Il Sottosegretario Migliore: radicalizzazione, sono 370 i detenuti "attenzionati" Il Mattino, 4 aprile 2017 Sono 370 i detenuti nelle carceri italiane su cui "ci sono vari gradi di attenzione" in riferimento al fenomeno della radicalizzazione. Lo ha riferito il sottosegretario alla Giustizia, Gennaro Migliore, durante il dibattito su legalità e immigrazione all’Università Federico II di Napoli. Secondo i dati riferiti dall’esponente del Governo, nelle carceri italiane sono detenute 10mila persone di religione musulmana di cui 370 "attenzionate". Di questi 45 sono detenuti "in sezioni di massima sicurezza", 80 sono monitorati "con attenzione in virtù di corrispondenza e per parole pronunciate durante la detenzione". "Anche al termine della pena questi soggetti saranno monitorati con estrema attenzione", ha precisato il sottosegretario. Il programma di monitoraggio dei detenuti musulmani nasce "perché oggi un soggetto si radicalizza o attraverso il web o nelle carceri con la contaminazione con soggetti già radicalizzati". Comunque nelle carceri "si deve garantire il diritto al culto per i musulmani. Rispettare i diritti è uno strumento contro la radicalizzazione". Legittima difesa, si accelera. Alfano (Ap): "Scatta se qualcuno entra in casa" di Emilio Pucci Il Messaggero, 4 aprile 2017 Ap pianta i paletti sulla legittima difesa: Gentiloni intervenga per accelerare l’iter della legge e affinché si rivedano i criteri. E la Camera accelera: inizierà ad esaminare il tema il prossimo 19 aprile. La road map di Ap parte con quattro emendamenti al testo in discussione in Commissione Giustizia. "Occorre viene spiegato - aumentare le pene per le violazioni a domicilio ma soprattutto far passare un principio chiaro: quando qualcuno entra in casa la legittima difesa c’è sempre". Dopo l’intervista del ministro Costa al Messaggero sul tema si riaccende il dibattito. L’esecutivo non prende posizione, "è materia parlamentare", ma è disponibile ad un confronto. Anche il Pd fa capire di essere aperto al dialogo. Tuttavia le distanze restano: Ap chiede di mettere un freno alla discrezionalità da parte dei giudici in presenza di episodi di violenza come il caso di Budrio, i dem ribadiscono di non essere d’accordo. La linea è chiara: la valutazione dei riscontri oggettivi deve farla il magistrato. "Non si può eliminare la figura del giudice", dice Fiano. Il responsabile giustizia dem Ermini ribadisce che il testo base della legge è pronto ad essere licenziato dalla Commissione, si aspetta la calendarizzazione da parte della conferenza dei capigruppo di Montecitorio. Non si modifica l’articolo 52 ma si sottolinea che è prevista la legittima difesa quando "è conseguenza di un grave turbamento psichico ed è causato, volontariamente o colposamente, dalla persona contro cui è diretto il fatto". Per Ap non basta: no all’autonoma interpretazione del tribunale di turno. Tra le richieste quella di "tenere conto che l’aggredito spesso non è in grado di comprendere il grado dell’offesa trovandosi in uno stato di forte stress psicologico". Oltre a rimarcare "la temporanea incapacità di intendere di volere della persona offesa" occorre inoltre escludere a priori "la risarcibilità del danno da parte della persona offesa". "Sono dell’idea che bisogna estendere il margine possibile di intervento di chi si deve difendere", ha spiegato Alfano. Ma Ap nell’incontro con Gentiloni (potrebbe esserci tra domani e giovedì) avanzerà altre rivendicazioni. In primis sui voucher, cancellati dal governo: Ap chiede di spostare al 15 maggio la possibilità di acquistarli oppure di varare un nuovo dl. Nella proposta firmata da Pizzolante si punta sul lavoro a chiamata, si chiede di liberalizzarlo, si promuovono formule contrattuali brevi, anche per i week end. I centristi inoltre vogliono voce in capitolo sul Def, poter dire la propria su misure per le famiglie e mettere un freno allo sfoltimento delle detrazioni fiscali per le imprese. Sul tavolo di palazzo Chigi si aprirà anche il capitolo Rai. "Se non ci ascoltano diremo no ai provvedimenti che non ci convincono", questa la linea. Nessuna crisi "domattina" ma "se dobbiamo impiegare quest’anno a fare marcia indietro sulle riforme per andare dietro alla sinistra da indietro tutta, il governo non ci troverà", ha detto Alfano. Ed ancora: "Se il governo è sotto ricatto della Cgil, noi non siamo ricattabili dalla Cgil". Sabato appuntamento al Tempio di Adriano sulle primarie liberal-popolari: "Oltre a noi ci sarà Casini e hanno già dato disponibilità Flavio Tosi e Enrico Zanetti". Tutelare la vittima, la sterzata che serve di Carlo Nordio Il Messaggero, 4 aprile 2017 Ormai è un’altalena ricorrente e diabolica. Un’aggressione e un morto: ora la vittima, ora il bandito. Le reazioni della politica sono di tre tipi. 1) Lasciare le cose come stanno e predicare un maggior controllo territoriale 2) Aggravare le pene per i furti e le rapine. 3) Cambiare la disciplina della legittima difesa. La prima è ormai insostenibile. Le forze dell’ordine già fanno miracoli, operano cori bilanci sempre più striminziti e rischiano, se usano le armi, di finire sotto processo. Per di più la stragrande maggioranza degli italiani ritiene ingiusto che, dopo essersi difeso davanti al bandito, il poliziotto o il semplice cittadino debbano anche difendersi davanti alla legge. Aggiungo che gli allarmati richiami delle anime pie al Far West e alla licenza di uccidere sono stupidaggini. Farsi giustizia da sé significa andare dal ladro a riprendersi la refurtiva, o dall’assassino per farlo fuori con le proprie mani. Chi si difende in casa non vuole niente di tutto questo. Agisce semplicemente per evitare un danno irreparabile alla persona, o ai beni, o a entrambi. La seconda proposta è inutile: le sanzioni sono già altissime, anche se di applicazione incerta e precaria. In un sistema penale semi sfasciato come il nostro l’aspirante rapinatore pensa a tutto tranne che a esser preso, e ancor meno a esser condannato e incatenato. Resta la terza. Qui occorrono due parole in più. La legittima difesa è inserita nel nostro codice penale, datato 1930 e firmato da Mussolini e da Vittorio Emanuele. Benché scritto in italiano superbo e ispirato da giuristi di classe, è pur sempre un codice fascista, dove la persona, prima che un cittadino, è un suddito. E lo Stato gli dice: "Se tu ammazzi il ladro che ti entra in casa io non ti punisco se la tua reazione è stata proporzionata". Può sembrare giusto vero? Perché nessuno può sparare alla schiena a chi scappa con la gallina. E infatti il principio va bene. Quello che non va bene è la logica del discorso. Perché la legittimità della difesa che lo Stato riconosce al suddito è una sorta di concessione benevola che, in caso di proscioglimento, si conclude con la formula ambigua "che il fatto non costituisce reato". Come dire: il reato c’è, ma io non lo considero tale; di conseguenza prima ti indago, poi forse ti processo e alla fine probabilmente ti assolvo. Se intanto hai perso la tranquillità, una buona dose di denari, e magari la salute, sono fatti tuoi. Un codice diverso, e liberale, suonerebbe invece così: poiché in caso di aggressione il primo responsabile è lo Stato, che non ha saputo impedirla, io, codice, non indico i limiti entro cui il cittadino può difendersi, ma quelli entro cui lo Stato può punire chi si è sostituito alla sua inerzia. Non certo per responsabilità delle forze dell’ordine: del resto sarebbe impossibile mettere un carabiniere alla porta di ogni casa. Ma perché, anche senza averne colpa, lo Stato si è rivelato di fatto inadempiente all’obbligo di difendere i diritti naturali della persona. Così impostato il problema, cambierebbe tutto. A cominciare dal fatto che, durante le indagini, il cittadino sarebbe realmente considerato presunto innocente, e non come adesso un mezzo colpevole; che la formula assolutoria sarebbe più radicale e più liberatoria di quella attuale (ad esempio potrebbe essere: il fatto-reato non sussiste); e che la vittima dovrebbe essere risarcita almeno delle spese legali. Facile? Mica tanto. Perché per fare questo non basta cambiare uno o due articoli, ma l’intero codice nella sua filosofia essenzialmente illiberale: occorre tempo e buona volontà. E, al momento attuale, la politica non sembra avere né l’uno né l’altra. Legittima difesa dalla demagogia di Giuliano Pisapia La Repubblica, 4 aprile 2017 L’ultimo agghiacciante episodio è accaduto a Budrio, in provincia di Bologna. Un barista è stato ucciso da un rapinatore. Quella pistola che ha sparato a un uomo che stava cercando di difendersi dentro le sue mura, rimbomberà nell’aula della Commissione Giustizia della Camera dove è in esame la modifica della "legittima difesa". Si tratta di un tema particolarmente delicato, perché deve garantire il diritto di difendersi da un’aggressione, cosa ben diversa dal farsi giustizia da soli. Ora c’è il rischio che l’emotività, come del resto spesso è accaduto nel nostro Paese, o peggio ancora, le strumentalizzazioni, pesino nel dibattito che è destinato ad approdare presto in Aula e a spezzare un equilibrio che il nostro codice penale è riuscito a raggiungere. Vorrei fare due premesse. La prima è che la sicurezza è un tema che non è di destra o di sinistra. La sicurezza è un diritto dei cittadini e garantirla è compito delle istituzioni. Di destra o di sinistra possono essere le strade più efficaci per cercare di garantirla. La seconda è che il dramma di Budrio non ha niente a che vedere con il tema della "legittima difesa". Se anche la vicenda non fosse finita in modo così drammatico, se anche il barista fosse riuscito, anche sparando, ad avere la meglio su chi si era introdotto armato nel suo bar, a lui sarebbe stata riconosciuta la "legittima difesa". Il codice penale non lascia spazio ad altra interpretazione. E per valutare se sia davvero necessaria una modifica legislativa o se, invece, quella modifica rischi di essere inutile se non addirittura controproducente, bisogna sapere cosa già prevede il nostro ordinamento. L’art. 52 del codice penale è chiaro. Non è punibile chi ha commesso il fatto per difendere un diritto contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, purché la difesa sia proporzionata all’offesa. In caso di aggressione in una abitazione o in ogni altro luogo ove si esercita un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale, la "proporzione tra difesa ed offesa" è presunta quando: a) vi è anche solo il pericolo di essere aggrediti; b)la vittima usa un’arma legittimamente detenuta; c) a rischio non è solo l’incolumità delle persone aggredite ma anche la tutela dei "beni propri o altrui". Quando un ladro o un rapinatore entra, quindi, in una abitazione o in un luogo privato, vi è una presunzione non solo di "proporzionalità" tra la condotta dell’aggressore e la reazione della vittima ma anche una presunzione di pericolo. È ben diversa, del resto, la situazione di chi spara e colpisce, anche mortalmente, chi sta rubando una mela in un giardino e chi reagisce contro chi entra a casa tua per rubare, rapinare, violentare. Non solo: la non punibilità è prevista, giustamente, anche in presenza della cosiddetta "legittima difesa putativa", quando cioè, pur in assenza di un "pericolo attuale di un’offesa ingiusta", si ritiene in buona fede di trovarsi in una simile situazione, per paura, per la situazione psicologica che si vive in momenti così drammatici. Tanto è vero che il proprietario di un negozio, accusato di omicidio per aver sparato contro due ladri che stavano scappando in auto, è stato assolto perché aveva agito nella convinzione, poi dimostratasi errata, che fossero armati e stessero per sparare. Non si può certo dire, quindi, che i giudici non tengano conto, nelle loro valutazioni, della situazione psicologica, del turbamento psichico, della paura se non del terrore, che si vive in simili situazioni. Proprio per questo è importante che non si cancelli una norma di salvaguardia quale quella dell’eccesso colposo di "legittima difesa" che alcune proposte di legge vogliono eliminare. Se si eccedono colposamente i limiti imposti dalla legge - ad esempio si spara e si uccide chi è entrato illegittimamente nella tua abitazione, non è armato e, accortosi della tua presenza, scappa - sarebbe contrario ai princìpi di uno Stato di diritto, che un simile comportamento possa non avere conseguenze anche penali. Non certo contestando l’omicidio volontario (pena non inferiore a 21 anni e, in caso di aggravanti, l’ergastolo) ma, come la legge prevede, ipotizzando eventualmente un reato colposo la cui pena, salvo casi particolarmente gravi, rientra nei limiti della sospensione condizionale o non comporta il carcere. Il problema, quindi, non è normativo ma piuttosto "comunicativo". Salvo i casi in cui è evidente che sussistono i presupposti della "legittima difesa", è indispensabile fare delle indagini per ricostruire la dinamica dei fatti. Il che implica, ad esempio, sentire eventuali testimoni o disporre una perizia (balistica o medico-legale). Ebbene, in questi casi, proprio a tutela del diritto di difesa, è doverosa l’iscrizione nel registro degli indagati. E, in determinati casi, quando le versioni sono contrastanti, è necessario ipotizzare il reato più grave per non rischiare l’inutilizzabilità di quegli atti. È comprensibile che, se questa iscrizione è già interpretata come un’accusa, un’imputazione, una condanna, vi siano reazioni negative, che possono però essere evitate se si chiarisce subito che si tratta di un atto dovuto la cui finalità è quella di evitare ingiuste condanne (o ingiuste assoluzioni). Tanto è vero che, nella maggior parte dei casi, arriva l’archiviazione o l’assoluzione per chi ha subito l’aggressione. Le norme vigenti tutelano le vittime e non i delinquenti; distinguono caso per caso; non permettono di farsi giustizia da soli ma riconoscono il diritto di difendersi dalle aggressioni. Il dovere, e l’onere, di accertare la verità e applicare la legge, spetta alla magistratura. Alla politica, specie in un momento come questo, quando grande è la confusione sotto il cielo (e la situazione non è affatto favorevole), spetta evitare di strumentalizzare episodi drammatici, modificando norme che funzionano e garantiscono quel difficile equilibrio che costituisce un vero e proprio baluardo di ogni democrazia. Manca la certezza della pena. Un arrestato per rapina su due fuori di cella dopo un anno di Fabio Tonacci La Repubblica, 4 aprile 2017 Boom di scarcerazioni dovuto allo svuota-carceri, ma anche alle lungaggini che fanno scadere i termini per la custodia cautelare. Alessia e Christian sono due rapinatori. Il 13 settembre scorso hanno drogato Valentino mescolando benzodiazepine alla sua bibita, gli hanno rubato il portafogli e il bancomat, lo hanno mandato all’ospedale. La polizia li ha beccati grazie alla telecamera della banca da cui hanno prelevato con la carta. Christian ha confessato subito, quindi i due hanno patteggiato la pena per il reato dell’articolo 628 del codice penale. La rapina, appunto. Quando non è aggravata, sono previsti da tre a dieci anni di prigione. Ma Alessia F. e Christian C. non hanno mai fatto un giorno di carcere. Questa storia, piccola ma simbolica, arriva da Pescara e traduce in fatti quel sentimento sempre più diffuso in una parte dell’opinione pubblica che ritiene che in Italia non vi sia certezza della pena. Che ladri e rapinatori, cioè, non vengano perseguiti come si dovrebbe o evitino quasi sempre di pagare per i loro crimini. Ancora due giorni fa è stato il sindaco di Budrio Giulio Perini a rilanciare il tema, dopo l’omicidio del barista Davide Fabbri: "L’unica giustizia è quella della legge, occorre la certezza della pena". L’argomento è assai complesso, e investe tutto il sistema della giustizia. A Pescara, per dire, i due rapinatori Alessia e Christian hanno potuto beneficiare degli effetti del decreto svuota carceri, che impedisce la custodia cautelare dietro le sbarre (salvo per reati più gravi) se si prevede che sarà inflitta una pena non superiore ai tre anni alla fine del processo. Per Alessia, che ha fatto da esca e ha drogato la sua vittima, è bastato l’obbligo di dimora a Pescara per un anno. Poi con il patteggiamento, le attenuanti generiche, il peso della fedina penale fino ad allora pulita, la sospensione condizionale della pena, i due rapinatori hanno chiuso la questione senza scontare neanche un giorno. Un caso limite, certo. Quasi sempre infatti, i responsabili di rapine e furti nelle abitazioni che vengono presi in flagranza o a seguito di un’indagine, in carcere ci finiscono. Il problema è che poi non ci rimangono quanto dovrebbero. Alcuni dati ufficiali, e inediti, del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria dimostrano infatti che il richiamo dei sindaci alla certezza della pena non è poi così campato in aria. Nel 2015 nel nostro Paese sono state arrestate 10.203 persone con l’accusa di rapina: la metà di queste è già uscita. Ad oggi 3.573 sono state scarcerate per proscioglimento o decorrenza dei termini, che significa che gli indagati erano sottoposti a custodia cautelare per evitare che scappassero o ritornassero a rapinare, ma poiché il processo tardava ad arrivare, il magistrato li ha rimessi in libertà. Altri 1.741 detenuti, invece, non sono più in cella perché sono stati concessi loro i domiciliari o l’affidamento ai servizi sociali. Sommando le due cifre, fa il 50 per cento. Uno su due. La tendenza nel 2016 si conferma: su 10.139 arrestati per rapina, sono ancora in prigione in 6.120. Gli altri sono stati scarcerati (2.196) o sono fuori perché ai domiciliari oppure affidati ai servizi sociali (1.823). Un buon 40 per cento. "Tanto lavoro per nulla, viene da dire", commenta Enzo Letizia, segretario dell’Associazione nazionale dei funzionari di polizia. "Sono dati sconcertanti. Oltretutto invece di aumentare i posti nelle nostre carceri, si sono scelte normative come lo svuota carceri che pur partendo da un principio corretto finiscono per andare in direzione opposta alla certezza della pena". Alcuni sociologi, come Marzo Barbagli, identificano l’origine del problema più "nella individuazione degli autori dei reati" che nelle disfunzioni dell’apparato giudiziario. Nelle grandi città, le forze di polizia soffrono sistematicamente della riduzione di organici e risorse e quindi tendono a non dare priorità investigativa a piccoli furti e a rapine di poco conto, realizzate senza armi da fuoco: così si spiegano le impietose statistiche dell’Istat (le ultimi disponibili sono relative al 2015) che fissano al 4,6 per cento la percentuale media dei furti di cui si è scoperto il responsabile, e al 25,5 per cento quella delle rapine. La stessa valutazione la fanno anche i pm, quando sono sommersi dai fascicoli di indagine. "Si dà la precedenza alle denunce per violenza sessuale, stalking e minacce", racconta un magistrato che si occupa di reati predatori. "Questo perché in questi casi c’è una vita a rischio". Il Procuratore di Bologna Giuseppe Amato "difficile tenerli dentro in attesa del processo" di Giuseppe Baldassarro La Repubblica, 4 aprile 2017 "I magistrati applicano le leggi fatte dal Parlamento. È dunque soprattutto una questione di scelte politiche. Non entro nel merito delle decisioni del legislatore, ma al netto di alcuni casi particolari che possono essere valutati in maniera più o meno diversa dai giudici, noi lavoriamo con le leggi che ci danno". È misurato il procuratore di Bologna Giuseppe Amato. Spiega che le statistiche sui reati predatori sono incoraggianti, anche se poi alcuni casi di cronaca accendono l’allarme e la percezione di insicurezza cresce a dismisura, facendo tornare la voglia di difendersi armi in pugno. Procuratore, l’impressione è che tanti criminali escono di carcere troppo rapidamente. "Guardi ci sono diversi ordini di problemi che non dipendono dalla magistratura: la prima questione è relativa alle fasi precedenti i processi, la seconda riguarda i tempi della giustizia e infine c’è la questione della "certezza della pena". Iniziamo dalla prima. "Per alcuni reati i termini di custodia cautelare in carcere sono brevi. Una legge del 2015 ha poi ridotto ulteriormente i margini di manovra sulle misure personali. È una scelta della politica che i magistrati sono tenuti ad applicare. È in questa fase che ci sono diverse scarcerazioni in attesa dei processi". Ecco parliamo dei processi che appaiono infiniti. "È la questione delle questioni quella dei tempi processuali. A Bologna stiamo lavorando molto su questo. Tuttavia ci sono arretrati impressionanti e non è facile smaltire il pregresso. Sui tempi come magistrati ci giochiamo una partita fondamentale che, ovviamente, dobbiamo affrontare con le risorse di uomini e mezzi disponibili". C’è poi il tema della certezza della pena. "Anche questo è un argomento che dovrebbe essere affrontato dalla politica. Personalmente credo che il sistema italiano sia molto equilibrato. Nel nostro Paese, come è giusto che sia dal mio punto di vista, siamo molto attenti al reinserimento nella società delle persone che hanno commesso degli errori. Non possiamo non tenere conto degli esiti positivi che ne derivano. Come non possiamo pensare di risolvere il problema tenendo all’infinito le persone in carcere. Cosa che tra l’altro avrebbe costi umani ed economici insostenibili per il Paese". Insomma, la soluzione non può essere quella di avere celle piene. "Io dico che esiste una misura che è culturale e di buon senso, che va preservata. Questo non significa essere comunque indulgenti intendiamoci, ma giusti". C’è chi vorrebbe ritoccare la legge sulla legittima difesa, lei cosa ne pensa? "Guardi anche su questo credo che la norma in Italia sia molto equilibrata. La legge che consente la legittima difesa entro le proprie mura esiste da tempo e mi pare ben fatta. Una cosa è potersi difendere, altro è sparare ad un ladro mentre scappa. In quel caso, pur comprendendo la frustrazione di una vittima che vede violata la propria intimità domestica o la propria attività economica, io credo che non si possa autorizzare la vittima a trasformarsi in un carnefice. Ripeto, credo che la norma esistente sia equilibrata, non la cambierei". Femminicidio: una donna vittima ogni tre giorni, la legge ferma alla Camera di Alessandro Di Matteo La Stampa, 4 aprile 2017 Il testo che passerà al Senato prevede l’ergastolo. Nel 2016, in Italia, è stata uccisa una donna ogni tre giorni, 120 omicidi in tutto l’anno, e sono 17 le vittime dall’inizio del 2017, quattro solo nel mese di marzo appena concluso. Parliamo di donne ammazzate quasi sempre dai propri mariti, compagni, ex fidanzati che si scatenano per una lite, per la fine di una relazione. Una barbarie che sembra resistere anche alle leggi via via più severe su questo tema, se si considera che proprio in questi mesi in Parlamento si discute una legge che introduce l’ergastolo per chi uccide coniuge o convivente con il quale ha una "relazione affettiva". Una normativa approvata dalla Camera senza voti contrari lo scorso primo marzo e che ora dovrà essere votata in Senato. Dopo la notizia dell’uccisione di Patrizia Formica si prova ad accelerare: il presidente dei Senatori Pd Luigi Zanda chiederà alla prossima capigruppo di calendarizzare rapidamente il provvedimento, per arrivare ad una rapida approvazione. Se la legge verrà approvata anche a palazzo Madama, chi uccide il coniuge o il convivente verrà condannato all’ergastolo, mentre la pena è da 24 a 30 anni se si tratta di coppie divorziate o ex coppie di fatto. Un tentativo di dare una risposta esemplare, anche se non manca chi esprime perplessità sull’idea di inasprire le pene. Diverse esponenti femministe, nei mesi scorsi, hanno contestato l’idea dell’ergastolo, meglio investire sulla prevenzione che sulla repressione, dicono parecchie associazioni per la difesa dei diritti delle donne. In Senato, peraltro, proprio in questi giorni inizia i lavori la commissione d’inchiesta sul femminicidio. Spiega Doris Lo Moro, Mdp, relatrice della legge con la quale è stata istituita la commissione e in pista per essere eletta presidente: "L’ergastolo? Sono sempre cauta sulle scelte emergenziali, non bisogna mai perdere l’equilibrio: dobbiamo arrivare a potenziare la prevenzione, la repressione c’è. La commissione si occuperà soprattutto degli aspetti preventivi. Ma sia chiaro: non voglio una contrapposizione con i colleghi che hanno votato la legge alla Camera, qui non si tratta di smontare il lavoro fatto da altri. La commissione esprimerà una opinione anche su questa legge". La priorità, secondo Lo Moro, è un’opera di sensibilizzazione: "Dobbiamo creare un codice di comportamento, capire quali sono gli eventi-sentinella di fronte ai quali le donne dovrebbero reagire. Per esempio, l’ultimo incontro "per chiarirsi" spesso è quello in cui perdi la vita". Francesca Puglisi, Pd, anche lei nella commissione del Senato. "È importante calendarizzare immediatamente al Senato la legge approvata dalla Camera. Cerchiamo di porre un argine alla ferocia che continua a colpire le donne. Ma dobbiamo anche educare i ragazzi nelle scuole al rispetto dell’altro sesso e educare le ragazze ad essere consapevoli. Capisco che sull’ergastolo ci sono opinioni diverse, ma nel caso del femminicidio credo sia opportuno". Il pm Pignatone e la svolta contro il far west delle intercettazioni di Errico Novi Il Dubbio, 4 aprile 2017 Dal Procuratore di Roma sì alla riforma e appello alla responsabilità dei pm. Il magistrato pubblica l’intervento proprio su repubblica, alfiere delle campagne contro "la legge bavaglio". nell’analisi c’è un allarme sulla credibilità delle toghe. Molti passi avanti si erano notati. A cominciare dalle circolari dell’anno scorso e, almeno fino all’improvvisa ondata del caso Consip, a un flusso più rarefatto di intercettazioni finite sui giornali. Ma l’intervento del procuratore di Roma Giuseppe Pignatone pubblicato ieri su Repubblica segna un punto di svolta sul processo mediatico. C’è un chiaro e esplicito appello a limitare quelle "notizie" che "possono incidere anche in modo gravissimo sulla privacy e sulla reputazione dei cittadini, divenendo in alcuni casi un’autentica "gogna mediatica". È davvero notevole che un simile appello arrivi dal vertice dell’ufficio inquirente più importante d’Italia. E, allo stesso modo, che sia pubblicato su un giornale, Repubblica, protagonista negli anni scorsi di una battaglia condotta in direzione opposta: quella contro la cosiddetta "legge bavaglio". Il segnale arrivato ieri è il punto di arrivo di un percorso chiaro, che va avanti ormai da più di un anno. Una presa di coscienza, da parte di alcuni importanti magistrati, della pericolosa deriva innescata dalla pubblicazione selvaggia di atti coperti da segreto o comunque impubblicabili a norma di legge. Non s tratta più di preservare l’onorabilità di un politico, di evitare che la fuoriuscita di atti d’indagine e in particolare di conversazioni private ne rovini la carriera o influisca sul risultato elettorale. Pignatone non ne parla in modo esplicito, ma uno dei rischi più gravi di quella "gogna mediatica", da lui evocata senza perifrasi, è il discredito della stessa magistratura. Più precisamente, il rischio che il cosiddetto processo mediatico alteri così tanto la percezione della giustizia e il significato del processo da scagliare prima o poi i cittadini contro gli stessi giudici. Una degenerazione a cui si assiste ormai in modo sempre meno episodico, e che rischia di travolgere qualunque magistrato osi assumere o promuovere una misura processuale non in linea con le attese del popolo giustizialista. Il procuratore di Roma ha certamente un’attenzione molto forte per questi temi. Lo ha dimostrato in almeno due occasioni. Innanzitutto con le direttive emanate circa un anno fa - "in assenza di iniziative legislative", ricorda Pignatone su Repubblica - proprio sulle intercettazioni e la necessità di limitarne la trascrizione "a quelle realmente rilevanti ai fini dell’indagine, prestando ogni possibile attenzione al rispetto della privacy delle persone intercettate, specie quando non indagate". Come ricorda il procuratore, i capi di altri uffici inquirenti (almeno una ventina), promossero direttive analoghe, e alla fine il Csm le fece proprie in una delibera. L’altro snodo determinante dell’azione di Pignatone su questo fronte è la revoca del mandato investigativo sull’indagine Consip nei confronti del Noe, con la conseguente assegnazione dell’incarico ad altro reparto dei carabinieri, il Nucleo investigativo di Roma: decisione questa assunta proprio a ripetute fughe di notizie. Due prove della grande vigilanza di questo magistrato sul tema della riservatezza. Con il terzo e importantissimo atto costituito dallo stesso intervento su Repubblica, il vertice dei pm capitolini mette di fronte alle proprie responsabilità diverse categorie di soggetti (stampa compresa), ma due più di tutti: i suoi colleghi e il Parlamento. I primi non possono più ignorare - nei pochi casi i cui fossero ancora tentati dal farlo - l’esistenza di una magistratura responsabile e scrupolosa nel preservare tutti i diritti ma anche la credibilità stessa del sistema. Al Parlamento, Pignatone su rivolge direttamente quando parla del "disegno di legge delega di (parziale) riforma della disciplina delle intercettazioni". Non chiede, come fanno invece i Cinque Stelle, di buttare tutto a mare. Non sostiene che i limiti all’uso dei trojan siano un favore alle cricche dei corrotti. Anzi, ricorda che "il punto più delicato" è costituito proprio dalle captazioni "ambientali", che i malware installati sui dispositivi degli indagati non a caso consentirebbero di svolgere nella maniera più invasiva. In ultima analisi il procuratore di Roma sollecita l’approvazione definitiva, da parte della Camera, di quella riforma messa al bando dai grillini. E con il massimo garbo possibile inserisce proprio in quel passaggio una frase chiave: "Solo la concreta attuazione delle norme ci dirà se l’obiettivo sarà raggiunto". Dipenderà insomma, anche se non soprattutto, dalle Procure e dai loro vertici. Che, cosa di cui Pignatone è convinto, dovrebbero avvertire il suo stesso impulso di sottrarre il processo alla barbarie della gogna, se vogliono evitare di restarne intrappolati loro stessi. Stefano Rodotà "La politica non tocchi le intercettazioni, il giudice vigili sulla privacy" di Liana Milella La Repubblica, 4 aprile 2017 Stefano Rodotà interviene sui temi sollevati da Pignatone procuratore di Roma: "Selezionare gli ascolti spetta ai magistrati, il giornalista scrive ciò che ritiene rilevante". "Bisogna usare solo le intercettazioni rilevanti ed è compito del magistrato selezionarle senza interferenze come vuole la sua autonomia". Stefano Rodotà risponde al procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e ricorda che "chi ha ruoli pubblici gode di una privacy ridotta". Pignatone dice che bisogna tenere insieme quattro diritti: fare le indagini, difendersi, garantire una buona informazione, tutelare la privacy. È possibile? "Non so se lo sia. Ma è corretto il modo in cui identifica gli interessi e dice che sono "tutti" di rilievo costituzionale. Quindi nessuno è superiore agli altri. Chi vuole farne prevalere uno, all’opposto, cita solo quello, screditando l’altro, mentre Pignatone giustamente li mette tutti sullo stesso piano". È realistico pensare di farli coesistere? "Questa necessaria coesistenza pone certamente un vincolo. Gli interessi possono essere in conflitto. E la prevalenza dell’uno o dell’altro dev’essere argomentata". Il procuratore cita una sua circolare per utilizzare cum grano salis le intercettazioni negli atti. Non è già una censura, ai tempi di Berlusconi l’avremmo chiamata un bavaglio? "Nel Codice deontologico per i giornalisti - un testo che qualsiasi magistrato può applicare trattandosi di una norma giuridica vincolante e che feci approvare quand’ero Garante della privacy - all’articolo 6, è scritto che "la sfera privata delle persone note, o che esercitano funzioni pubbliche, dev’essere rispettata se le notizie o i dati non hanno alcun rilievo sulla loro vita pubblica". Tecnicamente si chiama "minore aspettativa di privacy". Non c’è il rischio che i magistrati utilizzino sempre di meno le intercettazioni temendo le fughe di notizie? "Bisogna usare solo le intercettazioni rilevanti. Da Garante, in più di un’occasione, mi sono trovato a sottolineare che erano state messe in circolazione notizie non rilevanti e che portavano un pregiudizio all’interessato". Quindi tocca al magistrato decidere cosa tenere segreto? "Certo, tocca a lui fare la selezione, che comporta anche il rischio, per caso o per scelta, di omettere informazioni significative o rivelarne alcune non rilevanti per le indagini. Un esempio? Faccio un’indagine su un soggetto, poi trovo che costui esce dove ci sono i trans, se metto anche questo nel fascicolo c’è il concreto rischio che tutto finisca sui giornali". Per lei questa selezione è giusta? Non è un bavaglio? "Il bavaglio non stava e non sta qui. Il punto è valutare l’interesse alla conoscenza di quelle informazioni. Il conflitto nasce se una persona nota chiede di tenere riservate delle notizie che invece l’opinione pubblica vuole conoscere per controllare chi fa un attività pubblica. Ma se le notizie sono "del tutto e assolutamente irrilevanti" non devono diventare pubbliche". Pignatone però responsabilizza i giornali che dovrebbero scegliere "nella loro libertà e responsabilità". "L’osservazione è legittima, ma i due mestieri, il magistrato e il giornalista, sono diversi. Non si può dire che il primo deve seguire le regole del secondo, né l’opposto". Facciamo un esempio. Un signore non indagato finisce in un’intercettazione, e poi sui giornali. Ma quella telefonata è importante nella ricostruzione del fatto. Si potrebbe non usarla? "Se il giornalista accerta che un signore con un ruolo pubblico ha incontrato un mafioso, per il magistrato ai fini dell’indagine può essere irrilevante, ma per il giornalista, in quanto interlocutore dell’opinione pubblica, sarà della massima rilevanza". Però il rischio, in futuro, è che questa intercettazione venga messa da parte perché penalmente inutile. "Può essere una perdita, è un dato obiettivo, ma la selezione delle informazioni spetta ai magistrati, i quali in passato hanno inserito nei fascicoli anche materiale del tutto irrilevante, come i fatti personali. Il giornalista, se ne viene in possesso, non può che pubblicarlo". Il governo si occuperà a breve di intercettazioni. Se fosse un obbligo, o comunque un invito, a usarle il meno possibile? "Messa così sarebbe un’interferenza del potere legislativo sull’autonomia della magistratura. Che mina la storica distinzione tra i poteri, il primo non può stabilire come il secondo può utilizzare il materiale raccolto. Non si può intaccare l’autonomia della magistratura. È un punto essenziale". È d’accordo sull’ipotesi di punire con una pena più severa, oltre 3 anni, il pubblico ufficiale che rivela notizie segrete? "Tutto è possibile se il legislatore lo vuole, ma non so se i problemi nascano effettivamente dall’inadeguatezza della sanzione. Affidarsi sempre e soltanto ad essa non è detto che dia risultati e non possa interferire sui diritti delle persone". Si riconosce nell’espressione "gogna mediatica"? "Non mi piace, come tutte quelle enfatiche, che rischiano di distogliere l’attenzione dal fatto concreto. Ma è gogna mediatica se io fotografo il politico con il mafioso al bar? Basta leggere l’articolo 54 della Costituzione che al primo comma dice "tutti devono rispettare le leggi", ma al secondo aggiunge "i cittadini a cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore". Toghe in politica, arriva il sì della Camera: 3 anni di limbo dopo il mandato di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 4 aprile 2017 Un primo passo. Forse ancora troppo timido però. Anche solo rispetto a quanto chiese il Csm. La Camera ha approvato ieri il disegno di legge che istituisce una serie di paletti nel rapporto tra magistrati e politica. Il testo ora torna al Senato che lo aveva già approvato in una versione differente anche su punti significativi. Le opposizioni, Movimento 5 Stelle e forze di centrodestra, non hanno partecipato al voto, mentre si sono astenuti Si e Mdp. Nel dettaglio, il disegno di legge prevede condizioni sia in ingresso sia in uscita per le toghe interessate alla politica nelle istituzioni, dal Parlamento nazionale o europeo al Governo, agli enti locali. Interessati tutti i magistrati, ordinari, amministrativi, contabili e militari, in attività o fuori ruolo. Il magistrato che si presenta alle elezioni non potrà candidarsi nella circoscrizione (o nell’ambito territoriale) elettorale dove ha svolto le funzioni nei 5 anni precedenti e dovrà essere in aspettativa da almeno 6 mesi. Nessun divieto se si è dimesso o è in pensione da almeno 2 anni. Il magistrato a fine mandato o a fine incarico sarà collocato in un distretto di Corte d’appello diverso da quello che comprende la circoscrizione dove è stato eletto. Per 3 anni non potrà ricoprire incarichi direttivi o semi direttivi; non potrà svolgere la funzione di pubblico ministero, ma solo quelle giudicanti collegiali. Stop alla possibilità per sindaci o assessori in enti locali di svolgere insieme funzioni giudiziarie e funzioni politico-amministrative in ambiti territoriali diversi. La carica elettiva o l’incarico di governo, a qualunque livello, obbliga all’aspettativa (con collocamento fuori ruolo). Se non eletto, il magistrato rientra in un ufficio che non ricade nella circoscrizione di candidatura e per 2 anni non può esercitare funzioni inquirenti. Chi si candida o accetta incarichi di governo al di fuori delle regole verrà sanzionato sul piano disciplinare, rischiando una sanzione non inferiore alla perdita di anzianità per quattro anni. Un anno e mezzo fa, nell’ottobre 2015, il Csm aveva invece sollecitato il Governo ad adottare misure più intransigenti soprattutto sul versante del reingresso in magistratura. Veniva infatti chiesto di disciplinare i casi in cui il prolungato svolgimento di attività politico istituzionali impone al magistrato di abbandonare la toga, alla fine della esperienza politica, e di entrare nei ranghi dell’Avvocatura dello Stato o della dirigenza pubblica. Nella versione originaria del disegno di legge approvata al Senato era stata prevista, tra l’altro, una nuova causa di astensione o ricusazione del magistrato, da collocare nel Codice di procedura penale, che avrebbe evitato, per esempio, un caso Minzolini-Sinisi (un parlamentare giudicato, tra gli altri, da un ex politico di parte avversa). Detto che Minzolini si guardò comunque dal ricusare Sinisi, la versione originaria del disegno di legge prevedeva un obbligo di astensione quando il magistrato, anche solo candidato a una consultazione politica, si fosse trovato a giudicare una parte che nei 5 anni precedenti aveva a sua volta partecipato a un’elezione. Nullo l’impatto del disegno di legge sul presidente della Regione Puglia Michele Emiliano, candidato alla guida del Pd. Oggetto della legge è l’esercizio dell’elettorato passivo e le relative conseguenze, mentre, per la partecipazione all’attività politica, come la segreteria di un partito, da parte di un magistrato resta in vigore il divieto previsto dall’ordinamento giudiziario. Proprio su questo punto lunedì si terrà al Csm l’udienza disciplinare su Emiliano, difeso dal procuratore di Torino Armando Spataro. Francesco Nitto Palma (Fi): "la legge su toghe e politica è un favore ai magistrati" di Giulia Merlo Il Dubbio, 4 aprile 2017 "Il testo approvato alla Camera è assolutamente insoddisfacente: rispetto alla disciplina originariamente prevista ha subito un rilevante annacquamento". Il ddl sui magistrati? Favorisce il loro ritorno alla toga dopo essere stati in politica". Il senatore Francesco Nitto Palma, ministro della Giustizia del governo Berlusconi e autore del disegno di legge approvato alla Camera in una forma molto modificata, analizza il rapporto tra magistratura e politica. Senatore, disconosce la paternità di questo disegno di legge, che per i giornali porta ancora il suo nome? Il testo che è stato approvato alla Camera è assolutamente insoddisfacente: ha subito un rilevante annacquamento, rispetto alla disciplina originariamente prevista e votata all’unanimità al Senato e anche rispetto alla delibera del Csm sul tema dei magistrati in politica. Valutandolo complessivamente, non vi è una presa d’atto della gravità della situazione e della necessità di una regolamentazione e severa, che garantisca il prestigio, autonomia e indipendenza della magistratura. Quale punto le sembra più controverso, in questa nuova versione? Uno su tutti, la norma transitoria che regola il rientro in magistratura delle toghe attualmente in politica. Nella mia versione, il ddl prevedeva la possibilità di rientrare nell’Avvocatura dello Stato, in Consiglio di Stato in quota politica, nella dirigenza amministrativa, oppure il ritorno alle stesse funzioni in un territorio diverso. Questa disposizione transitoria è stata cambiata, e ora i magistrati che escono dalla politica possono andare alla Procura generale della Cassazione, alla Corte di Cassazione o alla Procura nazionale antimafia. E perché questa diversa collocazione non la convince? Perché così si crea una corsia preferenziale per i magistrati che attualmente fanno politica. Si tratta di tre posti per i quali ci sono le legittime aspettative di magistrati che hanno lavorato facendo davvero i magistrati. Inoltre, per entrare nella Dna, sarebbe prevista una valutazione comparativa di merito. Perché è stata fatta questa norma? Io credo che, oggettivamente, sia una previsione che favorisce i magistrati che rientrano in magistratura. Il ddl contiene, invece, un disincentivo per le candidature dei magistrati? Non direi proprio, perché il testo consente al magistrato di rientrare in magistratura, addirittura nel territorio di provenienza, solo un paio di anni dopo la cessazione dell’attività politica. Nessuna deterrenza, quindi, rispetto al desiderio legittimo dei magistrati di entrare in politica. Il punto, però, credo sia la totale assenza di comprensione del fenomeno. Si è guardato al rapporto tra magistrati e politica dalla prospettiva sbagliata? Per rispondere le porto un esempio. Il testo approvato al Senato prevedeva una causa di astensione: il magistrato che rientrava in attività non poteva, per un certo numero di anni, giudicare i procedimenti in cui erano coinvolti personaggi politici. Ecco, questo principio, posto a tutela della naturalità del giudice imparziale, è stato eliminato alla Camera. E sa cosa trovo singolare? Che cosa? Che questa norma sia stata eliminata esattamente dopo che, al Senato, in molti hanno giustificato il loro voto contro la decadenza di Augusto Minzolini, proprio in ragione del fatto che a giudicarlo in appello era stato un giudice con alle spalle una lunga carriera politica nelle fila dello schieramento opposto. Lo trovo un po’ contraddittorio, ecco. Ieri il Csm ha aperto un secondo procedimento disciplinare nei confronti di Michele Emiliano, perché tesserato al Pd. Atto dovuto o persecutorio? Io parto da un presupposto: esiste una norma, che stabilisce che i magistrati non possono iscriversi ai partiti politici. Sul punto, una sentenza della Corte costituzionale ha dichiarato la legittimità costituzionale del divieto di iscrizione, facendone scaturire la possibilità di una azione disciplinare. Dunque, il procedimento si poteva aprire. Personalmente, però, ritengo sia una grande ipocrisia. Questo procedimento è una foglia di fico per nascondere una prassi stabile? Si è dato un eccesso di prevalenza al dato formale dell’iscrizione ad un partito, quando ciò che conta è il dato sostanziale e cioè se si fa o meno politica. La questione non dovrebbe essere se un magistrato è iscritto o meno a un partito, ma se fa politica all’interno di un gruppo parlamentare o di uno schieramento politico. Le questioni meramente formali lasciano il tempo che trovano. Si può interrompere questo cortocircuito nel rapporto tra politica e magistratura? Fermo restando che non si può impedire ai magistrati di scendere in politica perché è un loro diritto, serve una regolamentazione severa: troppo spesso è accaduto che magistrati si sono candidati, anche a livello locale, dopo aver guadagnato popolarità con procedimento giudiziari sul territorio. Non solo, va normato in modo stringente anche il loro successivo rientro in toga. Lei è dell’avviso che chi entra in politica debba abbandonare in via definitiva la magistratura? Nel mio disegno di legge originario, il magistrato che scendeva in politica poi poteva rientrare nelle fila dell’Avvocatura dello Stato, il Csm invece prevede in una delibera anche la possibilità di assumere incarichi di dirigenza pubblica. Io ritengo che entrambe queste possibilità siano ragionevoli, ma nulla del genere è previsto nel nuovo disegno di legge. Questo è il punto. Un rientro sì, ma in ranghi diversi, dunque? Certo, perché il problema è tutto qua. Prenda il mio caso, io che ho fatto il ministro della Giustizia, il sottosegretario all’Interno, il presidente della Commissione giustizia, sono stato impegnato in attività parlamentare in anni difficili e di forte antagonismo. Ma secondo lei, indipendentemente dal fatto che io possa o meno giudicare in perfetta buona fede, ma chi ci crederebbe? È in gioco il prestigio della magistratura. Mi chiedo, però, le ragioni per le quali questo ddl è stato fermo tre anni alla Camera. E si è dato una risposta? Diciamo che trovo curioso che il ddl si sia velocizzato solo dopo il caso Minzolini e solo dopo che Emiliano si è candidato alle primarie del Partito Democratico contro Matteo Renzi. La Consulta salva la riforma della responsabilità dei magistrati di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 4 aprile 2017 Corte costituzionale, comunicato 3 aprile 2017. La Corte costituzionale salva la legge sulla responsabilità dei magistrati. Le motivazioni saranno note solo tra qualche tempo, ma, intanto, la Consulta, con un comunicato diffuso ieri sera, avverte che le questioni sollevate da numerosi tribunali nei primi mesi di applicazione della legge, in vigore dal 2015, sono state respinte. A vario titolo, ora come inammissibili, la maggior parte, ora come infondate, quella del tribunale di Genova sul filtro di ammissibilità. I punti su cui si erano concentrati i dubbi dei vari uffici giudiziari che hanno chiamato in causa la Consulta avevano investito un po’ tutto l’impianto della legge. A partire dal cardine principale, la soppressione del filtro di ammissibilità, che aveva contribuito a schermare una buona parte delle domande di risarcimento presentate quando ancora era in vigore la vecchia Legge Vassalli, la n. 117 del 1988. Per i giudici di Verona, ad esempio, l’eliminazione di un esame preventivo "offre ora ad una parte, priva di remore o anche solo particolarmente determinata, la duplice alternativa di condizionare la valutazione del giudice, (possibilità vieppiù concreta dopo l’introduzione della nuova ipotesi di illecito del travisamento del fatto o delle prove) o di provocare la sua astensione, e con essa la dilatazione dei tempi di definizione del giudizio a quo, anche attraverso l’avvio di un procedimento disciplinare nei confronti del giudice stesso". In sostanza, una delle criticità individuate stava nel riconoscere a una parte la possibilità di influire indebitamente sul corso del giudizio o sulla serenità del giudice. Conclusione aggravata dal fatto che, invece, è rimasta obbligatoria la previsione di esercizio dell’azione disciplinare del Procuratore generale presso la Cassazione per i medesimi fatti. Ma a non convincere era anche l’estensione dei casi che possono dare luogo a responsabilità, comprendendo il travisamento del fatto o delle prove. Fattispecie che, avevano messo in luce alcune delle questioni sollevate, si caratterizza per un eccesso di vaghezza, per l’assenza di tassatività, permettendo di mettere sotto censura controverse ma fisiologiche diverse valutazioni dei fatti o delle prove. La riforma della responsabilità civile delle toghe, oggetto di forti perplessità da parte dell’Anm che ne aveva messo nel mirino sia la carica intimidatoria sia il rischio di astensione del magistrato sotto accusa, è stata giustificata, anche, se non soprattutto, dalla sostanziale inefficacia della Legge Vassalli approvata nel 1988 sulla scia del referendum. Pochi i risarcimenti che erano stati riconosciuti ai cittadini per dolo o colpa grave dei magistrati, solo 7 su oltre 400 ricorsi presentati nel corso del periodo 1988-2014, con una media di 16 all’anno, e 35 ammessi all’esame di merito dopo avere passato il test del filtro. E su questo piano certo gli effetti si sono visti. Dopo un solo anno di applicazione della riforma le cause di risarcimento sono raddoppiate, passando da 50 a 90 all’anno. In pratica un ricorso ogni 100 magistrati e 8 ogni mese. Non c’è peculato del sindaco per rimborsi ritenuti in buona fede spese di rappresentanza di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 4 aprile 2017 Corte di Cassazione - Sezione VI - Sentenza 3 aprile 2017 n. 16529. Il sindaco che autorizzi in suo favore il pagamento di ricevute e fatture relative a spese che - in buona fede - ritiene che rientrino tra quelle di rappresentanza, ma che in realtà non sono tali, non risponde di peculato per l’assenza di dolo. Così la Corte di cassazione, con la sentenza n. 16529/2017, depositata ieri, ha affermato che l’indebita appropriazione realizzata dal primo cittadino non costituisse reato di peculato e pertanto ha cancellato senza rinvio la sentenza di condanna in appello. I fatti - Nello specifico il sindaco si era fatto sostenere le spese per alcuni pranzi dedicati, in alcuni casi, al confronto con altri sindaci per pensare alla realizzazione di un’Unione di Comuni per contrastare la predominanza nell’area territoriale della Comunità montana e, in altri casi, per conferire coi vertici di una banca al fine di trattare l’ottenimento di finanziamenti a favore dell’ente locale che guidava. Da qui la sua scusabile - solo sul piano penale - percezione di aver sostenuto spese qualificabili, come di rappresentanza. L’errore sulla natura delle spese - Sul punto la Corte ha ribadito quanto affermato dai giudici di appello e che cioè non si tratta di errore scusabile la mancata conoscenza della legge, in materia di spese di rappresentanza. Anche se però l’erronea rappresentazione da parte del pubblico ufficiale costituisce proprio quell’elemento soggettivo che esclude il dolo generico, ma necessario, per la commissione del reato di peculato. Nonostante l’altalenante interpretazione - anche in sede giurisdizionale - sulla natura della spesa di rappresentanza la Cassazione ricorda comunque quali siano le due connotazioni fondamentali che debbono possedere tali categorie di spese: uno strutturale, e cioè il perseguimento di un fine istituzionale proprio dell’ente locale; e uno funzionale, ossia l’incremento del prestigio dell’immagine esterna e pubblica dello stesso ente locale. La Cassazione pur disconoscendo tali requisiti per le spese che il sindaco si era fatto liquidare ha ravvisato che nei pranzi in questione, sostenuti con soldi pubblici, non fosse del tutto estraneo un ipotetico vantaggio per il Comune. Sequestro preventivo, no al riesame prima dell’esecuzione di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 4 aprile 2017 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 3 aprile 2017 n. 16535. "È inammissibile la richiesta di riesame avverso il decreto di sequestro preventivo che non sia stato ancora eseguito, in quanto in tale situazione non può ancora ravvisarsi un interesse concreto e attuale a proporre impugnazione". Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 3 aprile 2017 n. 16535, rigettando il ricorso di un uomo originario del Marocco contro un provvedimento del Tribunale di Milano. Nell’ambito di un procedimento per corruzione internazionale, la Sezione specializzata per il riesame, infatti, aveva già dichiarato l’inammissibilità del ricorso proposto dall’imputato - persona di fiducia del Ministro algerino dell’energia Chiekib Khelil - contro il decreto di sequestro preventivo disposto a fini di confisca per equivalente. L’ablazione cautelare aveva ad oggetto diverse somme di denaro depositate su quattro conti correnti del ricorrente. A sostegno del decisum, il Collegio ha evidenziato che il provvedimento non era stato ancora eseguito. L’imputato si era opposto sostenendo che il suo interesse andava individuato in relazione alla "posizione complessiva" ed era volto ad ottenere una "decisione più vantaggiosa". Per la Suprema corte però "il dato normativo è inequivoco nell’ancorare il dies a quo a partire dal quale può essere azionato il mezzo impugnatorio alla "data di esecuzione del provvedimento che ha disposto il sequestro"" (articolo 324 del Cpp). Il che, prosegue la sentenza, "svela la volontà del legislatore di individuare quale primo momento utile per proporre impugnazione l’esecuzione" effettiva del vincolo reale". Del resto, la regola generale (articolo 568, comma 4, e 591, comma 1 lettera a), Cpp) prevede che per proporre impugnazione "è necessario avervi interesse". E tale interesse "può stimarsi sussistente soltanto allorquando dall’ipotetica decisione favorevole possa discendere un vantaggio concreto per il ricorrente - cioè la rimozione di un pregiudizio effettivo che la parte asserisce di aver subito con il provvedimento impugnato - e l’utilità ad ottenere tale vantaggio persista sino al momento della decisione". Né vale il paragone con la diversa disciplina in materia di misure cautelari personali. In questo caso, infatti, il codice prevede espressamente la proponibilità del ricorso da parte del latitante, "in una situazione nella quale l’esecuzione del provvedimento è solo "formale" e non effettiva, dunque delineando - nella sostanza - una situazione di interesse solo potenziale a proporre impugnazione". Una disposizione analoga, però, spiega la Corte, non esiste per il ricorso avverso il provvedimento di sequestro non eseguito, né tale disparità può ritenersi irrazionale alla luce dei diversi beni tutelati. Infine, conclude la decisione, non vi è contrasto neppure con il principio di "economia processuale", come paventato dal ricorrente. Infatti, ragionando in astratto, "potrebbe darsi effettivamente il caso nel quale lo sbarramento alla proposizione del ricorso avverso il provvedimento di sequestro non eseguito possa comportare il rischio di dare inutile esecuzione ad un provvedimento ablativo suscettibile di rivelarsi ab origine illegittimo all’esito del mezzo di impugnazione successivamente proposto, ma potrebbe darsi anche il caso opposto, nel quale - proprio seguendo l’impostazione suggerita dal ricorrente - si dia corso ad un’inutile attività processuale ritenendo proponibile il ricorso avverso il provvedimento di sequestro preventivo non ancora eseguito, sebbene esso sia insuscettibile di trovare una concreta esecuzione per insussistenza della res da assoggettare a vincolo reale". La rinuncia a comparire è una precisa scelta difensiva dell’imputato. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 4 aprile 2017 Dibattimento - Costituzione delle parti - Diritto dell’imputato di partecipazione processuale - Informazione processuale all’imputato - Rinuncia alla partecipazione. In base all’articolo 6 Cedu, il perno logico del diritto dell’imputato di partecipare al processo è da individuare nella possibilità (concreta ed effettiva) di avere conoscenza del vaglio giurisdizionale attivato nei suoi confronti: l’imputato, dunque, va informato sia del motivo e dei fatti di accusa che della qualificazione giuridica della stessa, che, tra l’altro, è una condizione fondamentale della equità del processo. Inoltre, l’articolo 6 Cedu non impone alcuna forma particolare circa le modalità di tale informazione all’imputato né tanto meno viene prescritta l’assoluta notifica personale dell’atto di accusa, essendo sufficiente che i singoli Stati membri predispongano delle regole alla cui stregua stabilire se l’assenza dell’imputato al processo possa essere ritenuta espressione di una consapevole rinuncia alla partecipazione. • Corte di Cassazione, sezione I, sentenza 31 marzo 2017 n. 16416. Dibattimento - Costituzione delle parti - Diritto dell’imputato di partecipare al dibattimento - Imputato assente. Va considerato "assente" ex articolo 420-bis c.p.p. il soggetto che, sebbene sia stato posto a conoscenza del procedimento in corso, non si sia volontariamente presentato al dibattimento, se al contempo è stata condotta l’ulteriore indagine positiva circa la corretta instaurazione del contraddittorio. Infatti, la facoltà dell’imputato di non presenziare al processo manifesta una precisa scelta difensiva, frutto di una sua libera valutazione, come tale non obbligatoria né coercibile, che legittima la prosecuzione del processo senza di lui, dovendosi necessariamente garantire all’imputato il solo diritto di partecipare al dibattimento. • Corte di Cassazione, sezione I, sentenza 31 marzo 2017, n. 16416. Procedimento penale - Dibattimento - Atti introduttivi - Assenza dell’imputato - Rinuncia a comparire dell’imputato detenuto - Effetti limitati alla sola udienza in relazione alla quale è formulata - Esclusione. La rinuncia ad udienza specifica non equivale a rinuncia alla partecipazione all’intero procedimento. Nella fattispecie, l’imputato detenuto che rinunci a partecipare all’udienza dibattimentale rende una dichiarazione di non partecipazione processuale che opera anche per l’udienza fissata successivamente a seguito di sospensione del dibattimento stesso, e ciò anche nel caso in cui la rinuncia stessa sia stata specificamente indicata nella sua data. Pertanto, intervenuta la sentenza, non sussistono i presupposti per il riconoscimento della restituzione in termini, ex articolo 175 c.p.p. laddove risulti evidente che non si versi al cospetto di una sentenza contumaciale, ma di una decisione pubblicata in "assenza" volontaria del detenuto, condizione che non lascia spazio per la richiesta restituzione. • Corte di Cassazione, sezione I, sentenza 21 marzo 2017, n. 8427. Giudizio - Dibattimento - Atti introduttivi - Assenza dell’imputato - Rinuncia a comparire dell’imputato già dichiarato contumace in assenza di revoca formale dell’ordinanza di contumacia - Erroneo richiamo in sentenza dell’attualità della contumacia dell’imputato - Notifica dell’estratto contumaciale della sentenza all’imputato - Necessità - Esclusione - Fattispecie. All’imputato già dichiarato contumace che, indipendentemente dalla revoca formale dell’ordinanza dichiarativa della contumacia, risulti, alle successive udienze, rinunciante a comparire non è dovuta la notifica dell’estratto della sentenza, neanche nel caso in cui questa indichi erroneamente come attuale lo stato di contumacia. Nella fattispecie, la Corte ha ritenuto corretto il provvedimento impugnato che aveva respinto l’istanza di restituzione nel termine di impugnazione, proposta adducendo l’omessa notifica dell’estratto contumaciale. Corte di Cassazione, sezione I, sentenza 18 maggio 2015, n. 20463. Presidente Mattarella, conceda la grazia a Domenico Papalia, è in cella da 40 anni di Elisabetta Zamparutti* Il Dubbio, 4 aprile 2017 Nel Paese campione mondiale dell’abolizione della pena di morte, grazie alla battaglia radicale per la moratoria universale delle esecuzioni capitali, esistono punizioni che concorrono con questa in termini di crudeltà. Esiste la pena inumana, perché senza speranza, dell’ergastolo ostativo, vale a dire una detenzione perpetua da cui si può uscire ad una sola condizione: la collaborazione alle indagini. Già ci sarebbe da chiedersi che ne è di chi non ha nulla da confessare, ma ad aggravare ulteriormente la situazione vi è il fatto che questa pena può essere ulteriormente indurita dall’imposizione dell’isolamento: direttamente con la sentenza di condanna che può disporre un tempo, da sei mesi a tre anni, di isolamento (il cosiddetto isolamento diurno) ma anche con una decisione del ministro della Giustizia che può imporre il regime speciale del 41- bis, un isolamento senza alcun limite temporale massimo perché infinite possono essere le proroghe. Gli organismi internazionali, dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura al Comitato diritti umani dell’uomo, si sono accorti che "qualcosa" non funziona. Il Garante nazionale nel suo Rapporto ha parlato di provvedimenti, quelli riferiti all’isolamento, in sé legittimi ma che se sovrapposti possono dar luogo a situazioni di illegittimità. Il fatto è che quando parliamo di norme, non dobbiamo mai dimenticare che parliamo di persone e non sono pochi coloro che hanno subito questa infernale sovrapposizione di misure previste, appunto e purtroppo, dalle nostre norme. Tra loro c’è Domenico Papalia, assolto recentemente dalla Corte d’appello di Perugia per l’omicidio di Totò D’Agostino, avvenuto a Roma il 2 novembre del 1976, per il quale era stato condannato all’ergastolo nell’ 83. Una nuova perizia balistica ha escluso che a sparare sia stato Domenico, tutt’ora detenuto in Sardegna per altre condanne, legate ad un contesto ‘ndranghetistico come quella appena annullata. Qualcuno forse ricorderà come, sul caso, quello stesso giudice che firmò il provvedimento d’arresto e lo fece condannare, Ferdinando Imposimato, espresse successivamente a più riprese dubbi sulla colpevolezza fino a chiedere la liberazione di quell’uomo che negli anni 90, quando perse l’unico figlio, all’età di 19 anni, per un incidente di capodanno, autorizzò la donazione degli organi. Un gesto di generosità e umanità che siccome riguardava un mafioso di Platì non meritava il riconoscimento dovuto a chi contribuisce a salvare e rendere migliore la vita di altre persone. Domenico Papalia è in carcere dal 1977, ha scontato l’isolamento diurno ed è stato anche detenuto in regime di 41- bis dal 1998 al 2003, quando gli fu revocato perché, nel frattempo fu emessa sentenza di non luogo a procedere per non aver commesso il fatto che aveva determinato l’applicazione del regime stesso. Domenico è anche da anni iscritto al Partito Radicale Nonviolento Transnazionale Transpartito, così come a Nessuno tocchi Caino. Lo considero un nostro prezioso "collaboratore", perché Domenico vuole collaborare eccome, ma alle attività trattamentali - quelle che gli sono state negate dal 41- bis, fortissimamente limitate dall’isolamento diurno e rese vane dall’ergastolo ostativo - volte al reinserimento sociale e che sono cosa ben diversa rispetto a quella collaborazione alle indagini di giustizia che invece lo Stato pretende. Finora ogni richiesta di beneficio che Domenico Papalia, nel corso dei suoi 41 anni di detenzione, ha avanzato è sordamente rimbalzata contro quello sbarramento automatico, insito nel meccanismo astratto ed assiomatico dell’art 4- bis dell’ordinamento penitenziario, per il quale è negato ogni diritto alla speranza a chi è detenuto per certi reati (sostanzialmente mafia e terrorismo) oltre che vanificata la valutazione discrezionale del magistrato di sorveglianza circa il mutamento nella personalità del condannato e l’opera di osservazione e trattamento messa in atto dalle figure penitenziarie a ciò preposte. Domenico, in tutti questi anni ha letteralmente incarnato la speranza di fronte alla quale si sono sgretolate quelle sentenze e quelle misure in sé disperanti che gli sono state inflitte. Chi meglio di lui può spiegare il senso di "Spes contra spem" titolo di quei laboratori che Nessuno tocchi Caino sta conducendo in varie carceri di alta sicurezza, ripreso dalla lettera di San Paolo ai romani che in riferimento alla figura di Abramo disse che "ebbe fede, sperando contro ogni speranza", cioè quando tutto gli crollava intorno? Ma il suo comportamento ci spiega anche quanto sia importante smettere di fare politica sulla falsa dicotomia tra sicurezza e diritti umani e sbarazzarsi quindi subito di quell’arsenale malsano di norme e misure emergenziali di cui stiamo parlando e che lo hanno colpito Non so se la recente sentenza di assoluzione di Perugia andrà definitiva. Certo c’è da chiedersi, di fronte a tutta questa vicenda, se e quale risarcimento morale ci può essere da parte dello Stato nei suoi confronti. E pensando alla profondità dell’abisso che certamente Domenico Papalia ha vissuto, costretto nella zona più buia delle nostre carceri, la risposta che mi do viene guardando alla figura più alta della nostra Repubblica, al Presidente Mattarella, perché almeno con un provvedimento di grazia dia atto dell’ineccepibile percorso e comportamento di questo nostro detenuto. *Tesoriera di Nessuno Tocchi Caino e componente la Presidenza del Partito Radicale Le radici arcaiche del femminicidio di Dacia Maraini Corriere della Sera, 4 aprile 2017 L’abitudine arcaica al possesso (ti amo e quindi sei mia), tocca le corde più profonde e induce ad efferatezze mai viste quando le certezze vengono messe in discussione dalle nuove libertà femminili. Christian Leonardi ha confessato giorni fa, dopo mesi di inganni e bugie, dopo avere accusato l’ospedale di malasanità e i medici di incompetenza, di avere ucciso la moglie infermiera, Eligia Ardita, incinta di otto mesi, con una pietra e poi a furia di botte. Salvatore Savalli, 39 anni, è stato condannato per avere ucciso la moglie Maria Anastasi al nono mese di gravidanza, con un piccone e poi averla bruciata mentre era ancora viva. Mattia di Teodoro di 33 anni, uccide la ex moglie Michela Noli di Firenze con decine di coltellate e poi si suicida. Una lista che lascia attoniti. Cosa suscita tanta violenza nel cuore di un giovane uomo che pretende di amare la donna che si è scelto? Cosa trasforma un marito in un aguzzino e poi in un assassino? Lo schema è quasi sempre lo stesso: un uomo e una donna si innamorano, decidono di andare a vivere insieme, fanno anche dei figli. Poi, dopo qualche anno, l’uomo avverte che la sua autorità maritale non gli concede più quei privilegi a cui credeva di avere diritto: vorrebbe prendersi un’amante senza però perdere la compagnia e i servizi di una moglie quieta e acconsenziente. Comunque vorrebbe comandare senza essere messo in discussione. Ma lei non è di questo avviso e invece di accettare, comincia a pretendere i suoi diritti. Lui sente di perdere terreno, diventa geloso, prepotente, rabbioso, pensa di risolvere le cose facendo il manesco con la donna che secondo lui non sta alle regole di un rituale patto di coppia. Lei di conseguenza prende a staccarsi, e spesso alla fine decide di andare via. A questo punto lui entra in crisi e preferisce ammazzarla piuttosto che perderla, ovvero lasciarsi sfuggire una proprietà che non è più sancita dalla legge. Non si tratta di natura, come molti pensano: l’uomo aggressivo perché cacciatore, l’uomo guerresco per natura, ecc. ma di cultura. L’abitudine arcaica al possesso (ti amo e quindi sei mia), tocca le corde più profonde e induce ad efferatezze mai viste quando queste certezze vengono messe in discussione dalle nuove libertà femminili. E dire che ci consideriamo cristiani! Ma il possesso della persona è schiavitù e cosa c’entra la schiavitù con l’amore per l’altro? Semmai si tratta di una arcaica legge della sopraffazione a cui certi uomini deboli, impauriti, si abbarbicano terrorizzati. Quella antica legge che è stata valida per millenni, per cui la giustizia si esplica con la vendetta e l’amore si esprime col possesso e l’annullamento della libertà dell’altro. Pavia: Radicali; detenuto morto, si cambi rotta sui tossicodipendenti in carcere radicali.it, 4 aprile 2017 Dichiarazione di Antonella Soldo, presidente di Radicali Italiani, e Alessia Minieri, membro della giunta di segreteria di Radicali Italiani: "Giovedì scorso è morto nella Casa Circondariale di Torre del Gallo di Pavia Massimiliano Zampino, detenuto 48enne in attesa di giudizio. Le condizioni di Zampino, recluso da sole due settimane, avevano destato preoccupazioni tali da ritenerlo incompatibile con la carcerazione. Infatti, stando alle notizie riportate dalla stampa, l’uomo, tossicodipendente, era stato costretto alla brusca interruzione della terapia metadonica, si presentava in evidente sottopeso e affetto da un forte disagio psichico. Il caso di Zampino, purtroppo, è emblematico delle gravi carenze trattamentali che nel nostro paese riguardano un quarto dei detenuti. Dalla relazione 2016 del Dipartimento Politiche Antidroga al Parlamento emerge infatti che un detenuto su quattro è tossicodipendente, che il 35% del totale dei detenuti lo è stato e che un detenuto su tre è recluso per reati connessi alla droga. Uno studio dell’Unione Europea, il Progetto Medics, dimostra inoltre che la maggioranza dei detenuti italiani presenta una doppia diagnosi di tossicodipendenza e di disturbo psichico. Per queste ragioni, come Radicali Italiani invitiamo il Ministro della Giustizia a procedere immediatamente all’attivazione delle sezioni a custodia attenuata per detenuti tossicodipendenti, nell’attesa di un necessario deciso cambio di rotta in materia di trattamento delle tossicodipendenze in carcere. È indispensabile, ormai, procedere verso un modello di accompagnamento trattamentale e abbandonare l’inutile pratica meramente punitiva a cui sono sottoposti i soggetti tossicodipendenti: prima di tutto pazienti e poi detenuti. Ricordiamo che la depenalizzazione dei reati drug-related costituisce allo stato attuale l’unico strumento a disposizione del legislatore per garantire il rispetto dei diritti riconosciuti dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo". Napoli: un nuovo maxi carcere a Nola, la "Terra dei fuochi" sarà una Prison Valley di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 aprile 2017 La critica di Alessio Scandurra, responsabile dell’osservatorio di Antigone sulle condizioni di detenzione: "rischia di trasformare la città metropolitana di Napoli in un vero e proprio distretto del penitenziario". Sarà il terzo istituto di pena della Campania per numero di detenuti dopo Poggioreale e Secondigliano. Il bando del ministero delle Infrastrutture è scaduto il 29 marzo e riguarda il nuovo carcere campano di Nola. Per i professionisti che si occuperanno di realizzare l’istituto utilizzando materiali e tecniche a ridotto impatto ambientale durante il ciclo di vita dell’opera è prevista una maxi-parcella di 5,7 milioni, mentre il costo complessivo dell’opera è di circa 75 milioni. Il nuovo maxi carcere avrà una capienza di 1.200 persone e sarà il terzo istituto di pena della Campania per numero di detenuti dopo Poggioreale (ormai di nuovo al limite per densità) e Secondigliano. Il luogo individuato per la costruzione è quello della località Boscofangone in un’area distante sia da Nola che dal centro abitato della frazione di Polvica. Si tratterà di un carcere sperimentale, senza mura di cinta, dove sconteranno la pena quei detenuti che dovranno essere prontamente reinseriti in società. Ad opporsi con fermezza a questo bando è l’associazione Antigone, sempre in prima fila per i diritti e le garanzie nel sistema penale, e la Fondazione Michelucci, impegnata nelle ricerche sull’urbanistica, architettura moderna e habitat sociale. Le due organizzazioni sono fermamente contrari al nuovo carcere per la dimensione, il totale isolamento dalla città, la scelta della zona che presenta problemi di carattere idrogeologico e di inquinamento, nonché la vaghezza relativamente alle attività lavorative che saranno svolte e ai rapporti con il territorio su questo fronte. Elementi che portano le due organizzazioni a sostenere come questo bando sia in aperto contrasto con le indicazioni provenienti dal rapporto conclusivo degli Stati Generali dell’esecuzione penale. "La dimensione esorbitante prescelta, per una capienza regolamentare di 1.200 detenuti che potranno realisticamente diventare 2.400 presenti essendo le celle progettate come singole - spiega Alessio Scandurra, responsabile dell’Osservatorio di Antigone sulle condizioni di detenzione, farebbe dell’Istituto nolano uno dei più capienti carceri in Italia e rischia di trasformare la Città Metropolitana di Napoli in un vero e proprio distretto del penitenziario, ad una Prison Valley all’italiana, in cui non sarà mai possibile attuare il delicato compito di reinserimento sociale che la Costituzione repubblicana attribuisce alla pena". A queste osservazioni si aggiungono quelle di Corrado Marcetti, architetto della Fondazione Michelucci, secondo il quale "la localizzazione prescelta è in territorio extraurbano, periferico e mal collegato, in una zona agricola un tempo cuore della Campania Felix, poi avvelenata (e mai bonificata) dai fusti di liquami interrati dalla camorra". Prosegue Marcetti: "La zona è interessata anche da problemi di carattere idrogeologico come l’innalzamento della falda acquifera che ha causato impaludamenti e allagamenti nei terreni più depressi, con il rischio che i costi di costruzione della nuova cementificazione carceraria vadano fuori controllo". Sempre secondo Antigone e la Fondazione Michelucci, i problemi vengono rilevati anche nell’impianto progettuale nel quale non c’è traccia di un rapporto costruttivo tra carcere e città: così come è configurato il carcere potrebbe essere collocato in qualsiasi territorio, gli spazi destinati alle attività lavorative sono caratterizzati da assoluta genericità e non c’è traccia di rapporto con le attività del territorio. Lo schema del nuovo carcere viene descritto dalle due organizzazioni come "introverso e labirintico" e che "crea corti chiuse e fa perdere l’orientamento", tanto da ricordare da vicino il carcere Le Nuove di Torino progettato dall’ingegnere Polani nel 1859 e consegnato all’Amministrazione penitenziaria nel 1869. Il bando per il carcere di Nola viene infine considerato un totale svilimento del ruolo dell’architetto che concorre alla gara, dato che lo schema ad esso allegato è vincolativo e non può essere variato. "Sarebbe stato assai meglio - concludono Antigone e la Fondazione Michelucci - chiedere a un concorso internazionale di architettura di interpretare le nuove indicazioni che arrivano dal rapporto conclusivo degli Stati Generali dell’esecuzione penale, anziché riprendere un progetto che risale alla stagione infausta del Piano Carceri". Trento: "violenze in carcere? fonti non attendibili", il pm chiede l’archiviazione Corriere del Trentino, 4 aprile 2017 La Procura ha chiesto l’archiviazione sui presunti maltrattamenti denunciati dal garante dei detenuti. La Procura di Trento ha messo la parola fine sulla storia del roveretano Luca Soricelli, suicida in carcere nella notte tra il 16 e il 17 dicembre dopo l’arresto avvenuto pochi giorni prima per un incendio a un distributore. Secondo il pm Davide Ognibene che, dopo la tragedia, aveva subito aperto un fascicolo d’indagine, non ci sarebbe alcuna responsabilità nella morte del giovane che da tempo soffriva di problemi psichici. I primi dubbi, sollevati dallo stesso fratello della vittima, Massimo, che si era rivolto all’avvocato Stefano Trinco per far luce sul triste fine di Luca, si erano concentrati su chi aveva visitato il giovane e aveva ritenuto che le condizioni psichiche di Soricelli fossero compatibili con il carcere, nonostante la sua lunga e difficile storia pregressa. In particolare il fratello non riesce a capire perché la psichiatra, che lo aveva in cura, ed è stata sentita dal giudice Carlo Ancona, abbia ritenuto che le condizioni di Luca fossero compatibili con il carcere. Una decisione che Massimo fa fatica ad accettare. Ma - precisa la Procura - non è stata sentita solo una psichiatra, ma sono stati sentiti tre pareri di professionisti. "Il detenuto - specifica la Procura - è stato valutato da tre medici psichiatri, separatamente e autonomamente, a poche ore dall’evento". Difficile pensare che tre professionisti abbiamo effettuato una valutazione superficiale del delicato caso, inoltre, secondo il sostituto procuratore, non ci sarebbero state violenze o maltrattamenti che possano aver determinato, anche indirettamente il suicidio di Soricelli. Il giovane era detenuto nella cella dell’infermeria del carcere da solo due giorni, quando, al culmine della disperazione, ha deciso di porre fine alla sua vita difficile, offuscata da quella fragilità che altre volte gli aveva fatto perdere il controllo, come nella notte tra il 12 e il 13 dicembre quando ha acquistato la benzina e ha appiccato il fuoco al distributore. Per la morte di Luca non ci sono responsabili secondo la Procura che ha chiesto l’archiviazione del fascicolo. Ora dovrà decidere il gip, ma la triste storia di Luca si intreccia ad un’altra delicata vicenda, denunciata dal garante dei detenuti, sui presunti maltrattamenti in carcere. Il pm Ognibene ha riunito i due fascicoli e ha chiesto l’archiviazione per entrambi. Secondo la Procura, infatti, "gli episodi di violenza di cui hanno parlato alcuni detenuti non risultano inquadrabili in un sistematico impiego della violenza come strumento di disciplina, ma, al più, come singoli ed estemporanei contrasti con il personale penitenziario". E c’è di più: ad avviso del sostituto procuratore le dichiarazioni fatte da alcuni detenuti presentano "profili di non completa attendibilità" inoltre nessuno di loro avrebbe proposto querela. Gli ulteriori approfondimenti fatti dagli investigatori della polizia giudiziaria, che hanno sentito, su specifica richiesta del gip anche un medico, non hanno convinto la Procura che ha chiesto nuovamente l’archiviazione del fascicolo. Ora sarà il giudice a decidere. Era stato proprio il gip Francesco Forlenza, il 13 marzo scorso, a sollecitare ulteriori accertamenti nella sua ordinanza con la quale aveva respinto la prima richiesta di archiviazione. "Attendiamo di leggere gli atti" commenta a caldo l’avvocato Nicola Canestrini che rappresenta il garante dei detenuti Emilia Rossi. Era stato proprio il garante a sollevare il caso lo scorso anno con un rapporto nel quale veniva denunciata la presenza di una "stanza delle percosse". Nel maggio 2016 era stato presentato anche un esposto. Ma la Procura esclude maltrattamenti sui detenuti. Ora deciderà il giudice. Rimini: overdose in carcere, detenuto tunisino 33enne trovato in coma riminitoday.it, 4 aprile 2017 "A scoprirlo esanime nella sua cella, nella mattinata di venerdì scorso, sono state le guardie carcerarie durante il controllo. Lui un tunisino 33enne finito ai Casetti per la violazione del divieto di dimora in Emilia Romagna, non si era alzato dalla sua branda e, allo stesso tempo, non dava segni di vita. È così scattato l’allarme che ha fatto accorrere ai Casetti il personale del 118, con ambulanza e auto medicalizzata, mentre i sanitari della casa circondariale riminese gli hanno prestato i primi soccorsi. Una volta stabilizzato, per il nordafricano è scattata la corsa al pronto soccorso dell’Infermi dove, tuttora, si trova ricoverato in coma. A causare il malore, con tutta probabilità, un mix di farmaci e stupefacenti ma, al momento, sono ancora in corso le analisi tossicologiche per accertare con esattezza il tipo di droga assunto. Già nei giorni scorsi, secondo quanto emerso, il 33enne aveva accusato un malore e, in quella occasione, le analisi lo avevano trovato positivo a metadone, psicofarmaci e cannabinoidi". Roma: per i detenuti di Rebibbia un corso di laurea in scienze motorie Ansa, 4 aprile 2017 Già 9 iscritti. Tante iniziative dell’ateneo di Tor Vergata per il carcere. Arriva un nuovo corso di laurea in scienze motorie per i detenuti del carcere romano di Rebibbia. È stato presentato proprio nel teatro della casa circondariale, davanti a un pubblico di studenti, professori, volontari. Si tratta di un corso triennale organizzato dall’università di Tor Vergata e conta già 9 iscritti. "Una sfida" la definisce il professor Sergio Bernardini, presidente della Facoltà di Scienze motorie e una "responsabilità, perché - dice rivolgendosi alle matricole - se daremo i risultati sperati sarà un modello da replicare". Poi li rassicura: "per noi siete studenti di Tor Vergata a pieno titolo, cambia solo la sede", ma certo "dovrete impegnarvi", li esorta e precisa che non ci saranno agevolazioni. "Studenti come gli altri, proprio come quelli che stanno fuori", tiene a precisare. Infine rivolge un invito ai suoi nuovi studenti: "Contaminate i vostri compagni con lo sport, man mano che apprendete insegnate". Il professore non nasconde che qualche disagio questa insolita sede lo darà, ma si cercherà di superare tutti gli ostacoli che si incontreranno. Ad esempio sarà difficile affrontare gli sport in acqua, ma Sergio Bernardini sembra molto motivato ad andare avanti. Chi uscirà dal carcere con questa laurea avrà uno strumento per cercare un lavoro. Si tratta di una chance per affrontare il mondo fuori le mura quando verrà il momento di varcare il cancello del carcere. L’Università di Tor Vergata ha in programma atre iniziative con il carcere di Rebibbia che riguardano lo sport. La prima sarà la settimana della cultura sportiva dell’università che si tiene dal 4 al 10 maggio nella sede universitaria e ci sarà la possibilità per qualche detenuto di partecipare. Poi l’8 maggio è previsto un incontro sul campo di calcio tra detenuti di Rebibbia e gli studenti di Tor Vergata del Cus (Centro universitario sportivo). Sassari: domani manifestazione protesta delle sigle sindacali di Polizia penitenziaria di Emanuele Concas cagliaripad.it, 4 aprile 2017 I Sindacati di Polizia penitenziaria Osapp, Cgil Fp, Sinappe e Uspp hanno organizzato per mercoledì 5 aprile una manifestazione di protesta, "preso atto della gravissima situazione esistente presso la Casa circondariale di Sassari". I sindacati di Polizia penitenziaria Osapp, Cgil Fp, Sinappe e Uspp hanno organizzato per mercoledì 5 aprile una manifestazione di protesta, "preso atto della gravissima situazione esistente presso la Casa circondariale di Sassari" che si terrà di fronte al carcere di Bancali dalle 10 alle 13. Nove i punti per i quali i Sindacati dei poliziotti penitenziari scendono in piazza: "Totale abbandono del personale in servizio all’interno delle sezioni detentive, il quale si trova a dover affrontare quasi sempre in solitudine, la gestione dei detenuti. Carenza di personale in tutti i ruoli, quindi, la susseguente mancanza di sicurezza, enfatizzato dalla tipologia di detenuti ristretti nell’istituto in oggetto. Mancanza di un Commissario Penitenziario con mansioni di Comandante del Reparto. Mancata applicazione dei protocolli d’intesa, con conseguente mancata rotazione del personale nei posti di servizio fissi". Ancora: "Mancanza di un piano ferie Pasquali e relativa programmazione dei turni di servizio mensili. Turni che vengono modificati costantemente senza preavviso al personale e senza la disponibilità degli stessi poliziotti, mancanza di relazioni sindacali, con susseguente notevole ritardo nel riscontro delle note sindacali, oltreché risposte superficiali ed evasive, disapplicazione degli accordi sindacali sottoscritti fra Organizzazioni Sindacali e l’Amministrazione da parte del Direttore dell’Istituto sassarese". Ci sono poi gli "eccessivi carichi di lavoro degli agenti di servizio presso il Nucleo Traduzioni e Piantonamenti, che creano un rischio concreto per la sicurezza dei lavoratori e infine la mancanza di Rappresentante dei lavoratore dall’apertura del nuovo istituto e mancanza del medico del lavoro. Busto Arsizio: Teatro Sociale, i detenuti portano in scena Pirandello di Silvia Bellezza informazioneonline.it, 4 aprile 2017 Grande attesa per l’evento di punta del Microfestival Incontri che il 6 aprile vedrà sul palco tredici detenuti del carcere di Busto protagonisti dello spettacolo "Pirandello Remix". È un’occasione per "evadere" dalla realtà carceraria contingente ed aprirsi al mondo esterno. I detenuti della Casa Circondariale di Busto portano in scena, il prossimo 6 aprile al Teatro Sociale, lo spettacolo "Pirandello Remix" che vedrà protagonisti gli attori "ristretti" dell’associazione L’Oblò Onlus che opera nel carcere. L’evento è particolarmente significativo perché, per la prima volta, i detenuti usufruiscono di un permesso speciale di uscita per un evento culturale che si colloca nell’ambito del "Microfestival Incontri", rassegna teatrale promossa dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria in coincidenza con la quarta Giornata Nazionale del Teatro in Carcere che si è celebrata il 27 marzo. In questa manifestazione si è inserita anche la partecipazione di 200 studenti delle scuole superiori Itc Tosi, Ipc Verri, Itc Gadda Rosselli di Busto e M. Curie di Tradate che hanno incontrato i detenuti ed assistito alle prove dello spettacolo dentro le mura carcerarie. "È uno strumento per promuovere l’idea dell’inclusione sociale e della legalità come prevenzione della devianza - così l’assessore ai Servizi sociali Miriam Arabini ha commentato l’iniziativa - L’obiettivo è quello di favorire un’apertura dell’istituto penitenziario alle realtà territoriali esterne, per promuovere una diversa percezione dello stesso in termini non solo di istituto di pena ma di centro di cultura che può contribuire con le sue risorse allo sviluppo del territorio. È una strategia che mira a fornire a detenuti e studenti coinvolti competenze tecniche specifiche riguardanti l’ambito teatrale che possano essere spese nella vita quotidiana e nelle relazioni sociali". È dai primi anni 80 che il teatro in carcere ha assunto metodologie ed obiettivi diversi, incentivando la creatività dei detenuti. Da allora le esperienze si sono moltiplicate, favorendo una contaminazione tra "dentro" e "fuori" le mura del carcere. Elisa Carnelli, attrice e dramma-terapeuta, è la presidente dell’associazione L’Oblò Onlus e ha preso a cuore questa "missione": "Per i detenuti rappresenta una riabilitazione della propria immagine e li aiuta a recuperare l’autostima. L’attività dell’associazione maturata nella Casa Circondariale di Busto dal 2008 ha avuto l’opportunità di ampliarsi ed aprirsi alla cittadinanza con interventi dedicati non solo ai detenuti ma anche ai giovani e alle scuole per maturare percorsi di educazione alla legalità". Sul palco saliranno tredici protagonisti che interpreteranno le novelle pirandelliane della Giara e della Patente. "Sullo sfondo di queste metafore c’è la lotta al pregiudizio e la volontà di riscattarsi - sottolinea l’insegnante Patrizia Canavesi - la disperazione di queste persone a volte nasce dalla sensazione di non poter fare più nulla della propria vita. Questa attività è un investimento sociale, un incentivo a non scoraggiarsi mai". Anche per gli studenti delle superiori è stata un’esperienza significativa, le classi coinvolte hanno potuto dialogare con i detenuti, i ragazzi dell’Itc Tosi hanno realizzato un video ed un sondaggio sul senso della pena mentre gli studenti dell’Ipc Verri hanno composto un "reading" che sarà presentato ai detenuti il 10 aprile. Fondamentale è stato l’impegno dell’amministrazione penitenziaria che ha coordinato le iniziative. Lo spettacolo è sostenuto da Fondazione Comunitaria del Varesotto e patrocinato dal Comune di Busto. Prima dell’inizio sarà proiettato un reportage fotografico realizzato da Michela Chimenti. La serata è a ingresso libero. "Si apre una fase di rinascita e di risveglio per il Teatro Sociale - sottolinea il responsabile della comunicazione Antonio Corrado - c’è già stata una grande richiesta di biglietti per questo spettacolo che ha suscitato l’interesse di tutta una comunità che in qualche modo ha avuto a che fare con il mondo carcerario". Bologna: presentata la seconda edizione di Cinevasioni, Festival del Cinema in Carcere cinemaitaliano.info, 4 aprile 2017 "Alla libertà piace nascondersi": si è aperta con la video poesia realizzata dai detenuti partecipanti al corso Ciakincarcere la conferenza stampa di presentazione di Cinevasioni, Festival del Cinema in Carcere oltre che laboratorio, percorso di formazione e riabilitazione che si tiene nella Casa Circondariale della Dozza. Oggi 4 aprile si conclude il corso Ciakincarcere avviato ad ottobre, mentre il Festival Cinevasioni si terrà dal 9 al 14 ottobre 2017. Oggi, nella sede della Fondazione del Monte che sostiene fortemente il progetto, è stata illustrata questa esperienza, giunta al suo secondo anno, unica in Italia a portare la cultura del cinema all’interno della realtà del carcere e ad aprire il carcere agli autori, studiosi e attori. "È un progetto cui teniamo molto, è l’esempio di quello che deve essere il lavoro di una Fondazione di origine bancaria oggi" Con queste parole Giusella Finocchiaro, Presidente della Fondazione del Monte, ha dato il via alla presentazione insieme a Filippo Vendemmiati, Direttore Artistico del Festival. "Abbiamo raccolto un’idea, l’abbiamo fatta diventare un progetto, l’abbiamo fatta partire e intorno ad essa abbiamo aggregato altri soggetti. È un progetto che cresce ed è l’esempio di come questo lavoro incida sulla realtà e porti a ricadute positive sul territorio", ha proseguito Giusella Finocchiaro. "Abbiamo acceso un faro sul carcere, illuminando non solo i problemi macroscopici dei detenuti ma anche quelli del personale che parimente va assistito e accompagnato. Abbiamo accompagnato Hera, nuovo partner del progetto, ad occuparsi di quella realtà. Siamo orgogliosi di questo lavoro, è quello che le fondazioni di origine bancaria ora devono fare." Sulla stessa lunghezza d’onda Claudia Clementi, Direttrice della Casa Circondariale della Dozza: "Il carcere insieme alla Fondazione è riuscita ad aggregare dei soggetti che di solito non collaborano tra loro. Siamo abituati a pensare il carcere fuori dai circuiti cittadini, invece in questa occasione diventa un polo di aggregazione di energie. Realizziamo così il nostro mandato, consentendo ai detenuti di utilizzare il tempo in maniera proficua, fornendo strumenti attraverso cui potersi costruire un futuro diverso". Claudia Clementi ha raccontato lo sforzo immenso dal punto di vista organizzativo che ha caratterizzato la scorsa edizione del Festival, che ha avuto un enorme successo proprio per la sua formula: unire in platea il pubblico in arrivo dall’esterno e quello interno al carcere. Proprio per consentire il mantenimento di questo format, il festival si svolgerà in ottobre. "Il corso finirà domani ma proseguirà con la realizzazione di un cortometraggio", ha annunciato Filippo Vendemmiati, che si è soffermato sul protagonismo dei detenuti. "Al corso hanno partecipato in quindici e saranno loro i giurati che valuteranno le opere presentate al Festival". Da Angelita Fiore, Direttrice Scientifica del Festival, è arrivata la sottolineatura della relazione tra "fuori" e "dentro" che è la peculiarità del progetto. E dato che proprio questa caratteristica richiede un livello di organizzazione e partecipazione del personale del carcere molto impegnativo, il ringraziamento è andato a tutti gli operatori del carcere, dalla Direzione a tutti gli agenti di Polizia Penitenziaria. Seduti in prima fila, due partecipanti al progetto di quest’anno: Claudio Cipriani e Davide Pagenstecher. Claudio ha ottenuto la semi libertà proprio grazie a questo suo impegno e frequenta il DAMS, Davide sta svolgendo del volontariato in una società di produzione cinematografica, anche lui in regime di semi libertà). "Da quando abbiamo iniziato, con il nostro piccolo contributo, cinque persone hanno iniziato un percorso alternativo alla detenzione e questo ci fa molto piacere", ha precisato Vendemmiati. Per Davide l’auspicio è che "il corso diventi un trait d’union per reintrodurre le persone nella società, seguendo lo spirito della Costituzione che prevede che la pena sia uno strumento di riabilitazione", Claudio ha raccontato che il progetto "ha messo in relazione detenuti di diversa etnia e aiuta a sconfiggere gli stereotipi". Uno sguardo sul futuro e su quella che sarà la terza edizione del Festival. L’organizzazione insieme al nuovo partner Hera sta ragionando sulla possibile ristrutturazione, per quella occasione, della sala cinematografica all’interno della Dozza, perché possa essere a disposizione dei detenuti quotidianamente. Potrebbe chiamarsi "Atmosfera". Bologna: dalla Dozza al Dams, il detenuto in semilibertà che studia cinema Dire, 4 aprile 2017 Un progetto per portare il cinema nelle carceri ha incontrato la passione di un 38enne, che a un anno dal fine-pena si è iscritto all’università con impegno e voglia di riscatto. "Portare il cinema in carcere è stato importante. Al corso hanno partecipato detenuti di varie etnie e questo ha permesso di rompere il clima di disomogeneità all’interno dell’istituto. Il festival poi ha permesso di rompere gli stereotipi sui detenuti". A parlare è Claudio, 38enne di Napoli, uno dei detenuti che l’anno scorso ha partecipato alla prima edizione di "Ciak in carcere", il corso di cinema organizzato all’interno della Casa Circondariale della Dozza di Bologna, ed è stato uno dei giurati alla prima edizione di "Cinevasioni", il festival del cinema in carcere. "Una bella esperienza", racconta Claudio che, quest’anno (la seconda edizione del Festival è in programma dal 9 al 14 ottobre) non potrà ripetere: da cinque mesi, infatti, ha ottenuto la semilibertà, esce al mattino e rientra la sera alle 21. Claudio non è l’unico ad aver ottenuto la misura: da quando il corso è partito sono cinque i detenuti ad averne usufruito, il primo era stato Catalin, romeno di 42 anni, che aveva ricevuto la comunicazione proprio durante le giornate di Cinevasioni, l’ultimo Davide, semilibero da gennaio 2017, che sta facendo uno stage presso la Smk Videofactory, proprio grazie alla formazione maturata nel laboratorio. Alla Dozza dal 2013, Claudio sta scontando 12 anni, "per una somma di condanne" e gli manca un anno. Iscritto dall’anno scolastico 2015/2015 ai corsi di Arti visive del Dams - il Dipartimento di Arte, Musica e Spettacolo dell’Università di Bologna, Claudio ora può frequentare le lezioni insieme ai suoi compagni di corso. "Prima studiavo e davo gli esami, ora al mattino vado a lezione- dice- e al pomeriggio faccio volontariato al Villaggio del Fanciullo dove cucino per i ragazzi, tanti di origine straniera, che sono accolti lì". Alla laurea triennale manca un anno e poi Claudio ha già intenzione di iscriversi alla specialistica. "Ho scelto arte, in particolare fotografia, perché mi sembra che in questo campo il pregiudizio verso i detenuti sia più stemperato- racconta- Dopo la laurea mi piacerebbe fare un tirocinio in un museo di arte contemporanea, ma vedremo. Per il momento, voglio finire di studiare". Torino: "Cose recluse", una mostra sulla quotidianità del carcere cr.piemonte.it, 4 aprile 2017 S’intitola "Cose recluse" ed è incentrata sulla quotidianità di chi è sottoposto a misure restrittive della libertà personale la mostra fotografica inaugurata lunedì 3 aprile all’Urp del Consiglio regionale. L’esposizione, promossa dall’Ufficio del garante regionale dei detenuti, propone il reportage realizzato dal fotografo Daniele Robotti e dalla scrittrice Mariangela Ciceri all’interno della Casa di reclusione San Michele di Alessandria: un viaggio all’interno delle celle e degli spazi comuni per cogliere - attraverso immagini e parole - emozioni e stati d’animo, difficoltà, sogni e speranze in uno spazio abitativo che non si è scelto e all’interno del quale non è sempre facile trovare la propria dimensione. "Si tratta di un punto di vista originale - ha sottolineato Bruno Mellano, garante regionale dei detenuti - e di una prospettiva diversa che permette al visitatore di entrare in contatto visivo, anche per pochi minuti, con la realtà detentiva e di ricostruire attraverso gli oggetti di chi è recluso un suo pezzo di vita e di quotidianità". "Con macchina fotografica, block notes e penna - ha evidenziato Robotti - abbiamo incontrato le persone che hanno volontariamente aderito al progetto. Ogni ‘cosa reclusà che un detenuto costruisce ha un contenuto simbolico e identitario, diventa la voce di un’esperienza, un mezzo per uscire dalla passività e dare un contributo a sé e agli altri. Con gli scatti fotografici esposti ho cercato di mostrare anche gli uomini reclusi, con tutto quello che, dalla loro gestualità quotidiana, emerge". Mellano ha poi portato all’attenzione del pubblico come la visione degli oggetti fotografati, opera di ingegno per chi vive costretto in spazi ristretti come quelli del carcere, permetta di aprire la mente ad alcune riflessioni, in modo particolare sulle attuali condizioni dei detenuti. All’incontro hanno partecipato: il garante per i detenuti e la consigliera per le Politiche sociali del Comune di Alessandria Davide Petrini e Rossella Procopio che hanno sottolineato rispettivamente il senso della creatività dei detenuti e l’importanza di "esportare" le esperienze e il mondo carcerario attraverso le immagini; il responsabile dell’area educativa del San Michele di Alessandria, Piero Valentini e l’assessore all’Innovazione del Comune di Alessandria, Mauro Cattaneo. La mostra, aperta dal lunedì al giovedì dalle 9 alle 12.30 e dalle 14 alle 15.30 e il venerdì dalle 9 alle 12.30, è visitabile fino al 3 maggio. Libia. "Se l’Italia aiuta la mia tribù, fermiamo il traffico di uomini" di Federico Fubini Corriere della Sera, 4 aprile 2017 Il dignitario Tebu: i migranti sono la sola fonte di entrate per noi. Mohamed Haay Sandu è uno dei leader che venerdì a Roma hanno siglato l’accordo di pace fra la tribù dei Tebu e quella degli Awlad Suleiman. Con l’intesa fra le due popolazioni della Libia meridionale, il governo italiano conta sull’impegno di entrambe nel contrasto ai flussi di migranti sub-sahariani in arrivo dal Niger e diretti al Canale di Sicilia. Haay Sandu, primo consigliere del sultano dei Tebu Zilawi Minah Salah, riconosce che oggi il traffico dei clandestini è la principale fonte di reddito per la sua tribù di circa 200 mila persone. Perché i flussi si interrompano davvero - dice - l’Italia deve impegnarsi nel finanziare lo sviluppo nella regione. Vede l’accordo di pace fra tribù come il presupposto per un impegno a cooperare con l’Italia nel contrasto ai migranti? "Noi Tebu abbiamo discusso per la prima volta con gli Awlad Suleiman grazie alla Ong Ara Pacis, poi con il governo italiano. La pace fra le nostre tribù è arrivata sotto l’egida dell’Italia e del governo libico. A quel punto abbiamo deciso di attuare anche accordi contro la migrazione clandestina e il terrorismo. Ci impegniamo a collaborare su entrambi i fronti". La frontiera Sud della Libia è di cinquemila chilometri. Come potrete frenare i flussi di migranti, in concreto? "In primo luogo, la pace fra le nostre due tribù sarà seguita da accordi di lavoro e sicurezza con l’Italia. Da lì inizia la collaborazione sulla frontiera. È una catena di fattori tutti legati fra loro". Dall’Italia vi aspettate aiuti finanziari, fatte le proporzioni, sul modello di quelli dell’Unione Europea alla Turchia? "Il governo italiano ha preso atto delle nostre esigenze di sviluppo: infrastrutture da costruire, sicurezza, assistenza per curare i nostri feriti in ospedali italiani, centri di formazione professionale, borse di studio perché alcuni dei nostri ragazzi possano studiare in Italia. Vede, da noi tanti giovani senza speranze oggi lavorano a facilitare le migrazioni clandestine. Ma se si danno loro prospettive diverse, smetteranno". Quanto contano per la vostra comunità i redditi del traffico dei migranti illegali? "Dopo la caduta del regime di Gheddafi più nessuna forza controlla la frontiera, il confine è aperto. Per molti di noi facilitare il passaggio è un modo di guadagnarsi da vivere. Il 15% delle persone adulte lavora nel traffico dei migranti. È la prima fonte di reddito". In concreto come si svolge il traffico? "I passatori vanno in Niger, fanno attraversare ai migranti il confine con la Libia e li portano verso Nord, fino a Sebah (in Libia centrale, ndr). La rotta è segmentata in base a quale tribù controlla ciascuna zona. Da lì in poi altri se ne fanno carico. Ma se ci arrivano aiuti allo sviluppo, siamo pronti a fermare completamente il transito. Non passa più nessuno". È sicuro che sarebbe così efficace? "Vivo a Al Qatrun, un centro di 18 mila abitanti che è un po’ la capitale dei Tebu in Libia. Siamo a Sud, sulla strada dal Niger verso Sirte e Tripoli. La grande maggioranza dei migranti sbarcati in Italia sono sicuramente passati da Al Qatrun, è una tappa obbligata per quelli che vengono dal centro del continente africano". Non le sembra discutibile dire all’Italia che i Tebu alimenteranno i flussi migratori, se non saranno finanziati? "Non ho detto questo, anche se capisco le sensibilità nel vostro Paese. Dopo il crollo del regime e con la guerra civile, da noi l’economia è al collasso. Non circola denaro, le banche sono vuote, le famiglie non sanno cosa mangiare la sera. Molti sostengono i flussi migratori per mancanza di alternative. Se avessimo aiuti allo sviluppo, sarebbe diverso". Dunque l’Italia dovrebbe creare alternative al modello dei traffici, per far funzionare l’accordo? "Crediamo alla parola del governo italiano, nella nostra cultura vale come un contratto. Se non fosse seguita dai fatti, la nostra gente perderebbe fiducia nell’Italia e anche noi leader saremmo in difficoltà. Da noi si è creata un’aspettativa enorme. E in realtà vi aiutiamo a risparmiare, se dei migranti ci occupiamo noi". Libia. Il costo umano dell’accordo Viminale-tribù del Fezzan di Tommaso Di Francesco Il Manifesto, 4 aprile 2017 Angelo Del Boca, storico del colonialismo italiano ed esperto di Libia: "Li armiamo per fermare i migranti su un confine di 5mila km. Nella Libia del sud la "riconciliazione" garantita dall’Italia è assai fragile, a Tripoli il premier Sarraj vive sotto assedio". A Angelo Del Boca, storico del colonialismo italiano ed esperto di Libia, con all’attivo decine di saggi e monografie sulla storia libica e su Gheddafi, abbiamo rivolto alcune domande sul cosiddetto "accordo di pace" firmato al Viminale venerdì scorso, con diretta supervisione del ministro Minniti, tra le tre tribù del Fezzan, Awlad Suleiman, Tebi e Tuareg. Secondo il ministro Minniti che governare il sud della Libia significa controllare e governare le rotte migratorie dell’Africa. Che ne pensa? L’affermazione sarebbe quasi esatta. Dico quasi perché i flussi migratori non sono solo quelli che provengono dal sud della Libia. In Africa purtroppo c’è l’esplodere di tante crisi e conflitti armati, a cominciare da quella di più lunga data in Nigeria, ma ora torna anche il Congo. Non parliamo del disastro al quale abbiamo contribuito della stessa Libia e subito dopo in Siria. ma l’affermazione risulta invece avventata perché, con il Fezzan libico, stiamo parlando di circa 5mila chilometri di confine praticamente sulla sabbia. Si tratta di una realtà immensa non difendibile né controllabile, tantomeno da tre tribù storicamente in conflitto fra loro e per le quali si annuncia ora una strana pace. Chissà quanto ci è costato in termini di esborso di denaro e fondi, visto che per ogni tribù c’era non un solo rappresentante ma ben 7 o 8 persone? Ma che peso ha questa "riconciliazione" nel Sud libico del Fezzan se a Tripoli il nostro interlocutore privilegiato, al Sarraj è costretto a fuggire dalla base navale dov’è rinchiuso, sotto tiro delle milizie armate da quelle di Misurata, agli islamisti di Gweli che si considera premier legittimo e soprattutto dal generale Khalifa Haftar che lo insidia dalla Cirenaica? È abbastanza facile capirlo: un peso assai fragile, quasi inesistente. Perché, sempre secondo il ministro Minniti, abbiamo una pace con il sud ma zero governo Sarraj a Tripoli, un governo riconosciuto da tutto il mondo ma non riconosciuto in Libia e sempre pronto a scappare su una nave che gli mettiamo a disposizione. Minniti un mese e mezzo fa ha vantato la realizzazione di un memorandum d’intenti sul controllo dell’immigrazione con il premier Sarraj. Ma è accaduto che dieci giorni fa la Corte suprema di Tripoli ha dichiarato illegale e nullo quel memorandum… Sì è accaduto anche questo. Mentre continuiamo a pensare che quello sia un "posto sicuro" dove fermare, in nuovi campi di concentramento, la disperazione di chi fugge da guerre e miseria e che continua a farlo drammaticamente dalla costa a ovest di Tripoli, sempre da Zhawya, ma Sarraj nemmeno quella riesce a controllare. È stato uno smacco pesante per il governo italiano del quale quasi nessuno ha voluto parlare. Quale è il costo in termini umani - di diritti umani - di questo nuovo accordo di riconciliazione che viene annunciato tra le tribù del Fezzan, garante l’Italia? Drammatico. In buona sostanza la nostra protezione - oltre a nascondere la necessità di contendere sul terreno gli interessi neocoloniali della Francia proprio in quell’area e consolidati in Ciad, Niger e Mali - vuol dire contribuire a militarizzare quel territorio. Noi andremo ad armare fino ai denti quelle tribù, ad "addestrarle" come dicono, per fare la guerra ai migranti, per dare loro la caccia, per rinchiuderli e rimandarli indietro alla loro disperazione fatta di nuove guerre e nuove carestie. Egitto. Caso Regeni, i genitori di Giulio: "che il Papa in Egitto lo ricordi" Corriere della Sera, 4 aprile 2017 Non si rassegnano Paola e Claudio Regeni che 14 mesi fa hanno perso il figlio Giulio, ritrovato brutalmente ucciso in Egitto. In una conferenza stampa organizzata in Senato hanno espresso, con la compostezza che li contraddistingue tutta la delusione sull’attuale piega presa dall’inchiesta aperta sulla morte di Giulio. "Sono stati 14 mesi surreali. Siamo una famiglia normale catapultata in questa situazione. Non possiamo abbassare mai la guardia perché abbiamo scelto di essere dentro le cose. Per avere verità per Giulio dobbiamo agire, non basta fare proclami e poi lasciare che la bolla si sgonfi". A parlare è Paola Regeni, madre del ricercatore ucciso. "Abbiamo diritto alla verità per la nostra dignità ma anche per guardare negli occhi a testa alta i tanti giovani che stanno seguendo questa vicenda e ci stanno scrivendo". Alle parole di Paola fanno eco quelle del marito Claudio: "Abbiamo avuto rassicurazioni dal premier Gentiloni. Continuiamo a confidare nelle nostre istituzioni - e ha aggiunto - chiediamo che il nostro ambasciatore non torni al Cairo e auspichiamo che anche altri paesi, europei e non solo, facciano lo stesso". "La morte di Giulio: omicidio di Stato" - "La morte di Giulio Regeni: un omicidio di Stato", è questo il titolo della conferenza stampa indetta a Palazzo Madama a cui hanno preso parte il presidente della Commissione diritti umani del Senato Luigi Manconi, Alessandra Ballerini, legale della famiglia, e Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia. Ed è Manconi a riferirsi all’inchiesta definendola "in stallo, per le omissioni egiziane nonostante gli impegni presi col nostro Paese". L’appello al Papa: "Sicuri che non potrà non ricordarsi di Giulio" - I genitori del ricercatore si sono rivolti anche al pontefice, che il 28 e 29 aprile sarà in Egitto per una visita storica:"Siamo sicuri, proprio perché abbiamo incontrato Papa Francesco - le loro parole - che non potrà non ricordarsi di Giulio e non unirsi alla nostra richiesta concreta e necessaria per avere la pace". "In questi 14 mesi abbiamo avuto conferme di cose che sapevamo e di altre che potevamo intuire. Abbiamo i nomi di tutti", ha aggiunto Alessandra Ballerini, legale della famiglia Regeni, spiegando che nella vicenda, oltre ad alcuni ufficiali, sarebbero coinvolti anche "degli amici egiziani di Giulio" che avrebbero saputo e taciuto. "È stato tradito o venduto. Abbiamo nomi, quasi tutti, ci manca il mandante. Il motivo", ha poi precisato. L’inchiesta - Quattordici mesi fa veniva ritrovato, lungo la strada che collega Il Cairo ad Alessandria il corpo massacrato di Giulio Regeni: da allora una lunga e complessa indagine ha fatto la spola tra Egitto e Italia, e tante manifestazioni di solidarietà verso la famiglia del ricercatore si sono susseguite, attraverso le quali migliaia di cittadini sui social e nelle piazze hanno chiesto "verità sulla morte di Giulio". La verità sulla morte di Giulio ancora non c’è, ed è indubbio che molte falsità siano arrivate in questi mesi da chi in Egitto potrebbe aiutare a fare chiarezza. Non ha ancora avuto risposta la rogatoria partita da Roma a metà marzo e diretta all’autorità giudiziaria del Cairo per provare a raccogliere nuove prove indispensabili per fare chiarezza sull’omicidio. La procura di Roma crede che dagli apparati della National Security egiziana e dagli agenti del Dipartimento investigazioni municipali del Cairo (almeno una decina tra polizia e servizi segreti le persone coinvolte nell’inchiesta) siano arrivate, negli interrogatori effettuati dai magistrati del Cairo, innumerevoli falsità nel corso delle indagini. Egitto. I diritti umani cancellati dal "modello" Al Sisi di Riccardo Noury* Il Manifesto, 4 aprile 2017 A 14 mesi esatti dal ritrovamento al Cairo del corpo, terribilmente torturato, di Giulio Regeni, siamo tornati in Senato, con i genitori Paola e Claudio, la loro avvocata Alessandra Ballerini e il senatore Luigi Manconi, per incontrare la stampa a un anno dalla prima conferenza. Ognuno, dal rispettivo punto di vista, ha raccontato come sono trascorsi questi 14 mesi: da quello delle indagini a quello dell’azione politica italiana, soprattutto da quello di una famiglia la cui vita è stata completamente stravolta. E infine, da quello dell’analisi della situazione dei diritti umani in Egitto. Da questo aspetto si deve ripartire. Per ricordare ciò che è ovvio ma che viene talora dimenticato. Giulio Regeni ha subìto quattro violazioni dei diritti umani: arresto arbitrario, sparizione, tortura, omicidio. Come un egiziano. Negli ultimi 14 mesi, anche se potrà non piacere a Donald Trump che ha definito il presidente egiziano al-Sisi un "modello", la situazione dei diritti umani in Egitto è peggiorata. Diverse persone che si sono occupate dell’assassinio di Giulio sono finite in carcere per settimane o mesi: come Ahmad Abdallah e Mina Thabet della Commissione egiziana per i diritti e le libertà o come l’avvocato Malek Adly. Le organizzazioni non governative egiziane che si occupano di ricerca, di formazione o di diritti umani sono sempre di più nel mirino del governo. L’inchiesta nata nel 2011 sui "fondi esteri" ha, solo negli ultimi mesi, portato alla chiusura del centro El Nadeem (sorto nel 1991 per curare le vittime della violenza sessuale e della tortura), al congelamento dei beni bancari personali o associativi (dunque, alla paralisi delle attività) e all’emissione di divieti d’espatrio per numerosi attivisti. Quanto alle sparizioni, è la stessa Commissione egiziana per i diritti e le libertà a fornire un dato preoccupante quanto prudente: oltre 900 desaparecidos tra agosto 2015 e agosto 2016. Altre organizzazioni hanno prodotto numeri assai più alti. Si tratta di un fenomeno difficile da analizzare, per la natura segreta delle sparizioni e per il terrore di denunciarle. Secondo Amnesty International, in media spariscono tre o quattro persone al giorno: spesso sono giovani, in alcuni casi addirittura minorenni. Durante il periodo d’isolamento completo dal mondo esterno, lo scomparso subisce feroci torture. Un recente rapporto di Amnesty International racconta, tra le tante, quelle subite da due quattordicenni: Mazan Mohamed Abdallah, violentato con un bastone di legno, e Aser Mohamed, colpito con scariche elettriche su tutto il corpo e tenuto appeso per ore. L’aumento delle sparizioni risulta particolarmente acuto dal marzo 2015, ossia dalla nomina a ministro dell’Interno di Magdy Abd el-Ghaffar, che in precedenza aveva fatto parte della polizia segreta di Mubarak, il Servizio per le indagini sulla sicurezza dello stato, ora Agenzia per la sicurezza nazionale: stesse persone, stesse torture. Al sistema delle sparizioni collabora il potere giudiziario, ovvero quello che dovrebbe indagare sull’assassinio di Giulio Regeni. Come negare le sparizioni e respingere le denunce? Basta post-datare il giorno dell’arresto: non settimane o mesi prima della comparsa davanti al giudice, ma 24 ore prima. Dell’Egitto odierno dobbiamo ricordare ancora la messa fuorilegge del Movimento 6 aprile, i processi contro i lavoratori dei cantieri navali di Alessandria e la detenzione di attivisti, blogger, giornalisti (35, secondo i dati più aggiornati) solo per aver espresso le loro opinioni o svolto il loro mestiere. Mahmoud Abu Zeid, noto come "Shawkan", è in carcere da 1320 giorni: nell’agosto 2013 aveva ripreso con la sua macchina fotografica e per conto dell’agenzia di Londra Demotix, lo sgombero con centinaia di morti di un sit-in della Fratellanza musulmana a Rabaa al-Adawiya. In Egitto, dunque, l’impunità regna: il suo più recente simbolo è proprio l’ex presidente Hosni Mubarak, rilasciato il 24 marzo. Evidentemente le centinaia di manifestanti morti a piazza Tahrir nel gennaio 2011 caddero tutti per le scale. *Portavoce di Amnesty International-Italia Russia. La pista ceceno-daghestana, una ininterrotta scia di sangue di Yurii Colombo Il Manifesto, 4 aprile 2017 Le ipostesi sull’attentato si concentrano sula pista ceceno-daghestana, una ininterrotta scia di sangue. Tutte le tre azioni più micidiali sono state rivendicate o fatte risalire al terrorismo ceceno. San Pietroburgo non era mai stata colpita da un attacco terroristico così violento. La presenza in città ieri del presidente Vladimir Putin rappresenta certamente una sfida allo "zar", che solleva la questione della paternità dell’attentato e dei suoi obiettivi politici. La Russia del resto è da 15 anni il crocevia di forti tensioni legate alla irrisolta questione caucasica, ma anche di giganteschi interessi economici e flussi finanziari. Nessuna ipotesi può essere esclusa completamente. Gli organi di sicurezza della Federazione Russa aveva recentemente segnalato la possibilità di attentati di matrice estremistica ucraina, ma tecnica e obbiettivi dell’azione fanno escludere nettamente questa ipotesi. Per ora i più forti sospetti, invece, non possono che cadere sulla guerriglia cecena. Dopo che tra il 2000 e il 2005 le bande guerrigliere cecene, operanti soprattutto nel territorio del Daghestan, erano state fortemente indebolite dall’offensiva dell’esercito russo in tutta la regione, fino a far affermare alle autorità russe che il conflitto era ufficialmente chiuso, negli ultimi anni e in particolare negli ultimi mesi, sono tornate alla ribalta con attentati e azioni armate in tutto il Caucaso. Secondo il sito Kazkavzy Uzel’, che monitora costantemente la situazione nel Caucaso russo, dal 1 gennaio scorso al 31 marzo 2017 si sono succeduti ben 21 attentati e scontri a fuoco, con decine di vittime e feriti. La rinnovata intensità delle azioni militari dei ribelli è far risalire a diversi motivi. La leadership del governatore ceceno, Razman Kadyrov, fortemente voluto da Putin, negli ultimi anni si è via via appannata: i risultati economici restano deludenti malgrado gli ingenti investimenti fatti da Mosca mentre corruzione e illegalità continuano ad essere il tratto distintivo della regione caucasica. A ridare fiato alla guerriglia, inoltre, sono sicuramente gli strascichi dell’impegno assunto dall’esercito russo nella crisi siriana dove si intersecano molteplici labili alleanze tra Stati e gruppi islamici radicali. Del resto, malgrado il ferreo controllo della polizia russa ai confini, attualmente sono presenti oltre 10 milioni di migranti provenienti soprattutto dagli Stati musulmani dell’ex Unione Sovietica dell’Asia centrale come l’Uzbekistan e il Tagikistan, una potenziale manovalanza del terrore di cui già da tempo il Ministero degli Interni russo ha appuntato la sua attenzione. La scia di sangue che ha attraversato la Russia negli ultimi quindici anni è del resto in gran parte da far risalire indubitabilmente alla guerriglia cecena e islamica. Tutte le tre azioni più micidiali sono state rivendicate o sono state fatte risalire al terrorismo ceceno: gli attentati ai condomini popolari di Mosca del 1999 che provocarono oltre 200 morti, l’azione al Teatro della Dubrovka del 2002 (130 morti) e la strage di Beslan del 2004 che costò la vita a oltre 300 persone in gran parte bambini, ebbero tutte la stigmate del terrorismo islamico-indipendentista. Inoltre, ad indirizzare i sospetti verso sulla pista islamica, c’è il periodico ricorso di questi gruppi agli attentati alle metropolitane, di Mosca in particolare. Il 6 febbraio 2002 un musulmano si fece esplodere nella metropolitana di Mosca e l’azione costò la vita a 42 persone. Pochi mesi dopo, il 31 agosto, una militante della guerriglia cecena diretta da Shamil Basaev si fece esplodere alla fermata Rizskya di Mosca provocando 9 morti. Infine nel 2010, nelle fermate Lubjanka e Park Kultury esplosero due bombe che uccisero 42 persone. Anche qui l’attentato fu di marca cecena, rivendicato dai gruppi ribelli diretti da Dokka Umarov fondatore di una fragilissima Repubblica Cecena di Ichkeria nel 2006. Tuttavia la pista cecena potrebbe sovrapporsi e essere complementare alla vicenda del conflitto in Siria e delle tensioni in Medio Oriente. Si tratta di ipotesi e di sospetti che avevano già trovato conferme a dicembre 2016 nella conferenza stampa di fine anno del Direttore per l’Attività Antiterroristica Igor Kulyagin che dopo aver dichiarato con soddisfazione che gli attentati in Russia si erano ridotti di ben del 50% rispetto all’anno precedente, aveva mostrato molta preoccupazione per la ripresa di azioni terroristiche di matrice islamica anche nella Russia Europea. Alla metà del 2016, per esempio, proprio a San Pietroburgo i servizi di sicurezza avevano individuato e arrestato un gruppo di fuoco di russi di origine musulmana pronti a realizzare attentati con collegamenti in Siria e in altri paesi del Medio Oriente. Si tratta di una matassa che Putin, a fronte delle crescenti tensioni interne e in vista del grande appuntamento in Russia dei Mondiali di calcio del 2018, dovrà cercare assolutamente di sbrogliare. Israele. I detenuti affiliati a Fatah si preparano ad uno sciopero della fame di massa assopacepalestina.org, 4 aprile 2017 I Palestinesi membri di Fatah che sono detenuti nelle carceri israeliane hanno annunciato lo scorso venerdì che tutti i loro affiliati, esclusi gli ammalati, il 17 aprile dichiareranno uno sciopero della fame di massa, di durata aperta, che sarà guidato da Marwan Barghouti, leader di Fatah e membro della commissione centrale del movimento. Nel comunicato di Fatah si dice che Barghouti ha affermato dalla prigione che è necessario rimanere uniti nel portare avanti lo sciopero della fame e che bisogna mettere al primo posto lo sciopero, anziché avviare trattative individuali con le autorità carcerarie israeliane (Israel Prison Service, Ips). Barghouti ha anche incoraggiato tutti i prigionieri palestinesi detenuti da Israele a "essere consapevoli di tutte le chiacchiere e le bugie che l’IPS utilizzerà durante lo sciopero della fame per indebolire la volontà e la determinazione dei prigionieri." Secondo il comunicato, lo sciopero della fame sarà lanciato per avanzare richieste in merito alle visite in carcere, al trattamento delle donne palestinesi detenute, alle cure mediche per i prigionieri palestinesi e al trasporto carcerario. Il comunicato sottolinea che al centro delle rivendicazioni ci sarà il ripristino delle seconde visite per i detenuti palestinesi che sono state sospese l’anno scorso dalla Commissione Internazionale della Croce Rossa. La decisione che ha ridotto le visite per i detenuti palestinesi maschi da due giorni al mese a solo uno è stata accolta da proteste ed è divenuta una questione centrale in uno sciopero della fame di massa portato avanti l’anno scorso dai Palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. Nel comunicato si richiede anche che le autorità israeliane autorizzino i cugini di primo e secondo grado a fare visita ai loro parenti in carcere, poiché la normativa israeliana attuale permette solo ai componenti della famiglia ristretta di visitare i detenuti nelle carceri israeliane. Si chiede anche che i detenuti palestinesi siano autorizzati a scattarsi una foto con le loro famiglie una volta ogni tre mesi e che la durata delle visite sia estesa da 45 minuti a un’ora e mezza. Per le detenute palestinesi donne, il comunicato afferma che con lo sciopero sarà richiesto che le autorità israeliane prendano in considerazione la questione del trasporto per lunghe ore tra tribunali e carceri israeliane, una delle istanze principali di almeno uno sciopero della fame a tempo indefinito condotto l’anno scorso da Samer al-Issawi e Munther Snawbar che sono diventati ben noti per i loro scioperi della fame. Al contempo il comunicato richiede altresì un trattamento più umano per tutti i Palestinesi nel trasporto tra le diverse carceri israeliane e tra le carceri e i tribunali. Anche le questioni medico-sanitarie dei prigionieri palestinesi costituiranno un punto centrale dello sciopero della fame, secondo il comunicato. I detenuti chiederanno la chiusura dell’ospedale del carcere israeliano di Ramla, dove vengono curati molti Palestinesi, in ragione della sua "inadeguatezza a fornire trattamenti medici." Chiederanno inoltre esami clinici frequenti per i detenuti, trattamenti chirurgici rapidi e in regime di urgenza al bisogno, l’autorizzazione all’ingresso di medici con diverse specializzazioni nelle carceri onde permettere loro di visitare i detenuti palestinesi, il rilascio di tutti i carcerati palestinesi malati o affetti da disabilità, e l’abolizione di tutti i costi imposti ai detenuti palestinesi malati per l’erogazione dei trattamenti sanitari. Altre richieste dei detenuti includono quella agli ufficiali dell’IPS di fornire canali televisivi via cavo; di porre le cucine sotto il controllo e la supervisione dei detenuti; e ancora di permettere l’ingresso di libri, riviste, vestiario e "effetti personali speciali" per le detenute di sesso femminile. I detenuti invocano altresì la fine della detenzione in isolamento e della detenzione amministrativa. La reclusione senza formulazione di accuse o senza giudizio è spesso al centro degli scioperi della fame palestinesi. Chiedono inoltre la ripresa del programma Università Ebraica Aperta che consentiva ai detenuti palestinesi l’accesso all’educazione, e il permesso per i detenuti palestinesi di sostenere gli esami di tawjihi (maturità) durante la detenzione nelle carceri israeliane. Secondo il gruppo per i diritti dei prigionieri Addameer, a gennaio i detenuti palestinesi nelle carceri israeliane erano 6.500, tra cui 53 donne e 300 bambini. Iran. Si aggravano le condizioni del ricercatore detenuto minacciato di morte di Barbara Cottavoz La Stampa, 4 aprile 2017 È in carcere da quasi un anno Ahmadreza Djalali, il medico che collaborava con l’Università del Piemonte Orientale a Novara. Sta molto male Ahmadreza Djalali, il ricercatore iraniano di 45 anni in carcere da quasi un anno a Teheran e minacciato di morte dal governo iraniano: le sue condizioni di salute sono preoccupanti, negli ultimi giorni non è riuscito a mettersi in contatto con la famiglia come avveniva ogni settimana. Il medico ha vissuto in Italia per tre anni, fino all’inizio del 2016, e ha collaborato con il Centro di ricerca sulla medicina dei disastri dell’Università del Piemonte Orientale a Novara. È stato arrestato il 25 aprile del 2016 mentre partecipava a un convegno su invito dell’università di Teheran e non è ancora comparso davanti a un giudice: anche le accuse che gli sono state formulate sono generiche e non ufficiali e si riferiscono a presunte attività di collaborazione con paesi nemici. Mobilitazione da tutto il mondo - Detenuto nel carcere di Evin, Djalali era stato interrogato e minacciato di una condanna a morte: per lui si è mobilitata la comunità medica e universitaria internazionale, dall’Italia (grazie ai colleghi di Novara) alla Svezia dove viveva adesso con la famiglia, al Belgio con cui aveva collaborato, attestazioni di stima sono arrivate dagli atenei di tutto il mondo. Sono state raccolte oltre 200 mila firme che chiedono al governo iraniano la sua liberazione, una delegazione di parlamentari italiani ha incontrato l’ambasciatore di Teheran a Roma e Amnesty International ha pubblicato un’azione urgente di tutela per il ricercatore. La senatrice e scienziata Elena Cattaneo ha fatto sapere di aver rifiutato l’invito a un convegno a Teheran in segno di protesta contro la detenzione di Djalali. Ma il tempo passa e le condizioni del medico di 45 anni sono sempre più gravi. A dicembre aveva iniziato lo sciopero della fame, interrotto e poi ripreso quando gli era stato ricusato il suo avvocato di fiducia. In seguito Djalali avrebbe a rifiutarsi anche di bere. Ha avuto due collassi e problemi ai reni. Nei giorni scorsi ha saltato il consueto colloquio telefonico con i familiari che vivono a Teheran. "Siamo molto preoccupati per la vita del nostro collega. Temiamo il peggio" ha detto Luca Ragazzoni, amico e ricercatore del Crimedim di Novara. Quando è stato arrestato Djalali collaborava ancora per il Centro novarese e il primo allarme è stato lanciato proprio dai suoi colleghi che lo aspettavano per il master di maggio in Italia: la moglie Vida, sotto minaccia, aveva spiegato che era rimasto vittima di un incidente stradale. Solo a dicembre la detenzione di Djalali è diventata di pubblico dominio. I figli di Djalali Amitis, di 13 anni, e Ario, di 5, hanno lanciato appello on line per la liberazione del padre: "Nessun innocente dovrebbe stare in carcere, è ingiusto". I due ragazzini si sono rivolti anche al papa: "Francesco, aiuta il nostro papà a tornare a casa, non lasciarlo morire in prigione". La figlia maggiore Amitis ha scritto una straziante lettera al padre che non vede da undici mesi: "Un minuto fa ho visto la tua foto sorridente e penso perché tutto questo stia accadendo a te. Ho paura di perderti a causa di questa ingiustizia". Il fratellino Ariou ha chiesto come regalo di compleanno per i suoi 5 anni il ritorno del padre: "Quando è triste si mette in un angolo, piange e ti chiama - continua la lettera di Amitis. Quando suona il campanello o il telefono, grida il tuo nome. Ha perso il suo primo dente e ora conosce l’alfabeto: saresti molto fiero di lui se lo sapessi. Papà ti voglio bene e non smetterò mai di credere che tu tornerai a casa. Per favore, non mollare".