La variante pugliese della giustizia italiana di Paolo Mieli Corriere della Sera, 3 aprile 2017 Inchieste campate in aria finiscono sempre nel nulla nella più totale distrazione di Csm, Anm, giudici prestigiosi e sommi giuristi. È probabile che già adesso pochi studenti pugliesi di Legge sappiano quanto è grande il debito della loro terra con Giuseppe Pisanelli, il giurista che pure fu un protagonista del Risorgimento, ministro di Giustizia nel 1860 con Garibaldi a Napoli e poi, nel Regno d’Italia, tra il 1862 e il 1864, con Luigi Carlo Farini e con Marco Minghetti. D’accordo, i libri dello statista di Tricase (in particolare "Dell’istituzione dei giurati" e "Sulla pena di morte") sono tuttora oggetto di studio in molte università. Pisanelli, poi, fu autore del Codice di procedura civile, un testo ancora oggi ammirato per la sua modernità. Ma cosa vogliamo che siano queste piccolezze di centocinquant’anni fa al cospetto della nuova giurisprudenza di Puglia che ci sta rendendo celebri in Europa e presto, c’è da scommetterci, sarà oggetto di attenzione anche al di là degli oceani? Oggi la Puglia è terra di grande innovazione giurisprudenziale. Ma a differenza di quel che si potrebbe supporre colui che potremmo (ironicamente) battezzare il "nuovo Pisanelli" non sarà - a parer nostro - Michele Emiliano, l’uomo che partì indagando su ruberie riconducibili alla "missione Arcobaleno" del governo di Massimo D’Alema (1999). Emiliano seppe fare investigazioni senza che D’Alema se ne adontasse, tant’è che, presto, gli fu concesso di fare carriera politica nelle terre in cui aveva svolto le indagini e nel partito su cui aveva indagato. Quanto al processo, in diciannove, tra i quali qualche dalemiano di rango, furono sì rinviati a giudizio ma con tempi e modalità per cui finirono poi tutti prescritti. Fortunati. Nel frattempo Emiliano si dedicava al nuovo impegno proprio con il partito dei postcomunisti: dei quali, in sede locale, sarebbe stato anche segretario (senza avvertire - come è noto - l’esigenza di dimettersi dalla magistratura). Presoci gusto, adesso il nostro aspira a ripetere l’operazione su scala nazionale, sempre tenendo nell’armadio la toga linda, stirata, pronta al riuso. Nel frattempo ha trasformato la Puglia nella terra d’Europa più ostile alle trivelle mettendosi alla guida del noto referendum. E ancor più nemica dei gasdotti fino a bloccare il tratto pugliese della Trans Adriatic Pipeline, un’opera per cui Enrico Letta nel 2013 volò a Baku a ringraziare personalmente il presidente Ilham Aliyev e Emma Bonino - all’epoca ministro degli Esteri - salutò come un "hub dell’energia" ma che in questi giorni è oggetto di guerriglia a causa dello spostamento di una settantina di ulivi. Tutte guerre combattute in totale sintonia con esponenti di punta della magistratura locale e con il Movimento Cinque Stelle. Per quel che riguarda l’innovazione della giurisprudenza, però, qualche titolo in più di lui lo ha l’ex procuratore capo di Taranto Franco Sebastio, gran promotore di inchieste sull’Ilva, da meno di due anni andato (malvolentieri) in pensione. Sebastio, incoraggiato da Rifondazione comunista, ha deciso di correre per diventare sindaco proprio a Taranto, così da prendere il posto di Ippazio Stefàno, da lui indagato e mandato a processo. Non dovesse farcela, è sceso in campo, con l’appoggio del Pd, un altro magistrato: Massimo Brandimarte, ex presidente del Tribunale di Sorveglianza. E qui la giustizia italiana (nella sua versione pugliese) ha fatto un altro, ben percettibile, passo avanti. Una riconoscimento per le innovazioni giuridiche spetta, in ogni caso, al procuratore di Lecce Cataldo Motta che (assieme a Elsa Valeria Mignone e Roberta Licci) ha combattuto la guerra della Xylella contro il commissario governativo Giuseppe Silletti, ricercatori, amministratori, docenti universitari, accusandoli di "sistematica distruzione del paesaggio salentino". Complotto ordito, ovviamente, da una multinazionale: Monsanto. È inutile, però, che Emiliano, Motta, Mignone, Licci, Sebastio e Brandimarte si illudano che un giorno vengano loro intitolate vie e scuole come all’illustre predecessore di metà Ottocento. Il "nuovo Pisanelli" sta altrove. A Trani per l’esattezza. Ed è Michele Ruggiero, il magistrato che si è battuto contro Standard&Poor’s. E non ci si lasci sviare dal fatto che, giovedì scorso, in prima istanza i responsabili dell’agenzia di rating accusati di aver intenzionalmente diffuso ai mercati, tra il 2011 e il 2012, informazioni "distorte e tendenziose" allo scopo di minare l’affidabilità creditizia italiana, sono stati assolti. È da anni che inchieste del genere finiscono nel nulla (talvolta nel ridicolo), ma il dottor Ruggiero non ha motivo per scoraggiarsi. E lo sa bene. Il giorno della sentenza si è presentato festante con una cravatta tricolore e nel corso del processo - per il quale aveva convocato Padoan, Monti, Prodi, Sacconi, Vegas, Tremonti, Mario Draghi - ha sostenuto l’ardita tesi secondo la quale l’Italia nel 2011 "stava messa meglio di tutti gli altri Paesi Ue", sicché non ci sarebbero stati i presupposti di un declassamento. L’intero centrodestra italiano ha dato man forte a Ruggiero e alle sue "rivelazioni" solo perché portavano acqua al mulino di chi (Renato Brunetta, mai contraddetto da nessuno dei suoi) sostiene che nel 2011 Silvio Berlusconi fu vittima di una cospirazione. Talché Ruggiero è diventato un mito per i dietrologi di destra e di sinistra - uniti a Bari, Taranto, Lecce e soprattutto Trani - in un unico fronte ideologico. Fronte che, però, fa proseliti solo in Puglia. Quando una parte dell’inchiesta di Ruggiero è stata stralciata ed inviata a Milano, la procura lombarda ha archiviato il tutto senza nascondere un certo imbarazzo. Ricordiamo, per inciso, che Ruggiero è lo stesso uomo togato che si segnalò anni fa con il celeberrimo Tranigate (intercettazioni di Silvio Berlusconi ) poi archiviato. Quindi per le inchieste sulle carte di credito American Express, sui derivati di Banca intesa e di Bnl. A un certo punto fu anche deferito al Csm. Ma l’organo di autogoverno della magistratura non eccepì alcunché sul suo operato. L’attivismo di Ruggiero non si limita all’economia e alla politica. All’inizio del 2014 il medico poliziotto Massimo Montinari, dirigente dell’ufficio sanitario all’VIII reparto mobile di Firenze, è andato in Puglia a tenere una delle sue abituali conferenze dal titolo: "Vaccini e autismo: tutto quello che c’è da sapere". E che c’è da sapere? Montinari si riferiva alle celeberrime tesi di Andrew Wakefield che è il San Pietro della guerra contro i vaccini. Nel 1998 Wakefield riuscì a piazzare sulla prestigiosa rivista Lancet una ricerca che "provava" il nesso tra vaccini e autismo. I medici inglesi si occuparono immediatamente della questione: dopo indagini assai accurate, giunsero alla conclusione che Wakefield aveva falsificato i dati (e per giunta aveva abusato, in dodici occasioni, di bambini mentalmente disagiati). Immediatamente lo radiarono dalla professione, Lancet ritirò la ricerca e si scusò pubblicamente dell’infortunio. Ma Wakefield ha continuato - anche se la stampa londinese lo tiene d’occhio - a tener vivo il proprio culto: ha girato un film Vaxxed (che qualche mese fa i grillini avrebbero voluto fosse proiettato in Senato) ed è potuto venire in Italia ad abbracciare Montinari. Il quale, invece, resta indisturbato al suo posto di medico e di poliziotto. A seguito di quella visita in Puglia, contro Montinari partirono esposti dei vertici sanitari locali preoccupati per il crollo delle vaccinazioni. Gli esposti però furono indirizzati alla procura di Trani dove finirono tra le mani di Michele Ruggiero che aveva preso parte alla conferenza di Montinari e ne era rimasto folgorato. Accadde così che proprio nel 2014 la procura di Trani, accantonate le rimostranze di cui si è appena detto, sia partita all’attacco contro i vaccini. Ma, a giugno dell’anno scorso, anche questa, come tutte le clamorose inchieste della procura di Trani, è finita in uno stagno. I giudici sono stati costretti a prender atto del responso dei medici consultati: "tra vaccini e autismo non c’è correlazione". Ruggiero non si è perso d’animo né allora né adesso ed è rimasto a combattere sui fronti che lui stesso ha costruito: prossimo obiettivo Deutsche Bank. Così vanno le cose giudiziarie in terra di Puglia. Nella più totale distrazione di Csm, Anm, giudici prestigiosi e sommi giuristi. A nostra consolazione possiamo però ricordare che anche i magistrati impegnati a smontare le bizzarre costruzioni di cui si è detto sono pugliesi. Ragion per cui si può sostenere che pure in Puglia esiste una giurisprudenza che può ancora dirsi erede di Giuseppe Pisanelli. Erede vera, in questo caso. Fughe di notizie, quei danni irreparabili alla privacy di Giuseppe Pignatone La Repubblica, 3 aprile 2017 L’intervento del Procuratore di Roma sulla diffusione di informazioni "segrete" e gogna mediatica. Caro direttore, nel dibattito pubblico sulla giustizia, tra gli addetti ai lavori ma non solo, le "fughe di notizie" con la violazione della privacy e della reputazione che spesso ne conseguono (la cosiddetta "gogna mediatica"), vengono costantemente indicate come uno dei problemi più gravi del momento. Anche per questo mi sembra opportuno definire con maggior esattezza i termini della questione per non alimentare la confusione che - più o meno involontariamente - viene da più parti suscitata. Le vere "fughe di notizie" sono propriamente quelle che rivelano informazioni segrete (per esempio, l’iscrizione nel registro degli indagati, l’attività di intercettazione in corso). Tali propagazioni hanno come beneficiari, di regola, le persone coinvolte nelle indagini e altre volte - molto meno frequentemente di quanto si creda - gli organi di informazione. In tutti questi casi le indagini vengono più o meno gravemente danneggiate e la divulgazione delle notizie è spesso strumentale al raggiungimento di obiettivi che nulla hanno a che vedere con il processo e la ricerca della verità. Ai miei occhi, questo è un reato gravissimo. Ma viene punito dal Codice penale, all’art. 326, con la pena massima di tre anni, che non consente di adottare misure cautelari né di disporre intercettazioni per tentare di risalire alle fonti. Tale impossibilità, unita al diritto del giornalista al segreto professionale, contribuisce a rendere estremamente difficile individuare il responsabile della rivelazione, anche perché la notizia "segreta" viene necessariamente a conoscenza di un numero non esiguo di persone (magistrati, loro collaboratori, personale di polizia giudiziaria) e, ancora, perché la moderna tecnologia consente di trasmettere notizie e documenti senza lasciare traccia. Queste rivelazioni, pur estremamente gravi, sono però una parte minima di quelle che il dibattito pubblico definisce "fughe di notizie". La quasi totalità di esse, infatti, è in realtà costituita dalla divulgazione di notizie o atti non più segreti: in base alle norme, infatti, il carattere di segretezza viene meno quando l’atto può essere conosciuto dall’indagato o dal suo difensore e comunque al termine delle indagini preliminari (art. 329). Non sono quindi "segreti", per esempio, l’interrogatorio dell’indagato, l’ordinanza di misura cautelare, un sequestro o una perquisizione, l’avviso di garanzia notificato, le intercettazioni depositate e molti altri atti. Sono proprio questi gli atti e le notizie che riempiono ogni giorno le pagine dei giornali e degli altri media, non perché siano "fuggite", ma perché legittimamente in possesso di tutti i soggetti interessati. E sono queste stesse notizie, nella loro oggettività o nell’uso che i mass-media ne fanno, che possono incidere, anche in modo gravissimo, sulla privacy e sulla reputazione dei cittadini divenendo in alcuni casi un’autentica "gogna mediatica". Per questo genere di notizie non più segrete, però - e ripeto che si tratta della quasi totalità dei casi - non può essere sollevato un problema di tutela del segreto. Esiste, invece, il problema di stabilire un punto di equilibrio tra quattro ordini di interessi, tutti di rilievo costituzionale: il diritto dello Stato di svolgere le indagini sui reati, specie quelli più gravi, e punirne i responsabili; il diritto di difesa (che esige la conoscenza degli atti); il diritto all’informazione e alla libertà d’espressione; il diritto alla privacy. È evidente che è compito del legislatore trovare questo (difficile) punto di equilibrio. Ed è altrettanto evidente come fino a oggi questo compito non sia stato assolto. In estrema sintesi, il Codice si limita a stabilire il divieto di pubblicazione degli atti prima che essi siano oggetto della pubblica udienza. Si tratta però di una norma farisaica che tradisce la cattiva coscienza del legislatore. La sua violazione da parte del giornalista è punita infatti con l’ammenda da 51 a 258 euro e può essere oggetto di oblazione, perdendo così ogni rilievo penale. Il risultato dell’indifferenza del legislatore è quello che vediamo ogni giorno: il sacrificio, non sempre indispensabile, del diritto alla privacy e alla reputazione. Naturalmente, il punto più delicato e sensibile è costituito dalle intercettazioni, specie quelle ambientali, che entrano nella vita privata delle persone, rivelandone a volte anche gli aspetti più intimi. Di fronte alla gravità del problema e in assenza di iniziative legislative, un anno e mezzo fa la Procura di Roma ha impartito precise direttive alla polizia giudiziaria e ai magistrati per limitare la trascrizione delle intercettazioni - primo passaggio indispensabile per portare gli atti a conoscenza di tutti gli interessati - a quelle realmente rilevanti ai fini dell’indagine, prestando ogni possibile attenzione al rispetto della privacy delle persone intercettate, specie quando non indagate. Altre Procure hanno poi adottato direttive analoghe, tanto che il Consiglio Superiore della Magistratura ha emanato una circolare che va nella stessa direzione. E il Parlamento sta per approvare un disegno di legge delega di (parziale) riforma della disciplina delle intercettazioni il cui principio base è proprio quello di inserire negli atti processuali solo le conversazioni rilevanti. Il legislatore ha voluto compiere un deciso passo in avanti verso una maggiore tutela della privacy a scapito della libertà di pubblicare, come oggi avviene, in assenza quasi sempre di self restraint degli operatori dell’informazione, qualsiasi notizia emerga dalle indagini. Solo la concreta attuazione delle norme ci dirà se l’obiettivo sarà raggiunto e, soprattutto, che non siano sacrificati il diritto di difesa e il diritto dello Stato di perseguire i reati. Resta, ed è bene dirlo, un punto cruciale. Il concetto di "rilevanza ai fini di indagine" di una conversazione intercettata va definito in relazione al caso concreto: sarà ben difficile, per esempio, ritenere irrilevanti i contatti, anche se di per sé di contenuto lecito, di un mafioso con amministratori e uomini politici o quelli di un "faccendiere" al centro di una rete corruttiva con imprenditori e pubblici funzionari. Un’ultima considerazione di carattere più generale. Credo che vi sia un preciso interesse pubblico a che i cittadini possano conoscere, naturalmente secondo le regole di legge, quello che la magistratura fa e che abbia un rilievo nella vita sociale: perché una persona viene arrestata e poi assolta o condannata, perché un’azienda viene sequestrata, perché un delitto eclatante rimane irrisolto. Questa conoscenza, infatti, è la premessa necessaria per il controllo democratico su qualsiasi forma di potere e di attività pubblica. I giudici spiegano le loro decisioni con le sentenze; anzi, la Corte Costituzionale e la Corte di Cassazione da qualche tempo diffondono brevi note informative prima del deposito delle motivazioni. Anche le Procure a mio avviso, devono soddisfare questa esigenza di comunicazione rispettando le regole di sobrietà e di imparzialità. Il resto dipende dai mezzi di informazione, nella loro libertà e responsabilità che costituisce il vero antidoto a un’informazione inadeguata o, peggio, manipolatrice. Eugenio Albamonte (Anm): "fuori i magistrati dalle Camere, ma i condannati restano dentro" di Liana Milella La Repubblica, 3 aprile 2017 "Attenti ai paradossi, fuori i magistrati dal Parlamento, dentro i condannati". Il neo presidente dell’Anm Eugenio Albamonte annuncia che il sindacato delle toghe metterà sotto i riflettori la legge su toghe e politica, ma anticipa: "Se ostacolasse le candidature dei giudici sarebbe incostituzionale". Emiliano oggi è al Csm, sotto processo disciplinare per essersi iscritto al Pd, a un mese dalle primarie per fatti che risalgono a 10 anni fa. Era necessario? "Bisogna sgombrare il campo dalle vicende contingenti. In questi giorni la questione è stata usata come una dava, da una parte per difendere Minzolini dalle conseguenze della condanna, e dall’altra per contrastare una corsa alle primarie. Il tema è importante per la democrazia, va trattato senza sovraccarichi emotivi". Il ddl Palma, nella versione della Camera, disincentiva le candidature dei giudici? "L’Anm lavorerà a breve a un parere articolato sulla legge. Ma un sistema che ostacoli troppo l’accesso alla candidatura o il rientro in ruolo alla fine del mandato lederebbe il diritto costituzionale del magistrato, in quanto cittadino, all’elettorato passivo, arrivando all’assurdo per cui proprio il magistrato non potrebbe andare a far parte di un’assemblea parlamentare nella quale invece possono rimanere condannati definitivi con sentenza passata in giudicato". Allude a Minzolini? "Ferma la legittima decisione del Senato di mantenerlo in carica, ma essa risulta davvero stridente con il divieto di accesso allo stesso Senato per uno di noi, sia esso formale o di fatto imposto". Il nuovo ddl non parla dell’iscrizione a un partito. Ma non è la stessa cosa se uno si candida al Parlamento e si iscrive? "Sono convinto dell’assoluta inopportunità che un magistrato si iscriva a un partito. Una cosa è iscriversi, altra è candidarsi al Parlamento, visto che la Costituzione vieta il vincolo di mandato e mantiene libero l’eletto dalla disciplina del partito". E quindi condannerebbe Emiliano? "Una cosa è un giudizio di inopportunità, che peraltro è mio personale, ma mi sembra ampiamente condiviso all’interno dell’Anm, altro è aver commesso un illecito disciplinare meritevole di sanzione. Questo spetta solo al Csm stabilirlo". Da che parte sta, da quella di chi dice che il magistrato dopo la politica non può più vestire la toga, o con chi ritiene che sia un diritto? "La Corte di Strasburgo, alcuni anni fa, su un ricorso di Dell’Utri, ha detto che il pregresso incarico parlamentare non costituisce causa di ricusazione e non crea di per sé un pregiudizio di parzialità sulla decisione presa dal giudice. Questo trova la sua ragione nel fatto che la sua terzietà può essere valutata leggendo le motivazioni della sentenza". Sì, ma per Minzolini il giudice Sinisi è stato crocifisso. "Chi ha parlato sia in aula che fuori ha voluto trovare a tutti i costi nel suo pregresso impegno una scusa per motivare una decisione che era nelle prerogative del Senato prendere, per cui non c’era bisogno di delegittimare tutti i giudici che si sono pronunciati, compresi quelli della Cassazione". Cambierebbe la norma dell’ordinamento giudiziario che vieta l’iscrizione? "No, va bene com’è". Caso Ardita, il suo collega che andrà alla commemorazione di Casaleggio. Lecito o appanna la sua indipendenza? "Non vedo problemi di opportunità nell’intervenire in un’occasione pubblica esprimendo le proprie posizioni su temi delicati e attuali". Quando vedrà Orlando? E che gli dirà? "Un appuntamento ancora non c’è. Il tema più urgente è quello del ddl penale e in particolare l’avocazione obbligatoria da parte del Pg, il patteggiamento in appello, la modifica del rito abbreviato, l’utilizzo del Trojan horse per la corruzione". E le intercettazioni? "Ben venga una norma che tuteli la privacy dei soggetti terzi e dello stesso indagato per le telefonate non rilevanti. Ma la delega ha margini di ambiguità che consentirebbero in astratto anche di modificare l’uso stesso delle intercettazioni nelle indagini. Bisogna impedire che avvenga". Davigo e lei. Lui attento alle pensioni, lei ai nuovi diritti, dagli immigrati al fine vita. L’Anm si sposta a sinistra? "È ingeneroso dire che Davigo si sia occupato solo delle pensioni, ma la questione dei nuovi diritti sta emergendo ora nella sua gravità perché nell’inerzia del legislatore si chiede al giudice di dare comunque delle risposte salvo poi criticarlo aspramente fino al punto di delegittimarlo". Domenico Ciruzzi: "che errore indignarsi solo quando vanno in galera i professionisti" di Dario Del Porto La Repubblica, 3 aprile 2017 "Giusto protestare quando finiscono in galera i professori universitari e i professionisti. Ma ricordiamoci che il sistema non funziona anche quando in carcere ci vanno i poveracci", dice Domenico Ciruzzi, penalista di lungo corso che interviene nel dibattito sugli sviluppi dell’inchiesta sugli appalti. Il Riesame ha annullato 15 delle 69 ordinanze emesse dal Gip. Sabato gli ultimi tre casi, con lo storico e stimato docente di Ingegneria Luciano Di Fraia (difeso dall’avvocato Leopoldo Perone), il sindaco di Aversa Enrico De Cristofaro (difeso da Alfonso Quarto) e l’imprenditore Mario Palermo (assistito da Gaetano Inserra). È rimasto in carcere invece l’ex assessore regionale al Turismo Pasquale Sommese. Nei prossimi giorni le udienze di Riesame continuano, sarà discusso anche il ricorso del protagonista principale dell’indagine, il progettista Guglielmo La Regina, assistito da Marco Campora. Ma intanto la polemica sull’uso della custodia cautelare non si ferma. "Sono preoccupato", sottolinea Ciruzzi. Perché, avvocato? "Assistiamo a una serie di eccessi. In alcuni casi vedo provvedimenti che mi sembrano addirittura demagogici: pensiamo agli arresti domiciliari per i dipendenti del Loreto mare accusati di assenteismo, ai quali però era stato imposto di andare a lavorare". Non le sembra eccessivo parlare di misura "demagogica"? Secondo i pm invece era il "giusto contrappasso" per i truffatori. "Non lo so. Se c’è pericolo di reiterazione del reato, non ha senso mandare le persone a lavorare nello stesso ospedale. Capisco che in questo momento c’è una crisi spaventosa della politica e della pubblica amministrazione. Ma i magistrati devono resistere alla tentazione di sostituirsi ad altre articolazioni dello Stato. E sull’utilizzo della custodia cautelare occorrerebbe molta più cautela". Il procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli però ha ricordato a "Repubblica", che nel caso dell’inchiesta sugli appalti per 17 posizioni è stata ribadita la sussistenza dei gravi indizi. "Non entro nel merito di questa indagine. Noto però che l’opinione pubblica protesta in modo più eclatante quando certe vicende toccano la borghesia, il mondo universitario e i professionisti. Invece io voglio preoccuparmi allo stesso modo, se non di più, di quei poveri cristi che rimangono vittime delle stesse percentuali di errore e di cui nessuno parla". Adesso è lei che mette la borghesia sotto accusa, avvocato. "Per carità, va bene questa protesta. Sono il primo a condividerla. Ma dobbiamo ricordarci che se la macchina giudiziaria non funziona per i professori, a maggior ragione questo ingranaggio rischia di stritolare il piccolo borseggiatore, il consumatore di hashish o il presunto camorristica. Solo che quando capita a loro, nessuno si indigna". Perché i magistrati politici sono molto più pericolosi dei politici magistrati Il Foglio, 3 aprile 2017 La legge approvata dalla Camera sul rapporto tra procure e politica non basta per risolvere un dramma italiano: il giudice non deve solo essere imparziale ma deve anche apparirlo. Il caso Trani e altri esempi. Con 211 sì, 2 no e 29 astenuti, giovedì scorso la Camera dei deputati ha approvato un disegno di legge dal titolo molto ambizioso: "Disposizioni in materia di candidabilità, eleggibilità e ricollocamento dei magistrati in occasione di elezioni politiche e amministrative nonché di assunzione di incarichi di governo nazionale e negli enti territoriali". Il testo, che ora passerà al Senato, dovrebbe essere, nelle intenzioni, una prova di forza del Parlamento per rispondere anche a una lista di raccomandazioni inviata due mesi fa dall’organo anticorruzione del Consiglio d’Europa, che ha rimproverato l’Italia di non essere sufficientemente attrezzata (ma va) per limitare la presenza dei giudici in politica: "La questione dell’attività politica dei magistrati deve essere affrontata in tutti i suoi aspetti a livello legislativo, dato il suo impatto sui princìpi fondamentali di indipendenza e imparzialità della magistratura". La legge approvata alla Camera non vieta ai magistrati di fare politica, come qualcuno ha provato a far credere, ma prevede che il magistrato che si presenta alle elezioni dovrà essere in aspettativa da almeno 6 mesi e non potrà candidarsi nella circoscrizione (o nell’ambito territoriale) elettorale dove ha svolto le funzioni nei 5 anni precedenti, mentre non è previsto nessun divieto per i magistrati che scelgono di candidarsi alle elezioni se si sono dimessi o sono andati in pensione almeno da due anni. La legge dunque interviene in maniera parziale su un problema che chiunque abbia a cuore la Costituzione dovrebbe considerare prioritario: la necessità per i giudici e i magistrati di rispettare il principio di terzietà imposto dall’articolo 111 ("Il magistrato non deve solo essere ma deve anche apparire imparziale", dice Carlo Nordio). La discussione intorno al disegno di legge approvato in Parlamento rischia però di portarci fuori strada e di farci perdere quello che è il vero problema dell’intreccio tra politica e magistratura. La partecipazione dei magistrati alla vita pubblica è un problema prioritario e bisogna essere parecchio in malafede per capire che un magistrato che deve essere e apparire imparziale una volta che scende in campo nel mondo della politica compromette gran parte del lavoro svolto nel passato: se Tizio si candida con un partito, come si fa a non pensare che la sua attività da magistrato o da giudice non sia stata viziata in modo irreparabile da un pregiudizio di fondo? E se quel magistrato si candida contro i soggetti politici che ha indagato nel passato, come la mettiamo? Da un certo punto di vista, senza voler essere neppure troppo paradossali, i magistrati politicizzati che scendono in campo e si buttano in politica andrebbero non limitati ma forse persino moltiplicati: un giudice politicizzato è meno pericoloso se si butta in politica (al massimo spara fregnacce), mentre diventa più pericoloso se non fa il politico e si traveste da magistrato o giudice super partes, pur essendo culturalmente schierato e in un certo senso politicamente militante. Il problema è tutto qui, in fondo, e non c’è nessun ddl che possa risolvere un problema che non è di carattere legislativo. Ma che è di carattere culturale. Più che concentrarsi sui magistrati che entrano in politica occorrerebbe infatti concentrarsi sui magistrati che fanno politica attraverso l’esercizio dell’azione penale e che interpretano il proprio ruolo in un modo pericolosamente distorto, seguendo più il modello degli ayatollah che quello dei sacerdoti. Nel mondo della magistratura il modello del sacerdote, ovvero del pm che si occupa di combattere l’illegalità e non l’immoralità evitando di portare avanti azioni che potrebbero danneggiare il principio di terzietà incarnato dal proprio ruolo, prevale nettamente sul modello dell’ayatollah, ovvero sul modello del magistrato tribuno che tende a esorbitare da quegli spazi fisiologici che dovrebbero in teoria spettare al potere giudiziario. Ma nonostante questo è sufficiente che un qualche ayatollah delle procure tradisca il suo credo politico per delegittimare un’intera categoria. "Il populismo penale sul piano specifico della giurisdizione - ha scritto magnificamente la scorsa settimana sul Foglio il professor Giovanni Fiandaca - è un fenomeno che ricorre tutte le volte in cui il magistrato pretende, anche grazie a una frequente esibizione mediatica, di assurgere ad autentico rappresentante o interprete dei veri interessi e delle aspettative di giustizia dei cittadini, e ciò in una logica di concorrenza-supplenza e in alcuni casi di aperta contrapposizione rispetto al potere politico ufficiale. Non è un caso, allora, che questa figura di magistrato-tribuno, oltre ad impersonare di fatto un ruolo ibrido di attore giudiziario-politico-mediatico, finisca col cedere alla tentazione di entrare in politica e talvolta col dare persino vita a movimenti antisistema di impronta personale". La questione in fondo è tutta qui ed è questa una delle ragioni che rendono l’Italia, per gli investitori stranieri, un paese meno attrattivo rispetto a quello che potrebbe essere: il fatto che in Italia esista una magistratura fortemente politicizzata (do you know le correnti della magistratura?) che garanzia dà ai cittadini di essere giudicati in modo terzo e imparziale, sulla base cioè di indizi processuali e non sulla base di pregiudizi ideologici? L’utilizzo della giustizia come lotta di classe è un principio non astratto ma reale e non c’è corrente della magistratura di sinistra che non ammetta che l’azione penale debba essere sempre affiancata da un’azione uguale di resistenza costituzionale. In altre parole: chiunque venga considerato dalla magistratura una minaccia dei valori incarnati dalla Costituzione diventa un bersaglio a prescindere dai reati che potrebbe aver commesso. Mauro Mellini, bravo e provocatorio avvocato romano, fondatore dei Radicali, autore di un formidabile libro sulla giustizia scritto per Bonfirraro editore, "Il Partito dei Magistrati", ha sintetizzato il problema con una formula efficace: l’interpretazione evolutiva del diritto. Scrive Mellini: "Dal punto di vista normativo-culturale, il concetto di interpretazione evolutiva per i magistrati rappresenta un modo indiretto per travalicare l’alveo della propria funzione giurisdizionale e per occupare uno spazio proprio della lotta politica e del potere legislativo. E sotto molti punti di vista, l’interpretazione evolutiva esprime una precisa tendenza del pm: quella di voler esercitare, in più circostanze, la propria attività di supplenza". Il diritto del giudice di essere guidato nella valutazione di un reato non soltanto da una prova provata ma anche da una convinzione etica è un fatto che prescinde dall’attività esplicitamente politica dei magistrati. E il dramma del sistema politico italiano è che spesso sono gli stessi che combattono a parole la politicizzazione della magistratura a offrire alla magistratura strumenti per poter agire in modo discrezionale, e dunque a volte anche politico. Il problema della politicizzazione della magistratura (chiedetelo a un qualunque imprenditore) è più grave (neologismo) della magistraturizzazione della politica e fino a quando nelle procure italiane l’appartenenza a una corrente verrà considerata un criterio fondamentale per poter fare carriera (persino più del merito) continueremo ad avere magistrati ayatollah, pronti a confondere moralità e legalità e pronti a tradire una vecchia lezione, ormai dimenticata, consegnata nel 1991 da Giovanni Falcone nel corso di una storica audizione a Palazzo dei Marescialli. "Io posso anche sbagliare, ma sono del parere che nei fatti, nel momento in cui si avanza un’accusa gravissima riguardante personaggi di un certo spessore o del mondo imprenditoriale e tutto quello che si vuole... o hai elementi concreti oppure è inutile azzardare ipotesi indagatorie, ipotesi di contestazione di reato che inevitabilmente si risolvono in un’ulteriore crescita di prestigio nei confronti del soggetto che diventerà la solita vittima della giustizia del nostro paese". Prendete il caso Trani, il caso Consip e molti altri processi più forti sul piano mediatico che sul piano processuale, rileggete le parole di Falcone e provate a vedere l’effetto che fa, tenendo da parte con voi l’articolo 111 della Costituzione ogni processo deve svolgersi davanti a un giudice terzo e imparziale. Domanda retorica: siamo sicuri che in Italia sia sempre così? Protezione internazionale, scambi facilitati. Csm e Interno si parlano di Marzia Paolucci Italia Oggi, 3 aprile 2017 Un protocollo d’intesa siglato tra il vicepresidente Legnini e Minniti. Un protocollo di intesa per facilitare gli scambi informativi nel settore della protezione internazionale tra ministero dell’Interno e Consiglio superiore della magistratura. È stato siglato il 23 marzo scorso dal vice presidente del Csm Giovanni Legnini e il ministro dell’Interno Marco Minniti intervenuto al plenum straordinario del Consiglio Superiore della Magistratura convocato per il protocollo d’intesa in tema di richiedenti asilo. Si tratta della prima collaborazione integrata tra organizzazione e giurisdizione sull’immigrazione in un reciproco scambio di informazioni per facilitare l’applicazione del decreto legge sugli immigrati n. 13 del 17 febbraio 2017 in questi giorni in discussione alle Camere. Un accordo che si inserisce nell’ambito del lavoro avviato dalla VII Commissione del Csm sull’organizzazione degli uffici presieduta da Claudio Maria Galoppi che in sede di plenum ha menzionato una serie di interventi: "La creazione all’interno del nuovo portale del Consiglio di un’area tematica su giustizia e protezione internazionale, il rilevamento statistico in tema di flussi tra giudizi pendenti e definiti, un confronto tra le buone prassi degli uffici giudiziari e di recente, l’adozione il 15 marzo scorso di linee guida sempre aggiornate per gli uffici giudiziari impegnati in procedimenti di protezione internazionale". Il Viminale metterà a disposizione degli uffici giudiziari, tramite il portale del Consiglio superiore della magistratura, tutte le informazioni sui paesi di origine dei richiedenti asilo elaborate dalla Commissione nazionale per il diritto di asilo attraverso l’Unità Coi (Country of origin information). Gli uffici giudiziari, di rimando, si impegnano a comunicare al Viminale i provvedimenti conclusivi dei procedimenti. Il decreto legge al vaglio del Parlamento prevede infatti che sia lo stesso Consiglio superiore della magistratura a occuparsi dell’organizzazione di nuove sezioni specializzate in immigrazione che nasceranno dal testo una volta licenziato dal Parlamento. Le sedi del "magistrato dei migranti" saranno quelle dei tribunali di Bari, Bologna, Brescia, Cagliari, Catania, Catanzaro, Firenze, Lecce, Milano, Palermo, Roma, Napoli, Torino e Venezia. Per il vicepresidente Legnini si tratta di "una collaborazione, quella tra il Csm e il Ministero dell’interno che rientra in una più ampia strategia finalizzata a ridurre i tempi della tutela giurisdizionale e a garantire effettività alla protezione umanitaria dei migranti. Ciò si comprende dal momento che i presupposti per la protezione umanitaria sul territorio italiano dipendono, come è a tutti noto, anche dall’accertamento delle condizioni socioeconomiche e politiche dei Paesi di origine dei migranti". Il Ministro Minniti, primo ministro ad essere stato invitato a palazzo dei Marescialli, ha apprezzato la linea dello "scambio di informazioni, arricchirà il dialogo", ha sottolineato, "la circolarità delle informazioni è positiva, il nostro Paese ne ha molto bisogno. Abbiamo di fronte un fenomeno epocale, quello dell’immigrazione, che lo è stato in passato e lo sarà anche in futuro. Non ci sono soluzioni semplicistiche. Una grande democrazia come l’Italia non può inseguire, non può subire, ma deve governare un simile fenomeno epocale. Se si affronta il tema del contrasto e della riduzione significativa della migrazione illegale, possiamo affrontare il tema della migrazione legale. Mediamente nel nostro paese occorrono due anni per sapere se un richiedente asilo ha diritto, quindi intervenire su questi tempi è cruciale anche per l’equilibrio dei territori e delle comunità che ospitano i migranti. In una democrazia", ha ribadito Minniti il ministro dell’Interno, "deve tenere conto di entrambi i diritti: quello dei richiedenti asilo e, dall’altro, quelli delle comunità che li ospitano". "Carcere a chi impone la dieta vegana ai figli", la proposta di legge di Elvira Savino (Fi) metronews.it, 3 aprile 2017 Reclusione fino ad un anno per i genitori che impongono ai minori di 16 anni la dieta vegana, con pena che può andare da due anni e mezzo a quattro se questo è causa di malattia o di lesione personale permanente; e da quattro a sei anni se invece la conseguenza è la morte. Pene aumentate di 12 mesi quando il bambino ha meno di tre anni. Lo chiede una proposta di legge presentata dalla deputata di Forza Italia Elvira Savino, sanzionando "chiunque impone o adotta nei confronti di un minore degli anni sedici, sottoposto alla sua responsabilità genitoriale o a lui affidato per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, una dieta alimentare priva di elementi essenziali per la crescita sana ed equilibrata". "Credenza diffusa". "Ormai da anni e, in modo particolare, nell’ultimo decennio, si è andata diffondendo in Italia - sottolinea Savino - la credenza che una dieta vegetariana, anche nella sua espressione più rigida della dieta vegana, apporti cospicui benefìci alla salute dell’individuo. Molti decidono di seguire questo tipo di alimentazione, priva di carne, di pesce e di alimenti di origine animale e loro derivati, anche per motivazioni religiose o etiche e per rispetto della vita degli animali. Molti altri lo fanno soltanto per adeguarsi a una moda". Posizioni rese più forti anche per "interventi e dichiarazioni, spesso privi di fondamento scientifico, che condannano senza appello il consumo di carne e propagandano regimi alimentari che lo escludono". Se queste scelte vanno rispettate quando ci si trova in presenza di "un adulto consapevole e capace di autodeterminarsi, il problema - denuncia la deputata azzurra - sorge quando ad essere coinvolti sono i minori", ai quali da "genitori che seguono diete vegane o vegetariane, viene imposta un’alimentazione che esclude categoricamente e imprudentemente alimenti di origine animale e loro derivati". Un comportamento che cozza con le indicazioni dei medici nutrizionisti, che "unanimemente sconsigliano da sempre di far seguire queste diete ai bambini, agli adolescenti, alle donne in stato di gravidanza e durante l’allattamento". "Anche carne e pesce. "I bambini, per crescere sani e ben nutriti, devono cibarsi anche di carne e pesce" e "pur potendosi compensare l’assunzione di amminoacidi con altri alimenti, rimane aperto il problema della carenza di vitamina B12 e di ferro, che può comportare considerevoli problemi neurologici e anemia". Impugnazioni pro imputato: il sistema resta favorevole, ma occhio alla procedura di Angelo Costa Italia Oggi, 3 aprile 2017 Sentenze della Cassazione su revisione, pronuncia sulle spese e sanzioni sostitutive. Un sistema che resta a favore dell’imputato. Il sistema delle impugnazioni è stato soggetto, in questi ultimi mesi, ad una attenta analisi da parte dei giudici della Cassazione che hanno evidenziato come tra revisione, pronuncia sulle spese e sanzioni sostitutive, resti, quello delle impugnazioni, un sistema certamente a tutela dell’imputato, anche se bisogna sempre prestare attenzione alle situazioni procedurali. Revisione del sistema. Le S.u. penali della Cassazione, con sentenza n. 13199 dello scorso 17 marzo hanno affermato che è ammessa, a favore del condannato, la richiesta per la correzione dell’errore di fatto contenuto nella sentenza con cui la Corte abbia dichiarato inammissibile o rigettato il suo ricorso contro la decisione negativa della corte di appello pronunciata in sede di revisione. Gli Ermellini hanno premesso che l’istituto della revisione si inserisce nel sistema delle impugnazioni come un mezzo straordinario di difesa del condannato, per porre rimedio agli errori giudiziari, eliminando le condanne che siano riconosciute ingiuste, attraverso un giudizio che segue alla formazione del giudicato, la cui base giustificativa è di ordine prevalentemente pratico, tanto che l’ordinamento, sulla base di scelte di politica legislativa, sacrifica "il valore (...) del giudicato in nome di esigenze che rappresentano l’espressione di valori superiori". Tra i valori fondamentali a cui la legge attribuisce priorità, rispetto alla regola della intangibilità del giudicato, vi è la "necessità dell’eliminazione dell’errore giudiziario, dato che corrisponde alle più profonde radici etiche di qualsiasi società civile il principio del favor innocentiae, da cui deriva a corollario che non vale invocare alcuna esigenza pratica - quali che siano le ragioni di opportunità e di utilità sociale ad essa sottostanti - per impedire la riapertura del processo allorché sia riscontrata la presenza di specifiche situazioni ritenute dalla legge sintomatiche della probabilità di errore giudiziario" (Sez. U, n. 624 del 26/9/2001). I giudici di piazza Cavour hanno altresì sottolineato come un indirizzo maggioritario neghi la proponibilità del ricorso straordinario nei confronti di pronunce della Corte di cassazione emesse nel giudizio di revisione, mentre una recente sentenza, invece, lo ammette. Secondo un filone giurisprudenziale l’orientamento che afferma l’estraneità del ricorso straordinario alle decisioni della Corte conclusive di un giudizio di revisione - sul presupposto che lo stesso risulterebbe azionabile solo in rapporto a sentenze per effetto delle quali diviene definitiva una sentenza di condanna - non può essere condiviso, non trovando solida e convincente saldatura con il dato normativo espresso. Pronuncia sulle spese. La stessa Cassazione (sez. VI civile - 3, sentenza del 17 marzo 2017, n. 7010), sempre in tema di impugnazioni, ha affermato che dovrà provvedere anche circa le spese giudiziali quel giudice che declinerà la propria competenza, poiché la decisione in tema di competenza va a definire il processo davanti a quel giudice. Infatti, nel regime di cui alla legge 18 giugno 2009, n. 69, il giudice di merito, nel caso in cui declini la competenza con l’ordinanza di cui al primo comma dell’art. 279 cod. proc. civ. nel processo di cognizione ordinaria, o con un provvedimento reso in altro rito, sarà quindi chiamato a provvedere sulle spese giudiziali, in quanto la decisione chiude il processo davanti a lui e considerato che il riferimento alla sentenza, rimasto nel primo comma dell’art. 91 cod. proc. civ., è da intendere nel senso di provvedimento che chiude il processo davanti al giudice che lo pronuncia. Sanzioni sostitutive. Ed infine, sempre la Cassazione (sez. Unite penali, sentenza del 17 marzo 2017, n. 12872) ha affermato che il giudice di secondo grado non può applicare le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi nel caso in cui nell’atto di appello non risulti formulata alcuna specifica richiesta con riguardo a tale punto. I giudici hanno richiamato due indirizzi giurisprudenziali: quello contrario all’applicabilità delle sanzioni sostitutive se il relativo tema non sia stato specificamente devoluto, trae argomenti dal carattere eccezionale dell’art. 597, comma 5, cod. proc. pen., e dall’autonomia della questione relativa alla sostituzione della pena detentiva, tale da non poter essere ritenuta compresa nelle doglianze inerenti al trattamento sanzionatorio; quello favorevole fa leva, oltre che sull’assenza di un divieto normativo, da un lato sul carattere generale del potere discrezionale attribuito al giudice dall’art. 58, legge 24 novembre 1981, n. 689, dall’altro sulla natura solo qualitativamente diversa delle sanzioni sostitutive rispetto alle pene e sulla loro minor consistenza rispetto agli altri benefici concedibili di ufficio (quale in particolare la sospensione condizionale della pena), nonché sulla unitarietà del punto relativo alle varie componenti del trattamento sanzionato-rio. Il secondo orientamento, favorevole all’applicabilità delle sanzioni sostitutive in appello anche in caso di mancata devoluzione specifica del relativo tema. Al principio dell’adeguamento della pena alle connotazioni oggettive e soggettive del caso concreto, che fa leva sull’interpretazione estensiva della deroga all’effetto devolutivo dell’appello prevista dal citato art. 597, comma 5, è stato coniugato, nella successiva evoluzione giurisprudenziale, il richiamo al concetto dell’unitarietà del punto relativo al trattamento sanzionatorio. Diffamazione tramite internet, competenza dove è stata commessa una parte dell’azione di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 3 aprile 2017 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 22 febbraio 2017 n. 8482. Nei reati di diffamazione tramite la rete internet, ove sia impossibile stabilire il luogo di consumazione del reato e sia stato invece individuato quello in cui il contenuto diffamatorio è stato caricato come dato informatico, per poi essere immesso in rete, la competenza territoriale va determinata, ai sensi dell’articolo 9, comma 1, del Cpp, in relazione al luogo predetto, in cui è avvenuta una parte dell’azione. Lo ha stabilito la Cassazione con la sentenza n. 8482 del 2017. La Cassazione sviluppa alcune interessanti considerazioni sul tema della individuazione dei criteri per stabilire la competenza "per territorio" in caso di diffamazione commessa via internet. Non è dubitabile, in proposito, che l’immissione di scritti lesivi dell’altrui reputazione nel sistema internet integra il reato di diffamazione aggravata. In tal caso, la comunicazione deve intendersi potenzialmente effettuata erga omnes, sia pure nel ristretto - ma non troppo ambito - di tutti coloro che abbiano gli strumenti, la capacità tecnica e, nel caso di siti a pagamento, la legittimazione a connettersi, consumandosi il reato nel momento in cui il soggetto crei o utilizzi lo spazio web per diffondere il messaggio: ciò perché quando il messaggio diffamatorio è inserito in un sito internet, per sua natura destinato a essere normalmente visitato da un numero indeterminato di soggetti, deve presumersi la sussistenza del requisito della "comunicazione con più persone", a nulla rilevando l’astratta e teorica possibilità che esso non sia letto da alcuno (cfr. Sezione V, 4 aprile 2008, Tardivo). Ai fini della competenza per territorio, il locus commissi delicti della diffamazione telematica è quindi da individuare in quello in cui le offese e le denigrazioni sono percepite da più fruitori della rete e, dunque, nel luogo in cui il collegamento viene attivato e ciò anche nel caso in cui il sito web sia stato registrato all’estero, purché l’offesa sia stata percepita da più fruitori che si trovano in Italia (cfr. Sezione V, 17 novembre 2000, Pm in proc. ignoti; Sezione V, 21 giugno 2006, Cicino e altro; Sezione II, 21 febbraio 2008, Buraschi e altro). In questa prospettiva, in ragione delle modalità tecniche della trasmissione, per la competenza, è normalmente necessario fare ricorso ai criteri suppletivi fissati dal comma 2 dell’articolo 9 del Cpp, ossia il luogo di domicilio dell’imputato (cfr. puntualmente Sezione I, 21 dicembre 2010, Confl. in proc. Gennari). Ciò non esclude, e in questo senso è la sentenza in commento, che, prima di ricorrere a detti criteri (residualmente) suppletivi dettati dalla norma, vi possano essere gli spazi per il preferenziale ricorso al criterio di cui all’articolo 9, comma 1, del Cpp, avendo cioè riguardo al luogo in cui è avvenuta una parte dell’azione: ciò è ovviamente possibile solo allorquando emergano indicazioni precise sul luogo ove il contenuto diffamatorio è stato caricato come dato informatico. In precedenza, nello stesso senso, Sezione V, 19 maggio 2015, Vulpio, la quale ha tratto conforto argomentativo dalla recente sentenza delle Sezioni unite 26 marzo 2015, laddove, intervenendosi sul tema della competenza per territorio in ordine al reato di cui all’articolo 615 ter del Cp, si è affermato che quando un soggetto accede a un sistema informatico, il luogo del fatto deve individuarsi non nella allocazione fisica del server host, bensì laddove il soggetto, dotato di un hardware in grado di collegarsi con la rete, effettui l’accesso in remoto. Proprio i criteri enunciati dalle Sezioni unite possono essere quindi mutuati per il caso di upload di un articolo a contenuto diffamatorio, che pertanto deve ritenersi effettuato non nel luogo dove si trova l’elaboratore elettronico che conserva e rende disponibili i dati per l’accesso degli utenti, bensì nel luogo in cui il caricamento del dato "informatico" viene effettivamente eseguito. Niente licenziamento se la denuncia di fatti illeciti aziendali è senza intento calunnioso Il Sole 24 Ore, 3 aprile 2017 Lavoro - Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto - Licenziamento - Ipotesi di denuncia di condotte illecite del datore - Giusta causa di recesso - Esclusione - Limiti - Intento calunnioso del lavoratore. La denuncia da parte del lavoratore di fatti illeciti avvenuti in azienda, astrattamente integranti ipotesi di reato, non integra di per sé condotta sanzionabile con un licenziamento per giusta causa, salva l’ipotesi in cui il lavoratore abbia consapevolmente inteso accusare il datore di lavoro di fatti non accaduti o dallo stesso non commessi, quindi con intento calunnioso. [Nel caso in esame la Suprema corte ha ritenuto illegittimo il licenziamento per giusta causa intimato al lavoratore a seguito della denuncia all’Autorità giudiziaria in merito all’utilizzo illegittimo della cassa integrazione straordinaria e ad altre violazioni relative alla disciplina legale e contrattuale del lavoro straordinario, alla utilizzazione di fondi pubblici e alla normativa sulla intermediazione di manodopera]. • Corte cassazione, sezione Lavoro, sentenza 16 febbraio 2017 n. 4125. Lavoro - Lavoro subordinato - Obbligo di fedeltà del lavoratore - Interpretazione - Riferimento ai canoni generali di correttezza e buona fede - Licenziamento intimato a seguito di condotta ritenuta diffamatoria - Illegittimità. L’obbligo di fedeltà, la cui violazione può rilevare come giusta causa di licenziamento, si sostanzia nell’obbligo di un leale comportamento del lavoratore nei confronti del datore di lavoro e va collegato con le regole di correttezza e buona fede di cui agli articoli 1175 e 1375 c.c. Il lavoratore, pertanto, deve astenersi non solo dai comportamenti espressamente vietati dall’articolo 2105 c.c., ma anche da tutti quelli che, per la loro natura e le loro conseguenze, appaiono in contrasto con i doveri connessi all’inserimento del lavoratore nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa o creano situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi dell’impresa stessa o sono idonei, comunque, a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto stesso. [I giudici della Corte Suprema hanno dichiarato illegittimo il licenziamento intimato alla lavoratrice accusata di aver posto in essere un comportamento diffamatorio nei confronti del proprio datore di lavoro, per avere la stessa indirizzato alla Procura della Repubblica e al ministero del Lavoro e delle Politiche sociali un esposto con cui aveva duramente criticato l’impresa datrice di lavoro perché, malgrado fosse in continua crescita economica, aveva fatto "impropriamente" ricorso a procedure di Cassa integrazione straordinaria e mobilità, così realizzando - a suo dire - una "truffa" ai danni dello Stato]. • Corte cassazione, sezione Lavoro, sentenza 17 gennaio 2017 n. 996. Lavoro - Lavoro subordinato - Obbligo di fedeltà del lavoratore - Interpretazione - Canoni generali di correttezza e buona fede - Fatto illecito del datore - Denuncia da parte del lavoratore - Violazione obbligo di fedeltà - Esclusione. Qualora, nell’ambito di un rapporto di lavoro, il dipendente abbia sollecitato l’intervento dell’autorità giudiziaria, nella convinzione che azioni illecite siano state consumate all’interno dell’azienda, si deve escludere la violazione dell’obbligo di fedeltà e dei canoni generali di correttezza e buona fede, in quanto l’agire del lavoratore rientra nel valore civico e sociale che l’ordinamento riconosce all’iniziativa del privato cittadino che si attiva per segnalare il compimento di azioni delittuose. Pertanto, se l’azienda non ha elementi che smentiscano il lavoratore e/o che ne dimostrino un intento calunnioso nel presentare una denuncia od un esposto all’A.G., deve astenersi dal licenziarlo, non potendosi configurare come giusta causa la mera denuncia di fatti illeciti commessi dal datore di lavoro, salvo che ne risulti il carattere calunnioso e/o diffamatorio. • Corte cassazione, sezione Lavoro, sentenza 8 luglio 2015 n. 14249. Lavoro - Lavoro subordinato - Obbligo di fedeltà - Denuncia all’Autorità giudiziaria di fatti illeciti del datore - Violazione - Esclusione. Deve escludersi che l’obbligo di fedeltà imposto al lavoratore ai sensi dell’art. 2105 c.c., interpretato alla luce dei canoni generali di correttezza e di buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375c.c., sia tale da imporre al lavoratore stesso di astenersi dal denunciare fatti illeciti che ritenga essere stati consumati all’interno dell’azienda, giacché altrimenti "si correrebbe il rischio di scivolare verso non voluti ma impliciti riconoscimenti di una sorta di dovere di omertà (ben diverso da quello di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c.) che, ovviamente, non può trovare la benché minima cittadinanza nel nostro ordinamento". Ne risulterebbe leso il superiore interesse pubblico alla collaborazione del cittadino nel denunciare fatti o comportanti illeciti e alla giusta repressione degli stessi. • Corte cassazione, sezione Lavoro, sentenza 14 marzo 2013 n. 6501. Campania: carceri super affollate, grido d’allarme della Uspp Roma, 3 aprile 2017 Auricchio: "mancano anche mille agenti". "Aumenta in modo esponenziale il sovraffollamento negli istituti di pena delia Campania: ci sono 7300 detenuti di cui solo 2150 a Poggioreale. A questo si contrappone la grave carenza di organico tra la Polizia Penitenziaria nella quale mancano quasi 1.000 agenti in regione: circa 300 solo a Poggioreale". Lo sottolinea, in una nota, Ciro Auricchio, segretario regionale dell’Uspp (Unione Sindacati di Polizia Penitenziaria), secondo il quale "bisogna registrare che per colpa dei tagli alla spesa pubblica risulta notevolmente ridotta la spesa per la manutenzione delle carceri i per cui gli ambienti risultano essere sempre più insalubri è obsoleti il tutto rende sempre più gravoso il già difficile ed estenuante lavoro delia Polizia Penitenziaria all’interno degli istituti di pena". Intanto l’associazione Antigone commenta il progetto che vede la realizzazione dì un nuovo istituto penitenziario nel comune di Nola: "Una Prison Valley all’italiana. È quella che rischia di nascere nella zona di Napoli dove sarebbe prevista la costruzione di un nuovo carcere (più precisamente a Nola). Un maxi istituto - continua Antigone - per 1.200 detenuti che facilmente potrebbero diventare 2400 considerando che da progetto le celle sono singole. Un provvedimento che vede la nostra forte contrarietà e quella della Fondazione Giovanni Michelucci Onlus per la dimensione, il totale isolamento dalla città, la scelta della zona che presenta problemi di carattere idrogeologico e di inquinamento, nonché la vaghezza relativamente alle attività lavorative che saranno svolte e ai rapporti con il territorio su questo fronte. Un progetto in aperto contrasto con le indicazioni provenienti dal rapporto conclusivo degli Stati Generali dell’esecuzione penale". Milano: l’Idroscalo più bello grazie a 10 detenuti quartieritranquilli.it, 3 aprile 2017 Il parco Idroscalo sarà risistemato dopo l’inverno da dieci detenuti delle carceri di Bollate e Opera: il progetto prevede il riordino del verde nelle aree rimaste incolte e il ripristino di piccole cose, come panchine o muretti logorati dal tempo. La collaborazione che ha lo scopo di sviluppare concretamente un percorso di inclusione sociale e reinserimento, promuovendo l’attività lavorativa dei detenuti, si è potuta realizzare grazie a un protocollo stilato tra Città Metropolitana di Milano e Ministero della Giustizia, Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per la Lombardia e un accordo che coinvolge anche il Comune di Milano, L’iniziativa, grazie alla collaborazione del Comune di Milano Ufficio Celav, è un progetto formativo: con un periodo di tirocinio in borsa lavoro propedeutico all’apprendimento di un mestiere. Partner del progetto: Comune di Segrate e Sodexo per la somministrazione dei pasti; un privato anonimo che grazie ad una importante donazione a favore del Prap ha permesso di acquistare il materiale da lavoro; la catena Brico Io per la fornitura fortemente scontata del materiale stesso; l’Associazione Giacche Verdi Onlus per il supporto logistico organizzativo; i volontari attivi nel Parco; e tutte le persone che collaborano ogni giorno per la riuscita dell’iniziativa. Fossano (Cn): incontro in carcere con Elvio Fassone per parlare del "Fine pena mai" targatocn.it, 3 aprile 2017 Il 19 aprile alle 17.30 presso il carcere di Fossano. Prenotazione obbligatoria. Mercoledì 19 aprile, alle 17,30, si terrà presso la Casa di reclusione di Fossano (via San Giovanni Bosco n. 48) la presentazione del libro "Fine pena: ora" di Elvio Fassone (Sellerio, 2016). Nel 1985 a Torino si celebra un maxi processo alla mafia catanese che dura quasi due anni: tra i capi condannati all’ergastolo c’è "Salvatore", con il quale il presidente della Corte d’Assise stabilisce un rapporto di reciproco rispetto e quasi di fiducia. Il giorno dopo la sentenza di condanna il giudice gli scrive d’impulso e gli manda un libro. Si tratta di un gesto di umanità per non abbandonare un uomo che dovrà passare in carcere il resto della sua vita. La legge è stata applicata, ma questo non impedisce al giudice di interrogarsi sul senso della pena e, in particolare, dell’ergastolo ostativo. Da allora ha inizio una corrispondenza tra l’ergastolano e il suo giudice che è durata ventisei anni. Il libro non è "fiction" e neppure un saggio teorico sulla detenzione, ma una riflessione su come conciliare la domanda di sicurezza sociale e la detenzione a vita con il dettato costituzionale del valore riabilitativo della pena, senza dimenticare l’attenzione al percorso umano di qualsiasi condannato. In Italia, anche la pena all’ergastolo prevede che il condannato possa, a certe condizioni e dopo almeno 26 anni di carcere, avere accesso a una serie di benefici: il regime di semilibertà, la libertà condizionale, e usufruire di determinati tipi di permessi. Si parla di ergastolo ostativo, invece, quando l’accesso a tali benefici e alle misure alternative al carcere sono negati. È il caso previsto all’articolo 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario, "Divieto di concessione dei benefici e accertamento della pericolosità sociale dei condannati per taluni delitti": i condannati per reati gravi, come ad esempio terrorismo, associazione mafiosa, sequestro a scopo di estorsione o associazione per traffico di stupefacenti, non possono usufruire di benefici nel caso in cui rifiutino di collaborare con la giustizia o qualora la loro collaborazione sia giudicata irrilevante. A fine 2016 i detenuti italiani condannati all’ergastolo erano 1.677, di cui a ben 1.217 sono stati riconosciuti reati "ostativi" (con un trend in aumento), mentre solo 460 debbono espiare ergastoli "normali". In Piemonte erano 93 gli ergastoli ostativi su 122 complessivi (con una leggera diminuzione rispetto al mese di marzo 2016). È in corso un grande dibattito su questa forma di ergastolo che molti vorrebbero abolire poiché considerato una sorte di condanna a morte sotto mentite spoglie, una "morte per pena" che, in uno stato di diritto, non dovrebbe esistere e che contraddice il terzo comma dell’articolo 27 della nostra Costituzione: "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". Diceva Aldo Moro "la pena non è la passionale e smodata vendetta dei privati: è la risposta calibrata dell’ordinamento giuridico e, quindi, ha tutta la misura propria degli interventi del potere sociale che non possono abbandonarsi ad istinti di reazione e di vendetta, ma devono essere pacatamente commisurati alla necessità, rigorosamente alla necessità, di dare al reato una risposta quale si esprime in una pena giusta". All’incontro, che è organizzato dalla Presidenza del Consiglio comunale di Fossano e dai Garanti regionale e comunale dei diritti delle persone private della libertà personale, in collaborazione con la Direzione del carcere, con l’Assessorato alla Cultura del Comune e il Circolo dei lettori di Fossano, sarà presente l’autore Elvio Fassone. Già magistrato e componente del Consiglio Superiore della Magistratura, senatore della Repubblica per due legislature, Fassone è autore di numerose pubblicazioni in materia penitenziaria e su temi politico-istituzionali (Piccola grammatica della grande crisi, 2009; Una costituzione amica, 2012) e ha il merito storico di aver ragionato sugli istituti penali a custodia attenuata già oltre quarant’anni fa, auspicandone l’apertura. Con l’autore del volume interverranno la Presidente del Consiglio comunale Rosita Serra, il Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale Bruno Mellano e la Garante di Fossano Rosanna Degiovanni, la Direttrice della Casa di reclusione Giuseppina Piscioneri, l’Assessore alle Politiche culturali Paolo Cortese e il Docente di Diritto Penale presso l’Università di Torino Marco Pelissero. Chi intende partecipare deve obbligatoriamente prenotarsi in anticipo - per via dei posti limitati e della necessaria autorizzazione all’ingresso da parte della Magistratura di Sorveglianza - scrivendo una mail a: garante.detenuti@comune.fossano.it. Cosenza: presentazione del libro "Le cayenne italiane. Pianosa e l’Asinara" da Yairaiha Onlus Ristretti Orizzonti, 3 aprile 2017 Doppio appuntamento per la presentazione del libro "Le cayenne italiane. Pianosa e l’Asinara" di Pasquale De Feo, a Cosenza, mercoledì 5 aprile alle ore 18.00, presso il cpoa Rialzo e all’Unical, aula H1, giovedì 6 aprile alle ore 11.00. Ne discutono: Francesca de Carolis, giornalista, scrittrice, ex TG1, ex Radio1. Attualmente si occupa di carceri, nella speranza di contribuire a limare le grate della nostra mente; Franca Garreffa, docente di Sociologia della devianza, Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali; Sandra Berardi, Presidente dell’Associazione per i diritti dei detenuti Yairaiha Onlus. "Il libro raccoglie testimonianze e memorie sull’esperienza del 41 bis nelle sezioni Agrippa di Pianosa e Fornelli dell’Asinara nei primi anni novanta del Novecento. Benché questi luoghi specifici siano stati chiusi, circa settecento persone, tuttora, sono sottoposte al regime del 41 bis, in totale spregio della Costituzione e del buon senso. E il corpo speciale, Gruppo Operativo Mobile, addestrato per gestire le sezioni a 41 bis con i metodi narrati in queste pagine, non soltanto non è stato sciolto, ma continua ad essere impegnato quotidianamente nel nostro democratico Paese". Pasquale de Feo nella sua introduzione cerca di risalire storicamente alle ragioni delle legislazioni speciali, a partire dalla famigerata legge Pica fino al 4 bis, tracciando e contestualizzando lucidamente analogie storiche, politiche, sociali e repressive di un’Italia che da sempre affronta queste dinamiche in chiave penale. "Un paese che, cento cinquantacinque anni dopo l’Unità, continua ad esercitare discriminazioni razziste verso i cittadini del Sud, predisponendo per loro un destino di nuove Cayenne italiane. Nei miei lunghi anni di carcerazione ho letto e riletto della storia d’Italia interrogandomi sulle cause delle condizioni del nostro Sud e della gente che lo abita. È una storia, ho capito, che parte da molto lontano…" Le tre relatrici sono accomunate dalla convinzione che l’ergastolo ostativo sia, attualmente, la forma di tortura per eccellenza, una "pena di morte nascosta", un dispositivo che uccide giorno dopo giorno in attesa della morte. L’unica differenza è che l’ergastolo ostativo, quello che comporta che circa 1500 detenuti usciranno dal carcere il 31.12.9999 è una vendetta consumata in un tempo infinito e indefinito. L’espressione "pena di morte nascosta" è stata usata da Papa Francesco nel suo Discorso rivolto alle delegazioni delle Associazioni Internazionali di diritto penale il 23 ottobre 2014, durante il quale ha dichiarato che l’ergastolo ostativo, comporta la privazione in via definitiva non solo della libertà del colpevole ma anche della sua speranza. Questa condizione è simile alla "sindrome del braccio della morte", ovvero lo stress traumatico imposto a un condannato a morte causato dall’attesa del momento dell’esecuzione. Domodossola: "Non esistono ragazzi cattivi", incontro con il cappellano dell’Ipm Beccaria ossolanews.it, 3 aprile 2017 Grande interesse ha suscitato l’incontro con don Claudio Burgio, cappellano del carcere minorile "Cesare Beccaria" di Milano, tenutosi Venerdì 31 Marzo presso l’Aula Magna del Liceo delle Scienze Umane Antonio Rosmini di Domodossola. "Non esistono ragazzi cattivi". Questo il tema della riflessione del sacerdote milanese. "Al Beccaria ci sono ragazzi che affrontano la vita in salita. Sono "captivi", ossia prigionieri di logiche adulte di tipo consumistico, vittime di un sistema che li usa e li getta. La prima cosa che faccio quando incontro questi ragazzi è sospendere il giudizio e le emozioni, evitando di giudicarli in modo affrettato. Ascolto le loro esperienze di vita per cercare di avviare un rapporto educativo e offrire loro nuove opportunità". Così ha esordito don Claudio, sottolineando la difficoltà nell’instaurare con i detenuti una relazione sincera e fondata sulla fiducia reciproca. I giovani, infatti, avvertono la necessità di relazionarsi con adulti responsabili e coerenti, che nella loro esistenza non hanno mai incontrato. "Ho capito che non bastava presentarmi a loro come adulto e come autorità. Il ragazzo deve capire chi sei e che si può fidare di te" - ha aggiunto Burgio. "Nel rapporto con i ragazzi bisogna essere autorevoli, ma occorre anche avere empatia e capacità di guardare alla persona. Non basta impartire sanzioni e punizioni, perché questa è una logica di potere che facilita la violenza". Il sacerdote milanese ha offerto un interessante spunto di riflessione sul ruolo della comunità educante, ricordando la necessità di fare emergere nuove opzioni e possibilità. "Per tornare ad essere educatori gli adulti devono mettersi in discussione e agire con autorevolezza, non avendo paura di operare scelte difficili e controcorrente". Nel corso della serata è stato più volte sottolineato il ruolo della fede cristiana nel guidare il cammino dei detenuti verso la riscoperta di una vita vera. "Il cristianesimo spinge a mettersi in gioco, superando le insicurezze. Il messaggio biblico "Tu potrai" può essere il fondamento per l’educazione: una persona è un’infinita possibilità di bene". Interessante è il metodo educativo proposto, che don Claudio ha definito al giorno d’oggi un "sapere inutile": "Al Beccaria si organizzano numerose attività teatrali, musicali, culturali, letterarie, che consentono di far scorgere ai ragazzi nuovi significati per la loro vita". Al termine dell’incontro il prof. Carlo Teruzzi, coordinatore delle attività didattiche del "Liceo Rosmini", ha ringraziato don Claudio Burgio per avere aiutato i presenti a meditare sul mistero della persona umana, che nella sua piena libertà è capace di molto male e di molto bene. Roma: il nostro 8 marzo con le donne del "nido" di Rebibbia di Giovanna Longo, Stefania Iannilli, Marica Fantauzzi aromainsieme.it, 3 aprile 2017 L’8 marzo le donne del mondo hanno scioperato. C’era chi lo ha fatto per strada, chi sul luogo di lavoro, chi con in braccio un figlio, e chi da dentro un carcere. "Fuori da qui le donne di tutto il mondo si sono organizzate per scioperare affinché i propri diritti siano rispettati. Voi per quali diritti vorreste scioperare?" Le donne, madri e detenute insieme ai loro figli nel carcere di Rebibbia, si guardano tra loro. Alcune ridono, altre fanno finta di ascoltare, altre vorrebbero ascoltare ma devono controllare il bimbo pronto a fiondarsi sotto qualche tavolino. Una di loro, 24 anni come me, urla: "Affetto". Un’altra: " Fiducia". Un’altra ancora: Rispetto". A quel punto ripenso alle prime pagine del mio vecchio libro di diritto pubblico, quelle in cui si parlava del diritto come una risposta ai bisogni dell’uomo. Tutte loro stavano urlando un proprio bisogno, ma non credevano minimamente di avere un diritto. Questo fino a che una ragazza non ha alzato la mano e, quasi solennemente, ha detto chiaramente che il diritto che le spetta è quello di non andare a rubare: "Perché dobbiamo andarci noi, ci andassero gli uomini. Noi vogliamo trovarci un lavoro". Le altre sorridono, forse pensano ci sia del vero in quel che dice la loro compagna, ma non so quanto ci credano. Mentre le ascolto palleggiarsi la possibilità di dire la loro, la lista dei diritti che prima sembrava appartenere solo alle lotte delle donne al di là del muro, prende forma anche al di qua. Il diritto a ricominciare, il diritto ad amare chi si vuole amare, il diritto a cambiare sesso, il diritto di difendersi, il diritto alla libertà. Ogni diritto che esce fuori dalla loro bocca è cucito a doppio filo con una violenza che hanno subito da bambine, da donne, da madri. "Ero piccola, non avevo neanche nove anni quando mi ha violentata. Io non dissi niente perché minacciò che avrebbe fatto del male alle mie sorelle, alla mia famiglia. Dopo anni lo dissi a mia madre, ma ormai era troppo tardi. Ora il peggio è passato, ma quando sto accanto ad un uomo non provo niente, non so attaccarmi." Luna e le altre ci guardano negli occhi mentre ci chiedono di scrivere per loro queste parole. Gli escono di getto, e noi a fatica cerchiamo di trattenerle su un pezzo di carta. "Al binario 1 di Termini la polizia prese me e altre due mie amiche. Un poliziotto ci conosceva. "Buongiorno puttane", così ci salutava. Ci ha picchiate più volte, anche se non avevamo fatto nulla. Ci veniva addosso e bam, uno schiaffo. Lo abbiamo raccontato ad altri poliziotti. Hanno detto che ora non era più un nostro problema, il poliziotto era stato spostato in un altro posto". "I was disappointed by a man. He promised we would be happy. It was not like that, he hurt me. I will not say how, but he hurt me so much I can’t explain it". Ora che sfoglio i loro dolori mi chiedo cosa gli sia rimasto di quella giornata. Mi chiedo perché Luna dovrebbe ascoltare me parlare di diritti negati e violenze perpetrate quando lei vive le sue giornate chiusa in una stanza con un figlio di pochi mesi, consapevole che lì dentro ci è finita probabilmente per qualcosa che io chiamo violenza ma lei chiama amore. Mi chiedo se ci sia un limite oltrepassato il quale la violenza non può più esser combattuta, perché per anni non si è conosciuto nient’altro. Mi chiedo se queste donne, le donne del nido di Rebibbia, avranno un giorno la possibilità di avere un’altra possibilità. E mi chiedo se ci sia spazio, nella loro giovane eppure già così tormentata vita, per il riscatto. "Le donne - diceva Natalia Ginzburg- sono una stirpe disgraziata e infelice con tanti secoli di schiavitù sulle spalle e quello che devono fare è difendersi con le unghie e coi denti dalla loro malsana abitudine di cascare nel pozzo ogni tanto perché un essere libero non casca quasi mai nel pozzo e non pensa così sempre a se stesso ma si occupa di tutte le cose importanti e serie che ci sono al mondo e si occupa di se stesso soltanto per sforzarsi di essere ogni giorno più libero. Così devo imparare a fare anch’io per la prima perché se no certo non potrò combinare niente di serio e il mondo non andrà mai avanti bene finché sarà così popolato d’una schiera di esseri non liberi". Perciò sì, negli occhi delle donne di Rebibbia ho visto il pozzo di cui parlava la Ginzburg, quello in cui ogni donna inevitabilmente cade, ma posso giurarvi che ho visto anche tanta preziosa libertà. Bergamo: i Radicali "una targa per ricordare Enzo Tortora nel carcere dove fu detenuto" Agenpress, 3 aprile 2017 È la proposta fatta da Lucio Berté in accordo con Francesca Scopelliti, compagna di Enzo Tortora, sabato scorso quando ha visitato l’istituto insieme a Marzia Marchesi, Presidente del Consiglio Comunale di Bergamo, e Mauro Toffetti, iscritto al Partito Radicale Nonviolento Transpartito Transnazionale. Una targa nella cella dove è stato detenuto per ricordare il suo passaggio lì. Lucio Berté ha anche regalato al carcere una copia del libro "Lettere a Francesca" scritto anche lì, dal famoso presentatore alla sua compagna e una copia della mozione approvata dal Consiglio Regionale della Lombardia che chiede che durante i controlli sanitari in carcere si verifichino anche le cartelle cliniche dei detenuti. Nello stesso giorno l’iscritto al Partito Gianni Rubagotti ha accompagnato al carcere di Como Paolo Camporini, Presidente della Camera Penale di Como, Simone Gilardi, segretario della stessa Camera Penale e una delegazione di amministratori del comune di Turate: Ivan Iula, Assessore Ecologia ed Ambiente, Ivana Agnese Frigerio, Consigliere con Delega al Sociale, Loris Guzzetti, Consigliere con Delega alla Cultura e alla Partecipazione. "A Bergamo e Como siamo andati a ringraziare alcuni fra i 20.000 detenuti che hanno digiunato per la marcia per l’Amnistia del novembre scorso. Li abbiamo aggiornati sulla marcia di Pasqua che si terrà il 16 aprile a Roma" ha dichiara Rubagotti che insieme a Rita Bernardini ha coordinato queste visite "Per quest’anno queste visite e queste lotte sono possibili perché esiste il Partito Radicale, se non raggiungiamo 3000 iscritti entro quest’anno il partito chiude. I bergamaschi, come gli altri italiani, hanno l’opportunità di sceglierci e di aiutarci e aiutarsi o di scioglierci. Colgo infine l’occasione per scusarmi pubblicamente con la Presidente della Camera Penale della Lombardia Orientale, l’avvocato Monica Di Nardo. Per un disguido non le ho detto che la visita era rimandata dal 25 marzo al primo aprile". Biella: podisti e detenuti insieme nella "gara per la libertà" di Andrea Formagnana La Stampa, 3 aprile 2017 Sabato si è svolta la 10ª edizione del "Vivicitta Porte Aperte" o "Gara per la libertà" al Carcere di Biella, manifestazione podistica che a livello nazionale è arrivata a spegnere 34 candeline. Alcuni atleti podisti, autorizzati nei giorni precedenti, hanno potuto correre insieme a oltre cinquanta detenuti all’interno del perimetro del penitenziario. L’evento è stato organizzato in collaborazione con la Uisp - Unione Italiana Sport per Tutti, che da tantissimo tempo collabora con le amministrazioni penitenziarie, attraverso progetti e attività sportive. Protagonisti della gara sono stati anche gli atleti delle Fiamme Azzurre della Polizia Penitenziaria. "Manifestazioni di questo genere sono molto importanti - sottolineano gli organizzatori- in quanto migliorano la qualità della vita all’interno delle carceri. Lo sport è infatti un utile strumento di riabilitazione del condannato". Per la buona riuscita della gara è stato fondamentale l’apporto degli agenti del Corpo di Polizia Penitenziaria per garantire la sicurezza. Gela (Cl): incontro con fra Emanuele Artale, nuovo Cappellano del carcere di Lucrezia Ferro corrieredigela.com, 3 aprile 2017 Si chiama Emanuele Artale il nuovo cappellano del carcere di Gela. Ha preso possesso del suo nuovo incarico il 10 gennaio. Fra Emanuele nasce a Siracusa il 3 marzo del 1980. Nel 2001 consegue il diploma di Perito industriale nell’indirizzo di Elettrotecnica e Automazione e nel 2015 il Baccalaureato in Sacra Teologia presso la Pontificia Facoltà Teologica "San Giovanni Evangelista" di Palermo. Ha la passione per la musica, alla quale dedica molti attimi della sua giornata. Non ha preferenza per un genere musicale in particolare, ma ha sempre avuto l’attitudine alla musica e la propensione all’ascolto di essa, soprattutto in certi momenti o fasi della sua vita. Per conoscerlo meglio, lo abbiamo incontrato e gli abbiamo posto qualche domanda. Com’è nata la tua vocazione religiosa? C’è qualche episodio particolare che ha contribuito ad orientarti verso questa decisione? "La mia scelta vocazionale non si è presentata con effetti o "rivelazioni" particolari. Si è sviluppata nell’ordinarietà e nella semplicità del mio vissuto. Come ogni ragazzo, ho frequentato la mia parrocchia per i sacramenti dell’iniziazione cristiana. Dopo aver ricevuto il sacramento della Confermazione, sono rimasto attivo all’interno della parrocchia svolgendo il servizio liturgico di ministrante. Proprio gli anni della scuola superiore sono stati importanti e decisivi nel mio cammino: in questo periodo ho avuto l’opportunità di riflettere con serietà la mia futura scelta di vita. Più camminavo in questa decisione più sentito in me la chiarezza della scelta che mi procurava serenità e fiducia. Non ricordo un episodio particolare, bensì sentivo una forte esperienza ecclesiale che faceva nascere in me l’idea di un servizio verso essa". Perché hai scelto l’Ordine dei Frati Minori Cappuccini? "La scelta francescana è stata quasi un "obbligo". La mia parrocchia è affidata ai Frati Cappuccini e ho vissuto tutti gli anni dell’adolescenza a contatto con loro. Mi ha sempre attirato la grande semplicità e il loro modo di vivere il cammino sacerdotale" Dal mese di luglio 2016 sei Guardiano presso il Convento dei Cappuccini. Come valuti questi mesi? Quali sono le sfide che oggi i sacerdoti devono affrontare? "I primi mesi della mia permanenza a Gela come Guardiano presso il convento dei Frati sono molto positivi e soprattutto impegnativi, dato i ritmi e le attività che scandiscono le mie giornate. Questi mesi sono caratterizzati anche dall’osservazione e dalla conoscenza della realtà gelese in generale e conventuale nello specifico. Il ruolo del Guardiano in una fraternità di frati è principalmente quella di animatore che sa ascoltare, capire, incentivare, rispettare ogni singolo membro della stessa: è un compito difficile e soprattutto delicato. Una delle sfide che sento forte nel mio ministero presbiterale è quella di cercare di essere il più possibile coerente con il messaggio evangelico che sono chiamato a far conoscere e soprattutto predicare". Dal 10 gennaio sei cappellano del carcere di Gela. Quando sei stato nominato dal Vescovo, qual è stato il tuo primo pensiero? "La mia nomina è arrivata il 10 gennaio di quest’anno, ma svolgo il mio servizio pastorale in carcere già dal dicembre del 2015. Il primo pensiero che ha balenato la mia mente è stato quello di una grande responsabilità verso Dio e verso gli altri: nei confronti di Dio perché chiamato ad annunciare Lui e la Sua misericordia in un ambiente un po’ delicato; verso gli altri perché ho la responsabilità di curare le ferite degli uomini causate da scelte personali". Quella del cappellano è una missione. Il suo ruolo è molto più ampio del semplice officiante di un culto. Comprende diverse attività. "Secondo la normativa, il cappellano svolge i compiti "d’istruzione e assistenza religiosa della confessione cattolica" (art. 1, legge 4 marzo 1982). Nel pratico, il mio servizio pastorale comprende colloqui e confessioni, catechesi e momenti di adorazione eucaristica, la celebrazione dell’Eucarestia, progetti di animazione pastorale che possono portare a un cambiamento di vita e di riscoperta della propria fede. In particolare in vista della Pasqua, questo mese, ho attivato un corso per alcuni detenuti che non hanno ricevuto il sacramento della Confermazione. La mia attività non è rivolta solo ai detenuti, bensì a tutto il personale che opera e lavora all’interno dell’istituto. A differenza di una parrocchia dove è tutto programmato, in carcere si attua una pastorale di contatto che permette di fare catechesi anche con una semplice chiacchierata". All’interno del carcere ci sono storie diverse e complicate. Com’è il rapporto con i detenuti? "Penso che il rapporto da instaurarsi con i detenuti debba essere fondato sul rispetto e l’ascolto. Una presenza autorevole e chiara che faccia capire gli errori e gli sbagli, ma nello stesso tempo vicina e calda che possa dare il giusto sostegno morale e religioso per un cammino di rieducazione e di vera conversione personale". Il paradosso della custodia cautelare stampalibera.it, 3 aprile 2017 Un’anticipazione da "Giustizialisti", di Sebastiano Ardita e Piercamillo Davigo. La riforma della custodia cautelare è stato uno dei cavalli di battaglia dell’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi, che a ottobre del 2016, alla vigilia del meeting della Leopolda, per indicare la necessità di un intervento legislativo, aveva citato il caso del fondatore di Fastweb, Silvio Scaglia, rimasto un anno in custodia cautelare e poi assolto. Il tema era stato trattato dall’ex Rottamatore discutendo della necessità di una riforma complessiva della giustizia, che prevedesse anche una più ampia responsabilità civile dei magistrati. Riforma poi puntualmente varata. Come si può notare, dunque, questi strumenti delicatissimi dai quali passa l’effettività del sistema di prevenzione penale, spesso vengono riformati non pensando al cittadino comune, ma alle esigenze dei cosiddetti colletti bianchi, ovvero dei soggetti che sono posti in condizione di influenza e di potere politico-economico-istituzionale. Da questo deriva l’apparente contraddizione tra le posizioni di singoli esponenti, o addirittura di interi partiti, sulla loro concreta applicazione. Le norme che impediscono il ricorso alla custodia cautelare applicate correttamente ai manifestanti di piazza, fanno ritenere blanda l’azione dello Stato, perché riguarda comuni cittadini che hanno commesso comportamenti di immediato allarme sociale. Ci si accorge di ciò quando, dinanzi a soggetti dotati di un certo grado di pericolosità, non si può disporre la custodia cautelare. Quindi è semplice addossare ai giudici la responsabilità - anche se essi attuano ciò che i politici hanno deciso - come se potessero applicare in modo differente regole chiare e valide per tutti. Il problema è che quando si pensa a una riforma della custodia cautelare si pensa al "caso Scaglia" ritenendo che quelle norme siano troppo rigorose. Quando poi però quelle stesse norme si rivelano inefficaci a fronteggiare i "reati da strada", chi ne contesta l’applicazione, a volte dimentica di averne voluto limitare l’ambito. Abuso di custodia cautelare? A riprova di questa contraddizione, uno degli argomenti più utilizzati nel dibattito sulla giustizia è che ci sarebbe un eccesso, o addirittura un abuso, della custodia cautelare. Stando ai dati ufficiali i detenuti in custodia cautelare in Italia, il 30 aprile 2016, erano 18.462 su un totale di 53.725 carcerati. Ma suddividendo i detenuti non definitivi per posizione giuridica si poteva rilevare che solo 8.983 erano in attesa del giudizio di primo grado, mentre 4.733 erano in attesa del giudizio di appello, 3.452 ricorrenti in Cassazione e 1.294 con posizione mista. E dunque, come si può notare, i giudicabili veri, ossia coloro che non hanno ancora ricevuto una condanna, sono poco più del 17%; mentre tutti gli altri detenuti sono già stati condannati. In altri ordinamenti essi non verrebbero considerati in attesa di giudizio ma riconosciuti colpevoli e in attesa di appello. Inoltre, va tenuta in considerazione la natura dei reati per i quali è disposta la custodia cautelare, che coincide con le fattispecie che destano maggiore allarme sociale. Occorre inoltre considerare che raramente un detenuto risponde di un solo reato e che ciascuno risponde in media di circa tre reati. Ciò premesso la popolazione dei detenuti non definitivi - in base ai dati comunicati dal ministero della Giustizia in altra rilevazione - risultava così suddivisa: 8.657 rispondevano di produzione e spaccio di sostanze stupefacenti; 3.564 del reato di rapina; 2.792 del reato di omicidio volontario; 1.982 del reato di estorsione; 1.824 del reato di furto; 1.107 del reato di associazione di stampo mafioso; 809 del reato di ricettazione; 709 del reato di violenza sessuale; 356 del reato di associazione per delinquere; 320 del reato di maltrattamenti in famiglia; 137 del reato di sequestro di persona; 100 del reato di atti sessuali con minori; 83 del reato di lesioni personali volontarie; 74 del reato di istigazione, sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione; 48 di reati contro l’amministrazione della giustizia; 33 del reato di bancarotta; 33 del reato di insolvenza fraudolenta; 32 dei reati di peculato, malversazione; 26 del reato di strage; 11 del reato di truffa. Benché, dunque, quando si parla di abuso di custodia cautelare ci si riferisca alla possibilità che questa venga utilizzata verso i colletti bianchi, si tratta di un’affermazione imprecisa. Infatti, la custodia cautelare per questi ultimi non raggiunge neanche lo 0,3 % dell’intera popolazione detenuta. Per molto tempo è stata in discussione - e ha rischiato di essere approvata - una proposta di legge sulla custodia cautelare che vietava di desumere la pericolosità dalle modalità del reato che si è commesso. Lo scopo di quella proposta era fare in modo che quello 0,3 per cento potesse ulteriormente assottigliarsi. Ma non sarebbero mancati gli "effetti collaterali". Tanto per fare un esempio: in base a quella proposta normativa, se un criminale, essendo incensurato, commettesse una rapina in casa stuprando la vittima la sua pericolosità non potrebbe essere provata. Si tratta di una riforma che fortunatamente non è andata in porto. Ma c’è da scommettere che se fosse divenuta legge alla prima scarcerazione tutti coloro che l’avrebbero votata si sarebbero scagliati contro il giudice chiamato ad applicarla. Migranti. I rifugiati diventano operai: "Il mercato ha bisogno di noi" di Davide Lessi e Letizia Tortello La Stampa, 3 aprile 2017 Sono 40 i migranti assunti nei cantieri navali grazie ai corsi professionali. In Costa d’Avorio Yacouba, 24 anni, faceva l’imbianchino. Il 21enne Alin, senegalese, parla tre lingue: francese, arabo e ora italiano. Il suo connazionale Souleymane non è mai riuscito a finire gli studi universitari. Dall’Africa sono scappati in Italia, sbarcando tra il 2013 e il 2014. Nell’attesa di vedersi riconosciuta la protezione umanitaria, i tre hanno frequentato corsi professionali. Oggi, lavorano tutti: sono aiuto-carpentieri nei cantieri navali di Marghera. E non sono gli unici. "Una quarantina di migranti hanno un contratto grazie a questo progetto". Nicola Montanaro, 67 anni, è persona pratica: ex direttore personale di Finmeccanica, quando è andato in pensione ha deciso di mettere a disposizione le sue competenze. "Tutto parte da un protocollo d’intesa firmato un anno fa", racconta. Intorno al tavolo si trovano in cinque (Comune di Settimo Torinese, associazione Cnos-Fap Regione Piemonte, Croce rossa italiana, Fondazione Comunità Solidale Onlus e Quanta Spa). L’idea, condivisa da tutti, era una: "Creare opportunità per l’inserimento di personale qualificato nella cantieristica meccanica, nella lavorazione del legno e in quello agroalimentare". I corsi-pilota partono al centro di accoglienza di Settimo, altri alla comunità salesiana di San Benigno Canavese, sempre nel Torinese. "I ragazzi, dopo aver frequentato tutte le lezioni e superato le prove, hanno ricevuto i patentini con la qualifica di saldatori". Il passaggio dalla sfera dell’accoglienza a quella del lavoro è gestito da Quanta Spa, una multinazionale attiva nella selezione del personale che cerca di rispondere alle necessità delle imprese: "La Fincantieri - spiega Montanaro - cercava personale, ma gli italiani non volevano fare quei lavori. Così abbiamo offerto loro i nostri ragazzi già formati". Il progetto fa leva sulle peculiarità già individuate dai dati Inps pubblicati ieri su La Stampa : gli immigrati accettano professioni umili, sono flessibili e non rubano il posto a nessuno. Occupano, va detto, il gradino più basso nella scala della distribuzione dei salari, "e da lì è difficile che si muovano per tutta la vita", spiega Alessandra Venturini, esperta di migrazioni. Lei, che è anche vicedirettrice del Migration Policy Centre, sta lavorando con diverse associazioni del privato sociale e con le confederazioni aziendali nazionali, per riorganizzare la macchina dell’accoglienza e farla ragionare secondo le regole e la cultura dell’impresa. "Il modello italiano dell’integrazione dei rifugiati non funziona - spiega, perché non si basa sulla reale domanda di lavoro da parte dalle aziende. Le associazioni del volontariato si prendono cura di un numero enorme di persone, ma non riescono a traghettarle nel mondo del lavoro". Perché? "Nonostante gli sforzi - spiega la docente - c’è una gestione troppo casuale e non organizzata dei contatti con il mercato. L’offerta di lavoro per i rifugiati deve partire dalla domanda delle aziende, non viceversa". Modello Germania. Ma resta un problema burocratico che coinvolge, in particolare, i richiedenti asilo. "Per legge - spiega la professoressa - prima di avere lo status di rifugiato non possono ottenere un contratto: vengono tenuti in un limbo troppo a lungo". Eppure, il lavoro è l’unica porta per inserirsi nel nuovo Paese. Come è successo a Yacouba e agli altri: storie di un’integrazione possibile. Nel Ticino l’ultimo muretto dell’Europa. "I nostri tre valichi chiusi agli italiani" di Alberto Mattioli La Stampa, 3 aprile 2017 Lungo la frontiera tra pensionati impauriti e dispetti campanilistici. L’ultimo muro eretto in quest’Europa che si chiude è in realtà un muretto. Anzi, meno: quattro sbarre di plastica biancorossa, ton-sur-ton con i colori della bandiera della Confederazione, alla dogana di Pedrinate, canton Ticino, Svizzera. Dall’altra parte, il comune di Colverde, provincia di Como, Italia. L’utilità pratica di una barriera che si può sollevare con una mano sola e risparmiando anche qualche dito è discutibile. Sul valore simbolico, invece, nessun dubbio. La Svizzera ha deciso, e non è un "pesce": dal primo aprile, sono chiusi in via sperimentale, dalle 23 alle 5, tre valichi di frontiera con l’Italia. Oltre a Pedrinate-Colverde, quelli di Novazzano-Ronago, sempre in provincia di Como, e di Ponte Cremenaga, in quella di Varese. Berna ha accolto una remota petizione degli abitanti della zona, datata 2014, sponsorizzata dalla Lega dei Ticinesi e portata in Consiglio nazionale da Roberta Pantani, appunto leghista e vicesindaco di Chiasso. Motivazione: "combattere la criminalità frontaliera", insomma impedire che i malfattori passino dall’Italia in Svizzera, delinquano qui e subito dopo tornino là, complicando il lavoro alle due polizie: "È chiaro che riducendo i valichi da controllare si semplifica il lavoro alle forze dell’ordine", proclama Pantani. Resta da capire se davvero queste tranquille plaghe siano la Chicago degli Anni Trenta. "Ci sono troppi casi di furti e rapine, specie ai danni dei molti benzinai della zona. Io in effetti di valichi volevo chiuderne dieci. Però è già un passo avanti". Andando a dare un’occhiata in zona, fra villette con i nani da giardino e paesini che danno la tipica impressione svizzera di essere appena emersi dalla candeggina, si scopre subito che la misura è in effetti di pura facciata. Intanto, perché i valichi, di giorno, non sono presidiati, quindi passa chi vuole. E poi perché a pochi chilometri da quelle di Pedrinate e Novazzano, chiuse di notte, ci sono le dogane di Bizzarone e Ponte Faloppia, aperte 24 ore su 24 come le farmacie di turno, per tacere di quelle della metropoli più vicina, Chiasso. Però c’è anche il benzinaio derubato, a venti metri scarsi dalle barriere plasticate. Si chiama Davide, è un frontaliero italiano e dice che sì, lui di furti ne ha subiti, sia alla pompa che nel negozio accanto. Poco più in là, ma in Italia, a Drezzo, frazione di Colverde, è in corso "Da Celestino" la partita a carte di una gruppo di pensionati compattamente tipici, a parte il fatto che non giocano a scopa ma a scala 40. Sorpresa, sono tutti favorevoli alla chiusura, e non tanto per gli eventuali rapinatori, ma per i "passatori", quelli che accompagnano dall’altra parte della frontiera ("Mica gratis, neh?") i migranti clandestini, insomma gli spalloni di uomini. "Una volta la frontiera la chiudevano anche gli italiani, e facevano bene". Sul retro, il locale diventa un meraviglioso dancing zeppo di pensionati italosvizzeri che alle 15 della domenica ballano scatenati il liscio, aspettando le prossime tournée di complessi che si chiamano "I monelli" o "Polisano band". Lo gestisce Stefano Pozzi, consigliere di maggioranza a Colverde, lista civica di centrodestra. Minimizza: "L’unica obiezione l’ha sollevata qualche mio cliente svizzero. Temeva di restare bloccato in Italia se si fosse fermato troppo a ballare. Ma a due chilometri dal valico chiuso ce n’è uno che è sempre aperto". Sequestrati dall’Italia per una mazurka di troppo, è il colmo. Non ci stanno, invece, le autorità italiane. Al Pirellone è stata presentata una mozione bipartisan contro la chiusura. Agostino Grisoni, sindaco di Ronago (lista civica anche lui), premette che "gli svizzeri a casa loro fanno quel che vogliono, anche se magari potevano comunicarcelo per tempo". Poi smentisce che i valichi non siano controllati, "perché c’è un sistema di videocamere sofisticatissimo". Spiega che la criminalità è calata, che i migranti non passano certo per la dogana e che in pratica l’unico risultato è obbligare "chi va a trovare la suocera dall’altra parte del confine ad allungare un po’ la strada. Insomma, è pura e semplice demagogia". A distanza, la consigliera Pantani si dice "stupita" delle rimostranze italiane: "Parlare di razzismo, poi, è assurdo. A Maslianico c’è un valico che da sempre gli italiani chiudono la sera". Magari si tratta soltanto dell’ultimo capitolo di una serie sempre più lunga di dispettucci italosvizzeri, da vicini di casa che si rinfacciano inadempienze al regolamento condominiale. Resta il fatto che in Europa da due giorni c’è un muro di più. Droghe. Cannabis, il costoso fallimento del proibizionismo di Benedetto Della Vedova* Il Messaggero, 3 aprile 2017 Voglio legalizzare la cannabis. Voglio farlo per regolamentare una sostanza che oggi è liberalizzata nel mercato criminale, accessibilissimo e completamente privo di regole e controlli. Eppure, a differenza di quanto pensa Roberto Mineo, conosco l’art. 32 della Costituzione e non voglio offendere la memoria di nessuno, tantomeno del giudice Borsellino. Avendo lavorato da volontario in quella direzione, ho da sempre grande attenzione per il lavoro delle comunità che si occupano del recupero e del reinserimento delle persone colpite dalle tossicodipendenze. Nel 1995 venni arrestato e poi condannato per una disobbedienza civile radicale con Marco Pannella, Rita Bernardini e altri: denunciavamo l’assurdità di una legge proibizionista che portava in carcere ragazzi, rei soltanto di essersi passati di mano uno spinello. Allora ci dicevano che, nonostante il proibizionismo sulla cannabis avesse già decenni alle spalle, in futuro le politiche repressive avrebbero consentito di stroncare il traffico e azzerare il consumo di sostanze che "fanno male". Nessuno di noi ha mai detto che le canne facciano bene (ma alcool e tabacco, legali, invece sì?) o incentivato il consumo non terapeutico, ovviamente: vogliamo però che si prenda atto del totale, assoluto e costoso fallimento del proibizionismo. In questi ultimi 22 anni (io non opero in una comunità ma studio i dati ufficiali italiani e internazionali sulla cannabis e seguo l’evoluzione legislativa sul tema), ho visto inasprimenti delle pene (alcuni mitigati o cancellati dalla Consulta), spese ingenti per la repressione (oltre diecimila operazioni di polizia sulla cannabis nel 2015), processi e detenzioni per reati connessi a questa sostanza. Il risultato di tutto questo è nullo: l’Istat ci spiega che i consumatori, abituali e non, in Italia sono 6 milioni, per un mercato stimato almeno in 4-7 miliardi all’anno. Apriamo i giornali e vediamo sempre più frequenti le notizie di grandi piantagioni o serre per la coltivazione abusiva della cannabis in mano alle mafie: i narcos li abbiamo in casa ormai. Sappiamo che le sostanze in circolazione non sono in alcun modo controllate. E potrei continuare. Stando alle parole che Roberto Mineo usa contro la legalizzazione, chi è che "accetta l’inaccettabile"? Chi vuole proseguire il costoso e fallimentare proibizionismo sulla cannabis o chi vuole cambiare registro, legalizzare, sottrarre alla criminalità, controllare e tassare un mercato a cui si rivolgono milioni di italiani? Dove la cannabis è stata legalizzata, come in molti stati Usa, non si è raggiunto un paradiso che nessuno aveva promesso, naturalmente. Ma la situazione è decisamente migliorata sotto i punti di vista più critici: le sostanze sono controllate, la polizia si occupa di reati più pericolosi per la libertà e la salute, il contrasto al consumo minorile è più efficace, i profitti tolti alla criminalità sono divenuti risorse pubbliche per sistemare le scuole e finanziare campagne di informazione e dissuasione dall’uso e dall’abuso di tutte le sostanze, cannabis compresa. Infine, la memoria del Giudice Borsellino che Roberto Mineo ritiene offesa dalla sola idea di legalizzare la cannabis: non credo abbia molto senso scagliare quel giudizio negativo di Borsellino, eroe e martire della legalità di una stagione la cui memoria va coltivata senza strumentalizzazioni, contro chi oggi, in modo non superficiale ma argomentato, si batte per cambiare le leggi proibizioniste anche come modo per contrastare le mafie. Può darsi che quel giudizio oggi sarebbe confermato, visto che ci sono magistrati che restano proibizionisti. Ma ce ne sono moltissimi che suggeriscono di cambiare e di regolamentare. La stessa Direzione Nazionale Antimafia, che certamente porta nel cuore i giudici martiri della lotta a Cosa Nostra, si è espressa con un parere articolato e sostanzialmente positivo indirizzato al Parlamento sulla legalizzazione della cannabis. *Senatore, coordinatore dell’Intergruppo parlamentare "Cannabis Legale" Libia. Pace fra tribù per chiudere la via ai migranti di Vladimiro Polchi La Repubblica, 3 aprile 2017 Al Viminale la sigla dell’accordo sulla frontiera sud. Da maggio le motovedette alla guardia costiera di Tripoli. "Governare il sud della Libia significa controllare le rotte migratorie e combattere il business dei trafficanti". Al Viminale si sottolinea l’importanza della pace firmata venerdì scorso tra le due principali tribù libiche meridionali. Un successo della "diplomazia del deserto", che promette di stabilizzare la regione del Fezzan e dare corpo a quel memorandum italo-libico siglato a Palazzo Chigi a inizio febbraio, con l’obiettivo principale di arrestare il traffico di esseri umani. Dopo tre giorni di intense trattative, venerdì al Viminale i capi delle principali tribù della Libia del Sud, gli Awlad Suleiman e i Tebu, alla presenza dei leader Tuareg e del vicepresidente libico Kajman, hanno firmato un accordo di riconciliazione. Le stesse tribù hanno chiesto all’Italia (rappresentata dal ministro dell’Interno, Marco Minniti, e dal segretario generale della Farnesina, Elisabetta Belloni) di farsi garante del patto. L’accordo, che segue quello di febbraio tra dieci sindaci delle principali città del Fezzan, apre la strada al controllo unificato del confine meridionale del Paese da parte delle tre tribù Awlad Suleiman, Tuareg e Tebu. Un confine strategico, visto che il Fezzan è la porta d’accesso alla Libia. Governare questa enorme regione meridionale di oltre 700mila chilometri quadrati di deserto e rocce significa controllare il traffico di esseri umani. Da qui passano infatti le principali rotte migratorie, che da Niger e Ciad portano prima sulle coste libiche e poi via mare fino all’Italia. Un flusso che non rallenta, anzi: quest’anno sono già 24.280 i migranti sbarcati in Italia, il 30% in più dello stesso periodo del 2016 (anno che con oltre 181mila sbarchi aveva infranto ogni record nella storia del nostro Paese). E oltre il 90% parte appunto dalla Libia. La riconciliazione tra i Tebu e gli Awlad Suleiman, in conflitto fin dalla caduta del regime di Gheddafi, potrebbe permettere ora di unire le loro forze contro terrorismo e jihadismo. Assieme ai Tuareg, si concretizza poi la possibilità di costituire una forza del sud capace di garantire il controllo delle frontiere e la stabilità di tutto il Fezzan e di cooperare in prospettiva con le tribù sorelle di Ciad e Niger. La pace porterà anche alla riapertura dell’aeroporto di Sebha. Dal Viminale si fa notare che il nuovo patto contribuisce a rafforzare il governo di Tripoli e consente all’Italia e alla Ue, in cambio del controllo delle frontiere, di avviare un piano di investimenti verso il sud della Libia che tolga ossigeno a quell’economia parallela, sempre più incentrata sul contrabbando e sul traffico di esseri umani. Ma non basta. Oltre ai confini meridionali, altro fronte nel contrasto all’immigrazione irregolare è il controllo delle acque territoriali di Tripoli. Dal Viminale fanno sapere che ieri è partita l’ultima fase nell’addestramento dei marinai della guardia costiera libica, che dopo averne già formati 90 dovrebbe rendere tutti gli equipaggi pienamente operativi entro maggio, restituendo loro anche le 10 motovedette libiche finora custodite dall’Italia. Costa d’Avorio: l’ex First Lady assolta dalle accuse di crimini contro l’umanità sicurezzainternazionale.luiss.it, 3 aprile 2017 La corte della Costa d’Avorio ha dichiarato l’innocenza dell’ex First Lady, Simone Gbagbo, riguardo l’accusa di aver commesso crimini di guerra e crimini contro l’umanità durante il processo sul presunto coinvolgimento nell’abuso di potere delle forze dell’ordine contro la popolazione civile negli scontri scoppiati dopo le elezioni del 2010 che hanno provocato la morte di migliaia di civili. Il giudice Kouadio Bouatchi insieme all’Alta corte criminale del paese hanno votato all’unanimità per il rilascio della First Lady. Il processo richiedeva la pena di porte per Simone Gbagbo, conosciuta anche come la "Iron Lady" della Costa d’Avorio, per crimini contro l’umanità commessi durante il mandato presidenziale del marito. Secondo l’accusa, Gbagbo si è imposta fin da subito come il "vero capo di Stato della Costa d’Avorio, dell’esercito, della polizia e della gendarmeria". Tuttavia dopo essere stata ritenuta innocente, dovrà scontare 20 anni di prigione per essere stata processata nel 2015 per offese contro lo Stato. Anche suo marito, Laurent Gbagbo è sotto processo per crimini contro l’umanità, uccisioni, rapimenti e persecuzioni dalla Corte Penale Internazionale dell’Aia. La corte ha richiesto di processare anche la moglie e ha emesso un mandato d’arresto nei suoi confronti, tuttavia la autorità della Costa d’Avorio hanno rifiutato di consegnarla e hanno assicurato di avviare un giusto processo al livello nazionale. La Costa d’Avorio ha affrontato una guerra civile nel 2011 dopo che Laurent Gbagbo ha rifiutato di cedere il potere al suo successore Alessane Outtara dopo aver vinto le elezioni. Circa 3.000 persone sono state uccise durante il conflitto. Human Rights Watch ha detto che la decisione della corte lascia "importanti questioni irrisolte" riguardo il ruolo della first lady durante i crimini brutali che sono stati commessi ai danni della popolazione civile. Il direttore associato del programma di giustizia internazionale di Human Rights Watch, Param-Preet Singh, ha dichiarato che la bassa qualità delle indagini e le scarse prove riscontrate durante il processo mettono in evidenza l’importanza di dover portare il caso di fronte la Corte Penale Internazionale.