangheta omonima. I Logiudice in città, infatti, non sono "chiunque": lo zio Luciano è uno dei più potenti boss-manager tra i clan calabresi, mentre lo zio, Nino "il nano" è un personaggio altamente controverso. Da capo-militare della cosca, protagonista della stagione delle bombe contro la Procura di Reggio Calabria, a pentito che ha provato a ricostruire rapporti perversi tra componenti corrotti dello Stato e le mafie. Un collaboratore di giustizia che ha ritrattato il suo pentimento. Un boomerang per la sua famiglia: negli ambienti criminali i Logiudice perdono quota, mentre gli "anelli deboli" della catena - le donne - sono quelle più esposte. Come Maria Rita che, nonostante quel cognome che lei stessa confidava agli amici come "pesante", aveva provato a farsi una vita dissociandosi da quell’eredità mafiosa. Un patrimonio orribile, soprattutto per le donne di quel clan: nel 1994, Angela Costantino, la zia della giovane Maria Rita, venne uccisa dai parenti perché tradì il marito, Pietro Logiudice, mentre questi era in carcere. Quindici anni dopo, nel 2009, si sono perse le notizia di Barbara Corvi, moglie di un altro fratello dei Logiudice, Roberto. Una situazione di sofferenza, quelle delle donne di ‘ndrangheta, che - come rivela il Presidente del Tribunale dei Minori di Reggio Calabria, Roberto Di Bella - "sta aprendo una breccia nel monolite della ‘ndrangheta". Donne che denunciano, donne che chiedono di cambiare vita. Donne che ci provano studiando, impegnandosi in prima persona, ma che - forse - rimangono sempre da sole dinnanzi alla brutalità dell’essere figlia di un mafioso. Come Maria Rita. Un caso che ha scosso il Procuratore Capo di Reggio Calabria, Federico Cafiero De Raho: "È morta di isolamento. Se non siamo capaci di integrare chi cerca un futuro alternativo alla ‘ndrangheta abbiamo perso tutti quanti". Parole crude che hanno interpellato anche il Prefetto di Reggio Calabria che ha immediatamente convocato - per il 5 aprile - un Comitato per l’Ordine e la Sicurezza Pubblica finalizzato ad attivare un focus sul disagio sociale che vivono alcuni giovani appartenenti a famiglie di ‘ndrangheta. Roma: novità per i detenuti di Rebibbia, dallo stage in biblioteca alle scienze motorie di Maria Cristina Fraddosio La Repubblica, 6 aprile 2017 Si allarga l’offerta formativa per i reclusi. All’interno del ciclo di incontri "Libri Liberi. Editoria, studio e cultura in carcere", promosso dall’Università degli Studi di Roma Tor Vergata e dalla Biblioteca Nazionale Centrale. Il nuovo corso di laurea in Scienze motorie. Il decennale impegno dell’Università degli Studi di Roma Tor Vergata all’interno delle carceri si rinnova con ulteriori iniziative. Al via il primo corso di laurea pilota in Scienze Motorie, diretto da Sergio Bernardini che, nel dare il benvenuto alle matricole (una decina i detenuti di Rebibbia e cinque della casa circondariale di Frosinone), ha ribadito: "Questo non è assistenzialismo. A noi interessa realizzare qualcosa di concreto". L’inattività fisica nel contesto detentivo si auspica venga soppiantata dallo sport, con l’augurio che questo abbia un effetto virale. Non soltanto, quindi, una nuova opportunità che favorisca il reinserimento nella società dopo la detenzione, ma anche un percorso di responsabilizzazione all’interno del carcere finalizzato alla socialità e all’esercizio fisico dei reclusi. Dal carcere alla biblioteca. Altrettanto innovativo è il protocollo d’intesa che è stato firmato, alla presenza delle istituzioni, dei detenuti e di alcuni studenti del liceo di scienze umane "Macchiavelli" di Roma, dalla direttrice della casa circondariale, Rosella Santoro, e dal direttore della Biblioteca Nazionale Centrale, Andrea De Pasquale. I detenuti beneficiari dell’articolo 21 dell’Ordinamento Penitenziario, con questo accordo, potranno svolgere uno stage formativo presso la Biblioteca Nazionale che - come ha ricordato De Pasquale - "ha il compito di promuovere e diffondere le attività culturali anche nelle realtà più difficili e complesse, perché è fondamentale il valore della cultura come strumento di recupero". Due le fasi di realizzazione del protocollo: la donazione di alcuni testi alla biblioteca della casa circondariale e l’avvio di stage formativi in cui i detenuti in regime di semilibertà potranno approfondire l’iter del libro, dalla catalogazione agli eventi culturali. Cultura e lavoro in carcere. "Noi ci crediamo", ha dichiarato il Garante dei detenuti della regione Lazio, Stefano Anastasia, che ha aggiunto: "Allargare le possibilità di comunicazione fra l’interno e l’esterno e volgere attenzione al corpo sono iniziative favorevoli". Entusiasti anche i docenti dell’Università di Roma Tor Vergata. "La cultura ha molteplici valenze: interiori e formative" - ha commentato la professoressa Marina Formica, responsabile del progetto di teledidattica avviato nel 2006. Anche gli studenti-detenuti presenti all’evento, alcuni dei quali del reparto Alta Sicurezza, hanno partecipato attivamente, fornendo alcuni spunti di riflessione per migliorare la condizione detentiva. Fabio Balbo, iscritto alla facoltà di Giurisprudenza, ha ricordato che "il carcere è un presidio di legalità, pertanto deve essere un presidio di diritti". Un appello anche al mondo del lavoro è stato rivolto dallo studente-detenuto Filippo Rigano: "Le aziende ignorano gli sgravi fiscali che potrebbero avere assumendo un lavoratore detenuto. Il lavoro penitenziario è una risorsa" Vicenza: l’interrogazione parlamentare "azzerato il servizio di psicologia per i detenuti" di Emma Reda vicenzapiu.com, 6 aprile 2017 L’on. Daniela Sbrollini, vicepresidente della XII Commissione Affari Sociali e Sanità, ha formulato un’interrogazione al Ministro della Salute Beatrice Lorenzin per chiedere come il Governo intenda agire nei confronti della Delibera della Regione Veneto nr. 3 del 12.01.17, in base alla quale non verrà rinnovato il contratto di lavoro - in scadenza a luglio - agli psicologi che attualmente lavorano all’interno del carcere di Vicenza. Una decisione, sottolinea l’on. Sbrollini, che "di fatto azzera il Servizio di Psicologia rivolto alla popolazione detenuta, attivo da oltre 20 anni". "La Delibera - aggiunge l’onorevole - non tiene in nessun conto l’importante aspetto etico di garantire il posto di lavoro a personale che, nonostante le ripetute richieste di stabilizzazione, è stato mantenuto in condizioni di precariato per tanti anni, e non tiene conto altresì l’importante ruolo professionale svolto dagli psicologi specializzati". "Senza gli psicologi verrebbero a mancare servizi fondamentali quali la valutazione del detenuto ed i potenziali rischi di comportamenti lesivi e suicidio, interventi clinici per l’accompagnamento del soggetto alla limitazione della libertà personale, elaborazione della pena e attivazione di percorsi di legalità e re-inserimento.. ecc. I dati dicono chiaramente che il tasso di recidiva dei carcerati scende dal 70% al 20% quando questi sono stati accompagnati in un percorso alternativo alla detenzione e seguito da un’equipe di psicologi". "La nuova Ulss 8 Berica - conclude Sbrollini - sta letteralmente abbandonando i lavoratori e i detenuti, la popolazione carceraria di Vicenza sarà raddoppiata nei prossimi mesi fino ad arrivare a quasi 400 persone, un servizio psicologico efficiente per il personale carcerario e per i detenuti è fondamentale. In Veneto si taglia sul settore socio-sanitario, mentre in Parlamento costantemente approviamo aumenti per le regioni e per il Servizio Sanitario Nazionale". Firenze: catturato in Svizzera uno dei tre evasi da Sollicciano, un altro si è costituito La Repubblica, 6 aprile 2017 La fuga lo scorso 20 febbraio. La procura ha chiesto al Ministero di fare domanda di estradizione. Uno dei tre romeni evaso il 20 febbraio scorso dal carcere fiorentino di Sollicciano è stato individuato e catturato in Svizzera. Lo si apprende alla procura di Firenze da cui è stato diramato un ordine di esecuzione della cattura alle autorità svizzere. L’evaso si chiama Danut Ciocan, 25 anni. Con altri due detenuti era scappato dal penitenziario calandosi con un lenzuolo. Un altro degli evasi, Catalin Costantin Donciu, si è costituito ai carabinieri a Torino. La procura di Firenze lo ha individuato nel paese elvetico al confine franco-svizzero grazie ad un vecchio fascicolo da cui emergono contatti del romeno all’estero. La procura generale, su richiesta della procura di Firenze, ha già chiesto al Ministero di fare domanda di estradizione alla Svizzera, chiedendo di consegnare Danut Ciocan, che deve ancora espiare in carcere una pena di un anno, 9 mesi e 12 giorni. Al momento le autorità svizzere non si sono ancora pronunciate sulla consegna. Rimane ricercato il terzo romeno, Costel Bordeianu, che con gli altri evase da Sollicciano il 20 febbraio con una fuga rocambolesca e spettacolare. Busto Arsizio: "Pirandello Remix", attori detenuti sul palco del Sociale varesereport.it, 6 aprile 2017 "Microfestival Incontri" è una piccola rassegna teatrale che ha ospitato fra il 20 marzo e il 31 marzo, dentro le mura del Carcere di Busto Arsizio gli incontri teatrali fra i ristretti del carcere e circa 200 studenti delle Scuole Superiori E.Tosi e IPC Verri, ITC Gadda Rosselli di Busto e M.Curie di Tradate. Il festival ha voluto creare momenti di inclusione sociale fra detenuti e studenti, sensibilizzando questi ultimi sui temi della legalità e della responsabilità sociale e sull’uso dell’arte come strumento di recupero e risocializzazione. La rassegna, giunta al termine, culminerà in un evento aperto alla cittadinanza ospitato presso il Teatro Sociale di Busto il 6 aprile 2017. Lo spettacolo "Pirandello Remix" vedrà protagonisti gli attori detenuti dell’Associazione L’Oblò Onlus che opera nel Carcere.. Il festival e la serata conclusiva in teatro si collocano all’interno degli eventi promossi dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e dal Coordinamento Nazionale del Teatro in Carcere per la 4° Giornata Nazionale del Teatro in Carcere, celebrata il 27 marzo. Un’iniziativa dalla forte valenza sociale che promuove l’idea dell’inclusione come strumento di rieducazione e prevenzione della devianza. Per la realizzazione dello spettacolo "Pirandello Remix" è stato fondamentale il sostegno della Direzione della Casa Circondariale di Busto e dell’Area Trattamentale, il sostegno dei Magistrati di Sorveglianza che, credendo nell’alto valore rieducativo dell’iniziativa, hanno accordato ii permessi ai detenuti coinvolti che potevano usufruirne, e del Comune di Busto Arsizio che ha patrocinato l’iniziativa concedendo l’uso della sala teatrale. Il festival è giunto al suo momento più emozionante… tutti "liberi" o ristretti, per una sera di teatro fuori di galera. L’associazione di Promozione Sociale L’Oblò, costituita nel 2016, nasce dall’esperienza dei suoi fondatori fra carcere, teatro e scuola. Essa si occupa di realizzazioni di interventi riabilitativi e risocializzanti mediante l’uso di terapie a mediazione artistica per favorire il benessere psicofisico e la qualità della vita di detenuti, ex detenuti, loro famiglie, nonché realizzazione di eventi artistici e culturali che coinvolgano detenuti, ex detenuti e persone interessate ai temi di giustizia, legalità, prevenzione disagio sociale e devianza. L’esperienza maturata nel carcere di Busto Arsizio dal 2008, ha ora il desiderio di ampliarsi e aprirsi anche alla cittadinanza, con interventi artistici e di arti terapie dedicati non solo a detenuti ed ex detenuti per favorire percorsi di risocializzazione, ma anche ai giovani e alle scuole, con l’intento di maturare percorsi di prevenzione del disagio ed educazione alla legalità. Grazie al sostegno della "Fondazione Comunitaria del Varesotto Onlus". Palermo: "Il teatro al Malaspina", i giovani detenuti divengono attori Italpress, 6 aprile 2017 Varato a Palermo un progetto pilota che per 70 giornate, dal mese di maggio, vedrà i giovani detenuti del carcere Malaspina impegnati da lunedì a venerdì per la realizzazione di uno spettacolo teatrale. Si chiama "Il teatro al Malaspina", è organizzato dalla Fita - Federazione Italiana Teatro Amatori e patrocinato dal Comune di Palermo, ed è stato presentato nell’aula Rostagno di Palazzo delle Aquile. "Il tempo al Malaspina è sempre in attesa di qualcosa - dice Michelangelo Capitano, direttore dell’istituto penitenziario minorile. Se riusciamo a far trascorrere ai nostri ragazzi il tempo prima e meglio, diamo loro una grossa mano. Per questo ringrazio la Federazione Italiana Teatro Amatori per l’iniziativa che svolgerà all’interno del nostro istituto". Presenti all’incontro con i giornalisti anche Antonella Messina presidente regionale Fita, Marilia Chiovaro presidente provinciale Fita e il consigliere Giulio Cusumano che ha sottolineato come "In una città come la nostra è importante che la società civile possa abbattere determinate barriere culturali. Impensabile fino a qualche anno fa". I ragazzi ospiti dell’istituto penitenziario avranno modo infatti di cimentarsi con il teatro e fare nuove esperienze. Sarà un modo per loro di avvicinarsi alla cultura e scoprire realtà nuove. Scoprirle ed entrarne a far parte. Durante la conferenza stampa è intervenuto anche il sindaco Leoluca Orlando che ha ricordato come questa iniziativa non è isolata ed è anzi in linea con tante altre che coinvolgono i giovani dell’Istituto penale per minorenni. "Ancora una volta - ha detto Orlando - si conferma che il Malaspina non è luogo altro rispetto alla città e si conferma l’impegno di tanti, privati, enti culturali e sociali, istituzioni, perché la permanenza all’interno del Malaspina sia anche periodo di costruzione di percorsi di crescita umana e civile. Che questo avvenga tramite la cultura - ha sottolineato Orlando - è ancor più importante". Parma: sport e carcere, il film "La prima meta" va in scena all’Edison parmadaily.it, 6 aprile 2017 Dopo il Festival dei Popoli a Firenze e in attesa di presentarlo in Svizzera, in concorso con l’International Premiere il 22 aprile al Festival Internazionale "Vision du réel International Film Festival" a Nyon, uno dei più importanti festival internazionali del genere documentario, in concorso ufficiale nella sezione Grand Angle - una selezione del miglior cinema mondiale contemporaneo destinata a far scoprire al grande pubblico, in anteprima internazionale, film di cineasti rinomati presentati in altri grandi festival internazionali - La Prima Meta, arriva il 6 aprile alle ore 21 al Cinema Edison di Parma. Il film lungometraggio su Giallo Dozza, la squadra di rugby della Casa Circondariale Dozza di Bologna prosegue poi con 16 date in tutta la regione Emilia Romagna, all’interno della rassegna, Doc in tour 2017. Alla proiezione sarà presente la regista Enza Negroni. La squadra è iscritta al campionato ufficiale F.I.R. di serie C2 sotto la guida del tenace coach. Con l’arrivo di tre giovani detenuti, il film segue le vicende dei Giallo Dozza nel corso del suo primo campionato, giocato forzatamente sempre in casa. Tra allenamenti estenuanti e i ritmi lenti della quotidianità in cella, il film racconta il difficile cammino dei detenuti per raggiungere la meta non solo in campo ma anche nella vita con una ritrovata dignità sociale: un sofferto inno allo sport, alla condizione umana, in tutte le sue complesse latitudini. Due le motivazioni che hanno spinto Enza Negroni a girare La prima meta. Da un lato approfondire il processo di inclusione attraverso il rugby di detenuti di diverse nazionalità, con la formazione di un tessuto sociale multietnico, come solo il carcere riesce a rappresentare. Dall’altro, l’utilizzo della forma documentaristica che permette di raccontare l’esperienza della vita carceraria, senza mediazioni, raccontando il tentativo di emergere da un forte disagio. Al secondo lungometraggio dopo il fortunato "Jack frusciante è uscito dal gruppo" con gli allora esordienti Stefano Accorsi e Violante Placido, Enza Negroni in questi anni ha girato numerosi mediometraggi di genere documentario, passati per importanti festival e per le principali reti televisive italiane. Tra questi, Viaggio intorno a Thelonius Monk, con Stefano Benni per Feltrinelli; Le acque dell’anima con Bjorn Larsson e Istanbul con Nedim Gursel per Rai Educational; Lo chiamavamo Vicky, dedicato a Pier Vittorio Tondelli, presentato in concorso internazionale al Biografilm Festival; e per Rai 150 anni, due documentari storici, Letture dal Risorgimento e Visioni d’Italia. Sul set de La prima meta ha lavorato una troupe molto affiatata. Accanto alla regista, la produttrice Giovanna Canè con alle spalle una lunga carriera professionale in Italia e all’estero (tra gli ultimi lavori coordinatrice per Ispettore Coliandro, Romanzo Criminale e Quo Vadis Baby); Corrado Iuvara, montatore del cortometraggio A casa mia di Mario Piredda che ha vinto il David di Donatello 2017 e di See you in Texas di Vito Palmieri, premio della giuria allo Shanghai International film festival e premio del pubblico al Biografilm Festival Italia, e il direttore della fotografia Roberto Cimatti (a.i.c.) da anni ai più alti livelli della fotografia cinematografica, con registi quali Amir Naderi (Monte) Giorgio Diritti (Il Vento fa il suo giro, L’Uomo che verrà, Un giorno devi andare); Giuseppe Piccioni (Il rosso e il blu) e molti altri. Terni: "Pensieri sparsi", le opere dei detenuti in mostra al cenacolo San Marco umbriaon.it, 6 aprile 2017 "Pensieri sparsi", nell’ambito del progetto "Arte in carcere" della Caritas diocesana, al cenacolo San Marco dall’8 al 15 aprile. Sarà inaugurata sabato 8 aprile alle 17 "Pensieri sparsi", la mostra di opere pittoriche, disegni e poesie realizzate nell’ambito del progetto "Arte in carcere" della Caritas diocesana e associazione di volontariato San Martino, in collaborazione con la direzione della Casa circondariale di Terni. La mostra d’arte, allestita al cenacolo San Marco di Terni fino al 15 aprile, apre la serie di iniziative promosse in occasione del ventennale dell’associazione di volontariato San Martino. Conclusione di un percorso - "La mostra rappresenta la conclusione di un percorso umano e formativo che la Caritas ha avviato con i detenuti nel segno di una grande attenzione alla dignità umana, del riscatto umano e sociale e della speranza", spiega Nadia Agostini responsabile del settore carcere della Caritas diocesana. "Abbiamo scelto di concluderlo con la mostra nella Settimana Santa che rappresenta per i cristiani il segno della sofferenza, passione e morte, ma soprattutto della resurrezione. Un segno di speranza che è il percorso che si cerca di infondere a tutte le persone che si incontrano nel centro di ascolto in carcere. La mostra giunge a conclusione di un anno intero dedicato all’approfondimento di questo percorso umano che si esprime visivamente nelle opere dei detenuti". Un laboratorio artistico, attivo da quasi 15 anni all’interno del carcere, che è opportunità di socializzazione ed evoluzione relazionale mentre si apprendono le tecniche del disegno e del colore. Rappresenta una delle varie modalità di solidarietà che, grazie all’associazione di volontariato San Martino che gestisce le opere segno della Caritas diocesana, vengono portate a favore dei detenuti durante tutto l’anno sia con aiuti di beni di prima necessità, con i colloqui nei centri di ascolto, le tombolate per il Natale e tante altre iniziative per dare conforto e beni concreti ai detenuti e alle loro famiglie. Le opere potranno essere acquistate - All’inaugurazione saranno presenti il vescovo Giuseppe Piemontese, il direttore della Casa circondariale di Terni Chiara Pellegrini e gli operatori e rappresentanti della polizia penitenziaria, il direttore della Caritas diocesana Ideale Piantoni, il presidente dell’associazione di volontariato San Martino Francesco Venturini, i volontari che prestano il servizio in carcere e alcuni detenuti autori delle opere a cui è stata data la possibilità di seguire la mostra nell’intera settimana. L’allestimento sarà visibile dalle 10 alle 12.30 e dalle 16.30 alle 19.30. Le opere potranno essere acquistate con un’offerta in denaro e il ricavato sarà utilizzato per l’acquisto dei materiali per il laboratorio artistico, per le necessità del detenuto autore dell’opera e per un fondo comune. Pescara: "Detenuto libero", un libro per creare un ponte tra carcere e società Agi, 6 aprile 2017 "Detenuto libero": è il libro del pescarese Antonio Giammarino, fotografo professionista, storico e uno dei più grandi collezionisti di macchine fotografiche d’epoca, che sarà presentato nei prossimi giorni. Nel volume, edito da Edizioni Tracce, Giammarino, da anni impegnato in molteplici attività culturali, didattiche e sociali nelle scuole e nelle carceri, racconta la propria esperienza di insegnante di fotografia nei penitenziari abruzzesi. L’autore fa rivivere le giornate dei detenuti e la loro "voglia di mondo" che si concretizza nelle più svariate maniere: "c’era chi voleva un interlocutore con il quale creare un dialogo di scambio e arricchimento reciproco, altri invece volevano semplicemente un amico la cui visita avrebbe in qualche modo alleggerito per quei pochi attimi la monotonia della reclusione; altri ancora, forse, speravano di ingannare la realtà fingendo di vivere una vita normale, in cui si ricevono visite di amici e si svolgono attività di svago come poteva essere, in quel contesto, il corso di fotografia". "Colpisce la sensibilità dell’autore - si legge nella prefazione di Maria Rosaria Parruti e Francesca Del Villano Aceto, magistrati di sorveglianza - nel cogliere l’importanza dell’interscambio tra il mondo del carcere e la società civile ai fini della riabilitazione e del reinserimento sociale dei detenuti". Giammarino non solo mette a nudo ansie, sofferenze, sogni di libertà dei detenuti, ma racconta anche l’esperienza "da detenuto, libero e contemporaneamente recluso". Il libro è arricchito anche dagli interventi di Giuseppina Ruggero, direttrice del carcere di Chieti, e Franco Pettinelli, direttore della Casa circondariale di Pescara. "Il permesso - 48 ore fuori". Il fardello del passato in due giorni di libertà recensione di Antonello Catacchio Il Manifesto, 6 aprile 2017 Claudio Amendola aveva felicemente stupito con la commedia "La mossa del pinguino". Ora presenta il suo secondo film da regista "Il permesso - 48 ore fuori". Siamo in territorio noir partendo dal carcere di Civitavecchia. Da lì escono 4 detenuti per un permesso. Luigi (Amendola) è in galera per duplice omicidio, Donato è dentro perché è stato incastrato da innocente, Angelo sconta la condanna per una rapina, poi c’è Rossana, pizzicata in aeroporto con un carico di cocaina. Ognuno vuole utilizzare il permesso per sistemare alcune cose rimaste in sospeso, e ognuno porta con sé un fardello che il carcere non ha certo alleggerito. Un tentativo curioso di esplorare sensibilità borderline (la storia è scritta con Roberto Jannone e Giancarlo De Cataldo) perché nel plot traspaiono i tratti dei vari Gomorra e Romanzi criminali, ma l’approccio nei confronti dei protagonisti è diverso, c’è empatia, voglia più di capire che di giudicare. Migranti. Juncker richiama l’Austria al ricollocamento La Repubblica, 6 aprile 2017 Il presidente della Commissione Ue replica al cancelliere Kern che aveva chiesto l’esenzione dalla ‘relocation’. Nel documento di tre pagine ricorda anche che gli hotspot in Italia e Grecia sono "pienamente operativi". Europarlamento condanna i "migration compact". "Confido che l’Austria adempia agli obblighi di legge e inizi con la ridistribuzione" dei richiedenti asilo "dall’Italia e dalla Grecia". Così il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker nella sua lettera di risposta al cancelliere austriaco Christian Kern, che aveva chiesto l’esenzione dallo schema della relocation, ricollocamento dei migranti. "La Commissione è pronta a discutere come assistere le autorità austriache, affinché adempiano gradualmente ai loro obblighi. Naturalmente terremo conto della solidarietà che l’Austria ha dimostrato in passato", scrive Juncker. "Capisco le tue preoccupazioni e timori ma desidero sottolineare che la situazione è cambiata", spiega il presidente della Commissione europea nel documento lungo tre pagine, ricordando tra i vari elementi, che è stata istituita l’Agenzia europea dei guardacoste e delle guardie di frontiera a tempo record, e che gli hotspot in Italia e Grecia sono "pienamente operativi". Nel quadro del programma l’Austria nel 2015 si era assunta l’incarico di accogliere circa 1900 migranti provenienti da Italia e Grecia. Italia e Grecia peraltro sono ancora sotto pressione e hanno bisogno del sostegno promesso: "La ridistribuzione è espressione di solidarietà e di equa ripartizione della responsabilità. Per questo è necessario il coinvolgimento attivo di tutti gli Stati membri. E il tempo a disposizione non è molto". Non si darebbe un buon segnale se non si riuscisse tutti insieme a ripartire entro il settembre 2017 tutti gli aventi diritto in Italia e Grecia. La reazione austriaca non è tardata ad arrivare. Il ministro degli Interni Wolfgang Sobotka (popolari) ha detto di voler avviare il programma di ricollocamento di 1.900 profughi dall’Italia e dalla Grecia. "Siamo giuridicamente vincolati a rispettare l’accordo europeo e lo faremo", ha detto un portavoce del ministro all’agenzia Apa. Lo staff del cancelliere Christian Kern (socialdemocratici) vede invece ancora "margini di manovra", facendo riferimento a un’applicazione "graduale", alla quale la lettera di Juncker fa accenno. A fine marzo Kern, a margine di una seduta del consiglio dei ministri a Vienna, aveva manifestato l’intenzione di scrivere una lettera a Bruxelles, spiegando che l’Austria chiede "comprensione" per l’intenzione di disapplicare il piano di ricollocamento dei migranti. "Non siamo agenti provocatori", aveva sottolineato Kern affermando che Vienna "di certo non cercherà un procedimento di infrazione con Bruxelles". La procedura - aveva aggiunto - "addirittura è pro-europea. Gli impegni, presi a livello europeo, di per sé vanno rispettati per il bene della comunità". Kern aveva ricordato però il numero di migranti e profughi che attualmente soggiornano già in Austria. Il piano di redistribuzione nei Paesi Ue di 160 mila richiedenti asilo giunti in Italia e in Grecia dal settembre 2015 prevede che Vienna accolga quasi duemila persone. Kern aveva allora spiegato che l’Austria ha già accolto quasi lo stesso numero di migranti, giunti illegalmente nel Paese. Per la Commissione europea invece nessuno dei quasi 27 mila migranti finora ricollocati è stato accolto in Austria. Oggi, nel frattempo, in una risoluzione approvata per pochi voti, il Parlamento europeo ha condannato l’uso dei cosiddetti "migration compact" per incoraggiare i Paesi terzi a bloccare i flussi di migranti verso l’Europa. Il testo, approvato con 333 voti favorevoli, 310 contrari e 46 astensioni, chiede di instaurare un "regime di governance multilaterale" per le migrazioni, una più stretta cooperazione tra l’Ue, gli organismi specializzati delle Nazioni Unite, le banche multilaterali di sviluppo e le organizzazioni regionali, e la creazione di una vera e propria politica comune europea in materia di migrazione incentrata sui diritti umani e basata sul principio di solidarietà tra gli Stati membri. Il Parlamento europeo, inoltre, vuole essere coinvolto nell’attuazione dei cosiddetti "migration compact" che l’Ue sta negoziando con paesi terzi per frenare i flussi migratori. Secondo i deputati, che hanno condannato la mancanza di trasparenza di questi accordi, gli aiuti dell’Ue dovrebbero essere concessi senza condizioni. Per l’Europarlamento, i "migration compact" non devono servire per incentivare i Paesi terzi "a cooperare alla riammissione dei migranti irregolari o dissuadere con la coercizione le persone dal mettersi in viaggio, oppure fermare i flussi diretti in Europa". La risoluzione, infine, sostiene la campagna Together delle Nazioni Unite per ridurre la percezione negativa dei rifugiati e dei migranti. Francesca, che trasporta migranti: "Il mio crimine è la solidarietà" Corriere della Sera, 6 aprile 2017 Fermata a Ventimiglia, il procuratore francese ha chiesto 8 mesi di carcere: la sentenza rinviata al 17 maggio. "Gli ho detto che non vedo la frontiera, non esiste. Quando ero piccola ci passavo e nessuno controllava". La battuta sulla risposta italiana a Cédric Herrou non la fa sorridere per nulla. Anzi. "Io sono una cosa diversa. Io non volevo mediatizzare. Si parla troppo di chi aiuta e troppo poco di chi viene aiutato. Facile dare solidarietà a noi europei, facce note e familiari. No, bisogna darla a chi ha davvero bisogno". Le differenze sono negli spigoli. Il contadino di Breil-sur-Roya è diventato il nome che rappresenta l’aiuto ai migranti nella valle stretta tra le montagne di Francia e Italia, il passaggio obbligato per chi cerca un varco nella frontiera di Ventimiglia. Il processo per aver facilitato l’ingresso, il soggiorno e la circolazione di migranti irregolari, gli hanno dato una notorietà non del tutto sgradita. "Ma parlare di noi invece è un modo dell’opinione pubblica di sgravarsi la coscienza e continuare a fregarsene di quel che accade, senza mettere attenzione sulla frontiera e sul dramma che si consuma ogni giorno". Eroina e fuorilegge - Francesca Peirotti ha 29 anni, un piercing al naso, una laurea in Economia con tanto di master, e la serietà che deriva dalla consapevolezza di essere una eroina per pochi e una fuorilegge per tanti altri. Martedì pomeriggio è entrata nel tribunale di Nizza determinata a non parlare. E infatti non ha risposto alle domande del presidente della corte. Era stata arrestata l’8 novembre sulla A8, all’altezza di Mentone. Guidava un furgoncino bianco. A bordo c’erano sette giovani eritrei e un cittadino del Ciad. Una pattuglia mista di poliziotti italiani e francesi la seguiva da Ventimiglia, dove aveva fatto salire i migranti. Herrou se l’è cavata con una multa. Con lei il procuratore ci è andato più pesante, chiedendo otto mesi di reclusione ma soprattutto due anni di interdizione dal territorio francese. Ma è stato quando ha risposto con una alzata di spalle alle obiezioni del suo avvocato sull’emergenza umanitaria, che Francesca non ci ha visto più. E ha preso la parola. "Non vedo frontiere" - "Gli ho detto che io non vedo la frontiera. Non esiste, e quindi non c’è alcuna illegalità in quel che faccio. Quand’ero piccola ci passavo sempre d’estate con la mia famiglia. Nessuno ci ha mai fermato. Quello è solo un filtro ingiusto e disumano per le persone di colore. Almeno diciamo le cose come stanno". Fine pomeriggio, nel centro della Nizza vecchia. L’associazione Habitat et citoyenneté mette in contatto i migranti che sono riusciti a passare con le famiglie francesi disposte ad accoglierli. Francesca ci lavora per 300 euro al mese. Mette molti paletti alla nostra conversazione. Per indole e per prudenza. Abita sulle alture, in una casa dove insieme ad altri accoglie gli immigrati. Vive tra Italia e Francia. L’anno scorso per due mesi ha fatto da mamma a Loza, una bimba sudanese di 5 anni. La sua famiglia si era divisa al momento della partenza. Quando ha saputo che la madre e il fratello maggiore erano sbarcati in Sardegna, ha noleggiato un camper ed è partita. Ha dato una grossa mano al ricongiungimento familiare, mettiamola così. "Vivono ad Amburgo, e stanno alla grande. La loro libertà è la mia libertà". "Sono una militante" - Non c’è un punto di svolta, un momento preciso o un trauma nascosto. Certe volte le cose seguono una linea retta. "La mia vita è andata come doveva andare. Sento di non poter fare altro. Chi mi definisce come una pasionaria sbaglia. Non sono neppure una volontaria. Mi ritengo una militante, che pratica la disobbedienza civile per eliminare dei confini che non sono solo territoriali". La ragazza di Madonna dell’Olmo, frazione di Cuneo, laureata a Torino, specializzata a Bologna, è la stessa persona che mentre preparava la tesi insegnava italiano ai migranti, che ha trascorso un anno in Etiopia ad assistere bambini sieropositivi, che ha vissuto sei mesi nella giungla di Calais, che è tornata nei luoghi delle vacanze d’infanzia quando nel 2015 ha visto le proteste dei migranti sugli scogli dei Balzi rossi. Fino a diventare la prima attivista italiana processata a Nizza. "Per un crimine di solidarietà. Ma non fa nulla. Ho scelto Economia proprio perché volevo capire la ragione di certe disuguaglianze nel mondo". Papà è un rappresentante di commercio in pensione, mamma è una impiegata. "Non so se approvano. Hanno accettato, e tanto basta". Facebook - Anche oggi un’altra realtà ha bussato alla sua bacheca Facebook. "Spero che ti arrestino e buttino via la chiave". "Grazie per aver portato via dall’Italia otto potenziali rompicoglioni". Gli altri messaggi sono irriferibili. Francesca non si scompone. "Ignoranza. Non come insulto ma nel senso di non sapere". Tira fuori una foto dal cassetto della sua scrivania. "Si chiamava Milet. Veniva dall’Eritrea, aveva 16 anni. Lo scorso ottobre è stata travolta da un Tir sull’autostrada. Era una mia amica. Sono sopravvissuti alla Libia, agli scafisti, al mare. E muoiono come cani a Ventimiglia. Come fai a guardare senza fare nulla? A chiuderti in casa?". Bussano, questa volta alla porta. La tensione si scioglie. C’è una famiglia in partenza, vuole salutare la sua Francesca, che finalmente sorride. "Scusa, ma adesso ho da fare. Dove vanno? Non te lo dico". Germania. "Fake news", il governo approva il disegno di legge di Sebastiano Canetta Il Manifesto, 6 aprile 2017 Critiche dall’opposizione e dall’Associazione dei giornalisti: "A rischio è la libertà di espressione". Il governo Merkel dichiara guerra alle fake-news. Ieri il consiglio dei ministri ha approvato il disegno di legge che punisce la pubblicazione di commenti incitanti odio e notizie false su internet. Per i gestori dei social in Germania scatta l’obbligo di cancellare entro 24 ore i contenuti illegali: chi non si adegua pagherà multe fino a 50 milioni di euro. Tutto mentre si mobilita anche l’esercito, con un "Kommando" per la cyber-guerra. "I fornitori dei siti web hanno la responsabilità di ciò che viene caricato dagli utenti. Devono rimuovere subito le informazioni dolose" riassume Heiko Maas (Spd) ministro della giustizia. Per il via libera definitivo alla legge ci vorrà il voto del Bundestag, mentre dall’opposizione - come fra chi scrive le notizie "vere" - si leva la critica al provvedimento che restringe il confine dei diritti. "A rischio è la libertà di espressione" denuncia l’Associazione dei giornalisti tedeschi (Djv). "Si tratta di una misura frettolosa che può mettere in pericolo il libero esercizio del pensiero" aggiunge la deputata dei Verdi Renate Elly Künast. "È nudo populismo" per il vicepresidente Fdp Wolfgang Kubicki. Marca il punto invece l’Spd e, soprattutto, la Cdu. Fra i più soddisfatti spicca il presidente dell’Unione in Parlamento Volker Kauder che da gennaio conduce la crociata contro le fake-news. Il primo a fare nomi e cognomi: "Si deve rispondere rapidamente ai reclami. Un dovere per chi diffonde le false notizie come Facebook o Twitter". D’ora in poi, secondo il disegno di legge, dovranno attivare modalità di segnalazione rapida di testi, foto e video fuori norma e altrettanto celermente rimuovere i byte incriminati. Nella proposta è prevista anche la certificazione ogni tre mesi dei dati in violazione delle regole. Pagherà chi non esercita davvero la "moderazione" dei contenuti o, più gravemente, è investito della legale rappresentanza dell’azienda (5 milioni di euro la sanzione prevista). In realtà "è stata messa enfasi sulla legge, ma le norme attuali già permettevano la rimozione dei dati offensivi, solo che avveniva in tempi troppo lunghi" è l’analisi che circola al ministero della giustizia. Una moral suason a YouTube (che ha rimosso il 90% delle richieste effettuate) e un avvertimento agli inadempienti Facebook (39%) e Twitter (1%). Oltre a chi intendesse inquinare la comunicazione delle elezioni regionali (7 maggio in Schleswig-Holstein, il 14 in Nordreno-Vestfalia) e federali il 24 settembre. Per questo ieri Steffen Seibert, portavoce del governo, ha rivelato la creazione del Kommando Cyber Abwehr in seno all’esercito, dotato di 13.500 esperti necessari a contrastare i 120 mila attacchi informatici al mese subiti. Marocco. Le donne finiscono in carcere per adulterio di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 6 aprile 2017 Una relazione extraconiugale, come tante altre, è costata il carcere a una dirigente marocchina, Hind El-Achabi, 38 anni, presidente della Dalia Air, una compagnia aerea per gente facoltosa che non vuole viaggiare sui voli di linea. Siamo nel 2017 ma in Marocco l’articolo 490 del Codice penale prevede fino a un anno di detenzione per chi ha rapporti sessuali fuori dal matrimonio. La pena viene raddoppiata nel caso in cui la persona sia sposata e venga denunciata dal coniuge. Ed è stato proprio il marito di Hind, l’ambasciatore kuwaitiano in Austria Sadiq Marafi, ad accusare la moglie di corruzione, tradimento e frode alla procura di Rabat lo scorso giugno. La sentenza, arrivata solo in questi giorni, è stata mite per l’imprenditore Mohsine Karim Bennani e dura per lei. Sette mesi per l’uomo che ha ottenuto la sospensione della pena e due anni per la donna d’affari che è rinchiusa da giugno nel carcere di Salé, a Nord di Rabat. La vicenda ha suscitato grandi polemiche in Marocco perché è l’ennesimo esempio della condizione subordinata della donna e della grande disparità di genere nell’applicazione della legge. Ad El-Achabi è stata comminata una pena tre volte superiore a quella del suo amante nonostante lei e il marito fossero separati di fatto dal 2014 e lui stesse insistendo per il divorzio. "Indignatevi" è il titolo dell’articolo che la scrittrice marocchina Leila Slimani ha pubblicato sul sito francese Le360. " Nel nostro Paese, che ha firmato convenzioni internazionali, che non smette di parlare del suo attaccamento al processo democratico, che si vanta di essere un modello di apertura e di diversità, una donna è condannata alla prigione per adulterio. E senza che nessuno protesti" scrive la scrittrice vincitrice del Premio Goncourt con il romanzo Chanson Douce (che uscirà in primavera per Rizzoli con il titolo Ninna Nanna). Ma il punto è proprio questo: in Marocco nessun partito politico ha in programma di cambiare una legge che non rispetta il diritto alla privacy garantito sia dalla Costituzione del 2011 che dalla Convenzione Internazionale sui diritti civili e politici ratificata da Rabat nel 1979. Il caso di Hind El-Achabi è solo l’ultimo di tanti. A volte la legge viene usata per liberarsi di scomodi oppositori come è successo al giornalista Hicham Mansouri condannato a 10 mesi di prigione nel 2015 perché trovato in casa con l’amante. Per lui si mosse, inutilmente, Human Rights Watch. Ma le vittime principali rimangono le donne come sostengono anche le Nazioni Unite. "Il mio sesso non mi appartiene - ha scritto Leila Slimani su La Lettura. Avevo 16 anni quando per la prima volta l’ho pensato. Appartiene a mio padre, a mio fratello. Un giorno apparterrà a mio marito. E per tutta la mia vita Dio, lo Stato, la folla avranno un diritto su di esso". In Marocco, dice, è ora "di cambiare queste leggi medievali". Danimarca. L’integrazione fallita per il popolo degli inuit di Agnete Metz La Stampa, 6 aprile 2017 Portati da piccoli sulla terraferma hanno perso le radici e anche il futuro. Un turista in visita a Copenaghen forse non nota gli uomini stesi su qualche panchina con la bottiglia di birra in mano. L’occhio non abituato può scambiarli per immigrati venuti dal sud. Ma sono invece inuit, e il danese lo parlano senza accento, una cosa quasi impossibile per chi viene da fuori. Vivono fra di loro, marginalizzati rispetto ai danesi che passano velocemente sulla pista ciclabile, portando con sè i loro numerosi figli, che mangiano bio, che tengono alla parità tra i sessi e al welfare. Questi uomini dal volto inuit non potevano essere più lontani dal mondo che li circonda. In danese si usa dire "essere ubriaco alla groenlandese", cioè privo di sensi per il consumo d’alcool. La gente inuit per strada è quanto lasciato da una politica coloniale che, anche se ha evitato scontri violenti, è tutt’altro che riuscita. Molti suicidi - Con un elevato tasso di suicidi, diffusa disoccupazione e un’aspettativa di vita di 10 anni inferiore rispetto a Copenaghen, non si vive tanto bene in Groenlandia. Ogni anno la Danimarca versa all’isola circa mezzo miliardo di euro, e in più, gestisce sicurezza, giustizia e affari esteri. Questo fa si che, senza parlare il danese, diventa difficile accedere a un’occupazione in Groenlandia, e gran parte del lavoro qualificato viene svolto da danesi. La Danimarca voleva "portare la civilizzazione agli inuit in modo che permettesse loro di sopravvivere come popolo" spiegava nel 1952 il dipartimento per l’amministrazione della Groenlandia. In realtà le misure furono radicali. Eleonora è una signora inuit sui cinquanta, abita a Nuuk, la capitale della Groenlandia. Da giovane si è laureata in Danimarca, ma poi è tornata nell’artico. A 13 anni fu portata via dalla famiglia, a 4.000 chilometri di distanza, in Danimarca per imparare il danese. "Volevamo andare, i nostri genitori volevano che andassimo. Devi capire che per noi, in quell’epoca, i danesi erano tutto quello che aspiravamo a essere: alti, belli ed efficienti. In Danimarca non si stava così male, ma era difficile stare lontano dai miei fratelli, e quando ho rivisto mamma dopo un anno, ero timida. Non sono più tornata a vivere a casa. Al ritorno in Groenlandia, ci hanno messi a vivere presso dei convitti vicino alla scuola e, alla fine, tra noi ragazzi parlavamo poco groenlandese. Quando andavo dai miei in estate, spesso non capivo quello che dicevano. Ci siamo allontanati". Una lingua comune - La politica linguistica era parte dell’idea di aprire la Groenlandia al mondo ed era cominciata anni prima. A metà del secolo scorso ci si imbarcò in un esperimento: creare cittadini indigeni d’élite che sarebbero potuti diventare gli interlocutori groenlandesi della pubblica amministrazione danese. Nel ‘51 furono prelevati dalle loro famiglie, senza un chiaro consenso dai genitori, 22 bambini groenlandesi tra gli 8 e i 5 anni. Arrivarono in Danimarca per imparare la lingua e la cultura della madre patria, ma nessuno di loro riuscì mai a fare parte d’una élite indigena. Persero anzi la lingua madre e l’appartenenza culturale e affettiva. Metà di loro morì in giovane età, le loro vite distrutte tra orfanotrofi e famiglie danesi a cui erano affidate, spesso non capaci di comprenderne la difficoltà. Nel 2015 la Croce Rossa, che aveva materialmente prelevato i bambini, ha chiesto scusa. Ma il governo danese, responsabile del progetto, ha solo ammesso che si era trattato di un "errore". Convivenza forzata - Dagli anni 60 in poi, divenne invece obbligatorio per la gran parte dei piccoli inuit, dagli 8 anni in su, trascorrere uno o due anni in Danimarca per studiare la lingua. È il caso della signora Eleonora. Una prassi proseguita in modi diversi fino agli anni ‘90. "Ho imparato il groenlandese di nuovo studiando eschimologia all’Università di Copenaghen, pensa. Il problema quando non torni dai tuoi cari, e c’erano anche bambini molto più piccoli di me, è che perdi il senso della famiglia. Noi, la mia generazione, ci siamo un po’ persi. Se cresci da solo con altri ragazzi in un convitto, perdi le tue radici. Non ti insegnano ad andare a caccia, non ti raccontano le nostre storie". Si tratta di politiche che hanno provocato una rottura nel tessuto culturale inuit e una crisi sociale tuttora in corso. Oggi nessuno viene più spedito in Danimarca, ma questo non sembra aver risolto i problemi sull’isola. E anche Eleonora non scarta del tutto il vecchio sistema. "I giovani parlano un bel groenlandese, ma la vita tradizionale inuit quasi non esiste più. E senza parlare bene il danese, quale lavoro vuoi trovare in Groenlandia?". Tibet: monaco Gyatso rilasciato dopo nove anni di carcere, torture durante la detenzione laogai.it, 6 aprile 2017 Il monaco tibetano Tsulitrim Gyatso era stato condannato per aver guidato una protesta nel 2008 davanti l’ufficio del governo locale a Tsenyi, una piccola città nella contea di Ngaba, nella regione di Ngaba. Il religioso è noto per diverse azioni di protesta contro il dominio cinese in Tibet. Secondo una fonte della regione, il monaco appartenente al Monastero Amchok Tsenyi ha raggiunto la sua città natale dopo la mezzanotte del 1° aprile, accolto da una calorosa accoglienza. Le autorità cinesi avevano imposto al monaco di entrare nella sua città natale solo dopo quest’ ora. Le condizioni fisiche del monaco 52 enne dopo aver subito gravi torture durante la detenzione, non sono state ancora appurate. Il 17 marzo 2008 circa 600 monaci del monastero avevano effettuato una manifestazione davanti alla sede del governo locale chiedendo la libertà in Tibet, il ritorno del Dalai Lama e il rilascio dell’11° Panchen Lama. La repressione violenta della polizia cinese con utilizzo di armi da fuoco causò il ferimento di due monaci e ne seguì un arresto di massa dopo che i militari avevano circondato il monastero il giorno seguente. Dopo la diffusione su come la polizia cinese abbia affrontato brutalmente la situazione, le aree popolate del Tibet e della Regione autonoma del Tibet furono testimoni di molte auto-immolazioni e proteste contro il dominio cinese in questa regione dell’Asia centrale. Finora sono 147 i tibetani che si sono auto-immolati in segno di protesta contro il regime repressivo di Pechino dal 2009.