Caro ministro Minniti, la sicurezza del diritto innanzitutto di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 2 aprile 2017 Lettera aperta. Sulla giustizia fai da te del ristoratore, sulle minacce agli avvocati di Alatri, sul magistrato "che darebbe la pistola alla figlia", il capo del Viminale non ha niente da dire? La sicurezza non è di sinistra caro ministro Minniti. La sicurezza non è neanche di destra. Comunque non è questo il terreno su cui ragionare. Le Corti Supreme, italiana, tedesca, statunitense, ma anche la Corte europea dei diritti umani, hanno affermato come sia improprio un bilanciamento tra sicurezza e libertà. La dignità umana, quale fondamento di tutti i diritti umani, è la chiave di soluzione di questa opposizione tra istanze di sicurezza e di libertà. Libertà, fraternità, uguaglianza, dignità umana, al limite felicità: sono queste le premesse fondative del vivere sociale. La sicurezza è l’esito naturale del pieno soddisfacimento dei diritti individuali, sia quelli sociali ed economici che quelli civili e politici. Il grande studioso Alessandro Baratta, i cui scritti sono certo che il Ministro Minniti ben conosce, affermava che al diritto alla sicurezza vada contrapposta la sicurezza dei diritti. L’indivisibilità e l’interdipendenza dei diritti umani non è soltanto un quadro teorico di riferimento ma è un programma di governo, anche in questi tempi difficili. Ma sono veramente difficili questi tempi dal punto di vista della sicurezza? La sicurezza, vorrei ricordare al ministro degli Interni e a chiunque legifera senza tenere conto di dati veri e di statistiche vere, è comunque qualcosa di ben diverso dalla percezione di insicurezza. Prima vicenda. Ristoratore spara al ladro che entra nel suo esercizio commerciale e lo uccide. Parte un dibattito folle intorno alla legittima difesa, causa scriminante prevista nel codice penale. Non ci interessano le strumentalizzazioni e le magliette di Salvini, scontate nella loro cattiveria. Ci interessa il dibattito più ampio, quello avvenuto sui media e nelle aule parlamentari. Va ricordato che la legittima difesa era sufficientemente ben definita nel codice Rocco di era fascista. La legittima difesa ha quale presupposto il principio sacrosanto di proporzionalità tra azione e reazione. La destra al governo, Lega compresa, modificò l’articolo 52 del codice penale nel 2006 poco prima delle elezioni che perderà. Venne così allargata la possibilità di reazione legittima ai casi di pericolo di aggressione. Oggi non si vede che altro possa fare il legislatore se non liberalizzare l’omicidio. Avremmo auspicato che per la nostra sicurezza il Ministro avesse con nettezza interrotto questo dibattito affermando in modo categorico quanto segue: a) vanno cestinate tutte le proposte di modifica ulteriore della legittima difesa compresa quella in discussione del suo collega di partito Ermini che vuole allargare l’area della non responsabilità a ogni caso in cui si spara e ammazza "per errore di percezione a causa di turbamento psichico"; b) nel nome della sicurezza meno armi girano meglio è per tutti, ristoratori compresi. È compito del decisore politico con chiarezza e onestà intellettuale decostruire le paure e non assecondarle o alimentarle in modo strumentale e pericoloso; c) spetta allo Stato il monopolio della forza. Nell’ultimo Rapporto sulla criminalità del Ministero degli Interni si legge che in Italia vi è stato un calo incredibile degli omicidi. Nel 1991 erano stati ben 1901. Tre omicidi ogni 100 mila abitanti. Nel 2015 sono stati 469, ovvero 0,8 ogni 100 mila abitanti. Lo stesso ministero degli Interni in modo onesto rileva che il top degli omicidi in Italia è stato nel 2013 a causa dei 366 immigrati morti in mare nel naufragio di quel tragico 3 ottobre. Dunque la vera emergenza sicurezza è quella legata alla vita dei migranti in mare, affrontata invece con norme di tutt’altro respiro dal ministro Minniti ovvero con la detenzione per stranieri irregolari e colpendo quelli che chiedono elemosina. In conclusione nessun attore istituzionale ricorda all’opinione pubblica che gli omicidi sono in calo e che negli Usa, dove si può comprare un’arma al supermercato e si può sparare facilmente, il tasso di omicidi è ben sei volte superiore a quello italiano. Seconda vicenda. Un gruppo di ragazzi ammazza brutalmente un coetaneo ad Alatri. Si minacciano vendette, si intimidiscono gli avvocati difensori tanto da indurli a lasciare l’incarico. Si da la colpa al Gip che aveva scarcerato uno dei presunti responsabili per altri fatti legati alla violazione delle norme sulle sostanze stupefacenti. Quel giudice in realtà aveva semplicemente e giustamente rispettato la legge. In questa vicenda tragica avremmo voluto che il ministro degli Interni avesse detto che: a) la legge sulle droghe è già fin troppo severa visto che un terzo dei detenuti in Italia è composto da persone che l’hanno violata; b) la custodia cautelare deve essere eccezionale; c) farsi vendetta da soli è brutale; d) chi minaccia un avvocato deve essere severamente perseguito; e) la difesa è un diritto sacrosanto; f) ad Alatri è scoppiata una grande questione sociale, esito di disastri prodotti anche da una progressiva dismissione pedagogica da parte delle nostre agenzie educative, compresi i partiti. In questi giorni i talk show della Rai, di Mediaset e La7 si sono scatenati nel dare parola a finti esperti, urlatori professionisti, giornalisti che non conoscono la legge e le statistiche, demagoghi che ci fanno credere che viviamo in un paese invaso da criminali, spesso stranieri. Così abbiamo sentito dire da Gianluigi Nuzzi a Piazzapulita, a proposito dell’omicidio di Alatri, che a Tirana a 18 anni ti regalano una pistola. Bah! Che c’entra Tirana con i ragazzi italiani accusati dell’assassinio? Sarà vero che a Tirana regalano la pistola? O è più vero che la pistola ti viene regalata nella provincia americana. Il conduttore di Piazzapulita (un titolo che non aiuta a rasserenare gli animi e a infondere dolcezza nella società) non fa fact checking ma lascia parlare Nuzzi come se fosse un esperto di politiche criminali. Infine quando un magistrato come Angelo Mascolo di Treviso afferma (sempre che sia vero che lo abbia detto) che lo Stato non c’è più, e che lui darebbe la pistola pure a sua figlia, perché di fronte a una così grave delegittimazione delle forze di Polizia e della sicurezza il ministro Minniti non ha chiesto al suo collega Orlando di mandare gli ispettori in quel Tribunale affinché quel giudice sia sanzionato disciplinarmente? Così è fallita la lotta dei giudici alla corruzione di Raffaele Cantone e Francesco Caringella La Repubblica, 2 aprile 2017 "Non bisogna pensare che l’attuale condizione di debolezza della politica offra minori occasioni di tangenti. Anzi è esattamente il contrario, con il rischio che si arrivi a una classe politica selezionata dalla corruzione". Raffaele Cantone ne ha per tutti: uomini di partito, professori, giudici, medici, industriali. Ha condensato in un libro una lunga rassegna dei danni provocati in ogni settore dal malaffare, che si tratti di mazzette odi abusi, di lottizzazioni o nepotismo. Con un cardine: delegare il contrasto solo alla magistratura penale non basta. Sia perché - nonostante l’impegno dei pm - non si riesce a scalfire i pilastri delle Tangentopoli vecchie e nuove. Ma soprattutto perché "la delega del contrasto alla corruzione affidata al solo potere giudiziario penale" rischia di rendere i cittadini passivi e disinteressati. "La corruzione spuzza" è il titolo del volume edito da Mondadori, tratto dalla frase usata da Papa Francesco per esortare alla rivolta contro ogni compromesso etico e morale. Cantone lo ha scritto assieme a un’altra toga, Francesco Caringella, con una carriera parallela ma simile: il presidente dell’Anticorruzione è stato per dieci anni pm antimafia, Caringella prima giudice a Milano e oggi consigliere di Stato. Un passaggio dalla giustizia penale a quella amministrativa che gli ha fatto sviluppare una visione diversa dei possibili rimedi. Oltre al potenziamento della repressione penale, insistono sulla prevenzione, ma soprattutto su un cambiamento culturale, che renda ogni cittadino protagonista della rivolta contro quei comportamenti - dalla ricerca del favore alla raccomandazione - su cui si sviluppa la grande corruzione. Una svolta resa urgente dalla metamorfosi del fenomeno: "Il politico non è più controparte del corruttore ma si muove con lui in una chiara comunanza di interessi. Il pericolo maggiore sta, però, nella possibilità di ingerirsi direttamente nei meccanismi di scelta della classe dirigente politica, soprattutto quando si servono di strumenti come le primarie. La mancanza di una loro regolamentazione formale ha già ingenerato forti timori". IN Italia, fino alla fine del primo decennio di questo nuovo secolo, la strategia prioritaria messa in campo nella lotta alla corruzione è stata, di fatto, quella repressiva. Del fenomeno corruttivo si sono occupati principalmente i giudici, attraverso le indagini e i processi penali. Ebbene, si tratta di una politica votata al fallimento. Come ammonisce Salvatore Satta, il processo non deve perseguire scopi esterni al processo stesso. Non è compito delle indagini giudiziarie correggere i costumi, moralizzare la società, migliorare l’etica collettiva. I magistrati devono solo giudicare comportamenti specifici, senza educare qualcuno o insegnare qualcosa. I giudici non sono angeli con un compito salvifico, pedagoghi o filosofi. Non sono neanche politici, non devono formulare giudizi universali sulla politica e non sono chiamati a elaborare un sistema di valori e di princìpi da propagare con la forza delle sentenze. Se le cose stanno così, si deve convenire che l’efficacia dell’azione della magistratura può essere misurata in base alla sua capacità di dare risposte rapide, eque ed efficaci alle istanze di giustizia che le vengono di volta in volta sottoposte, non certo con il termometro dei miglioramenti indotti nella società in termini di etica, moralità e, quindi, legalità. Anche la repressione penale più efficiente non può essere, quindi, autosufficiente ai fini di un’azione di contrasto a una malattia sociale di sistema qual è la corruzione. Si consideri, tra l’altro, che le indagini della magistratura riescono a smascherare solo una parte (modesta, purtroppo) della corruzione penale, senza poter lambire la corruzione in senso lato (non penalmente rilevante), ossia quei diffusi fenomeni di immoralità e malaffare collegati alla violazione delle regole etiche comunemente accettate. Comportamenti e deviazioni che sono il bacino di coltura in cui maturano le premesse per la commissione di reati specifici e, poi, di sistemi criminosi. La repressione penale, lo ribadiamo, deve per sua natura perseguire i reati e individuare responsabilità personali, non risolvere problemi strutturali, come quelli di una corruzione di sistema. Non deve quindi stupire che anche la più importante e capillare indagine svolta in Italia sulla corruzione, ossia l’inchiesta milanese di Mani pulite, non abbia debellato la piaga sociale e morale di cui stiamo parlando. Infine, non va sottovalutato un altro aspetto: la delega (di fatto) del contrasto alla corruzione affidata al solo potere giudiziario penale rischia, alla lunga, di produrre una (inevitabile) "stanchezza" nell’opinione pubblica, che si trasforma poi in un distaccato disinteresse. È quanto è accaduto nella fase finale di Mani pulite, dove si è passati dalle assemblee popolari davanti al palazzo di giustizia di Milano a sostegno delle indagini al disinteresse non solo per ciò che avveniva, ma persino rispetto a riforme governative che rendevano più difficili le indagini o rispetto alle azioni disciplinari (se non addirittura penali), più o meno strumentali, avviate nei confronti dei magistrati che avevano condotto le indagini. Albamonte nuovo presidente Anm di Vittorio Nuti Il Sole 24 Ore, 2 aprile 2017 Nessuna sorpresa ma "avvicendamento concordato" per il nuovo presidente dell’Associazione nazionale magistrati, eletto ieri per acclamazione dal Comitato direttivo centrale riunito presso la sede al Palazzaccio a Roma. Dopo un anno alla guida dell’Anm, dodici mesi di pressing e difficile dialogo con il governo su riforme e giustizia culminati nella decisione di disertare polemicamente l’inaugurazione dell’Anno giudiziario, l’ex pm di Mani Pulite Piercamillo Davigo lascia il posto a Eugenio Albamonte. Veneziano, ma pm a Roma da 8 anni, classe 1967, Albamonte è un esperto di cyber-crime, ed è noto alle cronache per l’inchiesta sui fratelli Occhionero accusati di aver spiato politici e imprenditori. La priorità per le toghe, archiviato il passaggio di consegne, è ancora il confronto con palazzo Chigi su provvedimenti come riforma del processo penale, ingresso dei magistrati in politica e decreto Minniti sull’immigrazione. Temi caldi per i magistrati, tra i quali "cresce la paura che gli spazi per interloquire siano minimi", spiega il neo presidente, preoccupato che "si cada in una fase di vuoto politico, con un governo di cui non si capisce quale possa essere l’orizzonte". Più di tutto si temono gli effetti del ddl sul processo penale, approvato (con fiducia) in seconda lettura dal Senato. La riforma, secondo un documento deliberato ieri dal Comitato centrale "non risolve nessuno dei problemi strutturali della giustizia penale", e potrebbe rivelarsi "pericolosa per la funzionalità dell’intero sistema penale", a causa di misure duramente contestate dalle toghe come l’avocazione obbligatoria dei procedimenti da parte del Pg, il patteggiamento in appello e la modifica del rito abbreviato. L’auspicio, che è poi la rotta indicata al neo presidente, è quindi che nel terzo passaggio alla Camera "non venga posta la fiducia e che si consenta il più ampio dibattito parlamentare". Nel suo primo giorno alla guida dell’Anm, Albamonte parla anche dello sfogo sui social ripreso dal blog di Grillo del Pm di Trani ("Sono stato lasciato solo") deluso per la bocciatura della sua inchiesta sulle agenzie di rating. L’idea, spiega, è di "far fare ai colleghi un po’ di training sull’uso dei social network, nel senso che bisogna stare molto attenti perché sembra a volte una dimensione privata ma in realtà provata non è". L’elezione di Albamonte, esponente del gruppo Area, il cartello delle toghe di sinistra di Magistratura Democratica e Movimento per la giustizia, è parte di una rotazione degli incarichi tra le varie correnti associative concordata fin dall’insediamento di Davigo (leader della corrente Autonomia e Indipendenza), nell’aprile 2016. Il rinnovo dei componenti della giunta comprende il segretario Edoardo Cilenti (area Magistratura indipendente), e il vicepresidente Antonio Sangermano (gruppo Unicost). Il terreno scivoloso dell’antimafia delle parole di Roberto Galullo Il Sole 24 Ore, 2 aprile 2017 Terreno scivoloso quello dell’antimafia. Quando pensi di aver issato la bandiera in cima alla montagna della conoscenza, c’è sempre qualcosa o qualcuno che ti riporta a valle. In questo terreno irto di insidie, Sicilia e Calabria non fanno passare giorno senza che qualche nuova spina si aggiunga alla corona che Cosa nostra e ‘ndrangheta contribuiscono quotidianamente ad arricchire e così facendo mettono a dura prova la "presunzione di conoscenza" dell’opinione pubblica. In Sicilia torna a galla la vicenda dell’ex Governatore Raffaele Lombardo, assolto due giorni fa in appello a Catania dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. La conoscenza dei fatti dell’opinione pubblica è messa a dura prova: è stato condannato a due anni (pena sospesa) per voto di scambio - attenzione ora ai funambolismi che la legge consente - con aggravante mafiosa, ma non con la violenza e l’assoggettamento. E dietro l’angolo c’è il ricorso in Cassazione. Pochi giorni prima a cadere nella rete della Giustizia e a disorientare l’opinione pubblica è stato l’ex magistrato Antonio Ingroia. La Procura di Palermo - casa sua fino al 2013 - lo indaga per peculato nell’ambito delle attività come amministratore di Sicilia e-Servizi. Un’altra posizione dell’ex pm di punta del pool antimafia di Palermo, che respinge ogni accusa e contro il quale si leva alto il coro di molti di condanna a priori, è stata già archiviata il 16 agosto 2016 dal gip di Palermo, su presunte irregolari assunzioni nella stessa Sicilia e-Servizi. Passano poche ore e viene a galla il verbale, depositato alla Procura di Catania, nel quale Santo La Causa, pentito dal 2012 ed ex reggente del potentissimo clan Santapaola, dichiara ai pm che Cosa nostra catanese si sarebbe diabolicamente ribellata al codice etico di Confindustria Sicilia, voluto da Ivan Lo Bello e Antonello Montante, che prevede l’espulsione degli imprenditori che pagano il pizzo e non denunciano. Cosa nostra si sarebbe ribellata al codice simulando estorsioni in accordo con le finte vittime, che non solo non sarebbero state espulse ma sarebbero diventate icone. Non c’è che dire: giù il cappello di fronte a questa diabolica strategia, che si aggiunge a quelle storiche e consolidate: morte, violenza, mascariamento e delegittimazione. "Ritenemmo che per cautelare questi imprenditori amici - riporta il sito livesicilia.it - bisognava far fare loro delle denunzie, simulando di subire degli atti estorsivi e quindi fare in modo che si proteggessero da queste leggi". "Queste leggi" sarebbero, appunto, quelle introdotte da Lo Bello e Montante, entrambi indagati per fattispecie di reato diverse e già condannati da molti senza aver avuto neppure un rinvio a giudizio. Perdere la bussola al Sud - soprattutto quando ci si schiera tra colpevolisti o innocentisti "a prescindere" - è facile. Colpisce la notizia, che arriva da Reggio Calabria (fonte: La Gazzetta del Sud), in cui la Procura indaga su una presunta distrazione di fondi, in massima parte ricevuti dalla Regione, da parte di Adriana Musella, presidente di Riferimenti-Gerbera, il coordinamento antimafia da lei fondato il 9 giugno 1995. Musella - il cui padre Gennaro, un ingegnere salernitano, il 3 maggio 1982 venne disintegrato un’autobomba a Reggio Calabria, con il corpo ridotto a brandelli da una micidiale carica di tritolo - ogni anno può contare sulla presenza del presidente del Senato Piero Grasso, anche quando era a capo della Direzione nazionale antimafia, in occasione della giornata della memoria di quell’omicidio e il 16 gennaio di quest’anno ha ricevuto a Milano il premio Giorgio Ambrosoli "per l’esercizio della sua attività professionale all’insegna dei principi di integrità, responsabilità e professionalità, nel rispetto e tutela dello Stato di diritto in condizioni di particolari avversità e improprie pressioni contro la legalità nel contesto in cui ha operato". Sarà la magistratura a esprimere, eventualmente, un giudizio e meglio faremmo a concentrarci su una seconda notizia dalla Calabria martoriata. Padre Giovanni Ladiana, dal 2010 attivissimo punto di riferimento dell’associazione Reggio non tace, dal 26 marzo è stato trasferito a Bari. Da buon gesuita esegue, ma la città perde un punto di riferimento concreto. Vicenza: al carcere San Pio X padiglione inaugurato ma mezzo vuoto Il Dubbio, 2 aprile 2017 All’istituto San Pio X un padiglione su tre è sovraffollato. Era stato inaugurato otto mesi fa, ma il nuovo padiglione del carcere San Pio X di Vicenza deve ancora entrare in funzione a pieno regime in un contesto al limite del sovraffollamento. Solo due piani su cinque sono stati messi a disposizione dei detenuti e il motivo è legato alla carenza del personale penitenziario. Secondo i dati messi a disposizione dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, attualmente l’istituto penitenziario ospita 227 detenuti su una capienza massima di 286 posti ancora non del tutto utilizzati. Non potendo usufruire dei tre piani del nuovo padiglione, la distribuzione dei detenuti presenti è disposta in maniera tale da far raggiungere il limite massimo fissato dalla sentenza Torreggiani. Attualmente i reclusi sono divisi tra vecchio e nuovo padiglione e la cosiddetta "casa reclusione". I primi due rispettano lo spazio vitale per ogni detenuto previsto dalla normativa mentre il terzo, destinato a chi deve scontare condanne definitive e ai collaboratori di giustizia, è "fuorilegge": la capienza massima è di 25 carcerati, ma ne sta ospitando 44, quasi il doppio. Una situazione che diventa sempre di più insostenibile. In realtà, all’indomani dell’inaugurazione del nuovo padiglione con tanto di taglio del nastro da parte del ministro della Giustizia Andrea Orlando, i sindacati penitenziari avevano già denunciato che l’iniziativa doveva essere accompagnata da un rafforzamento del personale. Bari: morte detenuto cardiopatico, assolto medico del carcere Gazzetta del Mezzogiorno, 2 aprile 2017 Non furono le decisione del dottor Pasquale Conti, medico del carcere di Bari, a causare la morte di un detenuto cardiopatico. È diventata definitiva la sentenza di assoluzione "perché il fatto non sussiste" per il medico imputato con l’accusa di omicidio colposo con riferimento alla morte del detenuto salentino Fabio Malinconico, morto nel trasferimento dal carcere di Bari a quello di Secondigliano. Il fatto risale al novembre 2004. Secondo la Procura di Bari, la colpa del medico era stata quella di non aver disposto il ricovero dell’uomo o comunque di averne ordinato il trasferimento con una semplice sedia a rotelle a bordo del mezzo della polizia penitenziaria anziché con un’ambulanza, nonostante fossero note le gravi condizioni di salute di Malinconico. Nell’aprile 2013 il medico, all’epoca in servizio presso l’ ufficio Sanitario del carcere di Bari, fu condannato a cinque mesi di reclusione per omicidio colposo. La Corte di Appello di Bari, con sentenza ora divenuta definitiva, aveva poi ribaltato la decisione, ritenendo che "non è stato appurato quale siano le cause della morte, salvo che non le si vogliano imputare comunque tutte a Conti, come pare fare il giudice (di primo grado, ndr), laddove potrebbe ascrivergli anche il non previsto eventuale malfunzionamento del pace-maker, con ciò davvero imputandogli, anzi scaricandogli, responsabilità di sistema". Non è stato, cioè, possibile accertare il nesso causale fra la modalità del trasporto e la morte e, del resto, il dottor Conti era stato soltanto l’ultimo medico a valutare le condizioni di Conti, prendendo atto di una decisione già presa da altri, quella cioè del trasferimento in altro penitenziario. Nei motivi di Appello, condivisi dai giudici, la difesa dell’ imputato, l’avvocato Michele Laforgia, aveva inoltre sottolineato che "non sono i medici a disporre della libertà personale dei detenuti" ma l’autorità giudiziaria e, in casi di urgenza, il direttore del carcere. Il medico, cioè, "non ha il potere di disporre direttamente il ricovero di un detenuto ma solo di segnalarne la necessità", come avvenuto in questo caso, perché la decisione di trasferire Malinconico a Secondigliano nasceva proprio dall’esigenza di cercare un centro clinico attrezzato. Napoli: la lettura libera nel carcere di Secondigliano, approda "Crimini e favelas" linkabile.it, 2 aprile 2017 Lunedì 3 Aprile alle 14, presso il carcere di Secondigliano, avrà luogo l’ultimo di un ciclo di incontri tra detenuti e scrittori previsti dal progetto "La lettura libera", portato avanti dall’Associazione "La Mansarda" di Samuele Ciambriello e accolto con grande entusiasmo sia dai detenuti che dalla dirigenza della casa circondariale. Questo progetto, che rappresenta solo una delle iniziative che attualmente La Mansarda sta realizzando all’interno del carcere, ha avuto inizio a gennaio e ha coinvolto una quarantina di detenuti del reparto Adriatico dell’Alta Sicurezza: ogni settimana il presidente e le volontarie hanno incontrato i detenuti a cui sono stati presentati e regalati diversi libri, dei quali hanno ogni volta conosciuto gli autori, a cui hanno potuto rivolgere domande e osservazioni. Prima di "Crimine e favelas", il cui autore Luigi Spera sarà in carcere lunedì, i detenuti hanno incontrato: Lorenzo Marone, autore del best-seller "La tentazione di essere felici", Rosanna Di Crosta Landi, autrice dello struggente libro "I giorni dell’assenza", Raffaele Sannino, autore del libro di poesie "Bum!Bum! Song nat a Furcell e sul na poesia me po’ salvà" pubblicato dall’associazione "Una città che scrive" di Giovanni Nappi, a sua volta presente all’incontro con i detenuti, Paolo Tricoli, autore del romanzo giallo "Informazioni sulla vita e sulla morte del povero Vincenzo" e Frate Gianfranco, presso il cui convento è affidato in prova ai servizi sociali Massimo Balsamo, ex detenuto del carcere di Eboli autore del libro "Il fantasma con il passamontagna". Le presentazioni dei libri e gli incontri con gli autori sono stati intervallati dalla proiezione di cortometraggi, spunto per brevi ma intensi dibattiti: il primo corto è stato "Stella" di Gabriele Salvatores, seguito da "La pagella" di Alessandro Celli, "Piccole cose dal valore non quantificabile" di Paolo Genovese e Luca Miniero e "Fuga d’affetto, realizzato dai detenuti del carcere di Parma e dai ragazzi di un liceo artistico. Scopo dell’intera iniziativa è dare la possibilità ai detenuti di arricchirsi e ritrovarsi, mediante le riflessioni scaturite dalla lettura di un buon libro, dalla visione di un cortometraggio e ancor di più dal confronto con gli autori, ai quali hanno la possibilità di rivolgere le proprie domande e osservazioni, diventando protagonisti del progetto e non semplici destinatari dello stesso. Milano: gli studenti dell’IS Dell’Acqua incontrano i detenuti di Bollate sempionenews.it, 2 aprile 2017 Venerdì mattina, presso l’Istituto "Carlo dell’Acqua" di Legnano, si e realizzata la seconda e ultima parte del progetto: "La scuola entra in carcere. Il carcere entra a scuola". Questa volta il "carcere" e entrato a scuola: due detenuti della II Casa di Reclusione di Milano-Bollate, accompagnati dalla dottoressa Amie Kanu, hanno accettato di raccontare le loro esperienze davanti agli studenti delle classi quinte del diurno e ad alcuni studenti del corso serale. All’incontro ha partecipato anche il Maresciallo De Santis, comandante del nucleo Carabinieri di stanza alla Scuola Militare Teuliè di Milano. Paolo e Mattia, condanne piuttosto lunghe, si raccontano e parlano a un’Aula Magna piena di ragazzi attenti e in rispettoso silenzio. Raccontano le loro storie dopo aver ascoltato gli interventi degli studenti e le loro impressioni sulla visita a Bollate, la scorsa settimana. Per uno dei nostri ospiti è la prima volta che parla ad un pubblico al di fuori del carcere, struttura nella quale e entrato molto giovane per essersi fatto trascinare, da cattive compagnie, in una gang. Hanno storie difficili da raccontare, fatte di incontri sbagliati, latitanza, lunga detenzione, ma anche riabilitazione, riscatto e possibilità di aiutare altri detenuti all’interno della struttura. Inizialmente, ci spiegano la condizione del detenuto, ci rendono partecipi di qualche aneddoto del loro tortuoso percorso di vita, della frequenza della scuola alberghiera, dell’importanza di poter lavorare all’esterno, della difficoltà di riprendere i contatti con la vita "fuori" dove anche semplicemente affrontare il percorso in macchina per arrivare alla nostra scuola diventa un’azione quasi dimenticata che provoca disagio. In seguito, emergono i sentimenti legati ai rapporti familiari, agli affetti; entrambi hanno alle spalle una famiglia solida e onesta a cui dover rendere conto dei propri sbagli, nei confronti della quale sentire un profondo disagio durante i colloqui settimanali per scegliere, poi, di sospenderli in prossimità dell’ottenimento del regime di semilibertà. Il contesto è particolare, non capita molto spesso che detenuti e rappresentanti delle forze dell’ordine siedano dietro allo stesso tavolo per dialogare con un unico intento: far passare il messaggio che bisogna sempre ragionare sulle proprie azioni, diventa indispensabile ripensare più e più volte prima di agire. Soprattutto, come sottolinea il Maresciallo De Santis, avere sempre coraggio, certe scelte sbagliate sono dettate dalla paura, e opportuno decidere da soli, buttarsi in quello in cui si crede e, se necessario, andare contro tutti senza mai perdere di vista la buona strada. Per concludere l’intervento, la dottoressa Kanu illustra quello che è il "Progetto Bollate" mirato al recupero del detenuto accompagnandolo gradualmente verso il reinserimento sociale. A questo punto, si lascia spazio alle domande del pubblico che non mancano: chi chiede al più giovane dei due "cosa hai perso della tua gioventù?", chi vuole un consiglio per "noi studenti" e chi vuole sapere come e stato il primo impatto al momento dell’arresto. I nostri interlocutori non si risparmiano e rispondono a tutte le domande. La fine dell’incontro è arrivata, tutti rientrano alle proprie attività scolastiche con tanti spunti di riflessione e sicuramente arricchiti da questa nuova esperienza. *La redazione grazie al prezioso contributo della Prof.ssa Paola Meccariello (docente, sezione serale, e responsabile del progetto proposto). Bari: "Fumetti da dentro", le storie illustrate nel carcere minorile "Fornelli" borderline24.com, 2 aprile 2017 Per quattro anni l’associazione Kaleidos è entrata nel carcere minorile "Fornelli" di Bari per insegnare ai ragazzi a raccontarsi con l’arte del fumetto. Ora il progetto è bloccato per mancanza di fondi. L’errore è pensare che il fumetto sia un media rigido, destinato solo ad alcune categorie di lettori o prodotto solo da certi autori, chiusi nei loro studi tra tavole e inchiostri. L’esperienza - tutta barese - di Fumetti da dentro ci insegna quanto il racconto per immagini possa adattarsi alle più diverse esigenze di socialità e comunicazione: nelle trenta pagine dell’ultima edizione, si alternano amori sognati e miti musicali, fughe in macchine rubate e battute in dialetto, tutti nati dalla fantasia e dall’esperienza diretta di ragazzi "difficili". Da dieci anni l’associazione Kaleidos si impegna a diffondere la cultura anche nelle situazioni di disagio, prendendo spunto e destinando i suoi prodotti a tutti: dai semplici passanti alle famiglie del Cep, dai ragazzi con precedenti di alcol e droghe fino ai casi di delinquenza minorile. Con questo spirito, Kaleidos è entrata per quattro anni nel carcere minorile "Fornelli" di Bari dando vita a tre fumetti, realizzati durante un laboratorio curato dall’educatrice Ilaria Schino, dal fumettista Disney Giuseppe Sansone e dall’illustratrice e mediatrice Anna Di Maggio, coordinati dalla presidente dell’associazione, Anna Pinto. "Da sempre volevamo portare il progetto nel carcere minorile - racconta Anna Di Maggio - e ce l’abbiamo fatta quando il Ministero è riuscito a sostenere le spese di stampa, distribuzione e dei materiali necessarie alla sua realizzazione". Questa possibilità, purtroppo, non è stata rinnovata per il nuovo anno il progetto è, momentaneamente, bloccato. I fumetti realizzati all’interno del Fornelli si mostrano al pubblico senza censure, partendo dalle storie inventate dai ragazzi, di un’età variabile tra i 15 e i 24 anni. "Alcuni di loro uscivano prima di terminare il loro racconto, alcuni sono arrivati a laboratorio iniziato - continua la Di Maggio - ma abbiamo tentato di catturare da tutti spunti, schizzi, sceneggiature, frasi, battute. I disegni sono fatti tutti da loro". L’intervento degli educatori è stato discreto ma fondamentale. Oltre alle lezioni di fumetto del professionista Giuseppe Sansone, fondamentale è stata la mediazione degli educatori, senza la quale sarebbe stato impossibile entrare in contatto con i ragazzi. "l fumetto dà la possibilità di raccontare storie, che hanno un inizio, un corpo e una fine - aggiunge Anna Di Maggio - e questo è importante perché spesso i ragazzi chiusi in carcere non hanno la concezione di futuro ben chiara: il fumetto fa capire che ogni scelta comporta delle conseguenze che, insieme, contribuiscono a raccontare una storia. Diventa, così, una metafora della vita". Importante è stato anche lo stimolo fornito dall’associazione a "lavorare di fantasia". "Alcuni, i più furbi - ci spiega la mediatrice - volevano trasmettere all’esterno un’immagine di bravi ragazzi, per colpire e influenzare il giudice con una loro versione del reato commesso. Abbiamo, per questo, volutamente evitato che raccontassero esattamente le loro storie e che fossero riconoscibili dal fumetto". "Certo è difficile far cambiare loro idea sul proprio futuro - conclude - quasi sempre del fumetto, dell’arte a loro interessa poco. Però sicuramente è stata un’occasione di scambio, il fumetto è stato una finestra per far capire che c’è altro al di là delle loro vite e del loro ambiente". Torino: infanzia di una donna di mafia, sul palco salgono le detenute di Silvia Francia La Stampa, 2 aprile 2017 Uno spettacolo con otto attrici recluse nel reparto di alta sicurezza. Una detenuta che sta per uscire dal carcere chiede e ottiene di poter restare dietro le sbarre per partecipare all’allestimento di uno spettacolo. Commento del direttore della struttura penitenziaria: "In tanti anni questo non mi era mai capitato!". Sembra una storiella inventata, ma è tutto rigorosamente vero. Successo nel carcere di Vigevano: quello in cui da tempo opera Mimmo Sorrentino, portando il conforto dell’arte teatrale a chi vive dentro orizzonti troppo stretti. Detto così può sembrare un esempio di retorica buonista, ma è un fatto che la magistratura abbia concesso a otto detenute il "permesso di necessità" per uscire dalla cella per venire a Torino - sia pure opportunamente scortate - a recitare ne "L’infanzia dell’alta sicurezza", in scena da martedì (ore 19,30) al Gobetti, per la stagione del Tst. È un fatto anche che Nando Dalla Chiesa, figlio di una delle più illustri vittime della mafia abbia invitato queste carcerate non pentite o dissociate, tutte legate a Cosa Nostra, camorra o ‘ndrangheta, a proporre il loro spettacolo nell’aula magna della Statale di Milano. Per Sorrentino - Premio Enriquez per il teatro civile nel 2009 e Premio Anct-Teatri delle diversità nel 2014 - lavorare in ambiti non canonici non è una novità, dal momento che ha concentrato spesso le sue attenzioni professionali su soggetti portatori di una qualche diversità, dai malati di Alzheimer ai rom agli adolescenti immigrati. "Segno che ho una certa predisposizione ad accogliere la sofferenza" racconta l’autore e regista che, però, è tutt’altro che serioso. "Tra noi e le detenute coinvolte negli eventi teatrali si crea un’emozione speciale. Tanto che, tempo fa, in un supermarket ho incontrato un’ex detenuta che mi è venuta incontro urlando: "Mimmo, Mimmo! Che nostalgia del carcere". Ovviamente ci guardavano tutti". Meno divertenti, le storie raccontate ne "L’infanzia dell’alta sicurezza", che raccontano fatti realmente accaduti alle interpreti quando erano molto giovani e, paradossalmente, si sentivano ancora protette. La vicenda di ciascuna di loro in scena è affidata a un’altra, in modo da evitare il biografismo. C’è la storia della donna napoletana che, da ragazzina, ancora prima di rimanere incinta a 13 anni, eredita dalla madre il "lavoro" di contrabbandiera di sigarette, per poi passare a vendere quegli stupefacenti che lei chiama "paradisi truccati". "Lei era innamoratissima del marito e, finché lui era in vita non si tagliò mai i capelli, lo fece solo quando lui morì" dice Sorrentino. Che aggiunge: "Eppure questa donna si è accorta solo mentre ne parlava con me della concomitanza dei due eventi e quando l’ha capito si è massa a piangere". "Inoltre - dice il regista - molte di queste donne ha idealizzato la figura del padre che spesso era assente perché morto o in galera e capita che questa consacrazione del maschio venga poi traslata sui mariti. Anche per questo, in molti casi, le loro sono storie molto romantiche". Un’altra delle otto attrici-detenute invece ricorda che, ai tempi dei mondiali di calcio dell’82, per la gioia il padre la issò sulle sue spalle, ma quando lei aveva dieci anni l’uomo fu ucciso e lei dovette "scendere dalle sue spalle, perché i morti non sopportano il peso della vita addosso". Teatro Gobetti Via Rossini 8 Da martedì a domenica Brescia: Verziano, la manifestazione podistica "Vivicittà" e la carenza di personale quibrescia.it, 2 aprile 2017 Oggi ha avuto luogo l’ennesima manifestazione podistica "Vivicittà" organizzata dalla Uisp all’interno del carcere di Verziano dove ha visto una massiccia partecipazione di diverse centinaia di persone, tra cui diverse scolaresche, accedere all’interno dell’Istituto e partecipare unitamente ai detenuti e detenute alla manifestazione. Sono in corso anche le attività trattamentali che riguardano corsi di danza nei confronti di detenuti e detenute che si svolgo presso il Teatro Sociale di Brescia. Tutte le attività trattamentali, condivise dalla Fp Cgil, organizzate dalla Direzione con la collaborazione della Polizia Penitenziaria, Educatori e Psicologi, sono volte al reinserimento, nel tessuto sociale, dei detenuti pur comportando un impegno ed un impiego non indifferente di personale di Polizia Penitenziaria sia all’interno del carcere che all’esterno. Purtroppo, la grave e cronica carenza di personale di Polizia sia maschile che femminile sta comportando un maggiore sforzo e responsabilità degli stessi nell’assolvimento del proprio mandato istituzionale affinché le capacità organizzative ed esecutive si fondano in un mix di professionalità il cui risultato garantisce il rispetto del dettato costituzionale ex art. 27. Il carcere di Verziano ha un regime penitenziario a vocazione prettamente tratta mentale dove la popolazione detenuta ha la possibilità di uscire fuori dalle camere di detenzione per oltre dodici ore, impegnata in varie attività, culturali, sociali, lavoro, scuola etc. ove il "clima" e i rapporti con tutte le professionalità è abbastanza sereno, tranne in alcuni episodici casi ove vedono coinvolti soggetti con problemi psichici. Complimenti alle donne e agli uomini della Polizia Penitenziaria e ad altre figure professionali, in servizio a Verziano, che nonostante grandi sacrifici e la carenza di risorse umane, mostrano quotidianamente senso del dovere, dell’istituzioni ed alta professionalità affinché i progetti organizzati dalla Direzione abbiano a concretizzarsi positivamente. Calogero Lopresti, responsabile regionale polizia penitenziaria Funzione Pubblica Cgil ‘Ndrangheta. Così il teatro la racconta ai più giovani di Agnese Moro La Stampa, 2 aprile 2017 "Dieci storie proprio così" è uno spettacolo bello e coinvolgente, pensato per attirare l’attenzione dei ragazzi, ma che prende profondamente qualunque spettatore, con la semplicità di un palcoscenico "nudo", animato da sette attori e due musicisti e da poche frasi di accompagnamento che compaiono come scritte luminose. Il tema è la criminalità organizzata delle grandi cosche, con la pervasività e la durezza che le caratterizza, e le storie appunto, di chi, in modi diversi, ha deciso di non lasciare che quelle stravincano travolgendo tutto. Lo spettacolo nasce da un’idea di Giulia Minoli (con la sua associazione "The Co2 Crisis Opportunity" - theco2.org), che ne ha anche scritto i testi con Emanuela Giordano (regista). Iniziato nel 2011 al Teatro di San Carlo di Napoli, da quest’anno, per i 25 anni delle stragi di Capaci e di via D’Amelio, lo spettacolo, che ha avvicinato migliaia di giovani, è stato arricchito con un ulteriore approfondimento su Mafia Capitale e sui legami tra ‘ndrangheta calabrese e Lombardia. Lo spettacolo è stato al Piccolo Teatro di Milano e al Teatro Argentina di Roma, poi al San Ferdinando di Napoli e al Gobetti di Torino. Le 10 storie sono state raccontate dai parenti delle vittime, dai volontari e "da chi senza paura - scrivono le autrici - si attiva per creare alternative al degrado che produce la criminalità organizzata. Sono le storie di un’Italia spesso ai margini della cronaca e lontana dai riflettori ma che per fortuna esiste e continua a lottare. Lo spettacolo è una "ragionata" provocazione contro quella rete mafiosa, trasversale e onnipresente che vorrebbe sconfitta la coscienza collettiva, la capacità di capire e reagire. Mentre scriviamo questi appunti, continuiamo a raccogliere testimonianze, domande e riflessioni che riguardano non solo l’operato altrui ma anche la nostra responsabilità individuale, perché diritti e doveri siano uguali per tutti davvero. Il teatro non lancia messaggi, si accontenta di offrire stimoli e questo noi cerchiamo di fare, con grande convinzione, pensando soprattutto ai ragazzi. E proprio ai ragazzi ci rivolgiamo, con il lavoro che realizziamo nelle scuole di tutta Italia, perché lo spettacolo non sia solo un evento ma una parte di un percorso di avvicinamento a temi fondamentali per la loro crescita". Armi nucleari. Il realismo efficace del disarmo di Marco Impagliazzo Avvenire, 2 aprile 2017 Indirizzando un messaggio alla Conferenza delle Nazioni Unite "finalizzata a negoziare uno strumento legalmente vincolante per proibire le armi nucleari", papa Francesco ha varcato ancora la frontiera dell’utopia? "Un mondo senza armi nucleari", pur essendo un "obiettivo di lungo periodo, estremamente complesso", "non è al di fuori della nostra portata", ha dichiarato. Lo aveva fatto del resto già in occasione della visita all’Onu del settembre 2015, quando esortava a "impegnarsi per un mondo senza armi nucleari, applicando pienamente il Trattato di Non Proliferazione (Tnp) e lodava "il recente accordo sulla questione nucleare" (l’intesa firmata con l’Iran) come "una prova delle possibilità della buona volontà politica e del diritto". La stessa Conferenza cui si è rivolto papa Bergoglio è stata tacciata di scarsa concretezza. Visionari sono sembrati i proponenti, che immaginano di introdurre una moratoria sulle testate nucleari sul modello di quanto già fatto nel 1972 con le armi batteriologiche e nel 1993 con quelle chimiche. Chi non sostiene la moratoria ricorda come le armi nucleari abbiano garantito al mondo un "equilibrio del terrore"; ovvero che oggi "non sussistono le condizioni di sicurezza per adottare un [ta] trattato". E anche chi sogna un mondo più pacifico non può non concordare sul fatto che i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza si opporranno senz’altro a un divieto assoluto, che vada oltre quanto garantito loro dal Tnp. Un Papa utopico allora? No, un Papa realista. E proponenti della moratoria realisti come lui. Innanzi tutto il Tnp è stato aggirato e sorpassato. Alle cinque potenze nucleari di un tempo se ne sono aggiunte altre in pochi decenni. Il mondo oggi non è più bipolare. La parità strategica tra Usa e Urss è preistoria. "In questo mondo multipolare del XXI secolo", come dice Francesco, i "bracci di ferro" sono aumentati in maniera geometrica: "Se si prendono in considerazione le principali minacce alla pace e alla sicurezza con le loro molteplici dimensioni, come, ad esempio, il terrorismo, i conflitti asimmetrici, la sicurezza informatica, le problematiche ambientali, la povertà, non pochi dubbi emergono circa l’inadeguatezza della deterrenza nucleare a rispondere efficacemente a tali sfide". Sul nostro pianeta è purtroppo facile iniziare una guerra. Difficile è portarla a conclusione. Come in Medio Oriente, così nella ex Jugoslavia o in Africa, i conflitti non si vincono e non si placano. Jacques Attali, nel suo "Economie de l’Apocalypse", denunciava il traffico e la proliferazione del nucleare nel mondo post-1989: "L’uso di tali armi è divenuto più probabile che mai: dei fanatici non temono di morire per la loro causa; dei narcotrafficanti non hanno frontiere da difendere. Contro tutti costoro i princìpi classici della dissuasione nucleare, basati sul timore della rappresaglia, non fanno presa". La guerra è possibile. Tutti la possono fare anche le mafie o i terroristi. È uno scenario molto diverso da quello del classico confronto tra potenze. René Girard avvertiva, rileggendo l’opera di von Clausewitz sulla guerra, "quando si scatena una crisi il rischio è che essa si avviti all’estremo, colpo contro colpo, in un imbarbarirsi contrapposto dal quale sarà difficile tirarsi fuori". Si tratta di reagire a tutto questo e di non assistere passivamente all’accumularsi di spade sul nostro capo. Se il mondo è stato capace di dar vita a una campagna di moratoria sulla pena di morte che ha ottenuto buoni risultati e diminuito il lavoro del boia, sarà possibile anche nel campo del nucleare imbrigliare le pulsioni più oscure e muovere passi coraggiosi verso un tempo più umano e più razionale. La pace è possibile, soprattutto se affidata alla via del dialogo, dell’incontro tra le parti, della diplomazia. La pace e il disarmo anche nucleare sono possibili, ma non come frutto di un equilibrio basato sulla paura o sulla forza, bensì come risultato di un nuovo equilibrio, fondato sul dialogo. L’equilibrio del terrore è un filo che rischia di spezzarsi ogni giorno. Quella del dialogo riannoda ogni giorno la speranza dell’umanità. Boom di sommerso nel lavoro dei profughi: in Italia 500mila persone fantasma di Alessandro Barbera La Stampa, 2 aprile 2017 Gli immigrati fanno solo i lavori che agli italiani non piacciono. Lo studio Inps: l’occupazione straniera non ha legami con i salari bassi Accettano professioni umili, sono flessibili e non rubano il posto a nessuno. I protagonisti dello studio sono 227mila lavoratori di 107.000 imprese (esclusa l’agricoltura) emersi grazie alla più grande sanatoria mai effettuata in Italia, quella voluta a settembre del 2002 dal secondo governo Berlusconi che regolarizzò circa 600mila persone. Quante volte l’avete sentito dire? Quante volte vi siete fatti irretire dalla rassicurante convinzione che gli immigrati rubano lavoro e futuro? Lo sospetta persino Bakari, uno dei giovani africani che ogni mattina pulisce le strade di Roma Nord nel timore di essere arrestato. Non ha bisogno di molto: una ramazza, una paletta, due pezzi di cartone con cui - quasi scusandosi per il disturbo - chiede in italiano qualche centesimo e una manciata di dignità. A Roma l’inefficienza dell’Ama ha raggiunto un livello tale da trasformare truppe di irregolari nel più straordinario spot a favore dell’integrazione. Bakari si aggira attorno a una grande struttura della Polizia, e nessuno sente il bisogno di distoglierlo dalla rimozione meticolosa delle ortiche ai lati di un marciapiede più simile a quelli di Accra che di una capitale europea. Meno male che Bakari c’è: secondo la più classica delle regole del mercato, colma la domanda inevasa di decoro di una città sull’orlo perenne del collasso finanziario. Gli immigrati non rubano il lavoro agli italiani, né - se regolari - spingono al ribasso i salari. Non è l’opinione parziale di un romano o di anime belle. Lo dice con dati inoppugnabili una recente ricerca di tre studiosi: Edoardo di Porto dell’Università Federico II di Napoli, Enrica Maria Martino del Collegio Carlo Alberto di Torino e Paolo Naticchioni di Roma Tre. Non è l’unico studio sul tema, ma è il primo che censisce un intero campione di immigrati. Lo hanno fatto grazie ad una borsa VisitInps, il progetto voluto dal presidente Tito Boeri che mette a disposizione della ricerca l’enorme mole di dati dell’Istituto di previdenza. I protagonisti dello studio sono i 227mila lavoratori di 107.000 imprese private (esclusa l’agricoltura) emersi grazie alla più grande sanatoria mai effettuata in Italia, quella decisa a settembre 2002 dal secondo governo Berlusconi che regolarizzò 650mila persone. Le due sanatorie successive furono drasticamente inferiori: nel 2009 furono accolte 222mila richieste su 295mila, nel 2012 passarono appena 60mila richieste su 134mila. Il numero di extracomunitari in rapporto alla popolazione in Italia è volato in quindici anni: dall’1,7 per cento del 1998 all’8 del 2012. Oggi quella crescita è azzerata o quasi: gli immigrati censiti in Italia sono poco più di cinque milioni, due terzi dei quali extracomunitari. In Francia sono 4,3 milioni (ma con un altissimo numero di immigrati di seconda e terza generazione), in Germania i residenti stranieri sono ben sette milioni e mezzo. Il crollo - Se una volta gli immigrati si fermavano in Italia per cercare fortuna, oggi la gran parte di loro si spinge verso nord. Fra il 2008 e il 2013 i permessi di soggiorno per lavoro sono passati da 738mila a 1.442mila, ma negli ultimi anni la progressione è calata fino ad azzerarsi: nel 2013 sono stati appena lo 0,46 per cento in più dell’anno precedente. Chi non ha potuto avere il rinnovo annuale del permesso è lentamente scivolato nel lavoro irregolare. Danesh Kurosh del dipartimento immigrazione Cgil spiega che la progressiva chiusura dei decreti flussi sta ingrossando il sommerso: oggi quelli che lavorano senza una regolare posizione contributiva sono almeno 500mila. Cosa accadeva quando l’Italia era invece fra i principali Paesi di destinazione e accettava di buon grado le regolarizzazioni? La novità della ricerca Inps è nella precisione dei dati a disposizione: la sanatoria di fine 2002 imponeva alle imprese di assegnare a ciascun lavoratore emerso un codice rimasto negli archivi dell’Istituto. I numeri - A fine 2003, appena un anno dopo, nove di quei dieci immigrati lavoravano ancora in Italia. Dopo cinque anni erano ancora l’85 per cento. Ma la cosa ancora più sorprendente è che dopo due anni solo il 45 per cento di quel campione era impiegato nella stessa impresa, dopo cinque più di un lavoratore su tre aveva cambiato provincia. "I dati suggeriscono che queste persone erano e sono disposte ad una mobilità che gli italiani non hanno mai avuto", spiega Di Porto. Per intenderci: la probabilità di cambiare impresa per un lavoratore italiano negli ultimi trent’anni è stata appena del 15 per cento. Inoltre "la persistenza nel mercato italiano associata al rapido cambiamento di impresa e residenza dimostra un eccesso di domanda insoddisfatta per mestieri a bassa qualifica". Questi numeri confermano una tendenza che si noterà anche negli anni della crisi. Linda Laura Sabattini dell’Istat ha fatto notare che mentre i posti scendevano nell’industria, nell’edilizia, nel commercio, gli occupati stranieri aumentavano comunque nei servizi alle famiglie e nella ristorazione: riecco la domanda inevasa. L’evidenza dei numeri Inps non solo conferma l’utilità della forza lavoro immigrata, ma smonta un altro falso mito, ovvero la presunta spinta al ribasso dei salari. Nei dati il fenomeno emerge solo nei primi tre mesi: le retribuzioni medie degli emersi fanno scendere di circa il 16 per cento il salario delle imprese che li regolarizzano. Ma in meno di un anno quel gap si chiude. La sanatoria della Bossi-Fini produsse l’emersione di due-tre lavoratori a impresa nell’arco di tre mesi. Sei mesi dopo il numero degli occupati era lo stesso, a dimostrazione che la gran parte delle aziende, se nelle condizioni di farlo, non aveva interesse ad occupare irregolari. Raccontare con dovizia di dettagli la storia di ieri aiuta a capire cosa fare oggi e domani. Il ministro dello Sviluppo tedesco Gerd Mueller stima che dall’Italia solo quest’anno potrebbero transitare fino a quattrocentomila persone, il doppio dell’anno scorso, venti volte quelle sbarcate nel 1997. La mera chiusura delle frontiere rischia di scaricare decine di migliaia di Bakari sulle strade italiane. Il ministro Marco Minniti propone di utilizzare i richiedenti asilo nei Comuni e per lavori di pubblica utilità, ma in mezzo a quelle decine di migliaia di persone ci saranno molti migranti economici. Dimenticate per un momento l’esodo di cinque milioni di siriani, o la tragedia della Libia orfana di Gheddafi. Sui barconi che dal Mediterraneo si spingono lungo le cose siciliane ci sono anzitutto migranti in cerca di fortuna. Giovedì scorso a Pozzallo sono arrivate su una nave 428 persone: più di trecento erano marocchini. Gli emersi dalla sanatoria 2002 erano quasi per la metà (il 45 per cento) dipendenti in due settori, manifattura e costruzioni. Dopo cinque anni quella percentuale era salita al 60 per cento: una conferma in più della tendenza degli immigrati a compensare la scarsa offerta di manodopera. Liliana Ocmim è peruviana, vive in Italia da 25 anni, ha tre figli e fa la presidente del dipartimento immigrati Cisl: "Come è possibile che i giovani italiani all’estero siano disponibili ai lavori umili che qui rifiutano?" La risposta è amara, e dice molto dei problemi del Belpaese. Immigrati mobili - Negli anni della crisi la salvezza di quegli immigrati è stata ancora una volta la mobilità: "Molti sono rientrati nel proprio Paese dove hanno trovato il lavoro che qui avevano perso", racconta Mohamed Saady, edile e presidente della Anolf-Cisl. Ocmim allarga le braccia: "Questi numeri confermano quanto siano sbagliate le politiche di chiusura. Più il lavoro è irregolare, più aumenta la concorrenza al ribasso". La ricerca dice una cosa chiara: la sanatoria della Bossi-Fini non fu un regalo a persone poi tornate nell’illegalità, ma un riconoscimento a chi già lavorava in Italia ed è rimasto a lavorare in Italia. Uno dei luoghi comuni sugli immigrati vuole che siano un salasso per lo Stato. E invece è vero il contrario. Pochi giorni fa a Biennale Democrazia Boeri ricordava che i lavoratori stranieri residenti in Italia versano otto miliardi di contributi sociali all’anno e ne ricevono tre in prestazioni. Vero è che molti di loro domani avranno una pensione, ma non tutti: l’Inps calcola che sin qui gli immigrati hanno regalato al sistema previdenziale 16 miliardi di contributi. Spiega Boeri: "Chiudere le frontiere produce solo tre risultati: più evasione contributiva, schiaccia i salari, aggrava i problemi sociali. Per far sopravvivere l’Europa occorre una politica comune dell’immigrazione, una gestione del problema dei rifugiati e la revisione della convenzione di Dublino. Ma è possibile crederci con i populisti al potere in cinque Paesi dell’Unione?". Libia. Le tribù del Sud siglano la pace e si impegnano a bloccare i migranti di Grazia Longo La Stampa, 2 aprile 2017 L’Italia garante dell’intesa, firmata al Viminale dopo una maratona di 72 ore. Decisivo il ruolo del ministro Minniti con i leader di Tebu, Suleyman e Tuareg. Un accordo di pace tra le tribù del Fezzan, siglato in un clima top secret, venerdì sera al ministero dell’Interno, accelera la lotta all’emergenza dei flussi migratori. D’ora in poi si intensificherà non solo il controllo delle coste libiche, ma anche quello a Sud del Paese, lungo i 5 mila chilometri al confine con Ciad, Algeria e Nigeria. E se per il primo monitoraggio si è rivelata determinante l’intesa del 2 febbraio scorso tra il nostro presidente del consiglio, Paolo Gentiloni, e il premier Fayez Al Sarraj, ora nel presidiare i confini della Libia meridionale diventa strategica la pace nel Fezzan, nel cuore del deserto del Sahara. Il patto tra le tribù Tebu e Suleiman è avvenuto alla presenza dei Tuareg e del vice premier libico Ahmed Maitig, con la supervisione del ministro Marco Minniti. Un altro passo avanti del nostro governo, nel caso specifico del titolare del Viminale, nell’assumere sempre più il ruolo di garante nella pacificazione strategica in Libia, indispensabile per affrontare il traffico degli esseri umani, ma anche la minaccia del terrorismo islamico. Il patto, venerdì sera, è stato firmato nell’ampia e luminosa sala del consiglio del Viminale - quella in cui prima dell’utilizzo di Palazzo Chigi si riuniva il consiglio dei ministri - e maturato proprio grazie all’impegno di Minniti. Il quale, prima dell’appuntamento collettivo, ha incontrato a Roma singolarmente, negli ultimi mesi, i capi tribù Tebu, Suleiman e Tuareg, per ascoltare le ragioni di ciascuno. Sullo sfondo dell’intesa appena raggiunta non ci sono, infatti, regole e codici tradizionali, ma quella diplomazia del deserto basata sulla fiducia e sulla mediazione personale. E ora se ne raccolgono i frutti. Sul fronte libico meridionale, l’Italia interverrà con mezzi e risorse per la formazione del personale. "Sarà operativa una guardia di frontiera libica - annuncia il numero uno del Viminale - per sorvegliare i confini a Sud della Libia, su 5000 chilometri di confine. Mentre a Nord, contro gli scafisti sarà operativa la guardia costiera libica, addestrata dalle nostre forze, che dal 30 aprile sarà dotata delle 10 motovedette che stiamo finendo loro di ristrutturare". Lo stop alla guerra tra le tribù Tebu e Suleiman - che solo negli ultimi anni ha provocato 500 morti - segna una svolta sul fronte immigrazione sia per l’Italia, sia per gli altri Paesi europei. "Sigillare la frontiera a Sud della Libia - prosegue il ministro - significa sigillare la frontiera a Sud dell’Europa". La discussione è stata animata e intensa. Sessanta capi clan - chi in abiti occidentali, chi con la lunga tunica, il turbante e la tagelmust, la sciarpa bianca a coprire il volto - hanno discusso per 72 ore, al secondo piano del ministero dell’Interno, intorno a un enorme tavolo ovale in legno scuro. Protagonisti principali i capi degli Awlad Suleiman e i Tebu, ma c’erano anche i leader Tuareg. Per i Tebu è intervenuto il sultano Zilawi Minah Salah, per i Suleiman il generale Senussi Omar Massaoud mentre per i Tuareg, Sheikh Abu Bakr Al Faqwi. Il compromesso era quanto mai atteso, perché se è vero che l’Italia e l’Europa hanno molto da guadagnare dalla stabilità in Libia, è altrettanto certo che da quelle parti c’è stata una guerra e poi sei anni di caos istituzionale. Va quindi ricostruita una società dalle fondamenta e grazie alla pace raggiunta si potrà procedere alla realizzazione di opportunità di sviluppo alternativo ai profitti dei traffici illeciti, alla riapertura dell’aeroporto di Sebha e alla cooperazione transfrontaliera con le tribù sorelle in Ciad e in Niger. La riconciliazione tra i Tebu e i Suleiman permetterà inoltre alle due tribù di unire le forze per contrastare la criminalità, il terrorismo e lo jihadismo. Non va infatti dimenticato che, poiché l’Isis è ormai sulla difensiva in Iraq e Siria, diventa prioritario proteggere quest’area del Mediterraneo da un ritorno di foreign fighters. Ma una domanda si impone: la pace appena ufficializzata sarà mantenuta? Le premesse non mancano: "Per noi che siamo beduini, gli accordi sono un fatto di sangue" hanno detto i capi tribù salutando il ministro Minniti. La sua risposta non si è fatta attendere: "Io sono calabrese, e anche per la regione da cui provengo conta il sangue". Libia. Le lotte fra clan beduini del deserto che segnano il destino del Paese di Giordano Stabile La Stampa, 2 aprile 2017 Il regime del Colonnello era riuscito a neutralizzare le rivalità tribali. Poi con la sua caduta nel 2011 il conflitto nel Fezzan è riesploso. Sono sei anni che al posto di frontiera di Tumu, al confine con il Niger, lo Stato libico non esiste più. Gli edifici della dogana e di controlli di polizia, che d’inverno le tempeste di sabbia quasi sommergono, stanno ancora in piedi perché i giovani combattenti delle tribù Tebu fanno i turni di guardia e controllano chi entra nel loro territorio. Sono tribù che vivono di qua e di là dal confine e conoscono bene tutte le strade dei contrabbandieri e dei trafficanti di uomini. Ai tempi di Gheddafi, trafficavano anche loro ma ora la situazione si è rovesciata. Se manca il potere centrale, sono quelli locali che devono provvedere. In Libia è vero più che altrove. La dittatura di Gheddafi aveva in parte neutralizzato l’influenza delle tribù, in un equilibrio che aveva soprattutto penalizzato la Cirenaica. Dal 2011, le forze centrifughe si sono di nuovo scatenate. All’estremo Sud del Fezzan, Tumu è uno sbocco naturale per le colonne di migranti che dal Sahel risalgono verso la Libia. Sono carovane di camion stracarichi, anche 70-80 alla volta, che partono da Agadez, la più importante città nel Nord del Niger, e arrivano fino a Dirku, l’ultima cittadina prima del confine. Poi, di lì cercano di passare in Libia, raggiungere Sebha, attraversare il deserto libico fino alla costa. È il Fezzan, una regione grande quanto la Francia, la porta di accesso per l’Europa. E il Fezzan, dopo la caduta di Gheddafi, è tornato il regno assoluto delle tribù. Soprattutto ora che il controllo della Libia è conteso fra il premier legittimo Fayez al-Sarraj e il rivale appoggiato da russi ed egiziani Khalifa Haftar. I Tebu, di etnia e lingua africani, spesso apostrofati come "mori" dai libici della costa, controllano la parte meridionale, alle frontiere con Niger e Ciad. Sono "neri del deserto", sparsi fino al Sudan e al Darfur, guerrieri coraggiosissimi che spesso combattono al soldo di milizie arabe. Nella lotta per il potere nel Fezzan, dopo l’uccisione di Gheddafi, hanno alla fine scelto di stare con Al-Sarraj. È un punto importante, conquistato anche nella battaglia di Sirte contro l’Isis, quando piccole milizie Tebu hanno combattuto al fianco di quelle di Misurata alleate di Al-Sarraj. Ora i Tebu, il "popolo delle rocce", sono la chiave per chiudere il confine con il Niger e il Ciad. L’altra sono i Tuareg. Altra popolazione non araba. Berberi, "navigatori del deserto". Come i Tebu non conoscono frontiere, sanno come attraversarle e quindi anche come sigillarle. In Libia, la loro roccaforte è la zona di Ghat, dove lo scorso settembre erano stati rapiti Danilo Calonego e Bruno Cacace, poi rilasciati anche grazie all’aiuto delle tribù berbere. Ghat è un crocevia di traffici e terrorismo. Al-Qaeda nel Maghreb islamico, Aqmi, si è impiantata nelle montagne, ha cercato alleanze, si è inserita nei traffici e si è espansa soprattutto durante gli scontri fra Tuareg e Tebu per il controllo della cittadina di Ubari, nel 2015. Sotto Gheddafi, i Tuareg avevano goduto di un rapporto privilegiato con Tripoli, a scapito dei Tebu, soprattutto durante l’intervento libico in Ciad negli anni Ottanta, quando si erano trovati sui fronti opposti. Nel 2011, la rivalità era esplosa. Nel novembre del 2015, però, con la mediazione del Qatar, il leader Tuareg Abu Bakr Al-Faqi ha raggiunto un accordo con i Tebu, e sempre sotto l’influenza qatarina si è schierato in favore degli accordi di Skhirat che hanno portato alla nascita del governo di Al-Sarraj. L’accordo ha permesso all’attuale premier di prevalere nel Sud del Fezzan, ma Haftar ha cercato subito di avere il sopravvento nel Nord, verso Sebha, il capoluogo. Il generale ha trovato un forte alleato negli Al-Qadhadhfa che da Sirte, città natale di Ghedaffi, si sono spostati negli scorsi decenni verso il Fezzan. Questa tribù berbera arabizzata è stata la principale base di sostegno tribale di Gheddafi. A Sirte si è scontrata con le milizie di Misurata, prima dell’avvento dell’Isis. A Sebha si è trovata di fronte un potente alleato di Misurata, la tribù degli Awlad Sulaiman, i figli di Solimano, beduini, arabi nomadi del deserto, ostili a Gheddafi fin dalla sua presa del potere. Come indica il primo nome del loro leader, Senussi Omar Massaoud, sono legati alla Senussia, la confraternita salafita più importante della Libia. La rivalità con gli Al-Qadhadhfa è scoppiata lo scorso novembre per il "caso della scimmietta", quando una bertuccia di un commerciante ha strappato il velo a una ragazza Awlad. Un pretesto per scatenare la guerra per il controllo di Sebha. Ora, con gli accordi di Roma, gli Awlad Sulaiman hanno due potentissimi alleati nei Tuareg e nei Tebu e possono contrastare gli aiuti che arrivano dal generale Haftar agli Al-Qadhadhfa. La battaglia nel Fezzan non è solo per il controllo delle frontiere. É per il controllo della Libia. Niger. Dall’Italia 50 milioni per rinforzare le frontiere in chiave anti migranti di Carlo Bertini La Stampa, 2 aprile 2017 L’accordo firmato dal premier Gentiloni a Roma. Il contributo sarà scaglionato in quattro tranche condizionate al raggiungimento di obiettivi per sorvegliare i confini con la Libia. È solo un primo passo di un percorso accidentato, ma da queste intese bisogna cominciare, se è vero - come dice il premier Paolo Gentiloni - che il problema dei migranti non lo può risolvere neanche il mago Merlino. Ovvero, non si cancella con un colpo di bacchetta magica. Per questo ieri il premier ha firmato a Palazzo Chigi, insieme ai ministri Minniti e Alfano, un accordo con il presidente del Niger, Mahamadou Issoufou. Uno dei Paesi africani - come Nigeria, Somalia, Mali e Costa d’Avorio - su cui l’Ue vuole investire, perché sono quelli da dove partono migranti. "Nessuno vende illusioni sul fatto che i flussi migratori possano sparire d’incanto. Dobbiamo lavorare insieme, anche con l’Europa, e li possiamo ridurre anche in tempi relativamente brevi", sostiene Gentiloni. L’intesa rientra in una cornice più complessa e stanzia un notevole sostegno finanziario, 50 milioni di euro. "L’accordo firmato oggi rafforza la frontiera sud della Libia e di conseguenza la frontiera esterna dell’Europa", fa notare Alfano. Contributi condizionati - Il Niger è infatti un Paese di transito della rotta transahariana che parte dall’Africa occidentale e arriva in Libia. "La logica di questi accordi è che i migranti vanno fermati o alla partenza o lungo il percorso, ma non sulle rive del Mediterraneo", spiega una fonte di governo. Ed è anche in quest’ottica che il primo marzo è stata riaperta la nostra ambasciata a Niamey. "Il passaggio dal Niger - ricorda il premier - è la principale delle vie migratorie che arrivano in Europa con migliaia di africani che muoiono nel deserto e in mare, una situazione che il presidente nigerino ha definito insostenibile anche sul piano morale". Il governo tiene a chiarire però che i versamenti italiani sono condizionati ai risultati conseguiti: "Con questi 50 milioni il Niger potrà istituire unità speciali di controllo delle frontiere, costruire e ristrutturare posti di frontiera e costruire un nuovo centro di accoglienza per i migranti", chiarisce il ministro degli Esteri. Ma il primo contributo da 10 milioni di euro, assicurano da Palazzo Chigi, resterà l’unico, se dopo un certo lasso di tempo il gruppo di monitoraggio non verificherà che vi sia stata una prima diminuzione dei flussi migratori verso la Libia e un aumento rimpatri dal Niger verso i Paesi di origine. Il primo versamento è previsto entro giugno, il secondo a dicembre, il terzo a maggio 2018 e l’ultimo a dicembre 2018. Il secondo contributo di dicembre, di 8,5 milioni, sarà versato solo se ci saranno progressi nel breve periodo nella lotta all’immigrazione. Il terzo "contributo variabile" (7,5 milioni) sarà erogato solo se saranno rispettati i due parametri, l’operatività di un’unità aggiuntiva per il controllo delle frontiere e l’attivazione di tre nuovi posti di controllo alla frontiera. E il quarto a dicembre 2018 sarà legato ai lavori per una pista di decollo per i rimpatri volontari assistiti e la riabilitazione di altre due postazioni di frontiera rafforzate con la Libia. Insomma, ogni elargizione sarà condizionata ed è questa la prassi seguita dall’Italia nel farsi carico da sola di un quarto degli sforzi messi in campo dall’Ue. Lo stop dai balcani - Ma nell’Ue la strada è tutta in salita per la resistenza dei Paesi balcanici rispetto agli impegni assunti per la ricollocazione dei migranti. Di contro, Angela Merkel è sulla stessa lunghezza d’onda dell’Italia: ha incontrato diversi capi di Stato africani, è convinta che l’Africa stabilizzata sia l’unico modo per non avere flussi infiniti di migranti. E ha già fatto capire che la stabilizzazione dell’Africa sarà al centro dell’agenda della presidenza del prossimo G20 in Germania. Turchia. Prima il rilascio, poi il nuovo arresto: 21 giornalisti restano in carcere di Chiara Cruciati Il Manifesto, 2 aprile 2017 A due settimane dal referendum sulla riforma costituzionale prosegue la repressione dei media. Ma Erdogan pare temere la sconfitta e si rivolge ai kurdi: "Votate sì, sono io il guardiano della pace". La doccia fredda per 21 giornalisti turchi è giunta venerdì notte a poche ore dal rilascio: riarrestati tutti, con accuse diverse dalle precedenti. Così il procuratore di Istanbul ha cancellato la sentenza della corte che imponeva la liberazione dei 21 reporter arrestati nei mesi precedenti nell’ambito delle purghe post-golpe. Il tribunale aveva deciso poche ore prima il rilascio in attesa dei singoli processi: i giornalisti sono accusati di reati diversi, dalla propaganda terroristica alla diffusione di notizie false. Le famiglie li stavano aspettando fuori dalla prigione di Silivri quando è arrivata il nuovo ordine del procuratore: in manette di nuovo, questa volta sulla base di accuse diverse, tra cui quella di aver tentato di rovesciare l’attuale governo. Un altro colpo durissimo alla libertà di informazione e espressione in un paese dove la magistratura - a seguito delle migliaia di epurazioni ordinate da Ankara - va a braccetto con il potere esecutivo: sono circa 150 i giornalisti incarcerati in Turchia, terzo paese al mondo per numero di reporter dietro le sbarre. Incarcerazioni che, insieme alla chiusura di centinaia di agenzie stampa, siti web, quotidiani e emittenti radio e tv facilitano notevolmente la propaganda governativa in vista del referendum costituzionale del 16 aprile. Una campagna che trova sostegno anche nella repressione contro l’Hdp, il partito di sinistra pro-kurdo che ha visto arrestare in pochi mesi migliaia di sostenitori e membri, sindaci e amministratori locali, oltre a undici deputati. Scomodo oppositore della riforma costituzionale, l’Hdp è stato prima privato della possibilità di votare in blocco in parlamento e ora dell’opportunità di far sentire le proprie ragioni politiche. Ma a due settimane dal voto, il presidente Erdogan sembra rendersi conto dell’importanza delle schede di oltre 15 milioni di kurdi (tra il 15 e il 20% della popolazione totale): ieri si è rivolto a loro definendosi "il guardiano della pace" e invitandoli a votare sì. "Questi sostenitori del Pkk continuano a dire "pace pace pace" - ha detto Erdogan. Le parole vuote portano la pace? Noi siamo i guardiani della pace, i guardiani della libertà". Non certo quella del sud-est, dove la comunità kurda ha subito nell’ultimo anno e mezzo una durissima campagna militare che ha ucciso almeno 2mila civili e ne ha sfollati mezzo milione. Ieri, intanto, il co-leader dell’Hdp Demirtas e il deputato Zeydan hanno concluso lo sciopero della fame iniziato lo stesso giorno e seguito a quello a rotazione indetto alla fine di febbraio da 65 detenuti legati al partito, annunciando di aver ricevuto dalle autorità carcerarie la promessa di rivedere il trattamento dei prigionieri nel carcere di massima sicurezza di Edirne: "Siamo lieti che lo sciopero della fame cominciato il 25 febbraio nella prigione di Edirne sia terminato a seguito del dialogo aperto con l’amministrazione carceraria". Venezuela. La retromarcia di Maduro, restituiti i poteri alla Camera di Paola Del Vecchio Il Messaggero, 2 aprile 2017 L’ondata di proteste interne, le pressioni internazionali e le crepe fra i leali alla "rivoluzione bolivariana" hanno avuto la meglio. Con un clamoroso dietrofront, il Tribunale supremo del Venezuela ha restituito i poteri al Parlamento, controllato dall’opposizione. La decisione all’alba di ieri, dopo che il Consiglio di sicurezza della Nazione, presieduto e convocato d’urgenza da Nicolàs Maduro, ha esortato l’alta corte a rivedere le sentenze con le quali tre giorni fa aveva avocato a sé le funzioni e sospeso l’immunità ai parlamentari, concedendo di fatto i pieni poteri al presidente. Poche ore dopo, il comunicato col quale il Tribunale supremo annullava in sostanza le sue precedenti deliberazioni. Una retromarcia rispetto all’autogolpe, che aveva scatenato l’indignazione dell’opposizione, le critiche dell’Organizzazione degli Stati americani (Osa), le condanne della gran parte dei paesi dell’America Latina e il monito del Commissario Onu per i Diritti Umani. Decisiva, la denuncia del procuratore generale dello Stato, Luisa Ortega, che pur avendo sostenuto la rivoluzione socialista promossa 18 anni fa da Hugo Chavez, morto nel 2013, non ha esitato a denunciare le gravissime "violazioni dell’ordine costituzionale" provocate dall’esautorazione del Parlamento. Ricomparso in pubblico dopo tre giorni di silenzio, Maduro ha voluto mostrarsi come il mediatore e allontanare lo stigma di dittatore che il tacito avallo all’Alta corte - in mano al partito di governo fondato da Chavez - gli aveva conferito. "Vittoria costituzionale", ha esultato, dopo aver annunciato il superamento di quello che ha definito una "impasse", una "controversia fra poteri dello Stato". "In Venezuela c’è piena vigenza della democrazia e dei diritti umani", ha insistito il presidente, poche ore prima che l’opposizione si riversasse nella piazza di Brion, ad est di Caracas, per una "sessione in piazza" del Parlamento e la difesa delle istituzioni democratiche. "Il golpe continua. Non si elimina cancellando due righe delle sentenze del Tribunale supremo. Il che dimostra che non esiste separazione di poteri", ha urlato alla folla il deputato Julio Borges. Intanto, gli agenti antisommossa della polizia militare hanno disperso con i gas lacrimogeni centinaia di manifestanti dell’opposizione, diretti alla sede del Difensore del Popolo, a Caracas, per esigere una presa di posizione pubblica. Maduro non ha perduto l’occasione per ribadire la volontà di riprendere il dialogo con i partiti rivali, con la mediazione del Vaticano e la mediazione di tre ex presidenti, arenato da mesi. Sforzi finora falliti perché il governo, con il paese in ginocchio per la crisi economica, politica e ora anche istituzionale, non ha finora indicato alcuna via d’uscita. E, dopo aver imposto una sorta di stato di emergenza, per la carestia e la mancanza anche dei generi di prima necessità, ha rinviato sine die la convocazione delle elezioni regionali. Il timore è che il movimento bolivariano chavista possa perdere il controllo del paese, a fronte di un accordo fra le forze politiche dell’opposizione.