In ricordo dell’agente Calogero Faldetta, per superare nelle carceri la logica del conflitto Il Mattino di Padova, 5 aprile 2017 La morte improvvisa, per un infarto, di un agente di Polizia penitenziaria è stata argomento di riflessione anche tra le persone detenute. Si tratta di un agente che si è meritato la stima di tutti, proprio perché interpretava il suo lavoro rispettando la dignità di chi aveva di fronte, e non pensando invece che chi commette un reato perda tutto, anche il diritto a venire trattato da essere umano. Per questo oggi portiamo la testimonianza di un giovane detenuto, che ha spesso avuto un cattivo rapporto con le istituzioni, e con le "divise" in particolare, perché è importante schiodarsi dalla logica della contrapposizione e dello scontro e avviare finalmente un confronto fra tutte le componenti del mondo carcerario. Un confronto a cui dà un contributo davvero innovativo un magistrato, Francesco Cascini, che da anni si occupa di esecuzione delle pene, e che ha il coraggio di dire con forza che la logica del conflitto è ancora spesso dominante nelle galere, e che bisogna superarla e cercare piuttosto l’ascolto, il dialogo, la mediazione, un’idea diversa di giustizia, insomma. Una persona senza il desiderio di calpestare quei pochi diritti che ci sono rimasti Fra tanti pensieri che la notte mi accompagnano, mi è passata per la testa anche la notizia della morte improvvisa di un agente che stamani è giunta in tutto l’istituto. Questo agente, o meglio questa persona prestava servizio da un pò di mesi proprio sul piano dove sono ubicato. Quello che è strano, e che qualche anno fa non mi sarebbe passato neanche per la testa di dover pensare, è che dietro la scomparsa di un uomo che portava la divisa c’era innanzitutto una persona, un padre di tre figli che ora non vivranno più l’affetto paterno. Anzi, nel caso in passato avessi appreso una notizia del genere sicuramente la risposta che mi sarei dato era "vabbè uno di loro in meno", parole che condividerebbero tanti altri ancora nelle patrie galere, parole che non si sono risparmiate neanche alcuni agenti nei confronti di detenuti che si sono suicidati. Proprio qualche anno fa mi ricordo che qui a Padova si è impiccato un detenuto italiano nella propria cella, e per solidarietà con quel nostro compagno morto accompagnammo quella notizia con la battitura di pentole e cancelli in tutti i piani dell’istituto. Quando si creano queste situazioni ci troviamo coinvolti un pò tutti noi reclusi, in qualche modo sentiamo anche noi quella corda che si stringe al collo estinguendoti la pena ma prendendosi la vita. Questo pensiero sono anche certo che non lo condividerà parte del mondo, una parte di società che non ha interesse a quel morto, che aveva scelto di commettere reati, perché noi viviamo in un altro pianeta e chi sta intorno non vuole saperne di cosa accade all’interno del carcere. Molto spesso siamo giudicati con facilità, al centro di qualunque pregiudizio. Sempre quella sera mentre quell’uomo era ancora penzolante a quelle sbarre, forse a darsi pace, un agente che passava sul piano a fare il giro di controllo "sdrammatizzando" esclamò "vabbè uno in meno da contare". Se ci penso è ancora così squallida quella frase. Istintivamente in quel momento provai rabbia verso quella persona che aveva detto quelle parole, dicendogli con toni alti che se veramente pensava questa cosa, allora era proprio uno stupido perché la mia morte o quella di qualunque altro detenuto non gli avrebbe tolto o dato niente. Quelle mie parole hanno creato una sorta di riflessione in questa persona, che ci ha ripensato chiedendomi scusa per quelle parole, ma poi invece mi accorgo che allo stesso modo ancor prima le avrei dette stupidamente anch’io, nei confronti di qualcuno che fosse diverso da me. Allora cosa siamo veramente per augurare la morte altrui? Quell’agente in questi giorni ha avuto solo la "fortuna" di trovarsi per l’ultimo istante prima della morte vicino ai propri cari. Quella scomparsa mi ha fatto riflettere tanto e mi ha fatto venire voglia di non creare più quella sorta di barriera tra noi e loro. Questo padre di famiglia era meridionale come me, soprattutto era una persona e non un agente, un nemico. Non conoscevo il suo nome, non gli era permesso dirlo per motivi di sicurezza, motivi che creano tante barriere tra le due parti. Il rapporto tra agente e detenuto è sempre molto difficile all’interno di un posto dove ci sono ordini, regole, a volte anche prevaricazioni, abusi e soprattutto tanti dispetti con lo scopo di vendicare col male il male che noi abbiamo recato alla società. Quell’uomo non era così, anche se lo conoscevo da poco era una persona comprensiva, senza il desiderio di calpestare quei pochi diritti che ci sono rimasti. Non mi dimenticherò di quel giorno che non volevano farci usufruire del campo di calcetto situato nella palestra centrale, perché non avevano a disposizione un cambio per accompagnarci, e dopo le solite discussioni per questa mancanza, lo stesso agente si prestò a condurci personalmente fregandosene dei suoi colleghi, litigandosi anche con qualche superiore che aveva già disposto che la palestra quel giorno non era consentita, abbattendo con coraggio quel muro che si era venuto a creare. Sono convinto che anche da lassù farà prevalere le cose giuste, che fanno bene alla vita intera, e quando un giorno ci troveremo insieme nell’aldilà, sicuramente una partita di calcetto tra una nuvola e l’altra ce la faremo insieme, perché certo lassù sarà consentito. Raffaele Delle Chiaie L’esecuzione penale deve essere il momento in cui i conflitti si risolvono di Francesco Cascini* Visto che siamo in un carcere permettetemi di fare un passaggio, (io ho lavorato molti anni nell’amministrazione penitenziaria), su quello che è il carcere, che è stato il carcere nel corso di questi anni, perché sono convinto che la cultura della giustizia penale, la cultura dell’esecuzione penale in un qualche modo passa anche per un’attenta lettura di quello che accade negli istituti penitenziari. Io spesso incontro la polizia penitenziaria, facciamo continuamente corsi di formazione. La sensazione, parlando con loro, è che si sentano ancora in larga misura parti di un conflitto. Per moltissimi anni, prima con il regolamento Rocco che era del 1930 ed è stato in vigore fino al 1975, il carcere era segregazione, quindi era gestione e prosecuzione di un conflitto. Dopo quegli anni, gli anni del terrorismo e della criminalità organizzata hanno spinto il carcere a proseguire nel conflitto. I poliziotti penitenziari erano uguali agli altri poliziotti: erano quelli che dovevano continuare a contenere quel pericoloso conflitto, impedire le rivolte, impedire i sequestri, impedire le uccisioni. E questa cosa qui ce la siamo portata dietro fino a qualche anno fa e forse è ancora latente, l’idea che è necessaria una polizia nel carcere sottintende l’idea che con l’esecuzione della condanna non inizia il periodo di risoluzione del conflitto ma è la prosecuzione di quel conflitto, ed è qui che può nascere una contrapposizione insanabile tra quella che viene definita sicurezza negli ambienti penitenziari e il trattamento, se non si va oltre, se non si accetta l’idea che il momento dell’esecuzione penale, che sia in carcere o nel territorio, è il momento in cui i conflitti si risolvono. E si risolvono anche attraverso esperienze come quelle della giustizia riparativa e della mediazione penale, se non si fa questo tipo di passaggio, e non si parte dal carcere per fare questo tipo di passaggio, considerando la polizia come gli altri operatori penitenziari, che nell’ambito della loro specificità devono giungere allo stesso obiettivo comune, che è quello di risolvere il conflitto e restituire alla società una persona migliore. Io sono convinto che questo percorso è iniziato, che questo percorso è più semplice fuori dal carcere, ma che si possa fare anche nel carcere. *Magistrato, Capo del Dipartimento della Giustizia Minorile e di Comunità La legislatura rotola verso la fine e inevitabilmente dà il peggio di sé di Stefano Anastasia Il Manifesto, 5 aprile 2017 Non è la prima volta che accade, ma questa evidenza statistica non ci consola. Questa involuzione, infatti, potrebbe pregiudicare i risultati ottenuti negli anni difficili che sono alle nostre spalle. Ricordiamoli rapidamente: dopo la condanna europea del 2013 per il sovraffollamento inumano e degradante delle nostre carceri, anche grazie ad alcune misure legislative ad hoc, la popolazione detenuta tra il 2014 e il 2015 è diminuita di diecimila unità, tornando a livelli commensurabili con la capienza degli istituti e con la storia penale italiana; nel febbraio 2014 la Consulta ha dichiarato l’incostituzionalità della legge Fini-Giovanardi, cancellando le norme più odiose della legislazione sulle droghe; qualche mese dopo viene introdotta la messa alla prova per gli adulti e la legge 81 del 2014 dà il via al superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari e cancella gli ergastoli bianchi delle misure di sicurezza senza fine. In questi ultimi mesi, invece, l’ansia di "portare a casa" prima del termine della legislatura provvedimenti contestati o di bandiera rischia di compromettere quei risultati e di esporci nuovamente sul crinale dell’abuso del carcere, della pena, del controllo penale e amministrativo. Ne conosciamo la sequenza. Il disegno di legge di riforma dell’intero sistema di giustizia penale, legittimamente perseguito dal Ministro Orlando, porta con sé - tra le altre - la polpetta avvelenata della trasformazione delle nuove Residenze sanitarie per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) in tanti piccoli ospedali psichiatrici giudiziari, con il rischio che rientri dalla finestra il manicomio criminale che era stato accompagnato all’uscio dalla sollevazione popolare e istituzionale seguita allo scandalo svelato nel 2011 dalla Commissione d’indagine del Senato sul Servizio sanitario nazionale. Giustamente il Presidente della Conferenza delle Regioni, Stefano Bonaccini, ha sollevato il problema istituzionale che impone a parlamento e governo di concordare con le Regioni modifiche della legislazione nazionale che possono avere un enorme impatto non solo sull’organizzazione dei servizi psichiatrici, ma anche sulla loro stessa filosofia (la trasformazione delle Rems in piccoli Opg farebbe tornare dentro il servizio sanitario nazionale l’esperienza manicomiale rifiutata dalla legge Basaglia). Nel frattempo, il neo-ministro Minniti ha voluto dare il segno della sua assunzione di responsabilità attraverso l’adozione di due decreti legge sulla sicurezza urbana e sull’immigrazione i cui requisiti di necessità e urgenza appaiono labili, quando non completamente assenti. Molto è stato detto, in queste settimane, sui due provvedimenti. Movimenti e associazioni per i diritti civili hanno legittimamente protestato, ma il governo sembra intenzionato tirare diritto, anche attraverso l’imposizione della questione di fiducia. Non bisogna essere uccelli del malaugurio per prevedere che la somma di questi provvedimenti amplierà enormemente la platea delle persone sottoposte a controllo penale per fatti di minimo disvalore sociale e di nessuna pericolosità reale: persone senza fissa dimora o con problemi di salute mentale, consumatori di sostanze stupefacenti, migranti irregolari sottoposti a ogni forma di sfruttamento possibile. Non se la sicurezza sia di destra o di sinistra, ma delle conseguenze reali di questi provvedimenti deve rispondere il governo e la maggioranza che lo sostiene. Ne discuteremo lunedì prossimo, nella sede romana del Parlamento europeo, in occasione di un’assemblea pubblica promossa da Antigone sul destino degli Stati generali dell’esecuzione penale e dell’assemblea annuale della Società della Ragione. Da Human Foundation le innovazioni per reinserire i detenuti nel mondo del lavoro La Repubblica, 5 aprile 2017 Gli eventi per festeggiare il quinto compleanno della fondazione presieduta da Giovanna Melandri. Parte il Sib (Social Impact Bond) per l’integrazione sociale di chi ha vissuto l’esperienza del carcere. Oltre 350 partecipanti e circa 40 relatori per l’evento "Human Foundation: cinque anni di impatto" che si è svolto a Roma, negli spazi di Fondazione Exclusiva. L’iniziativa ha voluto celebrare i cinque anni dall’inizio dell’attività della Fondazione presieduta da Giovanna Melandri, che da sempre è impegnata a generare innovazione sociale affiancando le imprese sociali, rafforzando la pratica delle "evidenze" attraverso la valutazione dell’impatto e costruendo nuovi modelli di finanza sociale. "Human, come la galleria del vento". C’è stato il benvenuto del Presidente di Fondazione Exclusiva, Fabio Mazzeo e i saluti dell’assessora "Roma Semplice", Flavia Marzano. Poi la presidente di Human Foundation, Giovanna Melandri ha accolto il pubblico e i relatori: "Se dovessi provare a sintetizzare il nostro lavoro - ha detto - prenderei a prestito un’immagine dall’ingegneria meccanica: la "galleria del vento". Mi piace pensare, infatti, che Human sia un luogo in cui testare la reale tenuta di strada di modelli sociali innovativi. Intendiamo mettere a disposizione dei decisori pubblici delle evidenze sull’efficacia degli interventi e delle politiche, per rendere scalabili esperienze che hanno prodotto risultati concreti. È un disegno tracciato in questi cinque anni con pazienza e umiltà - ha concluso Giovanna Melandri - guardando alla valutazione come ad uno strumento in grado di favorire la crescita delle politiche e delle imprese sociali. Human nasce per canalizzare risorse finanziarie generative verso la dimensione sociale". Il messaggio di Gentiloni. Il Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni ha inviato un messaggio per l’occasione: "È importante oggi affrontare problemi sociali proponendo soluzioni innovative in grado di produrre impatti duraturi. Queste sfide coinvolgono tutti, pubblica amministrazione, politica. C’è bisogno di idee nuove e di momenti di discussione, come il vostro appuntamento di oggi, per mettere in comune esperienze e buone pratiche". Ha così preso il via la sessione plenaria della mattina con panel sui temi della misurazione dell’impatto sociale, dei saperi e competenze per l’innovazione sociale e degli strumenti finanziari Payment-by-Result. Ridurre il tasso di recidiva in carcere. Particolarmente significativa è stata la partecipazione del Ministro della Giustizia, Andrea Orlando, che è intervenuto sul tema dei nuovi strumenti di finanziamento per il welfare pubblico. È in via di sperimentazione un social impact bond finalizzato a finanziare un intervento di reinserimento socio-lavorativo nel carcere Lorusso e Cutugno di Torino. Un modello di intervento che collega l’investimento di risorse private alla riduzione del tasso di recidiva del carcere. Il Ministro ha ricordato la collaborazione del Ministero della Giustizia per la realizzazione dell’iniziativa di Human Foundation e Fondazione Sviluppo e Crescita CRT: "Solo attraverso la diminuzione del tasso di recidiva si può garantire la sicurezza della comunità. Ciò comporta una programmazione di lungo periodo che presuppone dunque un ripensamento del modello carcerario, non prevedendo più pene uguali per casi diversi, ma interventi individualizzati e adatti a ciascun caso". I cambiamenti nel Terzo Settore. Il Sottosegretario Luigi Bobba ha aggiunto: "In questo momento in cui emergono nuovi bisogni, in cui le amministrazioni devono sempre più tener conto dei risultati, si assiste ad un radicale cambiamento del Terzo settore, che da ridistributivo sta divenendo produttivo, capace cioè di generare nuove risorse. Forte è il tema della finanza sociale di impatto, che si stima, entro il 2020, raggiungerà i 3 miliardi di euro. Il perimetro di intervento della riforma del Terzo settore prevede la valutazione quantitativa e qualitativa come elemento fondamentale per le attività nelle comunità di riferimento". Anche il Professor Stefano Zamagni è intervenuto sul tema aggiungendo che: "La riforma del Terzo Settore è una rivoluzione copernicana, il primo atto legislativo che parla di impatto sociale. C’è una difficoltà di tipo culturale, ma la tradizione è la salvaguardia del fuoco e non la custodia delle ceneri". L’inclusione e l’innovazione sociale. La Presidente di Enel Patrizia Grieco ha riaffermato l’impegno del gruppo Enel alla trasparenza e sostenibilità: "Anche noi abbiamo raccolto la sfida dell’innovazione sociale". Il Presidente di Fondazione Con il Sud, Carlo Borgomeo ha ringraziato Human Foundation: "acceleratore importante per la riprogettazione dei sistemi di welfare, che nel Sud è una delle poche leve di cambiamento generale". Il Presidente di Symbola Ermete Realacci ha ringraziato Human per il lavoro di presidio del terreno di collaborazione tra la finanza e la dimensione social. Altra testimonianza di rilievo quella di Don Giacomo Panizza, Presidente di Associazione Comunità Progetto Sud, che ha voluto portare la sua esperienza di impegno a Lamezia Terme per l’inclusione sociale: "L’inclusione e l’innovazione sociale sono possibili solo coinvolgendo chi riceve i servizi: bisogna prima di tutto scommettere su di loro. È necessario che gli interventi sociali vadano di pari passo con la legalità". Accelera la riforma della legittima difesa: in aula dal 19 aprile di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 5 aprile 2017 Colpo di acceleratore sulla riforma della legittima difesa. Il disegno di legge, primo firmatario il responsabile giustizia del Pd David Ermini, sbarcherà tra pochi giorni in Aula alla Camera. È stato infatti inserito tra nel calendario dei lavori dell’Assemblea a partire dal 19 aprile. Entro lunedì prossimo andranno presentati gli emendamenti ed entro il 13 aprile il relatore dovrà avere il mandato per riferire all’Aula. Una road map a breve per sbloccare un provvedimento a elevato tasso divisivo. Un testo di poche righe, in realtà, che adotta una soluzione mediana, prevedendo, attraverso una modifica alla norma del Codice penale, che, nei casi di legittima difesa, la colpa è sempre esclusa quando l’errore è conseguenza del "grave turbamento psichico causato dalla persona contro la quale è diretta la reazione". Soluzione mediana che evita di introdurre una presunzione di legittimità della condotta di chi reagisce in maniera violenta a un’intrusione domiciliare, e che tuttavia fa leva su un concetto come quello del "grave turbamento psichico", naturalmente sottoposto all’esame dell’autorità giudiziaria. Una necessità di valutazione caso per caso che non può essere elusa, precisa la proposta di Ermini: non ci può essere infatti nessun automatismo anche per evitare che possano essere commessi veri e propri omicidi dolosi, in ambito familiare, magari premeditati e mascherati da esercizio della legittima difesa. Nello stesso tempo, da parte Pd, si sottolinea come la valutazione della magistratura (pm e giudice) non coincide con l’arbitrio. Lo choc psichico deve infatti essere ancorato a elementi oggettivi come il tempo (il momento in cui avviene l’intrusione, di notte o in orario tale da aumentare paura o spavento), le modalità dell’aggressione, la rappresentazione data di sé da parte dell’aggressore (apparentemente armato o mascherato), dalle caratteristiche delle persone aggredite o in pericolo (bambini, anziani) da precedenti episodi subiti. All’interno della maggioranza però le acque sono tutt’altro che tranquille. Perché dal Governo sia il ministro degli Esteri Angelino Alfano, sia quello degli Affari regionali Enrico Costa, sollecitano invece l’introduzione di una norma chiara, il cui contenuto deve essere il rafforzamento della legittimità della reazione alle violazioni di domicilio. Linea sulla quale è evidente la sintonia con Forza Italia e Lega Nord. In questo senso da Ap è già annunciato un pacchetto di emendamenti al disegno di legge: si prevede così di tenere conto dell’impossibilità per l’aggredito di poter effettivamente valutare i potenziali connotati offensivi della condotta che è costretto a fronteggiare. Di conseguenza, nella valutazione del principio della proporzionalità della difesa, va considerato che l’aggredito spesso non è in grado di comprendere il grado dell’offesa trovandosi in uno stato di forte stress psicologico. Sulla legittima difesa il M5S scopre che non è "di destra" di Errico Novi Il Dubbio, 5 aprile 2017 "No" dei grillini a superare il concetto di proporzionalità. Alfano annuncia: "sosterremo la legge d’iniziativa popolare dell’Italia dei Valori". Che di fatto elimina la discrezionalità del giudice se l’aggredito spara per difendere i beni. Ma i grillini: "il processo va sempre fatto". Sembra niente, sembra uno di quei rivoli marginali della vicenda parlamentare, destinato a ingrossarsi solo il tempo di un comizio della Lega. E invece la legittima difesa rischia di diventare uno spartiacque politico. Non nell’ormai permanente distinzione tra garantisti e giustizialisti. Piuttosto, e in modo sorprendente, per fare ordine tra cosa oggi in Parlamento sia possibile definire "di destra" e cosa guardi a quello che tradizionalmente si considera come l’orizzonte di sinistra. Tutto sta in un emendamento che Alternativa popolare, il partito di Angelino Alfano, ha presentato in vista del ritorno in aula della legge sulla legittima difesa: una modifica, rispetto all’impianto disegnato dal Pd, che di fatto elimina dall’articolo 52 del Codice penale il concetto di proporzionalità tra offesa e reazione dell’aggredito. In modo da rendere legittima anche una difesa motivata, in concreto, dal solo rischio di perdere beni materiali. Alfano: sosterremo la legge popolare Idv - Se ne discuterà in piena settimana in albis, mercoledì 19 aprile, subito dopo la pausa di Pasqua. Finora gli schieramenti erano chiari e riconoscibili: da una parte il Pd, più prudente e disposto al introdurre al massimo il "turbamento psichico" come fattore escludente l’eccesso colposo di legittima difesa; dall’altra il centrodestra propria- mente detto e i Cinque Stelle, variamente e apparentemente omogenei nel seguire lo slogan del 25 aprile di Salvini: la difesa è sempre legittima. Il centro degli alfaniani aveva chiesto di approfondire le norme, ma non era mai venuto visibilmente allo scoperto. Finché il ministro per gli Affari regionali Enrico Costa a rompe gli indugi: "La normativa attuale lascia troppo spazio alle interpretazioni dei giudici". Fino al primo passo deciso dello steso Alfano, "va esteso il margine intervento di chi si deve difendere", e la sfida lanciata definitivamente ieri dallo stesso ministro degli Esteri: "Sosterremo la proposta di legge di iniziativa popolare dell’Italia dei valori". Detta così sembrerebbe non voler dire nulla, perché è impensabile che il testo ora a Montecitorio possa essere rivoltato per recepire le proposte dell’Idv, che pure hanno raccolto due milioni di firme. Le parole di Alfano hanno un valore simbolico. Servono a veicolare mediaticamente il nocciuolo della questione, che è un altro. A chiarirlo provvedono appunto gli emendamenti preparati da Alternativa popolare in vista dell’esame in Aula: si tratta neutralizzare di fatto la parte dell’articolo 52 recita "sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa". Quel passaggio determina il fatto che secondo la gran parte della giurisprudenza si può sparare e anche uccidere se è in pericolo la vita di chi subisce l’intrusione in un luogo di privata dimora (compreso l’esercizio commerciale), ma non semplicemente per impedire un furto. È sempre Costa l’avanguardia di Alfano, e lascia intendere in un’intervista a Rai Uno che non si può discriminare la difesa dei beni: "Le norme attuali lasciano troppo spazio alle interpretazioni dei giudici". Il M5S: ma a decidere sia un giudice - Ti aspetteresti che se si tratta di sposare una causa dal pur vago sentore populista i Cinque Stelle si mettano in prima fila. Non sarà necessariamente così. Se il Pd ha una forte ritrosia a seguire Alfano sulla linea di una legittima difesa all’americana, i grillini sono sicuramente più aperti a misure favorevoli alle vittime, a cominciare dal "fondo statale che va esteso in modo da garantire il totale risarcimento di chi è rapinato", per dirla con il capogruppo in commissione Giustizia Vittorio Ferraresi. Ma poi lo stesso Ferraresi, in un’intervista al Messaggero, aggiunge un dettaglio decisivo: "È impensabile che quando c’è di mezzo un omicidio si possa prescindere dalla valutazione di un giudice. Che anzi è necessaria anche a tutela dell’aggredito". Basta a far capire la distanza tra Cinque Stelle e centrodestra moderato, dunque tra una posizione che almeno da questo punto di vista non è "di destra", e un’altra che invece privilegia l’inviolabilità della proprietà privata, anche se attraverso la scorciatoia della "temporanea incapacità di intendere e di volere" di chi spara al rapinatore che gli entra in casa op nel negozio, come dice il capogruppo di Ap in commissione Nino Marotta. Sempre di giustizia si tratta, ma stavolta gli schieramenti sono più tradizionali e meno confusi dall’enfasi forcaiola. "Giustizia e minori, fermate la riforma dei Tribunali dei minorenni" di Luciano Moia Avvenire, 5 aprile 2017 Abolire i tribunali e le procure per i minorenni può migliorare qualità e celerità della giustizia minorile? Il governo promuovendo un disegno di legge se ne dice convinto, ma i magistrati: errore. Abolire i tribunali e le procure per i minorenni può migliorare qualità e celerità della giustizia che si rivolge a ragazzi e adolescenti? Il governo, che sta promuovendo un disegno di legge per modificare il processo civile, se ne dice convinto. Il testo, già approvato alla Camera, è all’esame del Senato. I magistrati sono invece convinti del contrario. E, ora che si avvicina l’ora della discussione decisiva, stanno raddoppiando gli sforzi per spiegare come la decisione si tradurrebbe in un grave errore. Un appello autorevole è arrivato dall’Associazione dei magistrati per i minorenni e per la famiglia. L’obiettivo della legge di "declassare" i tribunali per i minorenni e le relative procure a semplici "sezioni distrettuali" dei tribunali ordinari - sostengono gli addetti ai lavori - rischia di disperdere competenze preziose. Noi, soprattutto in questi ultimi anni, non sempre ci trovati d’accordo con le decisioni prese da alcuni tribunali per i minorenni. Soprattutto quando le sentenze si avventurano in modo creativo sui temi sensibili della vita e dell’adozione, pretendendo di inventare una nuova antropologia adulto-centrica in cui i desideri si trasformano in diritti. Ma si tratta di un dissenso su casi specifici, che non inficia la considerazione che il lavoro di giudici e procuratori minorili complessivamente merita. In ogni caso non sarà ridimensionandone le competenze che si potranno risolvere i problemi. Per permettere di avere un quadro sufficientemente chiaro dei temi sul tappeto, diamo spazio in questa pagina a chi sostiene la necessità di questa riforma (Donatella Ferranti, presidente della Commissione Giustizia della Camera) e a chi invece si oppone (l’Associazione dei magistrati minorili, che ha preferito fornire risposte collettive, proprio per sottolineare la collegialità delle posizioni). Ferranti (Pd): la nuova legge sulla giustizia minorile? Più garanzie per tutti di Luciano Moia Avvenire, 5 aprile 2017 Donatella Ferranti, presidente della Commissione giustizia alla Camera commenta la riorganizzazione dei Tribunali dei minorenni. Non sarà un’abolizione ma una semplice riorganizzazione. Le specializzazioni non saranno cancellate, anzi. La ridefinizione della giustizia minorile permetterà di valorizzare meglio le competenze. Ne è convinta Donatella Ferranti (Pd), presidente della Commissione giustizia della Camera e autrice dell’emendamento sulla trasformazione dei tribunali per i minorenni nell’ambito del disegno di legge sul processo civile che i deputati hanno approvato il 3 marzo 2016. Ferranti è lei stessa magistrato. I magistrati ritengono che, con l’abolizione dei Tribunali per i minorenni, si perderebbero competenze preziose. Un rischio reale? È un rischio che sinceramente non vedo. La riforma non abolisce i Tribunali per i minorenni, semplicemente cerca di riorganizzare e razionalizzare il sistema valorizzando l’esperienza e la specializzazione minorile attraverso un procedimento di osmosi nell’ambito dei tribunali della giustizia ordinaria. Del resto, dopo la legge del 2012 che ha riconosciuto l’unicità dello status di figlio, già oggi i tribunali ordinari si occupano ad esempio di tutte le vicende che riguardano l’affidamento dei figli sia di coppie sposate che conviventi. D’ora in poi se ne dovrà occupare, sia in primo che in secondo grado, un giudice specializzato e competente in via esclusiva. La riforma, insomma, accorpa e mette in comunicazione due settori che oggi spesso lavorano separati. Altra critica: ad essere danneggiate - si dice - saranno soprattutto famiglie fragili e minori senza possibilità di difesa. Cosa risponde? È critica che non capisco. Al contrario, ritengo che sia proprio l’attuale separatezza di competenze che rischia di non giovare alle famiglie e ai minori. L’osmosi dei due tribunali, minorile e ordinario, permetterà, con l’istituzione di sezioni specializzate, di accorciare i tempi della giustizia e di realizzare un più efficace intervento nell’interesse del minore. Perché ritiene che la professionalità dei giudici minorili non verrebbe intaccata dalla riforma? Perché la specializzazione del giudice e del Pm minorile verrà mantenuta, anzi garantita: costituirà infatti titolo preferenziale per l’assegnazione alle sezioni specializzate e all’ufficio distrettuale del pubblico ministero l’avere esperienze pregresse in materia di famiglia e minori e l’aver partecipato ad attività di formazione. E i magistrati delle sezioni specializzate ogni anno dovranno frequentare corsi di formazione organizzati dal Csm specificamente diretti ad acquisire tutte quelle conoscenze (giuridiche ed extra-giuridiche) necessarie al migliore esercizio delle funzioni di giudice e di pm della famiglia e dei minori, di buone prassi di gestione dei procedimenti e di buone prassi per l’ascolto del minore. C’è il rischio che le risorse per la giustizia minorile verranno tagliate? Assolutamente no. Perché invece dell’abolizione dei tribunali non si è preferito pensare a una riforma meno traumatica? Insisto nel dire che è improprio parlare di abolizione. Il punto è che il futuro va verso le specializzazioni. E così deve essere pure per la giustizia: la tendenza è quella della unificazione della giurisdizione abbinata alla specializzazione. La specializzazione in alcune materie - penso a impresa, lavoro, fallimento, criminalità organizzata, immigrazione - rientra in modelli già ampiamente collaudati nella giurisdizione ordinaria. Dunque, riorganizzare nell’ambito dei tribunali sezioni specializzate per la persona, la famiglia e i minori sul modello delle sezioni lavoro e presso le procure gruppi specializzati secondo il modello della Dda è disegno coerente a tale direzione di marcia, che non potrà che migliorare il servizio (anche nella stessa percezione) ai cittadini. C’è chi afferma che la riforma porterebbe ordine a un settore in cui assistenti sociali e consulenti hanno spesso troppo spazio. Giusto? Porrà sicuramente ordine a un settore che dopo la legge del 2012 sulla filiazione che ho appena ricordato richiede obbligatoriamente un riassetto delle competenze. Tra l’altro, la delega prevede anche una riforma processuale: il rito dovrà essere uniforme su tutto il territorio nazionale e, proprio in relazione alla specificità della materia, dovrà garantire il pieno contraddittorio e l’ascolto del minore da parte del giudice. I giudici minorili: con la riforma dei Tribunali competenze azzerate di Luciano Moia Avvenire, 5 aprile 2017 I tribunali dei minori non possono diventare "sezioni" dei Tribunali ordinari; questa l’opinione dell’associazione dei magistrati minorili dell’Ainmf. Non possono perdere le loro funzioni di rappresentanza esterna. Non possono essere confusi, proprio per la delicatezza e la sensibilità delle questioni trattate, con i giudici ordinari che si occupano di tutt’altro. E soprattutto le procure minorili sono uffici così particolari - quasi più sociali che giudiziari - che sarebbe impensabili accorparli con altre realtà. Ecco quello di cui sono convinti i magistrati minorili che fanno parte dell’Aimmf (Associazione italiana dei magistrati per i minorenni e per la famiglia) che hanno preferito rispondere alle nostre domande in modo non nominale. Perché temete che la riforma intaccherebbe l’autonomia dei giudici minorili? I Tribunali dei minorenni e le relative procure sono organismi autonomi i cui capi degli uffici hanno obblighi e autonomie organizzative rispetto alle molteplici funzioni cui devono far fronte, sia nel settore civile che nel settore penale. Non solo i magistrati che compongono gli uffici sono nominati dal Csm (che ne stabilisce l’organico a priori e non hanno l’obbligo del trasferimento dopo dieci anni come gli altri colleghi) ma ogni tribunale e procura minorile dispone di personale amministrativo senza il quale i provvedimenti sarebbero lettera morta e di locali separati dagli uffici ordinari dove i minori da ascoltare non incontrano il caos che di norma caratterizza gli uffici giudiziari ordinari, in una logica di protezione del minore. Cosa intendete quando parlate di "rappresentanza esterna"? Il presidente e il procuratore possono stipulare protocolli o convenzioni con Forze dell’Ordine, Ospedali, Scuole, Comuni e Regioni su argomenti che coinvolgono i minori e la segnalazione del loro disagio o le modalità di intervento sulla loro cura. E tutto questo con la riforma scomparirebbe. Perché siete convinti che anche le risorse verrebbero meno? Con la soppressione e la trasformazione dei tribunali per i minorenni in sezioni del tribunali ordinari e le procure minorili in "gruppi specializzati" delle procure distrettuali, il potere di organizzare e disporre delle risorse passa ai capi degli uffici ordinari (presidenti dei tribunali e procuratori della Repubblica). E quali conseguenze ci sarebbero? In pochi anni la cultura minorile sparirebbe fagocitata dai bisogni degli adulti, contro ogni indicazione europea. Ma le "sezioni" specializzate all’interno dei tribunali ordinari non assicurerebbero comunque il funzionamento della giustizia minorile? Con la carenza di organici e di risorse degli uffici ordinari e le pressioni anche mediatiche che il mondo della giustizia degli adulti subisce, immediatamente un capo ordinario e non formato al minorile, privilegerebbe gli organici dedicati agli adulti, depauperando il già modesto comparto minorile. Che opinione hanno di questa riforma i vostri colleghi dei tribunali ordinari? I presidenti e i procuratori di grossi tribunali e procure come Milano e Torino, già oppressi dalla fatica di organizzare vere e proprie aziende con sempre meno risorse, sono atterriti all’idea di doversi occupare anche della organizzazione di un settore così complesso e sconosciuto e hanno aderito al nostro manifesto. Quali sono le particolarità del giudice minorile che sarebbero a rischio con la riforma? La nostra è un’attività molto articolata e complessa - penale, civile e amministrativa - ma legata dal comune denominatore di una giustizia "child friendly" che si esprime con la presenza nei collegi giudicanti di Giudici onorari che integrano il sapere giuridico del togato con la competenza psicologica, assolutamente irrinunciabile quando si affrontano problematiche evolutive o patologie familiari o disfunzioni della relazione familiare. Stesso pericolo per le procure minorili? Forse ancora di più. Qui si fa un grosso lavoro civile di scrematura delle segnalazioni di abbandono, maltrattamento, abuso e disagio che riceve. Questo lavoro civile è ignorato agli avvocati perché si svolge in una fase pre-processuale ed è oltre il doppio di quello penale. Inoltre la procura minorile tratta indagini penali con finalità di recupero del minore coinvolto e non con finalità repressive, il minore autore di reato è spesso anche una vittima di una famiglia che non funziona e va quindi non solo punito ma anche tutelato. Insomma è un ufficio che non ha quasi nulla di simile alla Procura ordinaria, a parte il nome, perché il recupero si raggiunge attraverso la conoscenza (imposta dalla legge) della personalità del minorenne e del suo livello di maturazione, attraverso tante possibili attività deflattive e riparative. Intercettazioni. Legge al palo, ma le Procure si sono già date un limite di Liana Milella La Repubblica, 5 aprile 2017 La storia delle intercettazioni - la loro presenza negli atti dei magistrati e nelle informative della polizia - è già cambiata da oltre un anno. I protagonisti sono stati una ventina di procuratori e il Csm. I primi hanno scritto circolari e direttive interne per limitare all’indispensabile l’uso delle registrazioni telefoniche e ambientali. Il Consiglio - il 29 luglio 2016 - ha recepito le loro circolari, ne ha fatto un testo unico, una sorta di vademecum, che in venti pagine detta le regole di comportamento per tutti, pubblici ministeri e giudici delle indagini preliminari. Il governo, che il 30 agosto 2014 ha approvato il testo del ddl penale con dentro la delega per riformare le intercettazioni, è rimasto in coda. Perché, pur approvato al Senato, deve ancora passare alla Camera. E poi bisognerà scrivere la delega. Che impone "prescrizioni che incidano sulle modalità di utilizzazione cautelare dei risultati delle captazioni e che diano una precisa scansione procedimentale per la selezione del materiale intercettativo nel rispetto del contraddittorio tra le parti". Non si sa chi abbia scritto un testo così contorto, che tuttora preoccupa l’Anm, il neo presidente Eugenio Albamonte, che lo ritiene troppo "generico", e quindi "pericoloso" e foriero di censure. Ma il senso è chiaro. Il governo vuole regolare l’uso delle intercettazioni nei provvedimenti e l’udienza filtro, quella in cui le parti decidono le intercettazioni da utilizzare. Ma le procure hanno battuto sul tempo il governo, al punto che lo stesso Guardasigilli Andrea Orlando è intenzionato a inserire proprio i procuratori nella commissione che scriverà la delega. Nel frattempo la selezione è già in atto, e con essa una quantità minore di intercettazioni viene messa in circolo. Vediamo perché. La procura di Roma, con il capo Giuseppe Pignatone, il 26 novembre 2015, quella di Torino con Armando Spataro il 15 febbraio 2016, quella di Napoli con l’ex Giovanni Colangelo il giorno dopo, hanno scritto le nuove regole. Riassumibili così: il pm, come scrive il Csm, diventa il vero dominus, perché decide da subito se un’intercettazione si può usare, e quindi trascrivere nei brogliacci della polizia giudiziaria, o va solo indicata con un numero e un orario, senza il contenuto. Le informative della polizia, da sempre una miniera per i giornalisti, diventano più "povere". Il pm decide anche quali intercettazioni utilizzare nella richiesta al gip: dovrà fare una selezione (quella che chiede il governo, ma che lui sta già facendo) non utilizzando mai ascolti non necessari, oppure che riguardano colloqui con i difensori. Ovviamente le intercettazioni non pubbliche non potranno finire in un limbo. I difensori dovranno decidere se effettivamente non sono utili al proprio cliente. Una volta depositate, avranno solo la possibilità di ascoltarle, senza poter chiedere alcuna copia. Spetterà alla fine al giudice decretarne la distruzione. Intercettazioni, serve un argine al "fine pena mai" di Antonello Soro* Il Messaggero, 5 aprile 2017 Se attorno alla disciplina delle intercettazioni si discute ormai da più di un decennio, il dibattito recente si muove però su un orizzonte in parte nuovo. Da un lato per la riforma all’esame del Parlamento, dall’altro per le direttive emanate da alcune Procure e dal Csm, in ordine alla trascrizione dei contenuti intercettati. Ne dà atto il recente intervento del Procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone. Ma l’elemento maggiormente innovativo è il contesto in cui quel dibattito si inserisce Un dibattito che si inserisce al crocevia tra retorica della disintermediazione e quella tendenza al populismo penale, che identifica nella giustizia penale la principale, anzi l’unica forma possibile di giustizia sociale. E se da quest’attribuzione al giudiziario di aspettative che non gli sono proprie deriva, fatalmente, una lacerazione tra giustizia attesa e giustizia amministrata, essa si approfondisce sino a divenire insanabile, per la distorsione subita dal principio di pubblicità del processo. Principio nato per sottrarre l’amministrazione della giustizia a quella segretezza che ne aveva fondato l’arbitrarietà, ma non per consentire la delocalizzazione della scena giudiziaria sul web, ove l’etica del limite e del dubbio sono sostituite dalla presunzione di colpevolezza. In discussione non è la privacy dei politici, cui spetta una tutela attenuata per consentire un più efficace controllo dei cittadini sulla loro attività. In realtà i protagonisti del processo mediatico sono spesso cittadini del tutto estranei alla vita pubblica. Gli effetti sono dirompenti, tanto sul piano pubblico quanto su quello individuale. Sotto il primo profilo, l’anticipazione del giudizio di colpevolezza che si determina nell’opinione pubblica rende ancora più difficile l’esercizio, da parte del giudice, del suo dovere di terzietà. Poco senso ha il principio della formazione della prova in dibattimento, se già prima dell’udienza preliminare l’intero quadro indiziario è stato scandagliato in ogni suo aspetto su social media e blog. A ciò contribuisce l’amplificazione offerta dal web alle varie espressioni della potestà punitiva: informazioni di garanzia "anticipate" dai giornali e rilanciate da un sito all’altro come fossero sentenze di condanna, foto di imputati in vincoli senza neppure il volto oscurato, interrogatori di indagati, a volte addirittura in stato di detenzione, divulgati in re te senza filtri. E i "coinvolti": coloro che, né imputati né indagati, sono meramente citati negli atti d’indagine. Ma ciò basta a darli in pasto all’indignazione collettiva, che non ha la cura di distinguere tra le diverse posizioni processuali. E gli effetti sulla persona della mediatizzazione del processo sono, se possibile, ancora più gravi. Riversando in rete atti d’indagine nella loro integralità si mettono a nudo l’indagato e i terzi, a qualsiasi titolo coinvolti nel pro cesso, rivelando aspetti spesso privatissimi della loro vita, ininfluenti ai fini investigativi, con danni a volte irreparabili nella vita familiare e di relazione. Gran parte di queste no tizie resta, poi, in rete tendenzialmente per sempre, accessibile con í motori di ricerca anche solo digitando un nome. La persistenza di queste notizie sul web costituisce, così, un "fine pena mai", a prescindere da come si concluda il processo, per la diversa risonanza che hanno le assoluzioni rispetto alle imputazioni. Un arresto fa molta più notizia di un proscioglimento, per quell’esigenza diffusa di dare no me e volto al "nemico pubblico", ancor prima che il quadro probatorio si sia cristallizzato, quasi per placare un’ansia colletti va. Al fondo di questa deriva c’è stata una lunga indisponibilità dei vari attori ad un confronto non ideologico. Forse siamo entrati in una nuova stagione. Occorrerà che il legislatore non lasci cadere nel vuoto le impegnative parole del dottor Pignatone. Ma nessuna norma e nessuna disciplina organizzativa potrà sostituire l’esercizio responsabile del diritto di cronaca, che nel caso della giudiziaria tocca quanto di più prezioso abbiamo, come singoli - la reputazione e la dignità - e come collettività - l’esercizio imparziale della funzione giurisdizionale. *Presidente dell’Autorità Garante per la protezione dei dati personali Gherardo Colombo: "sì alle intercettazioni, ma senza abusi" di Liana Milella La Repubblica, 5 aprile 2017 "Le indagini si fanno con altri strumenti". Le intercettazioni? "Mezzo difficile da usare con parsimonia". La delega del governo? "Va nella direzione giusta". Orlando? "Un ministro della Giustizia attento e competente". Vota alle primarie del Pd? "Sono fatti miei". Dice così l’ex pm di Mani pulite Gherardo Colombo. Il procuratore di Roma Pignatone riapre la querelle sugli ascolti. Lei è pro o contro? "Si tratta di uno strumento molto delicato, da usare con parsimonia per una serie di ragioni. Sia sotto il profilo della tutela della riservatezza delle persone, tutte le volte in cui una registrazione telefonica o ambientale non serve assolutamente a fini penali e investigativi, per cui è del tutto gratuito esporre le persone pubblicando notizie che riguardano la vita privata. Sia per gli aspetti probatori, perché si tratta di uno strumento equivocabile". Ma come? Una registrazione è quello che è. "Normalmente le intercettazioni si leggono e non si sentono. Quindi sfuggono il tono della voce, le intonazioni ironiche o sarcastiche, magari una risata non viene percepita. Quindi possono avere un significato ambiguo. Inoltre il ricorso eccessivo alle intercettazioni non contribuisce allo sviluppo delle capacità investigative scientifiche attraverso le quali si ricerca la prova. Mi ricordo che Falcone riusciva a stabilire i collegamenti tra i mafiosi anche attraverso le bollette della luce. La delega del governo tiene conto di aspetti rilevanti, ma sarebbe molto importante la formazione del personale, magistrati, polizia giudiziaria, avvocati. Perché non è minacciando una pena che cambiano i comportamenti, ma attraverso la condivisione dei precetti". Lei non pare entusiasta dell’uso sistematico, a volte esclusivo, delle intercettazioni... "Glielo ripeto, le intercettazioni servono, ma devono essere "uno" degli strumenti delle indagini, tenendo conto della loro invasività e pericolosità che deriva dall’equivocità della trascrizione che traduce il parlato". Le circolari dei procuratori e la delega del governo però stringono la cinghia. "Bisogna trovare un punto di equilibrio, e la delega si prende carico seriamente del problema con l’obiettivo di evitare che i contenuti irrilevanti possano essere diffusi. È una fatica improba, che in mancanza di una cultura adeguata, difficilmente può raggiungere gli effetti che si sperano. Sarebbe molto importante regolamentare le intercettazioni tenendo conto di due esigenze contrapposte, quella di mantenerle come strumento per acquisire la prova e quella di evitare che diventino un’occasione per mettere le persone alla berlina". Quindi lei è favorevole a una stretta? "Sono per una regolamentazione. Nella delega del governo ci sono una serie di disposizioni che si occupano positivamente della questione. Come la procedura con cui si cerca di evitare per quanto possibile che vengano apprese notizie che non devono essere diffuse pubblicamente. È importante però che la legge delega, citando le decisioni della Corte di Strasburgo, richiami anche la necessità di tutelare la libertà di stampa e il diritto dei cittadini all’informazione". L’Anm critica il ddl Orlando che spazia dagli ascolti al carcere. Lei come lo giudica? "Ci sono aspetti che mi convincono particolarmente, per esempio la previsione dell’estinzione del reato per condotte riparatorie. Comunque io posso esprimere la mia opinione con particolare cognizione di causa sulla riforma dell’ordinamento penitenziario, perché ho coordinato uno dei tavoli degli Stati generali dell’esecuzione penale, quello che si è occupato delle sanzioni alternative al carcere". Su questo tema le piace la politica di Orlando? "La parte del ddl che riguarda l’ordinamento penitenziario consentirà al governo di indirizzare il sistema dell’esecuzione penale verso l’applicazione, nei confronti di chi tenga comportamenti che non mettono in pericolo la collettività, di misure davvero efficaci per il reinserimento dei trasgressori nella società civile. Il sistema penitenziario costa agli italiani quasi tre miliardi di euro all’anno e, se si riuscisse a orientare la spesa in un modo diverso dall’attuale, la sicurezza delle persone sarebbe più garantita perché si applicherebbero quegli strumenti che consentono di limitare veramente la recidiva". Lei parla bene di Orlando? "Le sembra strano? Per l’esperienza che ho avuto, non soltanto nell’ambito rigoroso degli Stati generali, ma anche constatando la sua grande attenzione verso i percorsi di giustizia riparativa - che si tenta di inserire faticosamente nel nostro sistema e di cui la legge delega prevede l’introduzione - posso dire che il ministro svolge la sua attività con attenzione e competenza". Voterà alle primarie del Pd scegliendo Orlando? "Questo è un altro discorso. Io non sono iscritto al Pd, come non sono iscritto a nessun partito politico. Quindi lasciamo perdere. Se vuol sapere se stimo Andrea Orlando le rispondo di sì". Perché questa riservatezza, lei non è più pm da 10 anni... "Guardi, a me sembra proprio di aver votato soltanto alle primarie per l’elezione del sindaco di Milano". Pur senza toga vuole essere autonomo dalla politica? "Non tanto rispetto alla politica, quanto piuttosto agli schieramenti, ai partiti, ai movimenti, questo senz’altro. Io mi sono dimesso dalla magistratura perché credo che sia fondamentale impegnarsi moltissimo nell’educazione per ottenere una drastica, anche se ovviamente non immediata, diminuzione della trasgressività. Credo che l’impegno prioritario stia nel campo educativo, il quale deve avere necessariamente come riferimento forte il riconoscimento della dignità dell’essere umano che sta alla base della nostra Costituzione". Decreto citazione a giudizio, alla Consulta il mancato avviso sulla "messa alla prova" di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 5 aprile 2017 Tribunale di Bari - Ordinanza 3 aprile 2017. Il Tribunale di Bari, in un processo penale riguardante il decreto di citazione diretta a giudizio, ha rimesso alla Corte costituzionale la questione relativa al mancato avviso all’imputato dell’istituto della "la messa alla prova". Per il giudice Antonio Dello Preite, ordinanza 3 aprile 2017, "in base ad una interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata dell’assetto normativo dopo la novella del 2014", il decreto di citazione a giudizio, "dovrebbe prevedere, all’articolo 552, 1° comma lett. 1), anche l’avviso che l’imputato, fino all’apertura del dibattimento di primo grado, può formulare richiesta di sospensione del procedimento penale con messa alla prova, ai sensi degli artt. 168 bis C.p. e 464 bis C.p.p.". La legge 67/2014, al capo II, ricorda il giudice, ha introdotto nel nostro ordinamento "l’innovativo istituto della messa alla prova dell’imputato" che prevede per alcune categorie di reati - tra cui la ricettazione, come nel caso affrontato - la possibilità di giungere all’estinzione del reato tramite un percorso approvato dal Giudice e preliminare all’accertamento dibattimentale dei fatti. Per cui, considerato che dal punto di vista procedurale "la messa alla prova mostra numerose e significative analogie con i riti alternativi", sia perché "l’accesso avviene prima della fase dibattimentale e sia perché la richiesta deve provenire personalmente dall’imputato o da un suo procuratore speciale", dovrebbe essere assistito dalle medesime garanzie per l’imputato. Del resto, prosegue l’ordinanza, diverse Procure della Repubblica hanno di propria iniziativa aggiornato il catalogo degli avvisi (previsti dall’art. 552, 1° comma, lett. f) Cpp), "inserendo anche l’istituto della messa alla prova per ovviare a eventuali nullità dell’atto". Il giudice contesta poi la recente pronuncia della Cassazione (n. 2379/2017), che ha affermato "l’insussistenza di un caso di nullità generale derivante dall’omesso avviso, nel decreto di citazione diretta a giudizio, della possibilità di ricorrere all’istituto". I giudici di legittimità, infatti, hanno ritenuto che l’omissione "non comporta un effetto pregiudizievole irreparabile per l’imputato, potendo essere richiesta in udienza l’applicazione dell’istituto". Per il Tribunale però "se è pur vero che la richiesta dell’applicazione dell’istituto può essere formulata all’interno di un’udienza a partecipazione necessaria in cui vi è l’assistenza obbligatoria del difensore, è altrettanto vero che tale situazione di fatto non garantisce che l’imputato sia realmente consapevole della possibilità offerta dal Legislatore e nei termini decadenziali previsti, in quanto rimessi esclusivamente alla prestazione d’opera del difensore che, se d’ufficio, per esempio, spesso non ha alcun contatto con il soggetto affidatogli per la difesa". Del resto, prosegue, "la scelta di intraprendere un percorso impegnativo e oneroso, come quello dell’istituto in parola, non può essere rimesso a una rapida, ma a una ben ponderata valutazione che può essere garantita solo da un congruo, specifico ed informato avviso". Infatti, "solo un congruo e specifico avviso con la relativa informativa garantisce che l’imputato abbia la possibilità di contattare personalmente, o a mezzo di procuratore speciale, l’Uepe per la predisposizione del programma - condizione, si badi bene, di procedibilità dell’ istanza - nonché di scegliere un adeguato lavoro di pubblica utilità, rispettoso delle proprie propensioni e competenze". La Consulta dovrà dunque affrontare la questione della legittimità "dell’art. 552, comma 1, lett. f) Cpp, nella parte in cui non prevede l’avviso che, qualora ne ricorrano i presupposti, l’imputato, fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, può formulare la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova, ai sensi degli artt. 168 bis e ss. Cp e 464 bis e ss. Cpp, per contrasto con gli artt.. 3, 24 co. 2 e 711 della Costituzione". I gestori della strada sono imputabili anche per omicidio stradale di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 5 aprile 2017 Corte di Cassazione, Terza sezione civile, sentenza 4208/17. Le istruzioni operative per l’applicazione delle norme sull’omicidio stradale emanate in una circolare dal ministero dell’Interno subito dopo l’entrata in vigore della legge 41/2016 non ledono i diritti di Anas. Lo ha stabilito il Consiglio di Stato (Prima sezione) lo scorso 7 marzo, con un parere (il n. 567/2017) che dichiara inammissibile il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica presentato proprio dall’Anas. Anas aveva paventato l’illegittimità di un punto specifico della circolare: quello dove il ministero ritiene applicabile la fattispecie "base" di omicidio stradale - cioè quella prevista dall’articolo 589-bis, comma 1, del Codice penale - a "chiunque viola le norme che disciplinano la circolazione stradale, che sono costituite da quelle del Codice della strada e delle relative disposizione complementari", anche se "non è un conducente di veicolo". Questo in base al fatto che "le norme del Codice della strada disciplinano anche comportamenti posti a tutela della sicurezza stradale relativi alla manutenzione e costruzione delle strade e dei veicoli". A giudizio di Anas, il reato di omicidio stradale "semplice" dovrebbe applicarsi esclusivamente ai conducenti degli autoveicoli e non anche ai responsabili e agli addetti alla sicurezza e alla manutenzione della strada. La diversa interpretazione proposta dal ministero, secondo Anas, "realizzerebbe un pregiudizio diretto, grave e sostanziale" a carico "dell’ente gestore della rete stradale di interesse nazionale non a pedaggio" e dei propri dipendenti, che sono deputati "allo svolgimento dell’attività di gestione e manutenzione delle strade". Nel contempo, la circolare precluderebbe "l’interesse pubblico ad una corretta interpretazione delle norme del Codice penale". Secondo il Consiglio di Stato, la circolare è "un atto interno finalizzato ad indirizzare uniformemente l’azione degli organi amministrativi" ed è "privo di effetti esterni": come tale, contiene "l’interpretazione di una norme di legge la cui applicazione non è rimessa all’autorità che ha emanato la circolare, bensì all’autorità giudiziaria penale, cui spetterà il compito di chiarire se il legislatore al primo comma dell’articolo 589-bis del Codice penale ha inteso costruire la fattispecie come ipotesi di reato comune (come emerge chiaramente dall’uso del "chiunque" nel descrivere il comportamento illecito da punire) contrapponendola a quella prevista dal secondo comma come fattispecie di reato proprio incentrata sul conducente del veicolo". Ma non è solo il giudice penale a non subire alcun vincolo dalle istruzioni operative emanate del ministero. Il Consiglio di Stato, infatti, conclude spiegando che dalla natura "interpretativa" della circolare discende che questa non ha "efficacia vincolante nei confronti degli organi periferici" dell’amministrazione, che possono "disattenderne l’interpretazione senza che ciò comporti l’illegittimità dei loro atti per violazione di legge". L’esito del ricorso proposto da Anas appare condivisibile. Non solo per la natura interpretativa della circolare - come ben chiarito dal Consiglio di Stato - ma anche per l’esplicita previsione della fattispecie incriminatrice prevista dall’articolo 589-bis, comma 1, del Codice penale. Essa usa il lemma "chiunque" proprio per operare una distinzione rispetto alle ipotesi aggravate di omicidio stradale, che possono essere commesse solamente da conducenti di "veicoli a motore". Peraltro, la più recente giurisprudenza della Cassazione penale (sentenza n. 3290 del 23 gennaio 2017) ha ricordato che l’articolo 14 del Codice della strada - a mente del quale "gli enti proprietari delle strade, allo scopo di garantire la sicurezza e la fluidità della circolazione, provvedono: i) alla manutenzione, gestione e pulizia delle strade, delle loro pertinenze e arredo nonché delle attrezzature, impianti e servizi: ii) al controllo tecnico dell’efficienza delle strade e relative pertinenze" - genera un obbligo di sorveglianza su di una fonte di pericolo che "impone di per sé l’intervento volto a eliminare quest’ultimo o, ove non possibile una soluzione radicale, almeno a ridurlo, senza alcun rilievo del carattere occulto o meno di tale pericolo, ferma restando l’ipotizzabilità di un concorso dell’utente della strada ove tenga una condotta colposa causalmente efficiente". Una pronuncia in linea con quanto pareva già assodato quando l’attuale reato di omicidio stradale "semplice" era rubricato come omicidio colposo aggravato dalla violazione delle norme sulla circolazione stradale. Omicidio stradale: la severità non è a senso unico di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 5 aprile 2017 L’Anas aveva presentato ricorso contro la circolare del ministero dell’Interno sull’omicidio stradale per impedire condanne troppo severe per il proprio personale: le pene previste per il nuovo reato sono ben più severe - anche nell’ipotesi non aggravata prevista dall’articolo 589-bis, comma 1, del Codice penale - di quelle previste per l’omicidio colposo. Il primo è punito con la reclusione da 2 a 7 anni, il secondo da 6 mesi a 5 anni. Lo scopo dell’Anas non sembra però condivisibile, anche perché appare in evidente contrasto sia con la tecnica legislativa che caratterizza la formulazione del nuovo reato sia - più in generale - con la scelta di politica giudiziaria che ne è alla base. Il primo aspetto è stato in parte evidenziato anche dal Consiglio di Stato. Gli elementi che caratterizzano il reato di omicidio stradale non aggravato sono infatti due: che può essere commesso da "chiunque"; che l’aumento di pena che distingue questo reato dall’omicidio colposo, è dato dalla "violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale". Senza distinzioni di sorta. Tra le violazioni rilevanti appare difficile non fare rientrare anche quella dell’articolo 14 del Codice della strada, che disciplina espressamente la responsabilità - in termini di gestione, manutenzione e controllo di non pericolosità - del proprietario di una strada, o di chi ne ha la concessione. Sotto il profilo della ratio legis, appare chiaro che la scelta politica alla base delle nuove norme dà rilevanza all’oggetto giuridico meritevole di protezione più severa: la vita e l’integrità fisica degli utenti delle strade. In quest’ottica appare irrazionale - oltre che non rispondente alla effettiva volontà del legislatore - prevedere pene sensibilmente diverse (inferiori anche a quelle dell’omicidio colposo commesso con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro) solo in virtù della qualifica soggettiva dell’autore della violazione della normativa del Codice della strada: la cattiva manutenzione della strada può avere inciso esattamente nella stessa misura, rispetto a una violazione come il mancato rispetto della distanza di sicurezza, nel causare un incidente con morti e/o feriti gravi. L’"abogado" agisce anche senza intesa di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 5 aprile 2017 Corte di Cassazione, terza sezione penale. Sentenza 16552/17 depositata il 3 marzo. L’opposizione proposta dal solo abogado non può essere considerata inammissibile per mancanza della dichiarazione di intesa con un legale italiano se questa viene fornita al primo atto di difesa dell’assistito. La Corte di cassazione (sentenza 16552) annulla l’ordinanza del gip che bollava come inammissibile l’opposizione perché la dichiarazione di intesa era stata presentata prima della costituzione di parte. La Cassazione dà una lettura dell’articolo 8 del Dlgs 96/2001. La norma prevede (comma 1) che nell’esercitare l’attività di rappresentanza, assistenza e difesa, nei quali è necessaria la nomina di un difensore, l’avvocato stabilito deve agire d’intesa con un professionista abilitato. L’intesa (comma 2) deve risultare da una scrittura privata autenticata o da una dichiarazione resa da entrambi gli avvocati "al giudice adito o all’autorità procedente, anteriormente alla costituzione della parte rappresentata ovvero al primo atto di difesa dell’assistito". Per la Cassazione la presenza dall’uso del disgiuntivo "ovvero" non lascia dubbi sulla possibilità di sottoscrivere la dichiarazione d’intesa prima della costituzione della parte o in alternativa al primo atto dell’assistito. Calabria: progetto "Carcere e salute mentale", 4 detenuti su 10 hanno problemi psichici Giornale di Calabria, 5 aprile 2017 Degli oltre 2 mila 700 detenuti nelle carceri calabresi, più di 4 su 10 convivono con una malattia mentale tra disordini della personalità e dell’adattamento, depressione maggiore e disturbi psicotici. È il quadro allarmante su cui gli esperti si confronteranno domani nel corso della tappa calabrese del progetto nazionale "Insieme. Carcere e salute mentale", promosso dalla Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria, dalla Società Italiana di Psichiatria e dalla Società Italiana di Psichiatria delle Dipendenze con il supporto incondizionato di Otsuka. L’iniziativa punta a sviluppare un approccio unitario e multidisciplinare per la gestione dei disturbi psichiatrici nelle carceri italiane attraverso il coinvolgimento di numerosi professionisti provenienti da diversi istituti penitenziari di tutta Italia. Dietro le sbarre, l’isolamento e l’impossibilità di comunicare con i propri cari possono facilitare la comparsa o l’aggravarsi di patologie psichiatriche già esistenti. "La limitazione della propria libertà e lo shock di entrare in una realtà completamente diversa a quella a cui una persona era abituata, come quella del carcere, possono dar vita a traumi psichici importanti. Il detenuto si trova improvvisamente tagliato fuori dal mondo e privato della possibilità di comunicare con l’esterno se non per sporadici contatti con il proprio avvocato e con la famiglia. Si tratta - commenta Luciano Lucania, Presidente della Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria - di situazioni estreme a cui non tutte le persone sono in grado di adattarsi e che possono quindi portare alla comparsa o al peggioramento di disturbi psichiatrici anche gravi". Il coinvolgimento del carcere di Rossano Calabro all’interno di un progetto nazionale come "Insieme" è solo l’ultima testimonianza dell’impegno della Calabria nei confronti dei detenuti che soffrono di un disturbo mentale. "La nostra Regione - dichiara Luciano Lucania - ha da tempo recepito le nuove norme nazionali sulla gestione dei detenuti con problemi psichiatrici, che prevedono anche la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari a favore delle Rems, luoghi di cura dove coloro che soffrono di un disagio mentale possono scontare la propria pena in un ambiente sicuro. Oltre alla Rems di Santa Sofia di Epiro in provincia di Cosenza, che è già operativa, sono in corso i lavori per aprire quella di Girifalco in provincia di Catanzaro e per potenziare la sezione di tutela della salute mentale del carcere di Reggio Calabria. È inoltre di prossima apertura l’articolazione per la tutela della salute mentale presso il carcere di Catanzaro. Non è quindi un caso che il progetto nazionale "Insieme" faccia tappa in Calabria visto l’impegno che da sempre la nostra Regione dimostra nel cercare di dare risposte concrete ed efficaci alla problematica dei disturbi psichiatrici nelle proprie carceri". Il progetto "Insieme - Carcere e salute mentale" è partito a settembre 2016 e ha già coinvolto le carceri di Civitavecchia, di Milano Opera, di Monza e di Genova. L’iniziativa punta a dar vita a un approccio unitario e multidisciplinare per la gestione delle malattie mentali negli istituti penitenziari attraverso la creazione di schemi e algoritmi unitari sia durante la detenzione, sia al momento del suo rilascio, assicurando così una continuità terapeutica-assistenziale anche dopo la scarcerazione. Lombardia: le Comunità di recupero "se non aumentano le rette rischiamo di chiudere" di Chiara Baldi La Stampa, 5 aprile 2017 I soldi versati dalla Lombardia non bastano a coprire le spese di vitto e alloggio. A farne le spese sono soprattutto i minori. Per denunciare bilanci in rosso e il rischio chiusura hanno scelto il Boschetto di Rogoredo, la piazza dello spaccio di Milano. Tra le siringhe usate per bucarsi, "come se fossimo tornati agli anni 80 e i nostri sforzi non fossero serviti a nulla", le comunità per il recupero dei tossicodipendenti hanno lanciato il loro allarme: "Se la Regione Lombardia non aumenterà la retta saremo costrette a chiudere entro fine anno". E così 2.600 persone con dipendenze saranno costrette a tornare per strada "con un costo enorme per lo Stato, 250 euro al giorno a persona". La denuncia arriva dalla Federazione Com.E (le comunità educative che si occupano di dipendenze), che riuniscono 120 comunità solo in Lombardia, per un totale di 2600 persone di cui si fanno carico, e dall’Associazione servizio ambulatoriali per le dipendenze Smi (Asad), dieci strutture in Lombardia che gestiscono oltre 6 mila persone. Gli Smi sono Sert privati accreditati con la Regione. La Regione dà 44 euro per gli utenti pedagogici, 52,80 per quelli terapeutici e solo 30 euro per i cronici. "Ma in Veneto, Marche e Toscana l’ente arriva a pagare fino 85 euro per ogni paziente. Noi chiediamo almeno a 72 euro, una cifra comunque insufficiente ma che almeno coprirebbe i costi di vitto ed alloggio, che ora non rientrano nei 44 euro", dice don Chino Pezzoli, della Comunità Promozione Umana. "Negli ultimi anni c’è stato un boom tra minori, in particolare tra i 16-17enni e di questi ci stiamo occupando maggiormente", spiega Simone Feder, presidente della Federazione Com.E. Nel 2015 in Lombardia su 2562 persone segnalate per detenzione di sostanze stupefacenti, 375 erano minori. Le comunità denunciano anche la burocrazia che la Regione impone. "Perdiamo troppo tempo a compilare le scartoffie e questo ci impedisce di dedicarci alle persone", dice don Antonio Mazzi, fondatore e presidente della Fondazione Exodus. Ed è la burocrazia a impedire di avere gli neuropsichiatri a spese della Regione: ogni comunità se ne paga uno, idem con gli infermieri. Il rischio di chiusura è reale, poiché le comunità sono enti no-profit che coprono il 50% dei loro costi con il contributo regionale e il resto attraverso donazioni e beneficenza. Ma i loro bilanci sono sempre più spesso in rosso. La Fondazione Exodus fattura 6 milioni all’anno ma ha un debito di 2,4 milioni dovuto all’insufficiente sostegno economico della Regione. Anche per la Federazione Com.E di Feder è così: "Ho 500 ospiti e 150 operatori assunti, a fine mese mi servono 350 mila euro per pagarli. Dove li prendo?". Roma: la ragazza suicida e il peso di essere per tutti la "figlia del boss" di Simona Musco Il Dubbio, 5 aprile 2017 Maria Rita Lo Giudice, 25 anni, domenica si è suicidata, lanciandosi dal balcone della sua casa di Roma. La chiamano ancora "la figlia del boss". Anche ora che forse, come immagina la Dda di Reggio Calabria, si è lanciata dal quinto piano perché non sopportava più il cognome ingombrante che legava il suo destino a quello del padre e degli zii. Maria Rita Lo Giudice, 25 anni, il 2 aprile si è alzata presto. Alle 6.50 ha aperto la finestra del suo appartamento e si è lasciata andare nel vuoto. Nemmeno un biglietto per spiegare il suo tragico gesto. I primi accertamenti eseguiti dai carabinieri hanno però fatto emergere un’ipotesi inquietante: dopo aver ascoltato parenti e amici, gli investigatori hanno compreso che Maria Rita non sopportava il peso di quel cognome, che a Reggio Calabria significa violenza e paura e anche pentiti. Come suo zio Nino, alias "il nano", il più controverso dei collaboratori di giustizia della storia, pentito, poi tornato sui suoi passi e poi, dopo un periodo di fuga, di nuovo pentito. In Procura ci sono ora i verbali del fidanzato, dei parenti e degli amici della giovane. Una carriera universitaria brillante, fresca di laurea a pieni voti e di una bellezza abbagliante. Ma, secondo quanto emerge dai racconti degli amici, dietro quel sorriso che riempie la sua pagina di Facebook si celava un malessere insostenibile, dovuto alla situazione familiare. Suo padre Giovanni è in carcere perché ritenuto elemento di spicco della cosca. Nel 1994 sua zia Angela Costantino, moglie di Pietro Lo Giudice, venne uccisa dai parenti per aver tradito il marito. L’autopsia non ha lasciato dubbi sul fatto che si tratti di un suicidio. Ma la famiglia della giovane ha bloccato i funerali, chiedendo un esame più approfondito, per valutare se qualcuno possa aver drogato la ragazza. La madre ha infatti detto di aver notato, la sera prima, un atteggiamento strano. Nelle prossime ore, dunque, verranno effettuati ulteriori accertamenti per non lasciare insondata alcuna ipotesi. Nel frattempo, il procuratore capo della distrettuale antimafia ha commentato la vicenda, che ha lasciato la città attonita e ammutolita. Una vicenda, ha detto Federico Cafiero de Raho al Corriere della Calabria, per la quale "siamo tutti responsabili. Se c’è una ragazza che si è fatta strada nella vita scolastica per la propria onestà, ha conseguito una laurea che è strumento per sottrarsi alla famiglia di ‘ ndrangheta di cui fa parte e non siamo capaci di integrarla, abbiamo perso tutti quanti". Non è difficile immaginare cosa sarebbe accaduto una volta terminati gli studi - la giovane si era iscritta al corso di laurea specialistica - e trovato un lavoro. Nessuno, probabilmente, avrebbe creduto ai soli meriti personali. Quel cognome l’avrebbe perseguitata, cancellando i diritti e le responsabilità personali. "Il cambiamento in questa terra - ha aggiunto Cafiero de Raho - arriverà quando le famiglie di ‘ ndrangheta capiranno che l’onestà premia e avvantaggia più della criminalità, ma abbiamo perso una ragazza che stava provando a percorrere un cammino diverso perché non abbiamo avuto la sensibilità di comprendere che ci sono mutamenti a cui tutti devono concorrere". Il Prefetto di Reggio Calabria, Michele Di Bari, ha intanto convocato per questa mattina un tavolo interforze, con lo scopo di fare il punto sul disagio sociale che serpeggia tra i giovani appartenenti a famiglie di ‘ndrangheta. L’obiettivo, si legge in un comunicato, è "favorire modalità operative coordinate a tutela e a sostegno di minori e giovani adulti che, desiderosi di un "cambiamento", vivono situazioni di disagio e difficoltà per un’effettiva integrazione nella società civile". Salerno: i detenuti ricoverati in ospedale sono isolati e penalizzati Cronache del Salernitano, 5 aprile 2017 Detenuti ricoverati bloccati in stanza. Niente socialità, ne ora d’aria e neanche la possibilità di fare telefonate per le persone detenute nei reparti detentivi ospedalieri di Napoli e Salerno: e il risultato, critico, del Garante nazionale per i diritti delle persone detenute o private della libertà personale, il quale, nel corso della visita regionale in Campania, ha monitorato i reparti detentivi dell’ospedale Cotugno e del Cardarelli dì Napoli e dell’Azienda ospedaliera San Giovanni di Dio - Ruggi d’Aragona di Salerno. Le persone ricoverate - ha sottolineato il Garante - restano nella stanza detentiva per 24 ore al giorno, senza possibilità dì uscire. Solo la struttura del Cardarelli ha previsto una sala per i colloqui con ì famigliari, la cui porta però non consente il passaggio di una carrozzina. Oltre ai reparti detentivi ospedalieri, il Garante nazionale ha visitato gli Istituti penitenziari di Napoli, Salerno e Pozzuoli, i due Istituti penali per minori di Nisida e Airola e i Centri di prima accoglienza per minori di Napoli e di Salerno, le camere di sicurezza di Polizia, Carabinieri e Polizia municipale, due Residenze per le misure di sicurezza (Rems) e una comunità per tossicodipendenti di Salerno che ospita persone in misure alternative alla detenzione. Anche in Campania è emersa la carenza di camere di sicurezza delle forze di polizia, in gran parte chiuse perché inidonee. Si tratta di un problema che il Garante nazionale ha già illustrato al Parlamento nel corso della presentazione della prima Relazione alle Camere sulla propria attività. Palermo: lavoro per i detenuti, all’Ucciardone aprirà una lavanderia industriale cronacasiciliana.it, 5 aprile 2017 Pino Apprendi, deputato del PD all’Ars, fa parte dell’area Fronte Democratico vicino alle posizioni di Michele Emiliano, attuale presidente del Regione Puglia, candidato alla segreteria nazionale del partito democratico. In questi giorni in giro per la Sicilia ad accompagnare Emiliano ad incontrare sostenitori e simpatizzanti che intendono condividere l’idea di un partito totalmente rinnovato, attraverso una gestione della segreteria con azioni innovative rivolte più alla gente comune piuttosto che alle banche o al mondo della finanza. Presidente di Antigone Sicilia, l’associazione che si occupa di garantire i diritti del sistema penale, Pino Apprendi si è fatto promotore di azioni mirate a migliorare le condizioni di detenzione. Uno dei temi che più di ogni altro l’associazione sta attenzionando è senza dubbio quello che riguarda i suicidi di detenuti all’interno delle carceri ma anche quelli che si registrano fuori. Per tentare di combattere questo fenomeno è stata proposta, con un emendamento nella finanziaria, presentato dallo stesso Apprendi, la creazione di un Osservatorio regionale per la prevenzione del suicidio dei detenuti nelle strutture penitenziarie. Si tratterebbe di un organismo che dovrebbe effettuare delle valutazioni complessive dei reclusi che permetta di individuare le criticità ed i propri bisogni assistenziali per consentire di sviluppare un piano di intervento qualificato attraverso cui predisporre percorsi mirati di inserimento sociale. Ma non solo questo, in tema di inserimento sociale, Antigone Sicilia ha sviluppato un progetto per creare delle attività lavorative all’interno delle carceri; un percorso fondamentale per creare un’aspettativa di un futuro migliore, in special modo verso i giovani reclusi, che gli possa permettere di ricominciare una vita all’insegna della legalità. Sollecitati alcuni imprenditori hanno risposto positivamente ad una richiesta di creare le condizioni per avviare un’attività lavorativa all’interno delle carceri, così infatti all’interno del carcere Ucciardone si dovrà realizzare una lavanderia industriale dove troveranno occupazione 20 detenuti. Altre aziende stanno seguendo l’esempio infatti previsto anche nella stessa struttura penitenziaria palermitana la realizzazione di un pastificio per la produzione di pasta fresca ed una sartoria di alta moda. Dare un’ulteriore opportunità a chi ha sbagliato, e per questo sta scontando una pena, è il principale obiettivo dell’associazione Antigone, una volta scarcerati aiutarli a riprendere una vita normale, trovare un’occupazione significherebbe uscire fuori dall’emarginazione sociale. Cosenza: "Le cayenne italiane. Pianosa e l’Asinara", testimonianze e memorie dal 41bis quicosenza.it, 5 aprile 2017 Due incontri per abbattere le gabbie mentali raccontando, da dietro le sbarre, il regime di carcere duro ritenuto lesivo dei diritti dei detenuti dal Comitato per la Prevenzione della Tortura del Consiglio d’Europa. Doppio appuntamento per la presentazione del libro "Le cayenne italiane. Pianosa e l’Asinara" di Pasquale De Feo, a Cosenza, domani mercoledì 5 aprile alle 18.00, presso il Cpoa Rialzo nell’area delle ex officine ferroviarie a Cosenza, tra via Popilia e Viale Mancini, e all’Unical aula H1, giovedì 6 aprile alle 11.00. Il libro raccoglie testimonianze e memorie sull’esperienza del 41 bis nelle sezioni Agrippa di Pianosa e Fornelli dell’Asinara nei primi anni Novanta del Novecento. Benché questi luoghi specifici siano stati chiusi, circa settecento persone, tuttora, sono sottoposte al regime del 41 bis, in totale spregio della Costituzione e del buon senso. E il corpo speciale, Gruppo Operativo Mobile, addestrato per gestire le sezioni a 41 bis con i metodi narrati in queste pagine, non soltanto non è stato sciolto, ma continua ad essere impegnato quotidianamente nel nostro democratico Paese. Pasquale de Feo nella sua introduzione cerca di risalire storicamente alle ragioni delle legislazioni speciali, a partire dalla famigerata legge Pica fino al 4 bis, tracciando e contestualizzando lucidamente analogie storiche, politiche, sociali e repressive di un’Italia che da sempre affronta queste dinamiche in chiave penale. Un paese che, cento cinquanta cinque anni dopo l’Unità, continua ad esercitare discriminazioni razziste verso i cittadini del Sud, predisponendo per loro un destino di nuove Cayenne italiane. C’è da interrogarsi quindi sulle cause delle condizioni del Sud e della gente che lo abita. Una storia, che parte da molto lontano. All’incontro interverranno Francesca de Carolis, giornalista, scrittrice, ex TG1, ex Radio1 che attualmente si occupa di carceri, nella speranza di contribuire a limare le grate della nostra mente, Franca Garreffa, docente di Sociologia della devianza, Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università della Calabria e Sandra Berardi, Presidente dell’Associazione per i diritti dei detenuti Yairaiha Onlus. Le tre relatrici sono accomunate dalla convinzione che l’ergastolo ostativo sia, attualmente, la forma di tortura per eccellenza, una "pena di morte nascosta", un dispositivo che uccide giorno dopo giorno in attesa della morte. L’unica differenza è che l’ergastolo ostativo, quello che comporta che circa 1500 detenuti usciranno dal carcere il 31.12.9999 è una vendetta consumata in un tempo infinito e indefinito. L’espressione "pena di morte nascosta" è stata usata da Papa Francesco nel suo Discorso rivolto alle delegazioni delle Associazioni Internazionali di diritto penale il 23 ottobre 2014, durante il quale ha dichiarato che l’ergastolo ostativo, comporta la privazione in via definitiva non solo della libertà del colpevole, ma anche della sua speranza. Questa condizione è simile alla "sindrome del braccio della morte", ovvero lo stress traumatico imposto a un condannato a morte causato dall’attesa del momento dell’esecuzione. Napoli: "a Nisida insegno ai baby boss come diventare buoni cittadini" di Valentina Stella Il Dubbio, 5 aprile 2017 Parla Maria Franco, tra le vincitrici del premio nazionale per gli insegnanti. Da 33 anni lavora nel carcere per minorenni: "proponiamo loro cose altre, rispetto a quello che hanno conosciuto fino a quel momento: dalla poesia agli articoli di giornale, dal libro allo stare in scena". C’è anche una docente dell’Istituto penale per i minorenni di Nisida tra le cinque vincitrici della prima edizione del Premio nazionale per gli insegnanti, gemellato con il Global Teacher Prize di Dubai: si tratta di Maria Franco, docente di Italiano, Educazione civica, Storia. Nominata Cavaliere al merito della Repubblica dal presidente Napolitano nel 2011, la professoressa da 33 anni si occupa dei giovani reclusi "perché quando vinsi il concorso c’era a disposizione Nisida che corrispondeva molto ai miei interessi sociali". Da allora cerca con la cultura di dare una alternativa ai ragazzi e alle ragazze che hanno alle loro spalle pesanti esperienze di vita e che la criminalità spesso ha allontanato dalla scuola. Oggi insegna a circa 35 alunni. Per lei il premio - come racconta al Dubbio - non è solo motivo di soddisfazione personale ma è importante perché "si dà attenzione alla scuola in carcere che è una componente non piccola di tutto lo sforzo educativo. Si dà valore al lavoro che svolgiamo a Nisida, che è un carcere minorile di eccellenza, dove si punta, in linea con la Costituzione, a risocializzare i ragazzi". Oltre al prestigioso riconoscimento del premio, nato - come ha dichiarato la ministra Fedeli - con lo scopo di valorizzare il ruolo degli insegnanti nella società, alla professoressa e all’Istituto sono stati assegnati anche 30.65000 euro che saranno utilizzati per approfondire il Laboratorio di Scrittura "un progetto a cui collaborano autori napoletani importanti che ogni anno lavorano in classe con i ragazzi, rielaborano i loro scritti e poesie e ne fanno un racconto che poi noi pubblichiamo in un libro". L’ultimo lavoro in ordine di tempo si intitola "La Carta e la vita. Le ragazze e i ragazzi di Nisida raccontano la Costituzione": come cambia il concetto di giustizia nel tempo per questi ragazzi. Per loro, se la giustizia viene identificata con lo Stato, allora lo Stato non è giusto, perché lo colgono soprattutto nel momento punitivo. Noi abbiamo un laboratorio di politica in cui i giovani reclusi incontrano personalità della politica, della cultura con cui affrontano i temi della cittadinanza attiva e della legalità. Nel tempo il ragazzo può farsi una idea più articolata dello Stato negli aspetti migliori. Quello che può comprendere studiando la Costituzione è che la cattiva applicazione della norma non inficia la norma stessa. Che il nostro Stato democratico non riesca ad essere sempre come si prefigge non comporta che non bisogna tendere ai suoi principi e doveri. Il carcere è un luogo in cui il rispetto della norma deve essere assoluto. Quali sono le domande più frequenti che i ragazzi pongono agli ospiti, tra cui ricordiamo l’ex presidente Napolitano, il ministro Orlando, la presidente della Camera Boldrini? Di solito esprimono la loro rabbia soprattutto per la mancanza di lavoro che li costringe spesso ad andare via da Napoli. E poi sottolineano che si punta spesso il dito contro di loro ma poi a sbagliare molte volte sono pro- prio i politici. Esprimono quelle tensioni appartenenti anche ai comuni cittadini. Sulla questione lavoro e risocializzazione si è rivolta al sindaco de Magistris per sapere le reali possibilità che offre la città per questi ragazzi. Ci sono enormi difficoltà per il reinserimento dei ragazzi perché una volta usciti da Nisida tornano in un ambiente che è esattamente quello da cui sono arrivati, in una realtà dove i problemi di lavoro sono presenti per tutti e in particolare per loro. E sono sottoposti poi a stimoli non positivi. Una società che voglia definirsi civile deve fare il massimo sforzo nella fase di prevenzione, costruendo nel territorio una rete di servizi sociali che possano essere di sostegno alla crescita, soprattutto nelle periferie e dove le condizioni ambientali non sono particolarmente favorevoli. Il problema è che la realtà sociale di Napoli resta molto sotto le necessità dei ragazzi. Esiste anche un problema culturale? Sicuramente sì, i ragazzi devono fare una forte operazione di modificazione delle loro attese, delle loro aspettative, altrimenti non possono mutare la loro esistenza. Nessuna persona che ha i guadagni che hanno loro con azioni illegali può, se non cambia la propria visione delle cose, accettare un lavoro onesto. I cosiddetti ragazzi di paranza infatti vogliono tutto, subito e senza fatica. Come può la cultura essere più forte del potere e dei soldi facili? Lo sforzo è quello di dare loro la possibilità di misurarsi anche con il gusto del bello, della comprensione, della conoscenza. Non è una operazione né immediata né facile. Come abbattere il muro che divide voi insegnanti dai baby boss? Questa è la sfida grande che ci troviamo ad affrontare a 360 gradi: qui ci sono insegnanti, formatori professionali, maestri di laboratori di teatro e musica. Quello che noi facciamo è proporre ai ragazzi cose altre, rispetto a quello che hanno conosciuto fino a quel momento: dalla poesia agli articoli di giornale, dal libro allo stare in scena. E fargli sperimentare che esiste un modo diverso con cui si può affermare la propria identità. Molti sono vissuti in un certo modo e credono che quella maniera di vivere sia l’unica che potranno portare avanti. Credono che la loro vita sia determinata da un destino e noi dobbiamo dare loro gli strumenti per invertire questo concetto. E questo succede spesso? Un mio ex alunno qui a Nisida mi chiama dopo 20 anni e mi dice "io allora non capivo, poi mi sono reso conto che le ore trascorse insieme sono state decisive affinché io prendessi un’altra strada". E poi ci sono i ragazzi che hanno voluto continuare a studiare e quelli che lavorano, molti anche fuori dall’Italia. Ma c’è l’altro lato della medaglia: alcuni usciti da Nisida sono morti durante una rapina o sono finiti in carcere da maggiorenni con pene molto alte. Vercelli: un battesimo ai fornelli per i detenuti aspiranti chef di Andrea Zanello La Stampa, 5 aprile 2017 Gli allievi dell’Alberghiero a Billiemme al debutto in pubblico. Verza ripiena con salsa allo scalogno, risotto agli asparagi, bocconcini con crema di piselli. Più un aperitivo e un dessert a buffet: con questo menu i detenuti che frequentano il corso dell’istituto alberghiero Mario Soldati di Gattinara hanno accolto una ventina di commensali all’interno del carcere di Billiemme. Per Cheik, Radoin, Cristinel, Mouhasine, Ammar, Eiron, Stefano, Marian ed Angelo, la classe 1G, era il battesimo del fuoco. Guidati dallo chef Lucio Salvatore da subito hanno dovuto fare i conti con gli imprevisti tipici della ristorazione: della ventina di commensali per cui hanno lavorato se ne aspettavano meno. Ma la catena della cucina e della sala, con la professoressa Chiara Leone, hanno funzionato e il primo pranzo preparato e gestito dagli alunni detenuti della classe del nuovo corso partito a Billiemme è filato via liscio. Per un paio degli studenti selezionati dal personale carcerario per partecipare al triennio di lezioni la cucina non è una novità: in passato hanno lavorato come cuochi. Ma se arriveranno al diploma, trasferimenti permettendo, avranno anche una vera qualifica. Da 13 anni l’Alberghiero ha attivato il corso nella casa circondariale vercellese: da allora si sono diplomati una trentina di carcerati. Qualcuno ha anche aperto un ristorante una volta uscito dopo aver scontato la propria pena. "Se riusciranno a prendere il diploma sarà una qualifica importante nel momento in cui usciranno" racconta Paola Bussoli, comandante del carcere che ha fatto gli onori di casa. A tavola oltre al preside della scuola Alberto Lovatto e Paolo Baltaro, referente del progetto per l’Alberghiero, c’erano Bruno Mellano e Roswitha Flaibani, rispettivamente garanti per i detenuti di Regione e Comune, l’assessore comunale Andrea Raineri e la consigliera provinciale Lella Bassignana, Valeria Climaco, capo area sezione educativa del carcere. Ma anche Natalia Bobba, presidente di Donne e Riso, Carla Bezzegato, referente area Coop per il territorio vercellese, esponenti di Assopace di Novara: tutte realtà che hanno sponsorizzato il corso fornendo le materie prime agli studenti dietro le sbarre. Un apporto fondamentale dopo che i finanziamenti in questi ultimi anni sono calati. Accoglienza ospiti, servizio e presentazione dei piatti: gli studenti detenuti, visibilmente agitati, se la sono cavata bene. Per loro è partito un triennio che li vedrà impegnati per 24 ore a settimana. Il monte ore è lo stesso di quello che affrontano gli studenti normali, come anche le materie: "Ma a scienze e matematica preferiscono la cucina" raccontano i professori. Cuneo: "Scrivere altrove", nuova edizione del concorso nazionale per italiani e stranieri targatocn.it, 5 aprile 2017 Promosso da Mai tardi - Associazione amici di Nuto e dalla Fondazione Nuto Revelli Onlus. Le opere dovranno pervenire all’organizzazione del concorso entro il 30 giugno 2017. È un concorso nazionale per opere, scritte e non scritte, sui temi delle migrazioni, della convivenza comunitaria e della cittadinanza promosso da Mai tardi - Associazione amici di Nuto e dalla Fondazione Nuto Revelli Onlus con il sostegno richiesto alla Fondazione CRC e alla Fondazione Crt, il patrocinio del Comune di Cuneo, della Regione Piemonte, della Provincia di Cuneo, del settimanale La Guida e dell’Associazione Culturale Primalpe. Il concorso promuove l’espressione dei temi indicati attraverso la memoria e il ricordo, la testimonianza, il racconto, l’immaginazione e la creatività, l’impronta del vissuto personale o collettivo ed è suddiviso in tre sezioni: Nuova cittadinanza, destinata a tutti i nuovi cittadini immigrati o figli di immigrati senza limiti di età né di provenienza geografica, sul tema "Per mare e per terra: un esodo con la speranza di una nuova vita"; Libertà di parole, riservata agli immigrati detenuti, con tema libero; L’altra Italia, rivolta ai cittadini italiani, sul tema "Ricorda di essere stato straniero: quando erano (e sono) gli italiani a emigrare". L’iscrizione è gratuita per tutti. La partecipazione potrà essere individuale o di gruppo con la presentazione di una sola opera scritta inedita (racconto o poesia, reportage, articolo, intervista, testimonianza, memoria) e/o di un’opera non scritta inedita (fotografia, dipinto, disegno, fumetto, vignetta, scultura, video). Le ragioni del concorso trovano origine nella sempre più urgente necessità di offrire ai cittadini, immigrati e non, occasioni per esprimersi, interagire e convivere nella società di oggi e per contribuire alla promozione e diffusione di una conoscenza e di una coscienza critica e consapevole nei tempi difficili della società contemporanea. Le opere saranno esaminate inizialmente da una commissione che selezionerà una "rosa" di finalisti per ogni sezione; tra questi, a cura di un’apposita giuria, verranno scelti successivamente i vincitori, ai quali saranno assegnati premi in denaro. Per le sezioni Nuova cittadinanza e L’altra Italia una quota parte dei premi potrà essere erogata sotto forma di buoni-acquisto di libri. La proclamazione dei finalisti e dei vincitori e la premiazione si terranno a Cuneo nel corso di una iniziativa culturale in programma entro novembre 2017. In quest’occasione sarà anche consegnato, compatibilmente con le risorse disponibili, il Premio Paraloup-Migrazioni e sarà assegnato, quale riconoscimento, il Premio Paraloup - Nuto Revelli - Cultura, destinati a persone, associazioni o istituzioni che si siano distinte per particolare impegno nel campo dell’immigrazione o della cultura. Sarà anche conferito, risorse permettendo, il Premio Paraloup - Scuola ad un istituto scolastico che si sia segnalato per numero e qualità di lavori presentati. Nella stessa circostanza, in ricordo di Anna Revelli, sarà attribuito il Premio Il dono di Anna, destinato a una donna migrante esempio di anello forte dei nostri tempi Le opere dovranno pervenire all’organizzazione del concorso entro il 30 giugno 2017 insieme al modulo di iscrizione (scaricabile dal sito: nutorevelli.org). Per informazioni: scriverealtrove.cuneo@gmail.com, nutorevelli.org Mai tardi -Associazione amici di Nuto Concorso "Scrivere altrove", C.so C. Brunet 1, 12100 Cuneo - Telefoni: 0171.692789 - 347.6815714. "L’infanzia dell’alta sicurezza", di Mimmo Sorrentino. Teatro dentro e fuori dal carcere cr.piemonte.it, 5 aprile 2017 Un teatro che è occasione rieducativa, pensato come una necessità per chi lo fa, ma che è ben presto stato apprezzato anche dal pubblico. Si tratta dello spettacolo "L’infanzia dell’alta sicurezza", realizzato dal regista Mimmo Sorrentino e da Teatroincontro, che vede protagoniste sulla scena otto detenute del carcere di Vigevano, condannate per reati associativi. Il progetto di teatro partecipato è cominciato come laboratorio due anni fa, ma è ben presto diventato un evento apprezzato anche fuori dal carcere. Grazie all’iniziativa del Teatro stabile di Torino - Teatro nazionale, la pièce è stata inserita nel cartellone della stagione teatrale ed è in scena da oggi, 4 aprile, fino al 9 aprile al teatro Gobetti di Torino. Un’iniziativa presentata a Palazzo Lascaris con una conferenza stampa organizzata da Bruno Mellano, garante regionale dei detenuti. "È significativo che alle detenute impegnate nello spettacolo sia stato concesso dal magistrato di sorveglianza un permesso di "necessità con scorta", ha dichiarato Mellano, "che viene concesso eccezionalmente per motivi di particolare gravità, come l’imminente pericolo di vita o la morte di un parente. Si tratta di un precedente interessante, perché stabilire che il teatro, per delle persone recluse, non sia solo utile ma necessario significa attribuire alla detenzione i fini rieducativi sanciti dall’articolo 27 della nostra Costituzione. In questo senso il teatro si dimostra uno strumento per un nuovo modo di comunicare, in grado di scardinare vecchi schematismi all’interno del carcere". Alla conferenza stampa era presente anche il vicepresidente del Consiglio regionale, Nino Boeti, che, ricordando la sua esperienza di medico ortopedico della squadra di rugby della casa circondariale Lorusso e Cutugno di Torino, ha messo in luce come l’attività sportiva e quella teatrale siano due strade per la rieducazione e il recupero in carcere, affinché alla comunità siano restituiti uomini e donne diverse. L’alta sicurezza del titolo della pièce è quella dell’infanzia protetta e paradossalmente tutelata di otto detenute del carcere di Vigevano. Queste donne, alcune con cognomi pesanti, hanno raccontato la propria esistenza mettendo a nudo il proprio dolore. Tutte saliranno sul palco ma ciascuna senza l’ombra della propria biografia, perché a raccontarla sarà un’altra detenuta, portatrice di un passato, di un’infanzia diversa, di cui rendere partecipi gli spettatori. "Se dal carcere si scappa il rischio di recidive è alto, del carcere bisognerebbe invece avere nostalgia e uno dei percorsi che proponiamo per realizzare ciò è proprio quello del teatro", ha affermato il regista Sorrentino, sottolineando anche il clima di collaborazione instauratosi fra detenute e operatori carcerari durante questa esperienza. All’incontro è intervenuto Lamberto Vallarino Gancia, presidente del Teatro Stabile di Torino, che ha riconosciuto l’importanza di un teatro che si apra a tutti, anche attraverso spettacoli innovativi legati al sociale, mentre i direttori degli istituti penitenziari di Vigevano, Davide Pisapia e di Torino, Domenico Minervini hanno confermato l’efficacia del teatro per scuotere le coscienze non solo di chi è in carcere ma di tutta la società civile. I nuovi Pinochet di Vittorio Zucconi La Repubblica, 5 aprile 2017 Torna prepotentemente alla ribalta la "Realpolitik" per cui se dittatori e regimi fanno gli interessi dei Paesi occidentali si passa sopra alla negazione della democrazia e dei diritti. Sedici anni dopo l’ingresso americano in Afghanistan per rovesciare il regime dei Taleban e quattordici anni dopo l’invasione dell’Iraq per "esportare la democrazia", la grande, tragica illusione di poter cambiare regimi nel mondo arabo e poi di cavalcare l’onda delle "primavere democratiche" si frantuma. Torna prepotentemente di moda la "Realpolitik" cara ai Kissinger e ai Nixon (e nel nostro piccolo agli Andreotti). Se dittatori e regimi fanno gli interessi delle nazioni occidentali, l’assenza di democrazia, di diritti civili, di legittimità politica, i Giulio Regeni saranno nella sostanza ignorati e quei despoti saranno salutati come statisti e amici. La "formula Pinochet" torna in auge non più di fronte alla "paura del comunismo" ma di fronte alla "guerra al terrore". Al-Sisi, il capo di Stato egiziano salito al potere sui cingoli dei carri armati è ricevuto da Trump alla Casa Bianca, dalla quale Obama lo aveva escluso, salutato come uno "statista", rassicurato del "totale appoggio degli Stati Uniti" e ossequiato, come già fece il presidente del Consiglio italiano Matteo Renzi. Al Sisi ci serve e ci si tura il naso. Bashar Assad a Damasco gode dell’appoggio incondizionato di Vladimir Putin, che dunque lo rende intoccabile a meno di voler aprire uno scontro diretto con Mosca e l’amministrazione di Trump annuncia che rimuoverlo dal potere "non è più una priorità" come era stata - a parole - per Obama. Dunque può tranquillamente bombardare e gasare i ribelli senza preoccuparsi di conseguenze. Assad ci serve, nella lotta contro l’Isis, e dunque ci si tura il naso, possibilmente con una maschera antigas. In Libia si rimpiange Gheddafi, che faceva da sentinella alle coste e bloccava il flusso dei migranti via mare e oggi si cerca, senza grande successo, un altro "uomo forte" per rimettere ordine nel crogiolo libico. Ci servirebbe qualcuno che congelasse le migrazioni e non sono richieste patenti di democrazia o di civiltà politica, soltanto di autorità. La follia "neocon", che teorizzava nei primi anni di questo millennio che sradicare regimi come quello di Saddam Hussein avrebbe alzato un vento di civiltà e democrazia che avrebbe investito tutta la mezzaluna araba dall’Himalaya all’Atlantico ha lasciato dietro di sé le rovine e le fosse comuni di Iraq e Siria, insieme con il sorgere del radicalismo islamico delinquenziale rappresentato dall’Isis. Il sogno delle primavere arabe si è svegliato nell’incubo di anarchia e instabilità che ha investito anche l’Europa, liberando masse di disperati in fuga che si riversano sulle nostre coste, scuotendo le nostre democrazie sulla spinta del panico da "invasione straniera". Torna dunque la voglia di muri, come nell’America di Trump, dopo avere chiesto ad altri, come fece Reagan, di abbattere i loro muri. Torna la inconfessabile nostalgia dei Pinochet, dei Videla, degli Assad (padre), dei Mubarak, dei Gheddafi, dei Saddam che garantivano l’immobilità dello status quo e pazienza per le sofferenza di chi viveva sotto i loro stivali. Se Putin a tanti piace non è certo per la sua illuminata politica sociale ed economica o per la limpidezza democratica di un potere che si regge su elezioni molto discutibili e sulla repressione, anche fisica, di oppositori e critici. Piace perché è un duro, un "Soft Stalin". Sulle doppie rovine della dottrina del "cambio di regime" cara a Bush e poi della "primavera araba" coltivata da Obama e da Hillay Clinton, si rialza trionfante il cinico realismo del "despota di comodo". Faccia quello che vuole ai "suoi" purché eviti che i guai si riversino su di noi. Pinochet è vivo e lotta con noi, a Damasco, al Cairo, a Bagdad e - forse molto presto - a Kabul. Tutto è perdonato, purché fermi quei barconi. I silenzi e il terrore come normalità di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 5 aprile 2017 Non ci sono spille e cartelli con su scritto: "Je suis San Pietroburgo". Non ci sono cortei e fiaccolate. Il massacro nella stazione russa del metrò stenta a conquistare i titoli principali dei giornali, in quelli americani ha solo lo spazio di una breve. Del resto, l’attentato a Londra, davanti al Parlamento britannico, cuore e simbolo della democrazia moderna, è già quasi dimenticato. Ancora qualche settimana e quel "quasi" scomparirà: la strage nella discoteca di Istanbul a Capodanno è stato dimenticato del tutto. I talkshow politici dedicano alla carneficina terroristica di San Pietroburgo un’attenzione distratta e collegamenti quasi annoiati - "interrompimi pure se c’è qualche novità" - ma per il resto il tema centrale continua ad essere l’ennesima, appassionante conta nel Pd, o l’esternazione solenne di qualche Cinque Stelle in vista. Il terrorismo jihadista è stato normalizzato. Il suo carattere jihadista viene addirittura virtuosamente accantonato. E consideriamo una notizia eclatante la dichiarazione dei responsabili russi della sicurezza sconvolti dall’attentato alla metro: "È terrorismo!". Perché, cos’altro avrebbe potuto essere? Ecco perché: perché nella narcosi della nostra grande assuefazione al terrore che insanguina le nostre città ci siamo accucciati nella retorica dei "lupi solitari", categoria che un giornale critico e progressista come The Guardian non esita a definire "fuorviante", come se la scelta fanatica e terrorista di tante persone che si immolano nel nome della purezza religiosa fosse più un problema di psichiatria che un fenomeno che coinvolge migliaia e migliaia di "combattenti" in guerra contro il Satana degli infedeli oppressori. I "lupi solitari" dispongono di una gran varietà di armi di distruzione di massa: cinture esplosive, kalashnikov, machete, asce, coltelli, ordigni chimici, tritolo, se stessi. Ma non sono mai così solitari da trascurare ogni volta un contatto, una complicità, una mail, un messaggio sui social, un campo di addestramento, un luogo della "radicalizzazione". Solitari sì, ma non solitari del tutto. Fino a Parigi, a Bruxelles e a Nizza contavano su una grande risposta emotiva dell’opinione pubblica. Poi l’assuefazione poco a poco l’ha vinta. Persino la strage di Natale a Berlino sembra così lontana, figurarsi se possiamo ricordare tutte le volte che su un treno in Germania, in una chiesa francese, davanti a un museo, una spiaggia, una discoteca, un bistrot di Tel Aviv o una scuola pakistana frequentata da ragazze il cui solo peccato era quello di voler studiare, qualcuno si è fatto saltare per aria, ha tirato fuori un machete, ha azionato una cintura carica di esplosivo. Ora San Pietroburgo, Russia. Molti media parlano nei titoli di un "atto contro Putin". Ma a nessuno sarebbe venuto in mente di spiegare il massacro del Bataclan come un atto contro Hollande o il Suv che uccide i passanti sul ponte davanti a Westminster come un cruento gesto di protesta rivolto a Theresa May. Invece in Russia la guerra asimmetrica dell’islamismo fanatico, sia pur ulteriormente avvelenato dal fondamentalismo indipendentista di matrice cecena come è avvenuto nell’ecatombe della scuola di Beslan e nel teatro Dubrovka di Mosca, diventa, "contro Putin", quasi un atto di guerra convenzionale il cui campo di battaglia è Palmira ma anche una stazione della grande metropolitana di San Pietroburgo, popolata di civili che non pensavano nemmeno di essere in guerra, assorbiti nella loro routine quotidiana. La grande assuefazione passa Nella narcosi della nostra grande assuefazione ci siamo accucciati nella retorica dei lupi solitari come se la scelta fanatica e terrorista di tanti fosse più un problema di psichiatria che un fenomeno che coinvolge migliaia di combattenti anche per questa somma di piccole disattenzioni, attenuazioni lessicali, autocensure, dimenticanze collettive, reticenze, ipocrisie individuali. Ipocrisie, certo: in coscienza quanti di noi, che abbiamo gridato con passione sdegnata "siamo tutti americani", griderebbero con pari convinzione "siamo tutti russi" dopo l’attentato di San Pietroburgo? Pochissimi, per tante ragioni, non tutte ignobili. Ma soprattutto perché abbiamo archiviato la guerra che è stata scatenata in nome dell’assolutismo islamista, l’abbiamo sistemata in un cantuccio, evitando di affrontarla, di concettualizzarla, di combatterla apertamente. Per imparare a conviverci, sperando di schivarla, di non doverla pagare di persona trovandosi nel posto sbagliato nel momento sbagliato, di metterla nel conto delle cose brutte che ci tocca di vivere, come le rapine o la violenza endemica sulle persone e sulle cose. "Je suis San Pietroburgo": no, non più, non è più aria. Medici Senza Frontiere: "i Centri per migranti in Libia come veri gironi infernali" di Luca Liverani martedì Avvenire, 5 aprile 2017 L’accusa della Ong Msf: 10mila persone senza diritti. La testimonianza dei medici dopo il sopralluogo in sette campi: profughi costretti a imbarchi forzati. I centri di detenzione per migranti in Libia sono gestiti da milizie irregolari, in combutta con i trafficanti che gestiscono le traversate. Gironi infernali in cui finisce, tra violenze e soprusi, non solo chi arriva in Libia per tentare il salto in Europa, ma anche immigrati da anni regolarmente in Libia. Arresti arbitrari, senza accuse né processi, che hanno come unica possibilità di scampo il pagamento di un riscatto. E spesso chi esce da queste galere è imbarcato contro la sua volontà. È un quadro raccapricciante quello riferito da Medici Senza Frontiere, che ha avuto modo di visitare sette centri a Tripoli, "formalmente controllati dal Dipartimento per il controllo della migrazione illegale sotto il governo di Tripoli, riconosciuto dalle Nazioni Unite - spiega Arjan Hehenkamp, uno dei direttori generali di Msf - ma di fatto gestiti da vari gruppi di miliziani". Bande che si fanno pagare per la scarcerazione. In queste condizioni sono almeno 10mila persone, afferma Hehenkamp, direttore di Msf Olanda, in una conferenza stampa alla Sala Stampa Estera. Pessimistiche le conclusioni che il direttore trae, dopo una settimana di difficoltose ispezioni dirette e di approfondite analisi sul campo fatte dall’organizzazione umanitaria, da tempo presente in Libia: "Al momento è impossibile pensare che la Libia odierna possa essere parte di qualsiasi soluzione alla crisi dei migranti", se nella stessa Tripoli manca "un’autorità centrale che controlli il territorio", tanto che la capitale è oggi divisa in tante parti quante sono le milizie che le controllano. Arjan Hehenkamp riferisce di "condizioni disumane, spazi che contengono il quintuplo delle persone che potrebbero accogliere, in condizioni assolutamente inaccettabili per gli abusi. Le persone rappresentano soldi, sono costrette a ottenerli dai familiari, in Libia o dai paesi di origine, per uscire. E spesso la traversata verso l’Europa è una via di fuga da tale situazione". Che è totalmente fuori controllo, tanto che nei centri di detenzione libici non ci sono solo i migranti partiti dall’Africa subsahariana per raggiungere l’Europa, ma anche persone che "vivevano e lavoravano da decenni in Libia, magari catturate in strada": "Un uomo mi ha raccontato di essere rinchiuso da due mesi - riferisce il direttore di Msf - nonostante avesse i documenti in regola e vivesse da molti anni in Libia, arrestato mentre tornava dalla sua famiglia che abita a poche centinaia di metri dal centro di detenzione". Gli africani subsahariani, soprattutto nigeriani, "sono oggetto di una vera e propria caccia". E afferma che "il 40% della gente che viene imbarcata riferisce che vi è stata costretta". C’è chi cerca di rifiutarsi di salire su barche fatiscenti, altri che non hanno proprio intenzione di fare la traversata. "È un business, un sistema organizzato, sono le gang di trafficanti che decidono della vita di queste persone". L’Unione Europea "sta sistematicamente chiudendo ogni possibile via sicura per arrivare qui, ma questo costringe queste persone a pericolose traversate". Hehenkamp replica anche ai sospetti di Frontex circa presunte contiguità tra le Ong di soccorso e i trafficanti: "Siamo vicini alle elezioni in Francia, Germania e forse in Italia, il rischio elettorale è alto e ci sono forti pressioni politiche sulle Ong per una riduzione generale dei soccorsi, per fermare i flussi e assecondare l’opinione pubblica. È un disegno per intimidire le Ong e far calare le offerte dei privati". "Gas nervino contro la città dei ribelli": 70 morti in Siria di Andrea Milluzzi Il Dubbio, 5 aprile 2017 I raid di Assad su Idlib: centinaia i civili feriti. Il regime nega tutto. Decine di bambini tra le vittime delle bombe. Condanne unanimi da parte della comunità internazionale. Carcasse di bambini ammucchiati sul cassone di un camion con gli occhi sbarrati, altri ancora vivi ma con le pupille insensibili, neonati con il respiratore attaccato alla bocca nella speranza di restituir loro quell’ossigeno che il gas sarin gli ha tolto all’improvviso. Era mattina presto a Khan Shaykhun, una città di 50mila abitanti (più migliaia di sfollati da Aleppo e Hama) nella provincia di Idlib, nel Nord della Siria, quando degli aerei militari hanno scaricato le loro bombe chimiche sulla popolazione. Un attacco che le testimonianze locali giudicano "fra i più devastanti" da quando è iniziata la guerra, che ha lasciato sul campo 67 morti, fra cui undici bambini, e decine di feriti. È un numero destinato a crescere perché, come testimoniato da un dottore di un ospedale di Idlib: "Il numero dei feriti è impressionante e molti sono in condizioni critiche, perché provengono dall’epicentro dell’attacco o dalle zone limitrofe". Gli spasmi, le difficoltà respiratorie, le pupille dilatate e la bava alla bocca non lasciano spazio ai dubbi: "Non sono state usate bombe al cloro, come a Hama. Questo è gas peggiore, che fa effetto subito" hanno detto i dottori che per primi hanno visitato i feriti. Feriti che in alcuni casi sono stati trasportati a Reyhanli, appena passato il confine turco, o che sono finiti vittime dei bombardamenti successivi all’attacco che hanno colpito un ospedale e due centri di emergenza di Idlib. Poche ombre sul fatto che a lanciare le bombe chimiche siano stati i jet dell’esercito siriano, impegnato con gli alleati russi a bombardare incessantemente una delle ultime aree della Siria ancora in mano ai ribelli. Mosca ha negato ogni coinvolgimento e anche il regime di Bachar al Assad se ne è tirato fuori, ribaltando la prospettiva con una serie di tweet che alludevano a una campagna di disinformazione dei ribelli e dell’Osservatorio siriano per i diritti umani che ha sede a Londra. La comunità politica internazionale ha puntato decisa il dito contro Damasco: "Chi ha commesso crimini di guerra deve essere chiamato a risponderne" ha detto l’alto rappresentante Ue per gli affari esteri Federica Mogherini. Una presa di posizione più dura l’ha avuta la Francia che ha chiesto un "incontro di emergenza del Consiglio di sicurezza dell’Onu" e anche Boris Johnson, ministro degli esteri inglese ha spinto per "un’indagine approfondita". L’attacco di Idlib rischia di avere un pesante impatto sulla diplomazia internazionale, finora a dir poco deficitaria sulla Siria. Il presidente turco Erdogan ha telefonato all’omologo russo Vladimir Putin per far presente come il crimine di Assad possa "minare il percorso iniziato ad Astana". Nella capitale kazaka Turchia, Russia e Iran avevano trovato l’accordo per un cessate il fuoco in Siria solo un paio di mesi fa. Tregua che aveva mostrato più di una falla, ma mai così grandi come quella di ieri. Non è solo l’asse russo- turca a scricchiolare. Fra le voci di condanna, timidissima quella della Casa Bianca che si limita a dire: "È colpa di Obama". Il massacro dei bambini arriva appena 24 ore dopo l’intervista in cui la nuova ambasciatrice Usa all’Onu, Nikki Haley, aveva annunciato come "l’allontanamento di Assad non sia più una priorità" per gli Stati Uniti, non quanto "lavorare con Russia e Turchia a una soluzione politica a lungo termine". Parole che sono andate a sommarsi a quelle del Segretario di Stato Rex Tillerson durante la sua visita ad Ankara: "Saranno i siriani a scegliere se far restare a lungo Assad oppure no". Un cambio di rotta totale, quello americano, che li posiziona sulla lunghezza d’onda di Putin e Assad che si sarà probabilmente sentito più al sicuro rispetto al passato. La precedente amministrazione Obama gli aveva imposto la linea rossa dell’utilizzo di armi chimiche, dopo i bombardamenti al sarin nella valle della Ghouta dell’agosto 2013. La successiva trattativa con Damasco aveva convinto Obama che, pur non essendo riuscito a detronizzare Assad, lo aveva almeno costretto a smantellare il suo arsenale chimico. I morti di ieri hanno fatto cadere anche questa velleitaria certezza. Armi chimiche sul nuovo ordine mediorientale di Eric Salerno huffingtonpost.it, 5 aprile 2017 I ribelli accusano, Damasco nega, resta l’accelerazione voluta da Washington e Mosca. Gas tossici e bombardamenti sui civili nella corsa finale, o quasi, al nuovo assetto del Medio Oriente e dintorni. Mentre il regime di Damasco nega di aver attaccato con armi chimiche un quartiere popolare a Khan Sheikhun, nella provincia siriana di Idlib, le organizzazioni vicine ai ribelli denunciano quello che, se vero, sarebbe uno dei più gravi episodi di guerra con i gas nella lunga, tragica, lotta in corso in Siria e che mette in rilievo l’accelerazione voluta, in qualche modo concordata, tra i due maggiori giocatori esterni. Trump a Washington e Putin a Mosca. La liberazione - o caduta - di Aleppo-Est a dicembre aveva segnato la fine del progetto americano, della Nato, dell’Arabia saudita e di altri paesi musulmani sunniti della regione, di eliminare il regime del dittatore Assad e allo stesso tempo portare alla disgregazione della Repubblica siriana. La provincia di Idlib è una delle roccaforti rimaste all’opposizione, un insieme di combattenti siriani, qaedisti e jihadisti arrivati da mezzo mondo musulmano (persino dalla lontanissima Cina), e curdi con interessi legati alle loro istanze nazionaliste. Schiacciarli non è facile se non con massicci bombardamenti, come dimostra l’azione americana in Iraq a Mosul volta a riprendere il controllo del paese devastato non tanto dalla guerra per deporre Saddam Hussein quanto dall’incapacità, tipica della diplomazia Usa, di riflettere sul "dopo". I gas nervini, vietati dalle convenzioni internazionali, furono utilizzati per la prima volta nella regione da Saddam Hussein per piegare i curdi nel marzo 1988 a Hallabja. Un massacro di civili che spinse altri regimi regionali ad armarsi, con l’aiuto delle potenze occidentali e di Mosca, di strumenti simili. Damasco allestì un grande arsenale di gas nervino e di componenti per altre armi chimiche per poter fronteggiare un’eventuale scontro finale con il nemico Israele, l’unica potenza nucleare della regione. Fu costretto a disfarsene (in gran parte) dalla comunità internazionale poco dopo l’inizio della guerra civile. Sia per impedire a Damasco di servirsene, sia per impedire che finissero nelle mani dei ribelli. I primi incidenti con i gas durante la guerra civile siriana furono segnalate nel 2012, come racconta Riccardo Cristiano nel suo "Siria, l’ultimo genocidio" appena pubblicato. "Le Nazioni Unite - scrive - hanno ricevuto denuncia dei seguenti "incidenti" chimici: Salquin - 17 ottobre 2012; Homs - 23 dicembre 2012; Darayya - 13 marzo 2013; Otaybah - 19 marzo 2013; Khan el-Asal - 19 marzo 2013; Adra - 24 marzo 2013; Darayya - 25 aprile 2013; Saraqueb - 29 aprile 2013; Sheik Maqsood - 13 aprile 2013; Jobar - 12-14 aprile 2013; Qasr Abu Samrah - 14 maggio 2013; Adra - 23 maggio 2013; Ghouta - 21 agosto 2013; Bahhariyeh - 22 agosto 2013; Jobar - 24 agosto 2013; Ashrafiah Sahnaya - 25 agosto 2013. Le responsabilità accertate dicono che due "incidenti" sono stati provocati dall’esercito siriano, uno dall’Isis". Per il network siriano per i diritti civili, sicuramente di parte, di 139 attacchi chimici compiuti, solo tre sarebbero da attribuire all’Isis, organizzazione che ha operato con il sostegno economico e militare di alcuni paesi del Golfo e della Turchia. Probabilmente c’è una verità a cavallo tra le accuse degli uni e degli altri. Il gas fa orrore, si potrebbe dire in termini giornalistici, "fa notizia". E così il regime accusa i ribelli, quelli che siano, e i ribelli attribuiscono tutte le colpe possibili ad Assad. L’ultimo attacco non è ancora chiaro. Il gas, se di gas si sta parlando, era nelle bombe? O poteva essere nei depositi di armi colpiti? Forse non lo sapremo mai. Le cifre, accuse e controaccuse possono dare un’idea del massacro in corso ma non la complessità dello scontro in atto cominciato come lotta popolare contro il regime della famiglia Assad e della minoranza alauita (una costola dell’Islam vicina agli sciiti) e sempre più caratterizzata come scontro tra sunniti e sciiti, o meglio tra le monarchie dittatoriali del Golfo e l’Iran. La Russia è entrata in campo nel 2015 per difendere Assad, alleato e unico punto di riferimento strategico rimasto in Medio Oriente. E allo stesso tempo rendere più forte la propria alleanza con Teheran, che sostiene Assad, gli sciiti di Hezbollah in Libano e il governo di Bagdad. Per due anni Putin e l’ex presidente americano Obama si sono sfidati nelle conferenze internazionali mentre la gente in Siria moriva per le armi con cui le due superpotenze inondavano il paese. Con Trump qualcosa è cambiato. Si parla di accordi segreti di collaborazione, qui e altrove. Assad, ha detto Washington, non è più la pecora nera che deve essere eliminata per arrivare a un’intesa sul futuro della Siria. Isis deve scomparire. I curdi dovranno stare calmi e rinunciare alle loro istanze nazionaliste. Ma restano almeno tre punti interrogativi nei giochi regionali. Il primo riguarda il futuro politico della Turchia, paese Nato ma da tempo spostato su posizioni di Putin e molto presente nel conflitto siriano. Il secondo, l’Iran che Trump sembra voler "domare" a giudicare dagli ammonimenti preoccupanti che arrivano da Washington. Del terzo se ne sta parlando in questi giorni alla Casa bianca dove Trump ha incontrato il presidente egiziano e si accinge a parlare con altri leader regionali per rilanciare il processo di pace tra Israele e Palestina. Medio Oriente. Israele, Hezbollah e Siria. La guerra che verrà di Michele Giorgio Il Manifesto, 5 aprile 2017 Netanyahu accusa Bashar Assad di possedere armi chimiche e all’orizzonte si affaccia un nuovo conflitto tra lo Stato ebraico e Hezbollah che stavolta potrebbe coinvolgere la Siria. Il commento di Benyamin Netanyahu è stato immediato. "Israele condanna con forza l’uso di armi chimiche contro civili innocenti in Siria, sono sconvolto e indignato. Ci appelliamo al mondo per tenere le armi chimiche fuori dalla Siria", ha detto il premier israeliano mentre su Damasco piovevano le critiche per il presunto bombardamento con armi chimiche nella provincia di Idlib, attribuito dall’opposizione alle forze governative siriane, in cui sarebbero morti decine di civili. Il ministro dell’istruzione israeliano, Naftali Bennett, ha chiesto una riunione del gabinetto di sicurezza per discutere di contromisure al (presunto) possesso di armi chimiche da parte di Damasco e le ramificazioni per la sicurezza di Israele. La Siria si è disfatta del suo arsenale chimico nel 2014, sulla base di una risoluzione delle Nazioni Unite e di un’intesa con la Russia che evitò all’ultimo istante un attacco militare americano. La distruzione dei depositi siriani fu supervisionata internazionalmente. Per Israele invece Damasco terrebbe nascosta una parte di quelle sostanze chimiche, a scopo bellico. Comunque stiano le cose, il governo Netanyahu intende sfruttare l’occasione per mettere sotto pressione Damasco, soprattutto ora che Assad pare intenzionato a rispondere ai raid aerei israeliani che la Siria subisce da anni, come ha dimostrato il mese scorso ordinando alla contraerea di entrare in azione. A Tel Aviv inoltre non è piaciuta la linea espressa dall’Amministrazione Trump, e ribadita anche ieri, contraria ad un cambio di regime in Siria. Israele vuole la caduta di Bashar Assad, anche se ciò dovesse far precipitare la Siria nel caos e in una spartizione del Paese tra formazioni armate jihadiste e qaediste. Sostiene che il presidente siriano sia ormai legato a doppio filo all’Iran e troppo dipendente dall’assistenza militare che riceve dal movimento sciita libanese Hezbollah, alleato di Teheran. In sostanza, sempre secondo Israele, Damasco sarebbe pronta ad aprire tutto il suo territorio agli scopi militari dell’Iran, in particolare il sud del Paese lungo le linee armistiziali sul Golan occupato. E, aggiunge, si preparerebbe a permettere a Teheran la costruzione di una base navale sulla costa mediterranea. Vero o falso che sia parla dell’esistenza di una "mezzaluna iraniana". Appena qualche giorno fa, Chagai Tzuriel, direttore generale del ministero dell’intelligence di Israele, ha spiegato che "Se l’Iran rimarrà in Siria, allora sarà una costante fonte di attrito e tensione con la maggioranza sunnita, con i paesi sunniti al di fuori della Siria, con le minoranze sunnite fuori della regione, e con Israele"". Secondo Tzuriel, Tehran intenderebbe creare una sorta di "ponte di terra sciita" che passando per l’Iraq, la Siria e il Libano arrivi fino al Mediterraneo, in modo da tenere la costa israeliana sotto il tiro della sua marina militare. È evidente che al governo Netanyahu cominci a stare stretta la "linea verde", il coordinamento con Mosca che sino ad oggi ha evitato scontri tra le forze aeree dei due Paesi quando l’aviazione israeliana lancia i suoi raid in territorio siriano contro presunti convogli di armi destinati a Hezbollah. Il movimento sciita, riferiscono fonti libanesi, avrebbe adottato delle contromisure costruendo in Siria gallerie sotterranee, tra la zona del Qalamoun e quella meridionale, dove custodire missili a medio raggio in grado di colpire ogni punto di Israele. Guerra che si avverte sempre di più nell’aria e molte scintille potrebbero innescarla. Una di queste è il possibile desiderio di Israele di imporre nel Mediterraneo orientale la sua sovranità su una zona marittima contesa rivendicata anche dal Libano. Zona che si ritiene ricca di petrolio e gas. Nabih Berri, presidente sciita del Parlamento libanese, ha avvertito che il passo fatto da Israele "equivale a una dichiarazione di guerra". La disputa va avanti da anni ma le intenzioni di Israele in quel tratto di mare e la recente costruzione da parte di Beirut di cinque piattaforme (tre delle quali nella zona contesa) per l’esplorazione petrolifera, hanno fatto immediatamente salire la tensione. Hezbollah ha più volte ammonito Israele dall’approvare una legge di annessione della zona marittima contesa simile a quella che più di 30 anni fa dichiarò il Golan siriano parte del territorio israeliano. La superiorità militare di Israele è fuori di dubbio ma Hezbollah possiede missili anti-nave Nour, una versione iraniana dei cinesi C-802, e potrebbe essere in possesso anche dei missili russi Yakhont, tra i più avanzati al mondo, in grado di colpire le installazioni petrolifere israeliane. Tel Aviv ha risposto raddoppiando il numero di batterie antimissile Iron Dome che saranno montate su quattro nuove corvette che entreranno in servizio nel 2019. Turchia. Purghe di regime sui redattori di Cumhuriyet: "sono soltanto dei golpisti" Il Dubbio, 5 aprile 2017 Dopo cinque mesi di carcere rinviati a giudizio 19 giornalisti del quotidiano. Dopo 151 giorni di carcere preventivo, deciso sulla base dello stato di emergenza seguito al tentato colpo di stato del 16 luglio, la procura di Istanbul ha accusato giornalisti e dirigenti del quotidiano Cumhuriyet di golpismo. La procura di Istanbul ha infatti presentato la richiesta di rinvio a giudizio per 19 imputati, in testa alla lista dei quali figura il nome dell’ex direttore Can Dundar, attualmente in Germania, che già trascorse un periodo in carcere tra novembre 2015 e gennaio 2016 per un’altra vicenda. Le richieste del pubblico ministero variano tra i 7 anni e 6 mesi e i 15 anni di reclusione per Dundar, il suo successore alla direzione del quotidiano Murat Sabuncu e i membri del consiglio direttivo Kadri Gursel, Aydin Engin, Gunseli Ozaltay e Bulent Yener, tutti accusati di "far parte di un’organizzazione terroristica armata" e aver fornito "sostegno a organizzazioni terroristiche senza esserne membri". Una richiesta di detenzione tra gli 11 anni e 6 mesi e i 43 anni è invece stata formulata relativamente ai membri del consiglio di amministrazione di Cumhuriyet Orhan Erinc, Oncer Celik e Akin Atalay, accusati anch’essi di terrorismo, cosi come il vignettista Musa Kart e i giornalisti Hikmet Cetinkaya, Mustafa Gungor e Hakan Karasinir, che a loro volta rischiano tra i 9 anni e 6 mesi e 29 anni di reclusione. Ahmet Sik, giornalista già incarcerato nel 2011 insieme al collega Nadim Sener per aver scritto un libro che metteva a nudo le infiltrazioni nello stato di Fetullah Gulen, imam e miliardario all’epoca alleato del presidente Recep Tayyip Erdogan e oggi accusato di essere la mente del presunto tentato golpe dello scorso 15 luglio, rischia invece una detenzione tra i 7 anni e 6 mesi e i 15 anni, con l’accusa di aver dato sostegno ed essere membro del gruppo terrorista curdo Pkk. Sik fu arrestato in un secondo blitz, che ha avuto luogo lo scorso 30 dicembre dopo aver iniziato a collaborare con Cumhuriyet. Lo storico quotidiano turco - ha argomentato il pubblco ministero - sarebbe passato da una visione fedele alla repubblica a essere succube delle direttive di Fetullah Gulen, e il tutto sarebbe avvenuto sotto la direzione di Can Dundar. Svizzera. Chiusi i valichi ai "ladri italiani": la Farnesina convoca l’ambasciatore Il Messaggero, 5 aprile 2017 L’ambasciatore della Confederazione Svizzera Giancarlo Kessler è stato convocato d’urgenza alla Farnesina sulla questione della chiusura notturna di tre valichi di frontiera, nonché sulle dichiarazioni che hanno accompagnato la decisione elvetica. Lo fa sapere in una nota il ministero degli Esteri. I valichi erano stati chiusi a partire dalla notte dell’1 aprile scorso, su richiesta della Lega dei Ticinesi. Ogni notte per sei mesi la Svizzera terrà chiusi dalle 23 alle 5 tre valichi minori, due in provincia di Como (Pedrinate-Colverde e Novazzano-Ronago) e uno in provincia di Varese (Ponte Cremenaga). Secondo la Lega dei Ticinesi, la misura servirebbe a "combattere la criminalità frontaliera" che entrerebbe in Svizzera dall’Italia. "Non è sicuramente la soluzione a tutti i mali - aveva spiegato la consigliera nazionale della Lega dei Ticinesi Roberta Pantani - ma rappresenta un importante tassello per una maggiore sicurezza nel nostro Cantone". Sulla misura erano state sollevate critiche da parte di Pd e Fi, mentre la Lega aveva avuto parole favorevoli. Nel pomeriggio il Consiglio regionale della Lombardia ha approvato una mozione contro la chiusura, un documento bipartisan sul quale però la Lega ha espresso voto contrario. Secondo i presentatori della mozione, la chiusura dei valichi fra le 23 e le 5 procura disagi ai lavoratori frontalieri e non risolve il problema di sicurezza lamentato dagli svizzeri, oltre a rappresentare il rischio di ulteriori chiusure. "Una mozione inutile, pre-elettorale, per qualche preferenza in più", ha commentato il capogruppo della Lega in Regione Lombardia, Massimiliano Romeo, secondo il quale "la Regione non ha competenze in politica estera". In serata è intervenuta la Farnesina, che ha convocato "con urgenza" l’ambasciatore svizzero in Italia. "Kessler - si legge in una nota del Ministero degli Esteri - ha sottolineato come si tratti di una misura temporanea e sperimentale, che andrà presto rivista nel quadro di un ulteriore miglioramento della collaborazione fra forze di sicurezza, alla luce dell’accordo vigente fra le polizie dei due Paesi". Da parte italiana è stata ribadita la richiesta di pervenire "nel più breve tempo possibile" al superamento delle procedure di controllo del casellario giudiziario, che si applicano nei confronti dei soli lavoratori transfrontalieri italiani. Stati Uniti. Stretta sulle procedure per entrare negli Usa: zero privacy e interrogatori di Francesca Caferri La Repubblica, 5 aprile 2017 Secondo il Wall Street Journal, il presidente si appresta a mantenere un altro dei propositi manifestati in campagna elettorale. Chi è privo di visto potrebbe dover condividere con le autorità locali dati sensibili come rubrica del cellulare, password degli account sui social media e informazioni finanziarie. Chi il visto lo ha richiesto sarebbe invece sottoposto a colloqui approfonditi nelle ambasciate americane. Donald Trump aveva promesso "procedure di veto estreme" per chi vuole entrare negli Stati Uniti. Sta mantenendo la parola. Secondo quanto riporta il Wall Street Journal presto a chi arriva in America senza visto potrebbe essere chiesto di condividere con le autorità locali i contatti contenuti sul cellulare, le password per gli account sui social media e le proprie informazioni finanziarie. Coloro che invece fanno richiesta di visto, verrebbero sottoposti a procedure più severe di quelle in atto fino ad ora: alle ambasciate Usa nel mondo verrebbe chiesto di esaminare in maniera più approfondita le domande di visto, con colloqui più lunghi e approfonditi di quelli già attualmente obbligatori. La misura, secondo quanto scrive il giornale, è in corso di definizione ma si applicherebbe anche ai Paesi tradizionalmente alleati degli Stati Uniti (il quotidiano cita Francia e Germania) e a quelli considerati "sicuri" e che per questo rientrano nel "Visa Waiver Program", il programma di viaggi senza visto. Dunque, anche all’Italia. I dettagli del piano non sono ancora stati resi pubblici: il Wsj cita come fonti due funzionari che stanno lavorando sulla questione. Ma le nuove misure sono destinate a creare non poche polemiche da parte dei gruppi che si occupano di libertà civili, ma anche degli esperti, che mettono in guardia verso la possibilità che altri Paesi decidano di mettere in atto le stesse misure nei confronti dei cittadini americani che viaggiano. La scelta sarebbe comunque pienamente in linea con le politiche dell’amministrazione Trump, che sulla necessità di restringere le possibilità di accesso negli Stati Uniti ha scommesso molto nelle prime settimane di governo, promulgando il divieto di viaggio per i cittadini di alcuni Paesi musulmani, ora sospeso dopo l’intervento dei giudici. E il divieto di introdurre nella cabina degli aerei provenienti da scali del Medio Oriente e dell’Africa del Nord tablet e computer, per paura che possano nascondere bombe. "Se ci sono dubbi sulle intenzioni di una persona che viene negli Stati Uniti, questi dubbi devono essere superati in un modo che noi reputiamo soddisfacente", ha dichiarato al Wall Street Journal Gene Hamilton, consigliere del responsabile della Sicurezza interna John Kelly.