Una festa della Liberazione dal carcere che uccide di Danilo Paolini Avvenire, 30 aprile 2017 Appena qualche giorno fa, tra le consuete, trite polemiche, abbiamo ricordato il settantaduesimo anniversario della Liberazione dell’Italia dalla dittatura fascista e dall’occupazione nazista. Michele, condannato a quattro anni in primo grado, non vedrà mai la sua liberazione: cinque notti prima del 25 aprile si è impiccato nel bagno della sua cella, a San Vittore, con la cintura dell’accappatoio. Aveva 41 anni, un serio problema con la bottiglia e nemmeno uno straccio di speranza. Un mese prima Carmelo, 58 anni, si era tagliato la gola a Rebibbia. E in quello stesso giorno aveva deciso di farla finita, a Regina Coeli, un trentenne bosniaco. Sono gli ultimi tre di un elenco già troppo lungo, che infonde paura e raccapriccio a chiunque crede nella giustizia autentica e nello Stato di diritto: nel 2017 sono finora 16 i detenuti che si sono suicidati nel nostro Paese, in media quattro al mese. In tutto il 2016 furono 45, 43 nel 2015. Parliamo di suicidi conclamati, perciò non sono incluse le tante morti sospette né quelle provocate da malattie e carenze sanitarie direttamente collegate alle condizioni di reclusione. Nella statistica non rientra quindi neanche il carcerato ignoto che se n’è andato domenica scorsa a Regina Coeli. Aveva 80 anni, ne doveva scontare ancora uno per un cumulo di pena dovuto a una serie di furti di biciclette, ma non ce l’ha fatta: una caduta gli è stata fatale. Pare fosse cleptomane più che ladro (lo leggiamo dal quotidiano Il Dubbio), ma quel che impressiona è che alla sua età fosse ancora dietro le sbarre. Già, perché quel ladro sconosciuto era, prima di tutto, una persona. Un vecchio. Mal vissuto, forse. O magari soltanto malato, o sfortunato. Ma tutto ciò non rileva, direbbe un giudice. In galera ci si va per i reati commessi (tralasciando il fatto che in 7mila ogni anno ci finiscono da innocenti) ed è giusto così. Profondamente ingiusto, invece, è che una volta 'dentro' si possa smettere di percepirsi, ed essere percepiti, come persone. Ad andare oltre le statistiche, a sostituire i numeri con gli uomini e le donne, è un calvario di storie, di dolori, di errori, di orrori. E sarebbe davvero bello (anzi no, sarebbe solamente giusto) se un giorno, il 25 aprile o in qualsiasi altra data, potessimo festeggiare anche la Liberazione da questo carcere. Un carcere che, quando non uccide, rappresenta troppo spesso una pena accessoria, incostituzionale e inumana, rispetto alla già dura privazione della libertà personale. Carceri, famiglie e salute: lo stato paga solo a risultato di Mario Calderini Il Sole 24 Ore, 30 aprile 2017 Chi l’ha detto che il welfare deve essere in perdita? Col pay by result i privati investono sul terzo settore, per servizi efficaci misurabili. Se quest’estate, in vacanza in Canada, qualcuno vi fermasse mentre fate acquisti in un supermercato, è probabile che non vi voglia vendere un abbonamento in palestra ma solo misurarvi la pressione. Se per caso la vostra pressione fosse alta ma non altissima, avreste così la possibilità di entrare a far parte delle settemila persone oggetto di un programma di prevenzione dell’ipertensione e delle malattie cardiache correlate. La buona notizia è che non sarete voi a pagare per il programma di prevenzione, né direttamente come privato cittadino né come contribuente, perché l’intervento è finanziato da investitori privati che hanno deciso di aderire a un’iniziativa del Governo Canadese, chiamata Community Hypertension Prevention Initiative. Lo schema prevede che gli investitori privati finanzino la Heart&Stroke Foundation per realizzare un innovativo programma di prevenzione. Se la fondazione raggiunge gli obiettivi fissati, inserendo 7mila persone nel programma ed evitando che queste sviluppino forme di ipertensione più acuta, gli investitori riceveranno indietro il capitale investito più un rendimento finanziario in misura proporzionale agli obiettivi raggiunti, fino a 4 milioni di dollari per un programma che vale 3,4 milioni di dollari. Chi paga? La Public Health Agency of Canada. Lo Stato quindi, ma se i conti sono stati fatti bene (ed è un "se" molto grande, come vedremo), l’esborso di risorse pubbliche sarà più che compensato dai risparmi futuri che la pubblica amministrazione otterrà attraverso la prevenzione, ad esempio grazie a minori costi di ospedalizzazione, cura o riabilitazione. Un doppio risultato quindi, un risparmio per lo Stato e un impatto sociale positivo in termini di miglioramento della salute dei cittadini: in teoria la soluzione perfetta a molti problemi sociali, in pratica un meccanismo affetto da molte criticità, molto complesso e la cui efficacia è ancora tutta da dimostrare. Quello descritto sommariamente è lo schema base dei social impact bond, una forma particolare di meccanismo di pay by result che sta attirando grande attenzione in molti paesi. Le sperimentazioni in tutto il mondo sono ormai poco meno di un centinaio e alcune evidenze aneddotiche e preliminari raccontano di presunti successi (la prevenzione del diabete in Israele o il miglioramento del tasso di successo dei programmi di affido dei minori in Australia) e presunti insuccessi (l’abbassamento del tasso di recidiva in alcune prigioni della Gran Bretagna e degli Stati Uniti). L’unico dato di fatto a oggi è che ci sono ancora troppo poche evidenze disponibili per celebrare o affossare questi strumenti. Gli schemi finanziari di pay by result sono, in linea generale, modalità di finanziamento prevalentemente destinate a organizzazioni del terzo settore, che prevedono che l’entità del pagamento dovuto sia commisurata ai risultati ottenuti nella soluzione del problema sociale oggetto dell'intervento. Estremizzando, si propongono quindi in alternativa a schemi di tipo pay-for-expenses (i grant o le donazioni filantropiche per intenderci), nei quali l’erogazione avviene a fondo perduto senza diretta correlazione con il risultato ma solo con la rendicontazione delle spese, anche se va riconosciuto che anche per i grant esistono talvolta forme di controllo molto sofisticate. Le ragioni per cui le pubbliche amministrazioni guardano con attenzione a questo tipo di innovazione finanziaria sono molteplici. In primo luogo, l’oggettiva difficoltà delle stesse a disporre di risorse sufficienti ad affrontare alcuni problemi sociali emergenti e quindi l’interesse ad attrarre capitali privati e a sperimentare soluzioni a basso impatto sulle risorse pubbliche; in secondo luogo la necessità di re-ingegnerizzare la spesa pubblica nel senso della prevenzione, sperimentando soluzioni innovative. La potenziale capacità di promuovere soluzioni innovative è l’elemento più interessante dello strumento. Il pay by result, obbligando l’esecutore al raggiungimento di un risultato e non alle modalità con le quali lo stesso viene raggiunto, lascia all’esecutore la libertà di scegliere la modalità più opportuna, senza che questa sia vincolata al giudizio ex-ante del finanziatore, che in quanto parte meno informata è anche spesso più avverso al rischio e quindi più incline a finanziarie soluzioni più conservative. Altrettanto evidenti sono tuttavia le criticità. Da un lato, i rilevanti problemi di misurazione, legati sia alla difficoltà tecnica di isolare e quantificare i risultati derivanti dall’intervento, sia al fatto che tali risultati si manifestano spesso nel lungo periodo. Dall’altro, gli effetti che l’applicazione dello strumento può generare sulle organizzazioni del terzo settore che realizzano l’intervento, che potrebbero trovarsi ad affrontare un rischio di insuccesso (e quindi di mancato pagamento) che non sono attrezzate a gestire. Infine, nel caso italiano, mentre meccanismi semplici di pay by result, pur nella loro complessità, sono certamente sperimentabili, i social impact bond nella loro forma più pura si scontrano con ostacoli quasi insormontabili, tra cui in particolare l’impossibilità per le amministrazioni pubbliche di impegnare per investimenti somme che non sono tecnicamente disponibili a bilancio, come nel caso dei risparmi futuri generati dall’intervento preventivo. La questione più rilevante è certamente quella legata al rapporto tra questi strumenti e le politiche di welfare, essendo i primi fortemente sospettati di essere funzionali a un disegno di smantellamento delle politiche sociali a diretto intervento pubblico. Benché questa sia certamente una preoccupazione legittima, non si giustifica tuttavia un pregiudizio così forte verso sperimentazioni che devono essere marginali rispetto all’impianto complessivo delle politiche di welfare e orientate a individuare soluzioni innovative per problemi sociali particolarmente complessi o che stanno ai margini o al di fuori di un realistico perimetro di intervento dello Stato. Il primo social impact bond in Italia entro fine anno, nel carcere di Torino di Alessia Maccaferri Il Sole 24 Ore, 30 aprile 2017 Un capannone industriale dentro le mura del carcere di Torino. Con detenuti che vanno al lavoro tutte le mattine. Per il suo progetto Domenico Minervini si sta dando un gran da fare. Perché il capannone ce l’ha già, è pronto. "Ho già parlato con diversi imprenditori. Per ora nessuno si è fatto avanti - spiega il direttore della Casa circondariale Lorusso Cutugno - Sono stato anche all’Unione Industriali, a gennaio. È inutile lamentarsi dei reati comuni e poi non fare nulla. La prevenzione si comincia a fare qui dentro. E la società civile è chiamata a dare il suo contributo. Incluse le imprese". Che, peraltro, avrebbero significativi sgravi fiscali sul costo del lavoro. Per ora gli imprenditori non si fanno vedere al carcere ex-Le Vallette. Ma a fine anno potrebbero arrivare gli investitori privati. Che, con due milioni di euro, potrebbero investire nel primo social impact bond italiano. Adattato da Human Foundation alla realtà torinese, lo strumento vuole affrontare uno dei problemi più annosi delle carceri italiane: l’alto tasso di recidiva con sovraffollamento delle strutture e alti costi da parte dello Stato. Come farlo? Chiedendo a privati di investire capitali da erogare a cooperative e imprenditori sociali per efficaci programmi di inserimento lavorativo e sociale. Perché è risaputo che, laddove questi percorsi sono davvero validi, il rischio di reiterazione del reato crolla dal 70 al 30%, anche meno. Come dimostrano diverse esperienze italiane tra cui il carcere milanese di Bollate. "Il problema è che il denaro va speso bene e sono necessari meccanismi di controllo - spiega Minervini. Negli anni sono stati erogati tanti fondi. Ma spesso i programmi realizzati dalle cooperative, e sostenuti con cospicui finanziamenti, non hanno portato i benefici attesi". L’innovazione del pay by result prevede che lo stato - in questo caso il ministero della Giustizia - restituisca il capitale agli investitori con gli interessi (in questo caso si ipotizza il 2-3%). Ma solo a fronte di risultati - accertati da un valutatore esterno - sulla base di obiettivi stabiliti prima dell’inizio dell’operazione (in questo caso l’indicatore chiave sarà la diminuzione del tasso di recidiva). "Vanno fatti percorsi professionalizzanti forti perché i detenuti raggiungano competenze vere" aggiunge Minervini. E poi resta la questione cruciale dei numeri. Su 1.370 detenuti al carcere torinese 230 sono impegnati nei lavori interni al carcere (pulizia, cucine, manutenzione) e le otto cooperative offrono 35 posti di lavoro. Quando è arrivato Minervini nel 2014 erano 38 i detenuti impegnati in lavori di utilità sociale fuori dal carcere. Ora sono 96 grazie ad accordi con diversi Comuni, soprattutto per attività di giardinaggio. "Se non si potenziano i numeri dei percorsi sia interni sia esterni - aggiunge Minervini - la nostra azione non sarà efficace. Il tempo della pena deve essere utile". Il progetto per il carcere torinese prevede il coinvolgimento di un primo gruppo sperimentale di cento detenuti, che verrà via via esteso ad altri gruppi di persone. "Di certo un progetto di medio e lungo periodo può facilitare l’efficacia del risultato" spiega Federico Mento, direttore di Human Foundation, la fondazione che ha curato lo studio di fattibilità "L’applicazione di strumenti pay by result per l’innovazione dei programmi di reinserimento sociale e lavorativo delle persone detenute". I fornitori del servizio - cioè le imprese sociali e le cooperative impegnate nei programmi di inserimento sociale- avranno un orizzonte di un paio di anni almeno. "Le organizzazioni nel carcere di Torino sono serie ma sinora hanno operato in una prospettiva disarticolata di breve termine - aggiunge Mento. L’idea che abbiamo è mettere assieme operatori e competenze in una modalità strutturata e integrata, aggiungendo magari competenze nuove". Perché con il pay by result la qualità della realizzazione del programma è fondamentale per raggiungere i risultati e remunerare gli investitori. Che potrebbero essere estesi anche ad altri, rispetto all’impegno di Fondazione Sviluppo e Crescita Crt. Lo studio della fondazione presieduta da Giovanna Melandri si basa sull’analisi delle best practice italiane e straniere. Che ha preso in esame i social impact bond nel carcere di Peterborough in Gran Bretagna e Riker’s Island negli Stati Uniti. Sinora i risultati sono stati parziali. Ma l’innovazione passa inevitabilmente dalla sperimentazione. La macabra danza intorno ai diseredati di Massimo Giannini La Repubblica, 30 aprile 2017 Non c’è nulla di più miserabile che "speculare" sulla vita dei migranti. Quanta rabbia ci ha fatto, leggere le intercettazioni telefoniche di Salvatore Buzzi che diceva alla sua segretaria "hai idea di quanto ce guadagno sugli immigrati? La droga rende meno". Ma quella era Mafia Capitale, che con il traffico di esseri umani lucrava soldi. Per questo ora ci fa ancora più rabbia, ascoltare le aberrazioni politiche di chi usa i migranti per guadagnare voti. Su un doloroso "scandalo morale" (la morte in mare di migliaia e migliaia di poveri disperati) si sta montando un vergognoso scontro istituzionale, che chiama in causa i partiti e il governo, il Csm e le alte cariche dello Stato. In questa contesa ignobile sulla pelle degli ultimi le Ong, e le sospette collusioni con gli scafisti libici, sono solo un pretesto. La vera posta in gioco è il dividendo elettorale di uno "story-telling dell’immigrazione" che - in sintonia con lo spirito del tempo "sovranista" - si vuole rappresentare con i toni del sospetto, e non più del rispetto. Dell’intransigenza, e non più dell’accoglienza. Anche a costo di distorcere la verità dei fatti e le regole del diritto. Sbaglia il pentastellato Di Maio. È scorretto manipolare un rapporto Frontex e appropriarsi di ipotesi generiche di "collusione" formulate dal procuratore di Catania (riferendo chiacchiere ascoltate e non prove verbalizzate). È insensato affermare che gli sbarchi aumentano per effetto di questo patto scellerato tra gli scafisti e le organizzazioni non governative che operano sul confine delle acque territoriali libiche. L’emergenza sbarchi è oggettiva, ma non c’entra nulla l’ipotetica "spinta" delle Ong. Quando chiuse Mare Nostrum gli sbarchi aumentarono lo stesso. E infine è ipocrita rispondere a Piero Grasso che dovrebbe "restare al di sopra le parti" in quanto presidente del Senato. Con questo ragionamento Di Maio non dovrebbe fare la stessa cosa, visto che è vicepresidente della Camera? Sbaglia il procuratore di Catania Zuccaro. Un magistrato serio, se non ha prove attendibili e spendibili in un dibattimento, ma solo indizi ed elementi di indagine acquisiti dai servizi segreti, non veste i panni impropri del Pier Paolo Pasolini degli Scritti Corsari (come ricorda Michele Serra sulla sua "Amaca"), per dire che "lui sa", e quindi ha "il preciso dovere di denunciare un gravissimo fenomeno criminale". Perché questo dovere ce l’ha, in effetti. Ma non deve espletarlo rilasciando interviste a tv e giornali, bensì facendo quello che gli impongono le norme sulla responsabilità disciplinare dei magistrati, la legge sul sistema di sicurezza della Repubblica e il codice etico dell’Anm. Cioè evitando "pubbliche dichiarazioni", e soprattutto informando "immediatamente" le autorità politiche, dal presidente del Consiglio ai ministri competenti. Sbaglia anche Alfano, che interviene per difendere il procuratore. Prima di passare alla Farnesina, è stato ministro degli Interni per quattro anni. Se condivide con Zuccaro il sospetto di una connessione criminale tra Ong e scafisti, possibile che dal Viminale non ne abbia mai saputo nulla? Oppure, se ne ha saputo qualcosa, perché finora ha taciuto? Deve finire, questa "danza macabra" intorno al corpo martoriato di un’umanità che fugge da guerre, violenze, miserie. In ballo c’è un patrimonio umanitario inestimabile, il lavoro prezioso di organizzazioni come Medici senza frontiere, Save the Children e molte altre, che salvano le vite che gli Stati non possono o non vogliono più salvare. Se c’è il sospetto che ce ne siano altre che invece fanno affari con i mercanti di morte del corno d’Africa, è giusto che si vada a fondo e si indaghi, a livello politico e giudiziario. Ma stando ai fatti, non ai teoremi. E soprattutto senza armare canizze ignobili, che hanno già causato un danno enorme (screditando le Ong agli occhi dell’opinione pubblica), e che invece confermano una triste certezza. Una politica sempre più povera di idee e di spirito coltiva una doppia, penosa illusione. Ingrassare i consensi nell’urna, fomentando la paura del diverso come unico collante per degli spaventati della globalizzazione. E "gestire" un fenomeno migratorio epocale, usando la tomba del Mediterraneo come unico "deterrente" per i diseredati della terra. Ong nel mirino, il sottofondo oscuro del teorema Zuccaro di Luigi Manconi Il Manifesto, 30 aprile 2017 Tra i tanti fattori indecenti di questo scandalo del posticcio scandalo delle Ong, ne voglio sottolineare due. L’immagine, così frequentemente utilizzata, dei "taxi del Mediterraneo" (Luigi Di Maio) appartiene a un immaginario dozzinale e a una misera sottocultura che ha già prodotto la definizione di "hotel di lusso" (Roberto Castelli) a proposito degli istituti penitenziari italiani. E rimanda a un’angustia mentale, a una concezione immancabilmente sordida delle attività umane, a una voluttà di anticonformismo straccione, indirizzato contro il "buonismo" così come contro la globalizzazione, contro le politiche universalistiche e contro tutto ciò che trascende il perimetro del giardino di casa. E a quel sottofondo oscuro di pulsioni profonde che è il collante principale di settori dell’elettorato di Lega e Cinque Stelle: un rancore sociale che arriva a vedere nei migranti - così come nei detenuti - i concorrenti di una competizione giocata sulle macerie dei sistemi di welfare e delle culture solidaristiche. C’è poi, in questo quadro, un secondo elemento almeno altrettanto offensivo. Ed è rappresentato da quel Dottore Carmelo "forse" Zuccaro che rovescia d’un colpo solo il già traballante codice di comportamento della categoria, mortificando ogni regola, umiliando ogni stile di condotta e infrangendo ogni vincolo di ruolo. In una incontinente e a tratti persino esilarante performance oratoria, il Dottore Carmelo "forse" Zuccaro annuncia prima di "aver aperto" e, dopo un mese, di "voler aprire un’inchiesta per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina nei confronti delle Ong". E poi è tutto un rovinoso e logorroico precipitare: "Ho evidenze che tra alcune Ong e i trafficanti di uomini ci sono contatti diretti", "alcune Ong potrebbero essere finanziate dai trafficanti", ma "non sappiamo ancora se e come utilizzare processualmente queste informazioni". Il procuratore disegna così un vero e proprio progetto criminale che potrebbe avere tra le sue finalità - alla lettera - "la destabilizzazione dell’economia italiana". E denuncia l’esistenza di un piano capace di minacciare gli interessi italiani e la stessa sicurezza nazionale. Ma, alla prima richiesta di verifica, quella articolata e dettagliata narrazione si disgrega e si sfalda sotto una sequenza di avverbi di dubbio (forse, innanzitutto; e poi: probabilmente, quasi, eventualmente…), di tempi al condizionale e di periodi ipotetici. E il Dottore Carmelo "forse" Zuccaro candidamente dichiara di non avere "alcuna prova" e che, tuttavia, è suo dovere segnalare "il fenomeno". Va detto - per amor di verità - che ormai da trent’anni una parte, numericamente ridotta ma irresistibilmente loquace, della magistratura ci ha abituato a simili mitologiche rappresentazioni: "senza alcuna prova". E tuttavia qui si rischia davvero di toccare il fondo di un comportamento che disonora la stessa magistratura e ne deforma fino alla caricatura la funzione. Sia chiaro: certamente vanno indagate le possibili ombre che l’attività di soccorso può suscitare, va incentivata la massima trasparenza e vanno stabilite regole condivise: non contro le organizzazioni, ma a loro stessa tutela. Ma qui si è fatto l’esatto contrario. Qui si è allestita la più velenosa campagna di denigrazione e manipolazione contro le politiche per l’immigrazione e l’asilo: una campagna che, per ragioni molto serie e preoccupanti, è penetrata fino in fondo alle culture tradizionalmente considerate della solidarietà (riconducibili alla sinistra, e non solo). E pensare che tutto ha avuto inizio con un rapporto di Frontex che accenna ad alcune conseguenze non volute (unintended consequences), ad effetti involontariamente avversi che coinvolgerebbero la presenza delle navi militari e di quelle delle Ong e il loro aumento nel corso del 2016, a poche miglia dal limite delle acque libiche. Effetti che porterebbero entrambe queste categorie di navi (quelle militari e quelle delle Ong) a essere l’obiettivo più agevolmente raggiungibile da parte dei migranti. Tutto qui. E senza che venisse posto in discussione il fatto che il cosiddetto pull factor, di cui si è parlato fin dai tempi di Mare Nostrum, viene considerato dagli stessi soggetti militari un elemento secondario rispetto a quel push factor, ben maggiore e inarrestabile, che induce migliaia e migliaia di persone a lasciare la propria terra. Tanto è vero che a tutto questo improbabile castello di accuse hanno risposto puntualmente non solo i rappresentanti delle Ong, ma soprattutto gli alti ufficiali responsabili delle diverse missioni italiane ed europee nel Mediterraneo. E, finalmente, giovedì scorso anche le istituzioni dell’Unione europea si sono fatte sentire. Frans Timmermans, vicepresidente della Commissione europea, ha affermato che "non c’è alcun tipo di prova che le Ong lavorino con organizzazioni criminali" e, ancora, che quelle stesse Ong "sono un asset prezioso perché fanno quello che i governi per ragioni politiche non sono in grado di fare". Ecco, questo è il punto: le Ong surrogano una politica europea o totalmente deficitaria o drammaticamente irresponsabile. E guai se non ci fossero le Ong. Alfano alla campagna contro le Ong: "Sto con Zuccaro al 100%" di Andrea Colombo Il Manifesto, 30 aprile 2017 Alla deriva. Il ministro spacca la linea del governo. Scontro con Orlando, Gentiloni difende "l’attività preziosa" delle organizzazioni. C’è chi sulla pelle dei migranti ci fa più soldi che con gli stupefacenti, come disse Salvatore Buzzi, e chi spera di riempire invece i forzieri elettorali. La denuncia sulle eventuali collusioni tra Ong e trafficanti di esseri umani, partita da Luigi di Maio e dal procuratore di Catania, Carmelo Zuccaro, è diventata ieri la linea del fronte su cui si gioca una campagna elettorale strisciante e venefica. Il ministro degli Esteri Angelino Alfano si schiera senza riserve col procuratore e di conseguenza contro il grosso del governo, che invece fa muro in difesa delle Ong e del loro ruolo prezioso nel salvataggio di migliaia di vite. Alfano va a spada tratta: "Do ragione al procuratore al 100%. Ha posto una questione vera e non ha generalizzato. Bisogna capire come fanno alcune Ong, non tutte, a spendere tutti questi soldi solo con i finanziamenti dei sostenitori. Bisognerà accertarlo". Parole che destano la massima ira a palazzo Chigi, perché la caccia al voto di destra di Alfano spacca una linea di governo altrimenti omogenea. Le repliche arrivano a stretto giro e la più acuminata è quella del ministro della Giustizia Andrea Orlando: "Se Alfano è così convinto c’è da chiedersi perché non se ne è accorto quando faceva il ministro degli Interni. Era distratto". Botta e risposta: "Ho fatto la dichiarazione che avrebbe dovuto fare lui se non fosse assente", replica il ministro degli Esteri. La posizione di Alfano non è opposta a quella del premier Paolo Gentiloni, del suo predecessore Matteo Renzi, del guardasigilli Orlando o del presidente del Senato Pietro Grasso, tutti intervenuti ieri: nessuno chiede di non indagare o non approfondire. Sono però opposti i toni, che in casi come questo sono tutto. Anche Gentiloni assicura che "se ci sono da parte della magistratura informazioni attendibili e credibili non sarà certo il governo a contrastarle". Allo stesso tempo, però, riconosce alle Ong i loro meriti. La loro è "un’attività preziosa e benvenuta: dobbiamo essere grati per il lavoro che fanno". Renzi si scaglia contro M5S e Lega, che "sono dalla stessa parte" e "vogliono solo lucrare qualche voto", anche se si sottrae alle polemiche con il procuratore di Catania: "Noi siamo dalla parte dei giudici ma non si spara nel mucchio per prendere voti". Attacca invece frontalmente Zuccaro l’ex magistrato che presiede il Senato: "Mi pare un po’ fuori dall’ordinamento che un magistrato si possa pronunciare prima delle indagini. Quando si è conclusa l’istruttoria si può forse renderne noto l’esito. Mai prima". Passano le ore. I toni si alzano. Il dibattito diventa una rissa nella quale tutti menano fendenti. "Non accettiamo lezioni da Grasso e Boldrini", contrattacca Di Maio e accusa il governo di prendersela con il procuratore Zuccaro "perché sta indagando sul Cara di Mineo". Colpo alla cieca vibrato al momento sbagliato. Il primo a risentirsi per le indagini su Mineo e sull’ex sottosegretario Giuseppe Castiglione dovrebbe essere proprio Alfano, padrino politico di Castiglione, che invece difende il procuratore. Grasso non ci sta e scazzotta a sua volta rivolto a Di Maio: "Hai già dimostrato di avere grosse lacune in storia, geografia e diritto: qualche lezione ti sarebbe utile". La Lega, non paga del livello raggiunto dalla rissa, prova a versare qualche litro di benzina in più: "Denunceremo il governo, il Pd e i presidenti delle Camere per favoreggiamento". Mentre fioccano gli insulti, si delineano due fronti, in un succoso anticipo di quel che sarà la campagna elettorale: tutta la destra, più M5S, si compatta a difesa di Zuccaro, con il palese intento di colpire le Ong e in realtà l’intera politica sull’immigrazione. Il centrosinistra invece fa scudo alle Ong, ma senza attaccare direttamente il procuratore. In privato dicono anzi che Renzi sia più vicino alle posizioni di Alfano di quanto non sia disposto ad ammettere. Probabilmente nel Pd circola il dubbio che Zuccaro disponga davvero di qualche elemento che autorizzi almeno sospetti e che abbia alzato così la palla proprio per smuovere le acque data la difficoltà di verificarli. Ma quali che fossero le sue intenzioni, e per di più nel clima avvelenato della politica italiana, la sua mossa è stata disastrosa. Ong e migranti, scontro Alfano-Orlando. E Grasso a Di Maio: "Hai grosse lacune, studia" di Paolo Decrestina Corriere della Sera, 30 aprile 2017 Continua a tenere banco la polemica sui rapporti tra organizzazioni e scafisti. Il ministro degli Esteri: "Procuratore di Catania ha posto questione vera. Rischio c’è". Il responsabile della Giustizia Orlando replica: "Distratto quando era agli Interni". Il presidente del Senato Grasso bacchetta l’esponente 5 Stelle: "Qualche lezione ti farebbe bene". Sulle frasi del procuratore di Catania sui rapporti tra alcune Ong e il traffico dei migranti scoppia la polemica in seno al governo. Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha infatti replicato all’appoggio manifestato dal responsabile degli Esteri, Angelino Alfano, a Carmelo Zuccaro. Alfano si era schierato con il procuratore di Catania: "Ha ragione Al 100%". Zuccaro, parlando di migranti, nei giorni scorsi aveva denunciato "che alcune Ong potrebbero essere finanziate dai trafficanti di uomini". L’ennesima sortita del procuratore di Catania aveva già portato alla reazione di due ministri del governo: prima Marco Minniti e poi Andrea Orlando lo avevano invitato a "non trarre conclusioni affrettate" e soprattutto a "parlare con gli atti". Nella mattinata di sabato, poi, la presa di posizione di Alfano. "Io do cento per cento di ragione al Procuratore Zuccaro perché ha posto una questione vera. Tutti coloro i quali devono sapere sanno che questo rischio c’è. Ha il cento per cento di ragione lui". Non solo, secondo il ministro degli Esteri, intervenuto a Taormina, sono degli "ipocriti e dei sepolcri un po’ imbiancati tutti quelli che si indignano a comando. Cioè, se i magistrati dicono delle cose che a loro piacciono, allora i magistrati possono parlare. Se dicono cose che a loro non piacciono, i magistrati devono stare zitti". "Distratto quando era ministro" - "Non credo si debbano sostenere le tesi del procuratore di Catania - ha replicato il ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Bisogna sostenere le inchieste del procuratore di Catania e sulla base di queste trarre delle conclusioni. Se Alfano è convinto che abbia ragione nel descrivere quel quadro di insieme che il procuratore indica, e che io non sono in grado di confutare, non essendomi occupato del tema, c’è da chiedersi perché non se n’è accordo quando faceva il ministro degli interni. Probabilmente - aggiunge - è una distrazione di Alfano". La replica di Alfano: "Non cercavo polemica con il collega Orlando. Ma evidentemente il Guardasigilli, ormai, è in campagna elettorale permanente ed è assente da via Arenula". Scontro Grasso-Di Maio - Sul caso è intervenuto anche il presidente del Senato Pietro Grasso che con un post su Facebook bacchetta Luigi Di Maio dei 5 stelle: "Caro Luigi, sei giovane, ma faresti bene a ricordarti che a tutte le età si può e deve imparare. Hai già dimostrato più volte di avere grosse lacune in storia, geografia e diritto: qualche lezione ti sarebbe utile". Anche qui non si è fatta attendere la replica: "Caro Grasso, io non smetto mai di imparare nella vita, ma dal suo partito che prendeva soldi dal business degli immigrati non ho proprio nulla da apprendere. Anni e anni di magistratura eppure le è sfuggito". Infine si è fatto sentire anche Matteo Salvini, leader della Lega Nord: "Alfano e Orlando, Grasso e Boldrini, Renzi e Gentiloni tutti complici e tutti saranno denunciati per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina". "Zuccaro non ha generalizzato" - "Il procuratore Zuccaro non ha generalizzato, non ha sparato genericamente su tutte le Ong - aveva aggiunto Alfano - ma occorre andare fino in fondo e penso, e spero, che non sia solo la Procura di Catania a occuparsi di questa vicenda perché noi abbiamo fatto un grande sacrificio nel salvataggio di vite umane ed ogni vita umana che si salva e sempre un risultato per l’umanità intera". "Però - ha sottolineato Alfano - bisogna anche capire come fanno alcune Ong, e non tutte, neanche la mia è una generalizzazione, a spendere tutti questi soldi solo con i finanziamenti dei sostenitori. Boh, vediamo. Bisognerà accertarlo e spero che siano alcune, e non una sola, le Procure che lavorano su questo". Gentiloni: "Ong preziose, ma magistratura vada avanti" - Più cauta invece la posizione del premier Paolo Gentiloni. "Se ci sono da parte della magistratura delle informazioni attendibili e credibili, non sarà certo il governo a contrastarle, ma distinguiamo questo dal fatto che per noi l’attività delle organizzazioni di volontariato è preziosa e benvenuta", ha detto il presidente del consiglio arrivando al vertice Ue straordinario sulla Brexit. L’attività delle Ong, per Gentiloni è "preziosa e benvenuta". E se ci sono traffici "la magistratura indagherà. I volontari che salvano vite umane "sono benvenuti". Di Maio e Salvini - Dopo la denuncia del procuratore di Catania, si era espresso anche Luigi Di Maio: "Non so se è chiaro: Ong forse finanziate dagli scafisti. Gli ipocriti continuino pure ad attaccarmi, io vado fino in fondo". Una posizione sulla linea del leader della Lega Matteo Salvini secondo il quale "bisogna arrestare i trafficanti e affondare tutte le navi usate". Lite sulle Ong pensando a primarie ed elezioni di Claudio Paudice L'Huffington Post, 30 aprile 2017 Scontro nel Governo sul procuratore di Catania. Alfano: "Con Zuccaro al 100%". Orlando: "Da ministro dell'Interno era distratto". Una guerra di posizione intorno alle Ong dietro cui si cela la vera posta in gioco, tutta politica. Le accuse del procuratore di Catania Carmelo Zuccaro sui presunti rapporti (e "forse finanziamenti") tra alcune Organizzazioni non governative e i trafficanti di migranti che operano sulle coste libiche hanno provocato uno scontro istituzionale su tutti i livelli: il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha attaccato duramente il collega Angelino Alfano, il presidente del Senato Pietro Grasso ha replicato invece alle accuse del vicepresidente della Camera Luigi Di Maio. Un cortocircuito politico, alla vigilia delle primarie e nel giorno della "grande apertura" del Movimento 5 Stelle nei confronti del Pd sulla legge elettorale: è il segnale che dietro lo scontro che va avanti da giorni sulle Ong che operano nel Mar Mediterraneo e che ha raggiunto oggi il suo apice si giocano altre partite. Non a caso il ministro degli Esteri Alfano, rispondendo a Orlando, candidato alle primarie del Pd, lo accusa "di essere in campagna elettorale permanente". "È assente da via Arenula (sede del ministero della Giustizia, ndr). Dunque, non ricorda che un ministro dell'Interno non parla delle inchieste dei magistrati", dice riferendosi al suo precedente incarico. Orlando, dopo la presa di posizione di Alfano a favore del procuratore Zuccaro, lo aveva attaccato: "Se è convinto che abbia ragione il magistrato, viene da chiedersi perché non se n'è accorto da ministro dell'Interno, forse era distratto". Un attacco 'sorprendentè per un politico mite come Orlando. Ma la tempistica, in certi casi, non è puro dettaglio: l'affondo del Guardasigilli arriva alla vigilia delle primarie Pd che, secondo tutti i pronostici, assegnerà la segretaria dem all'ex premier Matteo Renzi. L'attacco nei confronti di uno dei ministri meno popolari dei governi Renzi e Gentiloni assume così il sapore dello scatto finale, dell'estremo tentativo prima dell'apertura dei gazebo. Anche l'uscita irrituale del "moderato" ministro Alfano, totalmente schierato a favore di un procuratore della Repubblica, trova la sua ragione politica nella tempistica. La decisione di rompere il fronte del Governo, che ha sempre espresso sostegno alle Ong pur invitando i magistrati a continuare nelle indagini, arriva nel giorno dell'apertura di Luigi Di Maio sulla legge elettorale al Partito Democratico. È chiaro che un accordo, per ora ancora lontano sul fronte parlamentare, rischierebbe di lasciare nell'angolo il ministro degli Esteri e il suo partito: sia per i termini del potenziale accordo (soglie di sbarramento e premio di maggioranza) sia perché resterebbe fuori da ogni trattativa. Nessuno sa quale piega prenderà il dibattito politico una volta concluse le primarie e il "rischio" elezioni è dietro l'angolo. Meglio quindi rompere il fronte governativo, anche a costo di assumere la stessa posizione di Luigi Di Maio e del Movimento 5 Stelle, che da diversi giorni manifestano il loro sostegno al procuratore di Catania. E proprio Di Maio è il protagonista dell'altro fronte istituzionale sul caso Zuccaro: in un post su Facebook in cui venivano prese di mira le forze politiche che in questi giorni hanno attaccato il procuratore siciliano "perché sta indagando sul Cara di Mineo, serbatoio di voti", si scaglia anche contro il presidente del Senato Grasso. Che però replica, anche duramente, sempre su Facebook: "Caro Luigi, sei giovane, ma faresti bene a ricordarti che a tutte le età si può e deve imparare. Hai già dimostrato più volte di avere grosse lacune in storia, geografia e diritto: qualche lezione ti sarebbe utile". Scontro istituzionale sulle Ong. Ad aprire lo scontro è il ministro della Giustizia Andrea Orlando che replica duramente al collega titolare degli Esteri, Angelino Alfano per il suo schieramento "al 100 per cento" a favore di Zuccaro: "Non credo si debbano sostenere le tesi del procuratore di Catania, bisogna sostenere le inchieste del procuratore di Catania e sulla base di queste trarre delle conclusioni", ha detto Orlando, candidato alla segreteria Pd, ad Ansa-Alanews. "Se Alfano è convinto che abbia ragione nel descrivere quel quadro di insieme che il procuratore indica, e che io non sono in grado di confutare, non essendomi occupato del tema, c'è da chiedersi perché non se n'è accorto quando faceva il ministro degli interni. Probabilmente - aggiunge - è una distrazione di Alfano". Le parole di Alfano hanno fatto registrare delle insolite convergenze M5S-Ap sul caso delle Ong che operano nel Mediterraneo per salvare i migranti. Il ministro degli Esteri si è detto totalmente d'accordo con il procuratore di Catania Carmelo Zuccaro, proprio come il vicepresidente della Camera Luigi Di Maio, colui che per primo ha sollevato la polemica su alcune organizzazioni non governative che lavorano in mare per salvare i migranti, facendo sue le accuse, seppur non ben circostanziate, del magistrato catanese. "Io do cento per cento di ragione al Procuratore Zuccaro perché ha posto una questione vera. Tutti coloro i quali devono sapere sanno che questo rischio c'è. Ha il cento per cento di ragione lui", ha affermato il ministro degli Esteri Alfano a Taormina rispondendo ad un giornalista che gli ha chiesto di commentare le dichiarazioni del Procuratore di Catania Carmelo Zuccaro sui rapporti tra alcune Ong e i trafficanti. "Sono degli ipocriti e dei sepolcri un po' imbiancati tutti quelli che si indignano a comando. Cioè, se i magistrati dicono delle cose che a loro piacciono, allora i magistrati possono parlare. Se dicono cose che a loro non piacciono, i magistrati devono stare zitti". "Il procuratore Zuccaro non ha generalizzato, non ha sparato genericamente su tutte le Ong - ha aggiunto Alfano - ma occorre andare fino in fondo e penso, e spero, che non sia solo la Procura di Catania ad occuparsi di questa vicenda perché noi abbiamo fatto un grande sacrificio nel salvataggio di vite umane ed ogni vita umana che si salva e sempre un risultato per l'umanità intera". "Però - ha sottolineato Alfano - bisogna anche capire come fanno alcune ong, e non tutte, neanche la mia è una generalizzazione, a spendere tutti questi soldi solo con i finanziamenti dei sostenitori. Boh, vediamo. Bisognerà accertarlo e spero che siano alcune, e non una sola, le Procure che lavorano su questo". In un'intervista al Corriere della Sera Di Maio ha difeso la sua posizione: "Credo che nei prossimi giorni molti mi dovranno chiedere scusa. Io dico che c'è chi salva vite in mare e c'è anche lo spettro che possa esistere chi specula sulle vite dei migranti". Renzi e Gentiloni invece hanno assunto una posizione più moderata, schierandosi sì con le Ong, ma anche con il procuratore di Catania. Tanto per Renzi quanto per Gentiloni, il ruolo delle organizzazioni non governative che operano nel Mediterraneo è "prezioso" ma al tempo stesso, dice il premier, se ci sono traffici "la magistratura indagherà". La questione delle Ong "è diventata oggetto di uno scontro ideologico e politico perché da una lato Di Maio e dall'altro Salvini - che sono assolutamente identici su queste posizioni - hanno attaccato le Ong: noi siamo dalla parte di chi costantemente lavora per la legalità e quindi se ci sono delle prove noi siamo per i giudici e la difesa dei giudici vale per tutti", ha detto Matteo Renzi durante un Facebook Live. "Un politico serio cerca di risolvere il problema non di alimentare la paura. Se c'è un problema su qualche Ong si risolve il problema con quella Ong ma non si spara nel mucchio per prendere i voti: la differenza di fondo tra noi e M5S e Lega è che loro vogliono prendere voti noi vogliamo fermare gli scafisti". Sulla stessa linea il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni. L'attività delle organizzazioni non governative nel Mediterraneo e non solo è "preziosa e benvenuta" e va distinta dalle indagini che la magistratura conduce "su informazioni attendibili e specifiche", ha detto prima del vertice sulla Brexit a Bruxelles. "Penso che dobbiamo essere grati al lavoro che fanno le organizzazioni nel Mediterraneo e in tanti altri settori: senza il lavoro del volontariato l'Italia sarebbe più povera". Ma, ha aggiunto, "se poi ci sono da parte della magistratura delle informazioni specifiche, credibili e attendibili non sarà certo il governo a contrastarle". Insomma, ha concluso, occorre "distinguere dal fatto che l'attività delle organizzazioni di volontariato è un'attività preziosa e benvenuta. Ci sono traffici? La magistratura indagherà. Ci sono volontari che lavorano per salvare vite umane? Benvenuti". La sua è la posizione più cauta, in una giornata di isteria politica. Edmondo Bruti Liberati: "un magistrato non può dire che lui sa ma non ha le prove" di Liana Milella La Repubblica, 30 aprile 2017 L'ex procuratore di Milano è critico nei confronti del collega siciliano: "Lo diceva Pasolini, ma lui era un intellettuale". "Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi". Lo può dire Pasolini, che subito aggiunge "Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore". Non lo può dire un procuratore". Esordisce così l'ex procuratore di Milano ed ex presidente dell'Anm Edmondo Bruti Liberati. Il procuratore di Catania Zuccaro parla in Tv e fa una denuncia pesante su presunti legami tra Ong e trafficanti di esseri umani. Poi, a Repubblica, spiega di non avere prove giudiziarie, ma solide piste investigative sì. Come lo giudica? "La procura, acquisita una notizia di reato, deve indagare per accertare fatti specifici e responsabilità individuali, con il livello di prova elevato che si esige per una condanna, nel pieno rispetto delle garanzie di difesa. Non è accettabile che si faccia intendere di avere raggiunto "certezze" su un fenomeno criminale sulla base di fonti non utilizzabili". Quindi, secondo lei, Zuccaro doveva starsene zitto? "Non doveva parlare così. Giustamente si critica chi utilizza una informazione di garanzia già come condanna anticipata. In questo caso, sembra di capire, non vi è neppure, al momento, un fascicolo a carico di noti o di ignoti ed è proprio il Procuratore ad anticipare giudizi". Ma è vero o no che proprio l'ordinamento giudiziario dell'ex Guardasigilli Castelli attribuisce al solo procuratore la possibilità di parlare anche a nome dei colleghi? "Certamente, ma proprio per questo il procuratore a maggior ragione ha il dovere di non lanciare messaggi sbagliati". Lei sta dicendo che un procuratore può solo illustrare il risultato ufficiale delle sue inchieste e non può esprimere né opinioni, né tanto meno sospetti? "Opinioni, preoccupazioni, sospetti sono stati correttamente espressi dal procuratore nella sede competente della Camera". Zuccaro fa un ragionamento: ho dei sospetti su un fatto gravissimo, Ong e trafficanti che se la intendono, e con i tempi della giustizia ci vorranno anni per avere le prove, supposto che si riesca ad averle. Nel frattempo io parlo e magari salvo vite umane. Perché avrebbe torto? "Come ho già detto, è doveroso trasmettere alle autorità competenti preoccupazioni e sospetti, che potranno essere sviluppati anche con gli strumenti dell'intelligence a disposizione dell'esecutivo. Ma il pubblico ministero non può chiedere un atto di fede: ho le prove e sono sicuro che siano valide, ma non sono utilizzabili, cioè processualmente non esistono. Le regole del processo penale non possono essere mai cortocircuitate: sono una garanzia per gli indagati, ma sono anche una garanzia di correttezza dei risultati raggiunti. Guai se la magistratura si sente investita della missione salvifica di contrastare comunque "fenomeni criminali" piuttosto che muoversi nella difficile ricerca delle prove. Di buone intenzioni...". Al Csm Legnini già ricorda che l'azione disciplinare spetta al Guardasigilli e al Pg della Cassazione. Non è già un modo per condannare Zuccaro? "È un richiamo alla disciplina vigente. Al Pg della Cassazione è stata attribuita l'iniziativa disciplinare obbligatoria, che dunque è sottratta a ogni valutazione di opportunità politica". Il ministro dell'Interno invita a essere cauti, ma non spetterebbe proprio alla polizia portare le prove dei sospetti di Zuccaro? "Noi non sappiamo se e quali elementi la polizia giudiziaria abbia portato alla procura. Sappiamo che in ogni caso si tratterebbe tutt'al più di una fase di indagine preliminare che serve appunto a raccogliere elementi di prova processualmente utilizzabili o a prendere atto che tali elementi non sono stati raccolti". Zuccaro allude a materiale dei servizi che non può essere subito utilizzato nel processo. Ma perché dovrebbe ignorarlo? Non sarebbe grave la sua scelta? "I servizi operano, per legge, con regole diverse da quelle della magistratura e per questo la magistratura può utilizzare solo il materiale trasmesso dalla polizia giudiziaria secondo le regole processuali". Non ritiene che chi critica Zuccaro fa parte del partito che vuole i magistrati il più muti e deboli possibile? "Non so gli altri: io voglio magistrati forti perché applicano rigorosamente le regole e le garanzie del processo e che parlano a ragion veduta e a tempo debito". Dalle Camere Penali proposta di legge per la separazione delle carriere in magistratura Gazzetta del Sud, 30 aprile 2017 L'Unione camere penali, attraverso un proprio comitato scientifico composto da illustri giuristi, ha elaborato una proposta di legge costituzionale al fine di consentire al dibattito - ormai risalente all'entrata in vigore del vigente Codice di procedura penale - sulla separazione delle carriere inquirenti e giudicanti della magistratura italiana, di lasciare le aule dei tribunali, l'Accademia e i dibattiti e convegni tra addetti ai lavori, per approdare al Parlamento italiano, con l'ambizione di trasformare in legge costituzionale le più nobili e sentite ragioni di quel dibattito. "Infatti, giudici e pubblici ministeri - si legge in una nota - sono operatori del diritto che, pur giocando ruoli assai diversi in seno al processo, appartengono oggigiorno allo stesso ordine, partecipano delle stesse prerogative, possono trasmigrare da una funzione all'altra, siedono negli stessi consigli di disciplina ed autogoverno - valutandosi e giudicandosi reciprocamente - e, non ultimo, si aggregano nelle medesime in associazioni di categoria (Associazione nazionale magistrati, Magistratura democratica, Autonomia e indipendenza, Unicost). Questa situazione rende assai sbilanciato il sistema del giudizio penale: da una parte un giudice e un pubblico ministero accomunati da esperienze, concorsi e carriere professionali intrecciate, dall'altra un difensore isolato dal contesto e posto in una situazione di obbiettiva difficoltà nel far valere i diritti del suo assistito. Il traguardo che ci poniamo è quello di riequilibrare il sistema, concedendo a tutte e due le parti del processo penale (l'accusa e la difesa) le stesse opportunità di partenza nel dimostrare le proprie tesi. Il sistema processuale soffre una profonda e difficile crisi. Il giudice terzo è il primo necessario passo verso la modernizzazione del processo nella direzione della effettività dei diritti dei cittadini. Nel nostro Paese, si parla da decenni di riformare il sistema giustizia e le proposte avanzate in questo senso sono disparate ed indirizzate verso gli obbiettivi reputati più urgenti da chi, volta per volta, le avanza. Pmi poco protette dal rischio-corruzione di Marzio Bartoloni Il Sole 24 Ore, 30 aprile 2017 Confindustria-Tim: solo un terzo di imprese si è attrezzata con kit di misure interne per difendersi dal pericolo tangenti. Solo un terzo delle imprese si sono attrezzate per difendersi dal rischio corruzione e hanno adottato le contromisure per evitare la responsabilità amministrativa da reato. E questo nonostante siano disponibili i modelli organizzativi da oltre 15 anni previsti dal Dlgs 231/2001 che ha introdotto la responsabilità amministrativa per le aziende da aggiungere a quella penale in cui possono incappare i dipendenti. Una responsabilità che appunto può essere evitata se l’impresa ha adottato un modello ad hoc fatto anche di organismi di vigilanza, sistemi disciplinari e codici etici. A rivelarlo è una approfondita indagine su 45 imprese, soprattutto Pmi, di 8 Regioni (Piemonte, Lombardia, Liguria, Emilia Romagna, Lazio, Campania, Puglia e Sicilia) effettuata da Confindustria e Tim che insieme stanno lavorando a un vademecum per mettere le imprese in condizioni di difendersi dalla corruzione ispirato al "tool kit" presentato durante il B20 - il summit parallelo delle imprese al G20 - del novembre 2015 di Antalya in Turchia. Il vademecum - un tool kit appunto, ma made in Italy in quanto adeguato alle esigenze e alla normativa italiana - vede in questa indagine appena realizzata un passo importante per capire come realizzarlo in modo da rendere più semplici gli adempimenti, soprattutto per le Pmi. L’indagine oltre ai ritardi mostra infatti anche una volontà delle imprese di recuperare il tempo perso: l’87% delle aziende dichiara di conoscere la disciplina sulla responsabilità amministrativa anche se solo il 36% ha adottato un modello organizzativo (la stragrande maggioranza sono grandi imprese) e il 40% ha attivato corsi di formazione. Ma allo stesso tempo ben tre quarti di chi è privo di contromisure anti illeciti è intenzionato ad adottarle. I più restii puntano il dito contro la complessità delle norme, gli oneri eccessivi e anche lo scarso riconoscimento dei modelli organizzativi da parte dei giudici. Non è un caso che il ministero della Giustizia stia lavorando a una revisione delle norme (in pista c’è una commissione a cui partecipa anche Confindustria). E nella stessa direzione va il vademecum a cui lavorano Confindustria e Tim che punta a rendere meno complicato l’adeguamento alle regole. Più nel dettaglio chi si è già attrezzato nel 37% dei casi ha affidato le funzioni di organismo di vigilanza al collegio sindacale o ad organi equiparabili (consiglio di sorveglianza e comitato per il controllo di gestione). Cruciale anche l’adozione di un sistema disciplinare espressamente previsto dal Dlgs 231 di cui un quinto delle aziende "in regola" non si è munito. Chi lo ha fatto indirizza nel 31% dei casi le sanzioni solo alle posizioni apicali, il 23% a chi è sottoposto a vigilanza e il 46% a diverse categorie di dipendenti. Importante anche il codice etico il cui ruolo è stato riconosciuto anche dalle pronunce dei giudici e le imprese ne sembrano consapevoli visto che l’88% ce ne ha uno. Inoltre ha preso piede anche la pratica del cosiddetto whistle-blowing, la possibilità cioè di agevolare i dipendenti a denunciare le violazioni: ben l’87% delle aziende l’ha regolata, la metà di queste ha introdotto una casella di posta elettronica per le segnalazioni mentre il 28% prevede che siano inviate alla mail dell’organismo di vigilanza. In ogni caso un terzo di questi strumenti garantisce l’anonimato. Infine dall’indagine emerge che solo il 35% delle imprese ha adottato regole di comportamento per i rapporti con la Pa (omaggi, spese di rappresentanza, visite ispettive di funzionari pubblici, ecc.), nonostante il 67% percepisca un rischio elevato di corruzione. E solo il 27% delle aziende intervistate prevede misure per far emergere conflitti di interesse. Busto Arsizio: chi garantisce il Garante? di Claudio Bottan Ristretti Orizzonti, 30 aprile 2017 "Mi piacerebbe più sinergia. Vorrei avere l'occasione di collaborare con i vari servizi". Lo scriveva Luca Cirigliano, Garante dei diritti delle persone private della libertà del comune di Busto Arsizio, nella relazione presentata a gennaio. La stessa nella quale chiedeva anche pochi, ma significativi, segnali di riconoscimento del ruolo: un indirizzo e-mail istituzionale, la possibilità di utilizzare uno spazio per poter incontrare i familiari delle persone ristrette e un modesto gettone di rimborso delle spese sostenute per lo svolgimento della funzione. A distanza di tre mesi, arrivano le dimissioni con decorrenza dal 31 maggio. Si tratta di un fatto grave che - contrariamente a quanto si pensi - non riguarda solamente i detenuti e le loro famiglie, ma il livello di civiltà di tutto il territorio e dei cittadini che vi abitano. La Casa circondariale di Busto Arsizio è parte della città e non una città a parte; ci vivono e lavorano centinaia di persone. Molti degli "ospiti" soggiornano al terzo piano del letto a castello nelle "camere di pernottamento", un numero elevato e fuori da ogni regola. Sono le medesime condizioni che nel 2013 hanno determinato la condanna da parte della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo: 238 posti regolamentari e 420 presenze secondo i dati del Ministero della Giustizia. Luca Cirigliano fa un passo indietro, non per mollare di fronte alle difficoltà ma per dare un segnale forte. Un segnale di civiltà, di una persona responsabile, che ha a cuore la dignità delle persone che incontra al di là del muro. Merita una riflessione. *ex-detenuto, giornalista a InFamiglia e DiTutto Rimini: detenuto sale sul tetto del carcere e minaccia di buttarsi nel vuoto di Tommaso Torri riminitoday.it, 30 aprile 2017 L'uomo, che si trovava nel cortile per l'ora d'aria, in preda a un accesso di follia protestava per la sua "ingiusta" detenzione. Detenuto scappa sul tetto del carcere e minaccia di buttarsi nel vuoto. Giornata agitata, quella di venerdì, nel carcere riminese dei "Casetti" con un detenuto che è improvvisamente scappato dal cortile dell'ora d'aria per poi arrampicarsi sul tetto della struttura e minacciare di buttarsi nel vuoto. L'uomo, un iraniano 40enne, era già noto per i suoi problemi mentali tanto che, di recente, era tornato nella casa circondariale dopo un periodo trascorso in una struttura sanitaria. Durante l'ora d'aria, mentre era nel cortile con gli altri detenuti e sorvegliato dagli agenti della Penitenziaria, con uno scatto fulmineo ha iniziato ad arrampicarsi sulla struttura fino ad arrivare al tetto ad un'altezza di circa 12 metri. In preda a un accesso di follia, lo straniero ha iniziato a urlare frasi sconnesse, protestando per la sua detenzione che ha definito "ingiusta" e prendendosela con la magistratura italiana che lo aveva costretto in carcere, minacciando di gettarsi nel vuoto. Due agenti della Penitenziaria lo hanno raggiunto sul tetto, che presenta un piano inclinato, ma ogni volta che cercavano di farsi avanti il 40enne si avvicinava sempre più al ciglio. La tensione è durata per oltre un'ora fino a quando, mentre i primi due lo distraevano, altri due agenti sono saliti sul tetto e, senza farsi scorgere tenendosi l'uno con l'altro per il cinturone per non cadere di sotto, sono riusciti a bloccare l'esagitato e a riportarlo a terra sano e salvo. "Una situazione pericolosa - ha sottolineato Massimiliano Vitale, delegato regionale del Sappe, il sindacato della polizia Penitenziaria - che solo grazie alla straordinaria professionalità dei colleghi si è risolta nel migliore dei modi senza che nessuno si facesse male. Purtroppo, però, è solo grazie a questa che il carcere riminese dei Casetti riesce ad andare avanti dato che, alla vigilia dell'estate, la carenza di organico è sempre più endemica. Oltre a dover scontare l'assenza di più di 40 agenti per una copertura completa ed efficiente dei turni, infatti, la casa circondariale non ha un direttore in pianta stabile da anni e, adesso, è venuta a mancare anche la presenza di un dirigente della Penitenziaria". Airola (Bn): giovane detenuto scappa durante un trasferimento ottopagine.it, 30 aprile 2017 La denuncia del Sappe sull'episodio. Il giovane era detenuto nel carcere minorile di Airola. Un giovane detenuto del carcere minorile di Airola è scappato durante il trasferimento in una comunità. Lo denuncia il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria SAPPE, che parla di "evasione prevedibile". "Nel pomeriggio di mercoledì 26 aprile il giovane stava per essere tradotto in comunità, ma durante le operazioni di trasporto, complice anche la scorta ridotta di Polizia Penitenziaria è fuggito", spiega Donato Capece, segretario generale del Sappe. "E’ da tempo che il SAPPE denuncia come i trasporti e le traduzioni avvengono sotto scorta rispetto al previsto modello operativo in uso ai Nuclei di Polizia Penitenziaria addetti a questo specifico servizio, ma le nostre sollecitazioni non sono state affatto raccolte. Se avessero ascoltato le denunce del Sappe, questo grave episodio non sarebbe avvenuto". E conclude: "Ora bisogna catturare il detenuto evaso, ma una riflessione deve essere fatta sula precaria sicurezza del carcere di Airola. Ci sembra che da tempo la situazione sfugge di mano". Venezia: apre il secondo negozio in Italia di prodotti nati nelle carceri di Marina Palumbo La Stampa, 30 aprile 2017 Dalla cooperativa sociale al mercato professionale. È la scommessa di Rio Terà dei Pensieri, l’ente no profit che offre alle persone detenute a Venezia opportunità occupazionali e di reinserimento sociale. Grazie all’aiuto dell’artista americano Mark Bradford, apre oggi al pubblico un negozio speciale, i cui prodotti sono creazioni uniche che portano in sè storie di passati tortuosi, presenti di impegno e attese di futuri migliori. Questa produzione racconta anche di responsabilità, etica e cura per l’ambiente, attraverso la coltivazione di un orto biologico, la realizzazione di cosmetici bio con un proprio marchio originale, la confezione di borse e accessori con materiali riciclati in PVC e molto altro. Il piccolo store è a Venezia, in Fondamenta dei Frari, e, per dare lunga vita e magari una futura espansione del progetto, la cooperativa si è assicurata la collaborazione di Bradford nei prossimi sei anni. Rio Terà dei Pensieri fa parte di FreedHome, una rete di cooperative sociali che operano nelle prigioni italiane, fornendo ai carcerati formazione nella manifattura di prodotti artigianali, per creare con loro opportunità lavorative. Un primo esempio di store commerciale realizzato in questo modo è stato inaugurato nell’ottobre scorso a Torino. Ancona: "Punti di vista", in mostra i risultati dei laboratori rivolti ai detenuti di Micol Sara Misiti centropagina.it, 30 aprile 2017 Nell'ambito degli interventi per la riabilitazione e la risocializzazione delle persone detenute, si sono svolti nella Casa di Reclusione Barcaglione dei laboratori integrati di terapia espressiva e foto-terapia. Ieri, sabato 29 aprile, dalle 16.30 alle 19.30 presso il locale Zucchero a Velò (via Torresi 18) si è svolto un incontro per la di diffusione del progetto "Punti di vista, Ri-conoscersi nelle immagini e nei gesti". Il progetto, proposto dall’associazione Praxis, è stato approvato e finanziato dall’Assessorato Politiche Sociali, nell’ambito degli interventi per la riabilitazione e la risocializzazione delle persone detenute nell’anno 2015 (legge Regionale 28) ed è stato riproposto anche quest’anno. Il progetto si è svolto presso la Casa di Reclusione Barcaglione, grazie anche all’appoggio dell’area trattamentale e ha previsto un ciclo di laboratori integrati di terapia espressiva e foto-terapia condotti da Flavia Galassi (Psicologa Psicoterapeuta Espressiva di formazione Art Therapy Italiana), in collaborazione con Igor Pitturi (collaboratore e autore delle foto). Partendo dalle potenzialità emotive e comunicazionali dei linguaggi non verbali (corpo, movimento e immagini) si superano le barriere linguistiche e culturali, e si facilita la relazione anche tra persone che non parlano la stessa lingua. Lo stimolo a vedere nuove caratteristiche personali attraverso le immagini e la relazione dinamica con altri membri del gruppo, permette l’emergere di un atteggiamento pro-sociale. Poter mostrare le emozioni e le risorse che emergono anche in chi si trova in condizione di reclusione, favorisce la diminuzione della fobia sociale e il reinserimento stesso dei partecipanti a tali attività. Taranto: "L’Altra città", arte nel carcere. Bonito Oliva: "un’esperienza poli-sensoriale" di Rita Salvadei artemagazine.it, 30 aprile 2017 Dal 6 maggio al 15 giugno, la casa circondariale "Carmelo Magli" di Taranto ospita il progetto curato dal noto critico e da Giovanni Lamarca, comandante della penitenziaria, frutto di un’eccezionale interazione tra artisti, detenuti, operatori del mondo dell’arte, docenti e personale dell’istituto. "L’art. 27 comma 3 della Carta Costituzionale recita: le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Da sempre, l’arte è una modalità di comunicazione di sentimenti, suggestioni, esperienze e si è posta sovente nella storia, quale strumento di riscatto personale e sociale, sia per i soggetti da essa rappresentati sia per gli stessi autori delle opere". È da questo principio che parte il progetto artistico, culturale e sociale "L’Altra città", che verrà inaugurato il prossimo 6 maggio presso la sezione femminile della casa circondariale "Carmelo Magli" di Taranto. Si tratta di fatto di "un unicum", di una prima assoluta, perché, se in passato è pur vero che sono stati realizzati altri progetti all’interno di un carcere, questa è di sicuro la prima volta in cui ad essere attori principali non sono né gli artisti né le loro opere, bensì le detenute e i visitatori, che qui "acquistano una nuova identità", come afferma Achille Bonito Oliva. Al noto critico d’arte abbiamo posto alcune domande su questo progetto, da lui curato insieme a Giovanni Lamarca, comandante del reparto di Polizia Penitenziaria del carcere di Taranto. È infatti proprio da Lamarca che è partita questa idea, tanto ambiziosa quanto innovativa, che ha permesso la realizzazione collettiva di una installazione site specific, con la quale il visitatore può interagire, vivendo in prima persona il percorso detentivo. Achille Bonito Oliva non ha esitato a farsi coinvolgere da questa operazione: "ho aderito immediatamente quando Lamarca mi ha proposto di partecipare". Il critico non nega peraltro un suo legame, anche affettivo, con questa città: "Taranto la conosco sin da piccolo, in quanto è stata fonte di nutrimento. Le cozze a Napoli arrivavano da Taranto", afferma ironicamente. "È così che ho cominciato a conoscerla. Nel tempo, tuttavia, si è sviluppata un altro tipo di conoscenza e poi sono seguite le mostre". "A Taranto - rammenta Bonito Oliva - si sono verificati una serie di eventi tragici e drammatici, pensiamo all’Ilva. Episodi che hanno coinvolto la popolazione che, malgrado il pericolo per la salute, poi tragicamente confermato, ha accettato di lavorare in questi luoghi". Da qui, dunque, l’adesione senza indugio all’operazione. "La mia presenza - spiega il critico - conferisce al progetto quella complessità che permette di segnalare, non solo la creatività dei detenuti, ma anche l’impatto sul pubblico che la visita. È un progetto che ha una funzione sociale - continua Bonito Oliva -. Si parte dal fatto che, sia creare che fruire le opere produce un’esperienza. Non si tratta, quindi, solo di uno sguardo estetico su delle forme artistiche, ma di un’operazione che sviluppa una partecipazione poli-sensoriale". Il percorso, riprodotto con interventi artistici delle detenute, si compone infatti di quattro camere detentive, trasformate in un’opera d’arte contemporanea. L’idea è quella di dare vita a una sorta di "messa in scena" che coinvolga direttamente lo spettatore nelle vesti di un detenuto virtuale, catapultandolo in una realtà carceraria trasfigurata. Spiega ancora Bonito Oliva: "c’è un percorso con delle procedure da seguire e passaggi obbligati. C’è l’identificazione (con rilascio di impronte digitali) degli spettatori, uno per uno. Poi c’è la chiusura delle celle in maniera individuale. Si produce quindi una esperienza che non è più quella tradizionale, come nelle gallerie o nei musei, dove lo spettatore vive a una specie di distanza sacrale l’opera. Qui c’è una stereofonia che accompagna il tutto. Ci sono degli input simili sia per coloro che hanno prodotto le opere, ovvero i detenuti che vivono normalmente nelle celle, sia per gli spettatori che transitano uno per uno e passano attraverso le quattro celle". Il visitatore è letteralmente incluso. Ma non solo, è chiamato a compiere una sorta di ideale percorso di redenzione che, dalla percezione di castigo e isolamento, potrebbe condurlo a quella di emancipazione e crescente consapevolezza. La realizzazione di un opera d’arte NEL carcere e SUL carcere, è un’attività che promuove la rielaborazione dell’esperienza di detenzione come momento di reale crescita interiore e di apertura a possibili cambiamenti, portando a riflettere anche sulle proprie "prigioni personali". "Questa è una mostra che permette di coinvolgere il pubblico in una esperienza individuale e collettiva nello stesso tempo", osserva il celebre critico. "Inoltre, dimostra come l’arte possa transitare ovunque e diffondere i suoi stimoli dove capita, non necessariamente in uno spazio esclusivo o privilegiato". Un progetto decisamente ad alto valore educativo, anche per gli stessi detenuti, che hanno vissuto significativi momenti relazionali e socializzanti, incanalando positivamente la loro potenziale creatività. "Lavorare con persone che non hanno una precedente preparazione artistica poco importa - sottolinea Bonito Oliva - non bisogna dimenticare che Giotto pare fosse un pazzerello, eppure disegnò la "O" perfetta. La leggenda vuole che non fosse istruito. Non bisogna essere laureati per essere artisti!". Quello che accade dunque nel penitenziario di Taranto è incredibilmente insolito e autentico. Così come lo è l’intuizione dei curatori della mostra che hanno cercato nell’arte, nel suo linguaggio e nella sua potenza di riscatto ed emancipazione culturale, lo strumento di accesso alla profondità umana dei detenuti, ma anche dei visitatori. D’altra parte, come afferma Bonito Oliva, il ruolo dell’arte contemporanea è proprio quello di "massaggiare il muscolo atrofizzato della sensibilità collettiva". Sulla possibilità di ripetere l'evento altrove, il critico appare invece scettico: "Ogni progetto ha una sua esemplarità. Questa è una operazione che farà riflettere, ma non è da esportare per evitare che possa diventare una sorta di manierismo. Questa esperienza a Taranto, in questo momento, sviluppa una mostra originale, particolare e unica". Egitto. Caso Regeni: "la Santa Sede si è mossa" di Carlo Marroni Il Sole 24 Ore, 30 aprile 2017 Papa Francesco e la ricerca della verità per Giulio: "I genitori me lo avevano chiesto". "La Santa Sede si è mossa". Poche parole, ma chiare, sulla ricerca della verità relativa alla morte di Giulio Regeni, il giovane ricercatore italiano i cui corpo fu ritrovato il 3 febbraio 2016 su un’autostrada egiziana. Il Papa venerdì ha incontrato il presidente egiziano al-Sisi e nel colloquio il caso Regeni è stato forse affrontato, ma il Papa non lo conferma pubblicamente, né dà ulteriori dettagli. Ma dice di "essere preoccupato" della vicenda: "Mi sono mosso, la Santa Sede si è mossa, perché i genitori me lo hanno chiesto". E argomenta la propria riservatezza: "Generalmente quando sono con un capo di Stato, in dialogo privato, quello rimane privato", a meno di accordi diversi. L’affermazione di Bergoglio sul caso Regeni e sull’azione discreta ma evidentemente concreta della Santa Sede è un tassello importante della vicenda, che vede i rapporti tra Italia ed Egitto molto difficoltosi: il nuovo ambasciatore italiano al Cairo non si è mai insediato e quello egiziano a Roma resta richiamato nel proprio Paese. Nell’intervista collettiva in aereo Bergoglio allarga la visuale anche su altri temi. Rischio nucleare e dialogo Il tema dell’escalation attorno alla Corea del Nord e alle azioni messe in campo specie dagli Stati Uniti è ben presente al Papa: cosa dirà a Donald Trump, se lo incontrerà? Francesco ricorda che spesso chiama i leader del mondo, "li chiamo e li chiamerò come ho fatto con altri, per un lavoro mirato a risolvere i problemi sulla strada della diplomazia, usando i facilitatori. Paesi come la Norvegia, per esempio. La strada è il negoziato, la soluzione diplomatica". E ricorda la sua espressione della "guerra mondiale combattuta a pezzi": "Ma i pezzi si sono ampliati e concentrati in punti che già erano caldi. Questo dei missili in Corea è da più di un anno che sta andando avanti, ora si sta scaldando". E ribadisce: "Serve il negoziato, la strada diplomatica". Perché "una guerra allargata distruggerà buona parte dell’umanità e della cultura. Guardiamo a quei Paesi che soffrono una guerra interna, in Medio Oriente, in Africa, nello Yemen: fermiamoci, cerchiamo una soluzione diplomatica". Con un richiamo all’Onu, che deve "riprendere la sua leadership che si è un po’ annacquata". Ma poi vedrà Trump quando a fine mese sarà in Europa per il G7 di Taormina? "Io non sono stato informato dalla segreteria di Stato di una richiesta, ma ricevo ogni capo di Stato che fa richiesta". I populismi e il voto francese Il tema dei populismi - evocato come rischio di nuovo al Cairo - è nell’agenda del Papa. L’ha evocato ben quattro volte, specie per l’Europa: a Strasburgo, al premio Carlo Magno e per i 60 anni dei Trattati. "Ogni Paese è libero di fare le scelte che creda convenienti". Ma per tutti c’è un rischio: "È vero che l’Europa è in pericolo di sciogliersi, questo è vero, dobbiamo meditare su questo". C’è sul tavolo per tutti il nodo dell’immigrazione, ma "non bisogna dimenticare che l’Europa è stata fatta da migranti, secoli e secoli di migranti, siamo noi. È un problema che si deve studiare bene, rispettare le opinioni di tutti e fare una discussione politica con la P maiuscola, non la piccola politica del singolo Paese". Poi le elezioni francesi con il ballottaggio alle porte Macronle Pen, e il ruolo dei cattolici. "Non capisco la politica interna francese" ammette Francesco, e ricorda di aver "cercato di avere buoni rapporti anche con il presidente attuale (Hollande, ndr) con cui una volta c’è stato un conflitto (per la legislazione sui matrimoni, ndr) ma con lui ho parlato di molte cose. I due candidati: non so la storia, non so da dove vengono. So che una è un rappresentante della destra forte, ma l’altro non so davvero da dove viene, non posso dare un’opinione della Francia". E i cattolici? Il Papa ricorda che una persona tempo fa gli ha riparlato della creazione di un partito di cattolici: "Questo signore è buono - ha detto - ma vive nel secolo scorso". Con un richiamo che per lui vale sempre: "Io non mi immischio" nei fatti interni dei governi. I "campi" per i rifugiati Poi una domanda sulla sua recente affermazione che molti campi di rifugiati sono campi di concentramento, cosa che in Germania ha suscitato un certo scalpore. "Non è stato un lapsus - ribadisce il Papa, che ricorda il viaggio a Lesbo di un anno fa, al centro delle rotte dei rifugiati nel Mediterraneo - pensate a persone rinchiuse, che non possono uscire". Infine un passaggio sulla "difesa dei cristiani", in molti Paesi perseguitati. "Io ho parlato dei valori in se stessi, di difendere la pace, l’armonia dei popoli, l’uguaglianza dei cittadini, qualsiasi sia la religione che professano. Sono valori e io ho parlato dei valori. Se un governante difende uno o l’altro di questi valori è un altro problema". Turchia. 11 deputati di Hdp e oltre 80 sindaci ancora dietro le sbarre retekurdistan.it, 30 aprile 2017 Dopo l’arresto di uno e il rilascio di tre deputati di Hdp, ci sono attualmente due Co-presidenti e 9 deputati in carcere. Inoltre più di 80 sindaci curdi sono ancora in carcere. Il vice Copresidente e responsabile degli affari esteri Hisyar Özsoy ha rilasciato una dichiarazione a riguardante la recente situazione dei politici incarcerati di Hdp e del Dbp (Partito Democratico delle Regioni) nelle carceri turche. La dichiarazione ha sottolineato che la pressione sulle opposizioni democratiche in genere, ed in particolare sull’Hdp, non è cessata dopo il referendum del 16 aprile in Turchia. Due giorni dopo il referendum il 18 aprile 2017, lo stato di emergenza in tutto il paese è stato esteso per altri tre mesi per la terza volta. Il giorno successivo, il 19 aprile 2017, Burcu Celik deputata di Hdp dir Mus, è stato arrestato con l’accusa di " incitare la popolazione all’odio e all’inimicizia" e di "svolgere propaganda terrorista" a causa dei suoi interventi rilasciati nel 2015. Lei attualmente si trova nel carcere di Sincan ad Ankara sottoposta a una condizione di isolamento. Due giorni dopo, il 21 aprile 2017, sei politici curdi, inclusi co-presidenti del DBP, co-sindaci e deputati si trovavano sotto processo. Mentre i deputati di HDP Meral Danis Bestas (Deputata di Adana) e Nursel Aydogan (Deputa di Diyarbakir) erano state rilasciate dal tribunale in attesa di processo, lo stesso giorno tribunali separati hanno ordinato la detenzione preventiva di Sebahat Tuncel (Co-presidente del DBP), Gültan Kisanak (Co-sindaca di Diyarbakir), Gülser Yildirim (Deputata di HDP di Mardin), e Ferhat Encü (Deputato di HDP di Sirnak).L’udienza di Tuncel e Kisanak continua a svolgersi a Malatya,per Yildirim a Mardin e per Encu a Sirnak. Aydogan era stata arrestata il 4 novembre 2016 con le accuse di "svolgere propaganda terrorista" e di "incitare la popolazione all’odio e all’ostilità" Queste accuse sono baste sulle sue attività politiche, come tenere discorsi e partecipare ad incontri pubblici ed eventi politici. Aydogan era stata rilasciata con la condizione del controllo giudiziario. Tuttavia il suo seggio parlamentare adesso è al palo a causa della condanna di 4 anni, 8 mesi e 7 giorni comminata dalla Corte di Assise di Diyarbakir. La Corte di Appello a Gaziantep ha approvato la condanna, ed il capo e l’Ufficio della Procura di Diyarbakir ha inviato una lettera formale al Ministero della Giustizia chiedendo la revoca del seggio parlamentare della Aydogan. In modo simile alla procedura utilizzata per la revoca del seggio parlamentare della Co-presidente di HDP Figen Yüksekdag, Aydogan perderà il suo posto in parlamento quando l’ordine del tribunale verrà letto in plenaria. Meral Danis Bestas, detenuta tra il 31 gennaio e il 21 aprile 2017, è stata rilasciata con la condizione di limitazioni di viaggio e controllo giudiziario. Dopo il rilascio di Aydogan e di Danis Bestas, la pubblica accusa ha contestato la decisione. Mentre il tribunale aveva negato l’obiezione sul rilascio della Danis Bestas, l’obiezione per il rilascio della Aydogan non è ancora stato finalizzato. Oltre a Aydogan e Bestas, Nihat Akdogan, deputato di HDP di Hakkari, che si trovava in carcere dal 7 novembre 2016, è stato rilasciato il 26 aprile 2017. Il suo caso multiplo è in attesa. Ma il procuratore ha obbiettato la decisione del tribunale con la richiesta di un nuovo arresto. Il tribunale non ha ancora preso una decisione. Il 25 aprile, Feleknas Uca, attuale deputata di HDP di Diyarbakir ed ex membro del Parlamento Europeo per dieci anni, è stata posta in detenzione mentre stava lasciando la sua abitazione a Diyarbakir. È stata rilasciata dopo la sua testimonianza presso l’ufficio del procuratore. Dopo l’arresto di uno e il rilascio di tre dei deputati di HDP, ci sono attualmente due Co-presidenti e nove deputati di HDP in carcere. Inoltre più di 80 sindaci curdi sono ncora in carcere. Co-presidenti, deputati e Co-sindaci sono perseguiti a causa dei loro discorsi e elle loro attività politiche. Gli appelli che HDP ha presentato alla Corte Costituzionale nel novembre del 2016 per il rilascio dei Co-presidenti e dei deputati non sono ancora stati esaminati.Né la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha iniziato a rivedere le domande di HDP per quanto riguarda sia la revoca delle immunità legislative dei suoi deputati che il loro arresto. I deputati di HDP sottoposti ad arresto sono:I Co-presidenti Selahattin Demirtas e Figen Yüksekdag, il portavoce Ayhan Bilgen, il Presidente del Gruppo Parlamantare Idris Baluken, i deputati di HDP di Hakkari Abdullah Zeydan e Selma Irmak, la deputata di HDP di Mardin Gülser Yildirim, la deputata di HDP di Diyarbakir Çaglar Demirel, la deputata di HDP di Siirt Besime Konca, il deputato di Sirnak Ferhat Encü e la deputata di Mus Burcu Çelik. Mauritania. Il bodyguard Provvisionato: "io recluso 23 ore al giorno da innocente" di Giusi Fasano Corriere della Sera, 30 aprile 2017 Il bodyguard Provvisionato coinvolto suo malgrado in una "spy-story": "Mi usano come garanzia umana,c’è da diventare matti. I carcerieri? Sanno che non c’entro niente e mi trattano bene". "È innocente" giura il suo avvocato Fabio Schembri. Cristian risponde da Nouakchott, capitale della Mauritania, Stato islamico dell’Africa occidentale. La voce arriva chiara e lui ha tempo e voglia di raccontare. "Da dove cominciamo?" chiede. Partiamo dal passare del tempo. "Beh, c’è da diventar matti" è la prima cosa che gli viene in mente. "Ci sono pomeriggi che non se ne vanno mai. Passo 22-23 ore al giorno dentro una stanza. Quando mi fanno uscire vado a correre lungo il perimetro del compound o faccio sport. È l’unico modo che ho per scaricare la tensione e pensare ad altro. Mi sono fatto spedire dvd e libri, ce ne sono alcuni che ho letto dieci volte. Ha presente "Una Fortuna Pericolosa" di Ken Follet?" Sì. "Ecco, quello l’ho letto sette volte. Lo conosco a memoria. Questa è una caserma, diciamo che la mia vita è una via di mezzo fra quella di un militare e quella di un detenuto. Con i miei carcerieri c’è un buon rapporto, se possiamo dire così. Loro sanno che io sono innocente e io non creo problemi, ma non c’è amicizia, non sono mica in vacanza. Io voglio tor-na-re a ca-sa" scandisce. "È ora che qualcuno venga a sistemare questa faccenda". La faccenda, come la chiama lui, è una storia che ha dell’incredibile. A cominciare dal fatto che Cristian Provvisionato - 43 anni, lavoro da bodyguard, vita e compagna a Cornaredo (Milano) - ha un telefonino e può comunicare con il mondo malgrado sia formalmente "trattenuto" in una caserma dell’antiterrorismo della Repubblica africana dal 16 agosto 2015. La magistratura di Nouakchott - La magistratura di Nouakchott lo accusa di aver truffato lo Stato islamico per una grossa fornitura di merci, o non corrispondenti alle richieste o mai arrivate, nel settore della sicurezza: sofisticati strumenti e software per spiare siti e persone. Altre fonti (diplomatiche) parlano invece dell’accusa "attentato alla sicurezza nazionale". E poi c’è il ministro della Giustizia del Paese africano. Cristian racconta: "a mio fratello e alla rappresentante dell’ambasciata quell’uomo ha detto chiaramente: lui resta qui finché non ci ripagano dei danni subiti. Qualcuno ha truffato me e il governo di questo Paese e adesso per loro io sono una specie di garanzia umana. Sono rimasto con il cerino in mano". "È innocente" giura il suo avvocato Fabio Schembri - "È innocente" giura il suo avvocato Fabio Schembri. A ritenerlo innocente è anche la procura di Milano, con un’inchiesta aperta per accertare se in questa storia ci sono responsabilità penali (pm Alberto Nobili, alla guida del pool antiterrorismo, e il collega Enrico Pavone). Ma torniamo ad agosto del 2015. Cristian è in vacanza quando lo chiama Davide Castro, da pochi mesi suo datore di lavoro e capo della Vigilar Group, azienda milanese che si occupa di security. "Mi chiese se ero disponibile a partire per la Mauritania perché c’era un’urgenza: l’uomo che aveva mandato doveva rientrare per motivi personali e c’era da seguire una demo di prodotti di cyber-intelligence di un’altra società, la Wolf Intelligence, di cui Castro era rappresentante per l’area Europa-Africa. La paga era buona, accettai". "Se ci penso.... potevo finire come Regeni" - Il capo gli spiega che non fa nulla se lui non ne sa granché di informatica perché tanto dovrà fare solo da supporto a un guru della materia, certo Manish Kumar, indiano e amministratore della Wolf Intelligence che arriverà per la demo. All’aeroporto di Nouakchott e ad accoglierlo c’è Leonida Reitano, l’uomo che deve sostituire. Gli ritirano il passaporto ma Cristian pensa che sia normale, come gli aveva detto Castro. Dopo un giorno e mezzo Reitano parte. "Ho ricordato poi che è stato accompagnato fino all’aereo da uomini del governo" racconta Cristian. Come si fa così con gli indesiderati. Passano i giorni, l’indiano non arriva e della demo non c’è traccia. Finché "sono stato arrestato. Sono venuti in borghese, mi hanno caricato su una macchina e mi hanno portato in una zona isolata. Ho pensato: mi ammazzano. Se ci penso.... potevo finire come Regeni. Poi mi hanno portato qui. Ho potuto chiamare casa dopo quattro mesi da poco mi hanno dato questo cellulare. Lo so che mi ascoltano, non sono scemo. È un modo per capire come si muove l’Italia per me. Sapranno che il ministro Alfano ci ha messo la faccia e che ha mosso davvero la diplomazia, finalmente. Io ci spero molto, non ne posso più". Iran. "Aiutatemi a riavere indietro mio marito": parla la moglie di Ahmadreza Djalali di Riccardo Noury Corriere della Sera, 30 aprile 2017 Oggi il nostro blog ospita un intervento di Vida Mehrannia, la moglie del ricercatore Ahmadreza Djalali arrestato in Iran il 25 aprile 2016 e che rischia la pena di morte per l’assurda accusa di spionaggio. "Chiunque conosca Ahmadreza sa che è una persona dolce e appassionata che ama la gente. È un medico coscienzioso che dedica tutto se stesso alla salute e al benessere degli altri. In tutti questi anni mi ha sempre sostenuta ed è stato un meraviglioso padre per i nostri figli. Quando lo hanno arrestato, è stato uno shock. L’ho saputo quattro giorni dopo dai suoi parenti in Iran. Pensavo che si trattasse di un errore e che lo avrebbero rilasciato. È trascorso un mese senza che ci sentissimo e quando mi ha chiamata la telefonata è durata solo due minuti. Avvertivo che era sotto una forte pressione psicologica. Nei primi mesi ero sconvolta, piangevo in continuazione. Non dormivo più e non riuscivo neanche a prendermi cura dei nostri due figli. Anche adesso che è passato un anno non riesco ad accettare di essere separata da mio marito. Penso a lui ogni istante del giorno e trascorro ogni momento in attesa del suo ritorno. Mio figlio ha cinque anni e pensa che suo padre sia andato in Iran per lavoro. Continua a chiedermi quando tornerà a casa. Quando è arrabbiato, si rannicchia in un angolo e chiede di suo padre. La figlia maggiore, che ha 14 anni, ha sempre avuto un rapporto stretto con Ahmadreza. Fino allo scorso anno la portava a scuola tutte le mattine. Il giorno del suo compleanno era devastata dal fatto che non ci fosse suo padre. Le ho detto che è in prigione ed è tanto preoccupata per lui. L’arresto di Ahmadreza è dovuto alle manie di grandezza del ministro dell’Intelligence. Il lavoro di Ahmadreza come esperto di medicina dei disastri, i suoi studi e le sue docenze in Europa e la sua residenza in Svezia sono stati presi come pretesto per accusarlo di essere una spia e di agire contro la sicurezza nazionale dell’Iran. Tutte frottole fabbricate dall’apparato di sicurezza iraniano. Per sette mesi dal giorno dell’arresto, Ahmadreza non ha potuto incontrare un avvocato. Poi ne ha avuti tre ma nessuno di loro ha potuto avere accesso al fascicolo. Adesso deve trovarne un altro oppure sarà costretto a essere difeso da un avvocato d’ufficio. Lo scorso dicembre, dopo che lo avevano minacciato di condannarlo a morte se non avesse "confessato" di essere una spia al servizio di un "governo ostile", Ahmadreza ha iniziato lo sciopero della fame. Mentre lui digiunava, io non riuscivo a mangiare. Avevo paura che si sentisse male. Mia figlia era terrorizzata da quanto avrebbe potuto accadergli. Lo sciopero della fame è durato tre mesi e ha avuto gravi conseguenze per la sua salute. Ha perso 29 chili e sono sorti problemi di circolazione e ai reni. Ha avuto perdite di sangue interne. Ha sviluppato l’osteomalacia, cioè le sue ossa sono diventate fragili e ora ha problemi ai piedi, alle gambe e alle ginocchia. Ho scritto alla Guida suprema, al presidente e al ministro degli Affari esteri dell’Iran, chiedendo loro di rilasciare mio marito ma nessuno mi ha risposto. Ho chiesto aiuto al governo svedese, al Parlamento europeo e alle organizzazioni per i diritti umani. Alcuni rappresentanti di governi europei hanno chiesto che Ahmadreza sia rilasciato: il primo ministro della Svezia, i ministri degli Affari esteri di Belgio e Italia, il presidente del Parlamento europeo e l’Alta rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e le politiche di sicurezza. I colleghi delle università europee dove mio marito ha studiato e insegnato - il Karolinska Institute in Svezia, l’Università degli studi del Piemonte orientale in Italia e la Vrije Universiteit del Belgio - non hanno esitato un solo attimo per sostenere Ahmadreza in tutti i modi possibili ma abbiamo bisogno di maggiore aiuto e di tante altre persone che aderiscano alla nostra campagna". Cina. Scomparsa da due anni era in carcere: imprenditrice rimpatriata negli Stati Uniti Il Messaggero, 30 aprile 2017 L'accusa è di spionaggio. È stata rimpatriata negli Stati Uniti l'imprenditrice sino-americana condannata in Cina. Sandy Phan-Gillis è arrivata nella notte a Los Angeles, secondo quanto ha riportato la Dui Hua Foundation di San Francisco, due giorni dopo essere stata condannata da una corte cinese a tre anni e mezzo di prigione. I legali della donna avevano già indicato allora che non avrebbero fatto ricorso contro la sentenza, prevedendo che la donna sarebbe stata presto estradata negli Stati Uniti dove non sconterà la pena. La Dui Hua Foundation, che si batte per la difesa dei diritti civili, in particolare nei casi giudiziari cinesi, ha rivelato che è stata la visita di Rex Tillerson in Cina lo scorso marzo ad aiutare a risolvere il caso della 57enne che era in carcere da oltre due anni. La donna era infatti scomparsa nel marzo 2015 mentre era in missione con una delegazione di imprenditori del Texas nel sud della Cina. Solo sei mesi dopo, le autorità cinesi avevano confermato di averla arrestata con l'accusa di "minacciare la sicurezza nazionale cinese". In questi anni anche le Nazioni Unite avevano seguito il caso di Phan-Gillis, accusando la Cina di detenzione arbitraria della donna, tenuta per i primi sei mesi in una prigione segreta e poi in isolamento senza avere accesso ad un legale ed informazioni sul suo caso. Il marito Jeff Gills ha detto che la donna era stata accusata di essersi recata in Cina due volte nel 1996 per una missione spionistica, collaborando con l'Fbi alla cattura di due spie cinesi negli Stati Uniti che poi erano state trasformate in "doppi agenti". Accusa che Gills ha definito "oltre il ridicolo", mostrando il passaporto della donna che mostra che non vi sono stati viaggi in Cina nel 1996. "Sandy è felicissima di essersi riunita con la sua famiglia ed i suoi amici e ringrazia tutte le persone che hanno lavorato senza sosta per il suo rilascio", ha aggiunto.