Abbiamo chiuso gli Opg: ora non facciamo altre prigioni per i "matti" di Ignazio Marino L’Espresso, 29 aprile 2017 Solo pochi giorni dopo la chiusura degli Opg, il Senato ha approvato, con voto di fiducia al Governo Gentiloni, un decreto legge sulla giustizia che rischia di vanificare il lavoro fatto in decenni. Scelta consapevole o errore di distrazione del Parlamento e del Governo? Nel decreto, infatti, è stata introdotta una norma che riporta tutto al punto di partenza. Nelle nuove Rems non andranno solo coloro ai quali è stata accertata l’infermità mentale al momento del reato, ma anche tutti coloro per i quali l’infermità di mente sia sopravvenuta in carcere, e anche i detenuti per i quali occorra accertare le condizioni psichiche, qualora il carcere non sia idoneo a garantire i trattamenti terapeutico-riabilitativi. Esattamente ciò che si voleva evitare. Speravamo in una storia a lieto fine, in cui l’Italia, pur con mille lentezze e nell’indifferenza dei Parlamenti che si sono susseguiti, era riuscita a fare un passo di civiltà, a vincere la sfida del rispetto degli esseri umani e di un approccio alla salute mentale diverso dal passato. Ma con questo decreto legge si ritorna di fatto alla vecchia logica in cui tutti i rei con problemi di disturbi mentali finiranno nelle Rems, che diventeranno rapidamente sovraffollate e ingestibili. Ovvero si ritornerà ai vecchi Opg. Ora l’auspicio è che alla Camera dei Deputati se ne rendano conto e in un sussulto di responsabilità modifichino quanto fatto al Senato. Vale la pena ricordare che cosa erano gli Opg, come li ho visti con i miei occhi durante i blitz effettuati dalla Commissione d’inchiesta sul Servizio Sanitario Nazionale. Nel 2011 gli internati erano circa 1500, tutti rinchiusi in maniera indistinta indipendentemente dalla patologia psichiatrica, tutti sottoposti ai medesimi trattamenti, e cioè nella maggior parte dei casi non curati affatto, trattati da detenuti e non da ammalati. Durante i sopralluoghi abbiamo visto persone legate nude per molti giorni a letti di ferro, senza materasso, con un buco in mezzo per la caduta delle feci e delle urine in un pozzetto sottostante. Celle roventi per il caldo estivo senza un frigorifero, dove gli internati utilizzavano il buco della latrina di un bagno alla turca per rinfrescare le loro bottiglie d’acqua. Spesso persone rinchiuse sebbene senza alcuna pericolosità sociale: mi viene in mente un uomo che era stato internato nel 1985 perché si vestiva da donna. E non è mai più uscito. O un altro che era stato rinchiuso perché aveva tentato una rapina simulando una pistola con il dito sotto la giacca ed era sepolto a Barcellona Pozzo di Gotto da venti anni. Dal punto di vista strutturale, parliamo di edifici fatiscenti, dagli odori nauseanti, a volte senza i vetri alle finestre, sovraffollati. Difficile definirli ospedali, di fatto erano luoghi di tortura, come erano stati definiti nel 2008 anche dai rappresentanti del Consiglio d’Europa. Condizioni che valevano anche per gli agenti di polizia penitenziaria che, lavorando dentro gli Opg, condividevano gli stessi spazi e spesso dovevano anche supplire alle carenze del personale sanitario. Nel 2012 le immagini che riprendemmo finirono in prima serata sulla Rai, nella trasmissione di Riccardo Iacona, e poi in un film del regista Francesco Cordio "Lo Stato della follia". Di fronte a una vergogna svelata, in cui i protagonisti testimoniavano di vivere in condizioni peggiori degli animali, peggio che in un manicomio, peggio che in galera, tutta l’Italia rimase senza parole. Eppure ci sono voluti altri sei lunghi anni, una nuova legge e un Commissario del governo per farla applicare. La legge del 2014 ha introdotto tre principi per il superamento degli Opg: l’internamento deve essere l’estrema ratio, l’eccezione quando lo psichiatra certifica che non si può percorrere nessun’altra strada; le misure di sicurezza non possono eccedere la pena massima prevista per il reato compiuto, dunque basta con gli ergastoli bianchi; nelle strutture non sono ammesse pratiche coercitive come la contenzione. Per completare il percorso servirebbe la revisione del codice penale, che risente ancora dell’impostazione secondo cui un criminale matto deve essere internato e tenuto ben lontano dal resto della società. Impresa tutt’altro che facile perché non è solo il codice penale che deve cambiare. Dovrebbe cambiare il modo di pensare, superando pregiudizi molto radicati nei confronti dei pazienti con disturbi mentali. Perché in Italia la follia è ancora considerata un tabù, qualcosa da nascondere, e allora tanto meglio se i matti sono allontanati, rinchiusi lontano dalla nostra vista, dai nostri pensieri. In fondo sono matti. Certo, la questione è delicata. Perché in alcuni casi queste persone, benché malate, hanno commesso dei crimini efferati, hanno ucciso degli innocenti, hanno generato tanta sofferenza. Personalmente, sostengo pienamente il principio sancito dalla legge secondo cui tutti coloro che hanno commesso reati ma non rappresentano un pericolo per sé stessi o per gli altri non devono essere rinchiusi ma curati per la loro patologia. Se però parliamo di situazioni molto gravi, come qualcuno che ha ammazzato delle donne, le ha tagliate a pezzi e nascoste nel bagagliaio della macchina, per citare un caso realmente accaduto, non penso si possano evitare le misure restrittive, pur nell’attenzione alla cura della malattia mentale. Infine, penso sia giusto condannare un folle reo e curarlo durante il periodo di restrizione della sua libertà. Ma curare veramente, senza legare ai letti di contenzione per punire, senza farmaci per stordire o altre misure per umiliare. Perché se la libertà di un essere umano può essere limitata, il rispetto della sua dignità no. Discriminazione di genere, donne penalizzate in carcere di Daria Contrada donnainaffari.it, 29 aprile 2017 Lo certifica il Servizio studi del Senato, che parla di condizioni detentive peggiori di quelle degli uomini. La discriminazione nei confronti del gentil sesso non si ferma neanche in cella. Le donne sono circa il 5 per cento della popolazione carceraria, ma la loro condizione detentiva è peggiore degli uomini. Lo rileva un dossier del Servizio Studi del Senato sulle carceri, che la definisce una vera e propria "questione di genere": se le donne denotano una "minore capacità criminale" visto che in tutto il decennio 2006-2016 la loro incidenza è inferiore al 5 per cento dell’intera popolazione detenuta, le loro condizioni di detenzione appaiono "di gran lunga peggiori di quelle maschili". In particolare, le sezioni femminili "rischiano di essere reparti marginali", come "meno spazio vitale, meno locali comuni, meno strutture e minori opportunità rispetto agli uomini". Il divario uomini-donne negli istituti emerge anche nelle attività trattamentali, che risentono di "una visione stereotipata che relega le donne a soli lavori sartoriali o culinari, riservando agli uomini invece le più ‘nobili’ attività di informatica e di tipografia". Un tentativo di migliorare, almeno nel lessico, le condizioni dei detenuti lo sta portando avanti il Dipartimento amministrazione penitenziaria, che ha diramato una circolare che sta portando scompiglio nella polizia penitenziaria: trasformare le celle in "camere di pernottamento", lo "spesino" in "detenuto addetto alla spesa", il "piantone" in "assistente alla persona", il "detenuto lavorante" in "lavoratore". Eppure per i sindacati è "paradossale" preoccuparsi del linguaggio di fronte a problemi ben più seri del sistema carcerario, sovraffollamento in primis. Il Dap si è difeso esortando all’uso di un linguaggio appropriato. Un invito che del resto arriva anche dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dal Garante nazionale delle persone detenute, che ha inserito questa raccomandazione nella recente relazione inviata al nostro Parlamento. "Intesa tra magistrati e avvocati: solo così la politica ci ascolterà" di Errico Novi Il Dubbio, 29 aprile 2017 Svolta da Albamonte e Mascherin, presidenti di Anm e Cnf. Il "sindacato" dei giudici interviene per la prima volta al plenum del consiglio forense: "faremo proposte comuni di riforma, basta guerre sulla giustizia". Che ha un nome: è quel "panpenalismo" capace di ridurre tutto il sistema a "pochi, eclatanti processi penali", per citare Eugenio Albamonte. È qui che si è alzato il muro di silenzio tra i due soggetti della giurisdizione. Ieri invece nella sede del Consiglio nazionale forense, per la prima volta, una rappresentanza di vertice dell’Anm ha partecipato a un "plenum" dell’avvocatura istituzionale. Il cosiddetto sindacato dei giudici è stato rappresentato ai massimi livelli: l’attuale presidente Eugenio Albamonte e uno degli altri otto componenti della sua giunta, il giudice civile di Roma Silvia Albano. Fatto ancora più clamoroso è che tutte e due le parti concordino su una svolta epocale: "Possiamo studiare insieme e proporre alla politica ipotesi di riforma sulla giustizia". Su questo Albamonte si associa con convinzione al presidente del Cnf Mascherin. E ne apprezza molto "l’approccio fattivo e nello stesso tempo ispirato a una visione strategica d’insieme". Tanto da trarne spunto per una "analisi evolutiva" che dà il senso della svolta: "Negli anni scorsi", dice il presidente dell’Anm, "un certo modo disordinato, a volte strumentale di proporre riforme sul processo da parte della politica, ha indotto la magistratura a fare le barricate. Ora, noi non possiamo rinunciare a esprimere una critica, per esempio, su alcuni aspetti della riforma penale. Dobbiamo però farlo in modo costruttivo. E non solo. Proprio in nome di quell’approccio giustamente proposto da Mascherin in termini di strategia politica, dobbiamo anche recuperare un nostro ruolo di proposta, e spero appunto che potremo farlo insieme con l’avvocatura". Basterebbe davvero questo. La novità del discorso suscita persino un comprensibile stupore nell’uditorio, ossia il Consiglio nazionale forense al gran completo. Mascherin ribadisce un concetto pienamente condiviso dai due magistrati che lo affiancano: "Non nascondiamocelo, la politica sa che se divide aumenta il proprio potere: ma se avvocatura e magistratura sono unite diventano un esercito impossibile da fermare. Avvocati e magistrati possono essere sconfitti solo se questa unità non c’è. Altrimenti sono una forza a cui è difficile contrapporsi anche culturalmente". Punti forti di una piattaforma comune? Secondo Mascherin innanzitutto "la valorizzazione delle garanzie nel nostro sistema processuale, che vanno preservate dalla pretesa di sacrificarle sull’altare dell’efficientismo". Poi una questione di metodo: "Possiamo sperimentare questo rapporto su progetti condivisi, e propongo da subito di istituire un laboratorio comune: l’importante è che questa dialettica sia pubblica", dice il presidente del Cnf. Albamonte: "puntiamo a depenalizzare" - Albamonte invita a tenersi lontani da "velleitari tentativi di rivedere in modo strutturale il sistema del processo: non sono questi i tempi, non sono queste le maggioranze o il contesto politico adatti. Possiamo invece indicare insieme pochi ma significativi punti tematici, penso al tema della depenalizzazione: un approccio comune di magistratura e avvocatura su questo non c’è mai stato. Lo si è lasciato alla sola iniziativa della politica, con risultati non sempre soddisfacenti". Il presidente Anm tiene però moltissimo a una "vigilanza comune sugli investimenti da assicurare alla giustizia, sia dal punto di vista del personale che dell’aggiornamento tecnologico". Ricorda che "le 2000 assunzioni predisposte dal ministro Andrea Orlando sono un’importante inversione di tendenza. Però a questo segnale si deve dare continuità. E poi il personale giudiziario deve essere particolarmente qualificato anche perché solo così può dare maggiori garanzie sul piano della riservatezza". C’è infine un aspetto da non trascurare: le resistenze interne. Spiega Albamonte: "Ci sono ancora alcune rigidità, rispetto a una collaborazione la più ampia possibile tra magistrati e avvocati. Ma sono posizioni che hanno anche una storia e non vanno criminalizzate. È giusto che noi", cioè i vertici di Anm e Cnf, "conduciamo un lavoro di persuasione, ciascuno nel proprio ambito. Cominciamo a fare le cose insieme, basta non limitarci a essere due avanguardie ma fare in modo da portarci dietro le nostre categorie professionali". Discorso realista e consapevole. Che ha una postilla importante, suggerita dalla dottoressa Albano: "Gli osservatori sulla giustizia civile in questi anni sono stati un laboratorio straordinario di proposte e buone prassi. Facciamo pure un tavolo di lavoro nazionale, ma quelle preziose esperienze locali proviamo a portarle anche nella giurisdizione penale". Che vorrebbe dire abbattere il vero muro innalzato in questi anni dalla guerra sulla giustizia. Mafia o corruzione: restano tutte le ombre sul processo romano di Paolo Delgado Il Dubbio, 29 aprile 2017 Un sussulto lo hanno dovuto registrare persino i più incarogniti giustizialisti di fronte alle richieste di condanna dei pm Ielo, Cascini e Tescaroli per i 46 imputati di Mafia Capitale. Cinquecento quindici anni di galera, e scusate se è poco. Per Luca Gramazio, unico politico rimasto in carcere, incensurato, sono stati chiesti 19 anni e 6 mesi di galera: avrebbe ricevuto da Buzzi poco più di centomila euro e una decina di assunzioni nella cooperativa "29 giugno". Per Franco Panzironi, ex amministratore delegato di Ama, ex democristiano spostatosi a destra quando il vento lo suggeriva, gli anni richiesti sono 21. Avrebbe preteso e ottenuto da Buzzi cifre sempre più esorbitanti, e anche sorvolando sul particolare per cui se Buzzi era il vicecapo della cosca non si spiega bene perché l’affiliato Panzironi avesse il potere di costringerlo a sborsare, l’addebito penale appare a prima vista sproporzionato. Tanto più se lo si confronta con la leggerezza della condanna chiesta per Luca Odevaine, che a sua volta di quattrini ne ha senza dubbio intascati parecchi, come provato da un’infinità di intercettazioni, e che era in prima fila nell’affare più losco di tutti, quello sulla pelle degli immigrati. Per lui sono stati chiesti due anni e mezzo di carcere. Pena lieve perché "ha collaborato", e infatti la galera a differenza dei coimputati l’ha vista appena. Anche in questo caso i frutti della preziosa collaborazione non sono chiarissimi. Dei pentiti si può pensare quel che si vuole, ma sulle deposizioni di Buscetta si reggeva il maxiprocesso a Cosa Nostra e Toto Savasta da solo ha fornito agli inquirenti qualcosa come 2mila accuse. Dove, come e perché la "collaborazione" dell’ex vicecapo di gabinetto di Veltroni sia apparsa tanto preziosa invece è misterioso. A prescindere dallo sconto per Odevaine, le condanne chieste per gli altri politici sono in linea con i processi a carico di politici corrotti: 4 anni e 6 mesi per Mirko Coratti, già presidente Pd dell’Assemblea capitolina, 4 anni per Giordano Tredicine, ex consigliere comunale Pdl. A fare la differenza tra le normali condanne chieste in un processo per corruzione e quelle esorbitanti fioccate a Roma è l’imputazione di associazione mafiosa, per la quale si parte da un minimo di 16 anni per i pezzi da novanta e di 12 anni per i semplici picciotti. Messe così le cose, in effetti la prospettiva cambia. Se Massimo Carminati era il Totò Riina della Capitale, chiedere una condanna a 28 anni è il minimo sindacale, come riconosce la sua avvocatessa Ippolita Naso. Se Buzzi stava al Cecato come Binnu a don Totò, proporlo per un soggiorno di 26 anni e 3 mesetti nelle patrie galere ci sta tutto. E discendendo per la scala gerarchica il discorso si applica anche e Gramazio e Panzironi, associati mafiosi a loro volta. Prendersela con le richieste esorbitanti dei pm senza revocare in dubbio il capo d’accusa è ipocrita. Il problema non è se i togati siano nei loro appetiti forcaioli, ma se il processo abbia confermato o no la tesi molto ardita dell’accusa, quella per cui una vicenda senza fatti di sangue, senza violenze, senza traffici internazionali, di fatto una vicenda di mazzette e solo di mazzette possa assurgere ai fasti di Cosa nostra e della ‘ndrangheta. La procura ovviamente risponde di sì, perché "la forza intimidatrice dalla quale derivano assoggettamento e omertà può essere diretta tanto a minacciare la vita o l’incolumità personale quanto anche, o soltanto, le essenziali condizioni economiche o lavorative di specifici soggetti". Però tra il mafioso Buzzi e il mafioso Panzironi, chi minacciava chi in questo processo dove non si riesce neppure a individuare chi siano le vittime minacciate, se non di morte o ferite o botte, almeno di rovina economica? A decidere se i corrotti e i corruttori, i concussi e i concussori di Roma, a differenza di quelli di tutte le altre città italiane, fossero o meno mafiosi dovrà essere ora la Corte d’assise di Roma, poi quella d’appello, infine la Cassazione. La sentenza definitiva farà epoca, perché se saranno riconosciuti come mafiosi gli imputati del processo romano, domani qualsiasi vicenda di corruzione potrà ricadere sotto la stessa ombra, e forse proprio questa è l’intenzione strategica che spiega la messa in campo dell’associazione mafioso in quello che da tutti i punti di vista appare come un caso di ordinaria corruzione. Ma è davvero stupefacente che in un caso così per definizione discutibile e sfuggente i media italiani, abituati a dissertare su tutto sino all’estenuazione, abbiano invece deciso di accogliere senza un attimo di esitazione, e sin dal primo momento, la tesi dell’accusa. Mafia è, e mafia deve restare. Ai domiciliari e non senti il citofono? A Cagliari sei un evaso, a Milano un dormiglione di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 29 aprile 2017 In due casi la decisone non è stata unanime: a Cagliari la Corte di Appello ha rispedito in cella il "dormiglione", a Milano il Tribunale di Sorveglianza ha accolto la tesi della difesa. Dormire senza correre il rischio di essere svegliati da alcun rumore per alcuni può essere una grande fortuna. Ma essere agli arresti domiciliari ed avere il sonno "pesante" può essere molto rischioso. In caso, infatti, il soggetto sottoposto alla detenzione domiciliare non dovesse rispondere al citofono in occasione di un controllo notturno da parte delle Forze di polizia, commetterebbe il reato di evasione. Con conseguente arresto in flagranza ed immediato ritorno in cella. "La mancata risposta al citofono è indice dell’allontanamento senza autorizzazione dal luogo di esecuzione della misura restrittiva". Nel caso di specie il soggetto non aveva risposto a chiamate ripetute nell’arco "di dieci minuti". Così la Corte di Appello di Cagliari con una sentenza dello scorso febbraio che ha rispedito in carcere il malcapitato "dormiglione". Di diverso avviso, invece, il Tribunale di sorveglianza di Milano con una ordinanza resa nello stesso periodo. A riprova che avere il "sonno pesante" per la giustizia italiana varia a seconda della longitudine del Paese. Il condannato in questione stava scontando la pena con una misura alternativa al domicilio e come tale veniva controllato a sorpresa dalle Forze dell’ordine per verificare se vi si trovasse negli orari prestabiliti. Anche in quel caso le Forze dell’ordine si erano recate al suo domicilio e, suonando ripetutamente al citofono per vari minuti, non avevano ricevuto alcuna risposta. Ricevuta la segnalazione, il magistrato di sorveglianza aveva sospeso provvisoriamente la misura alternativa e aveva ordinato l’immediata carcerazione del soggetto. In questi casi il Tribunale di sorveglianza, entro 30 giorni, deve decidere se confermare la revoca della misura alternativa, e quindi rispedire in carcere il soggetto, oppure non accogliere la proposta di sospensione della misura alternativa e ripristinare l’esecuzione della pena al domicilio. All’udienza davanti al Tribunale di sorveglianza milanese, prevista prima delle decisione finale, il difensore del "dormiglione" ha però prodotto della documentazione medica da cui risulta che il condannato effettivamente aveva il "sonno pesante", rappresentando che non aveva aperto la porta ai controlli semplicemente perché "non aveva sentito il citofono ed era in casa da solo". Nessuna evasione, dunque. Sulla base di ciò il Tribunale di sorveglianza non ha reso definitiva la revoca della misura alternativa e ha ordinato la scarcerazione del condannato che è quindi tornato al domicilio in esecuzione della misura alternativa. In particolare, il difensore del "dormiglione" si è impegnato con il Tribunale di sorveglianza di Milano affinché questi ponga in essere alcuni specifici "accorgimenti" per essere rintracciato dalle Forze dell’ordine nei controlli che devono effettuare nel corso dell’esecuzione della misura alternativa. In specie il soggetto si doterà in casa di un "sistema d’illuminazione con delle vibrazioni che si attivi con lo squillo del citofono e che gli consenta di svegliarsi nel sonno e verificare poi alla finestra se lo stiano cercando le Forze dell’ordine". Soluzione certamente di grande equilibrio e che favorisce il reinserimento del detenuto, anche se "dormiglione", nell’ambiente socio-familiare. Illegittimo negare la sospensione della pena ai detenuti minorenni Il Sole 24 Ore, 29 aprile 2017 La Corte costituzionale, sentenza 90/2017, ha dichiarato l’illegittimità dell’articolo 656, comma 9, lettera a), del Codice di procedura penale, nella parte in cui non permette la sospensione dell’esecuzione della pena detentiva nei confronti dei minorenni condannati per alcuni delitti (per esempio, alcune ipotesi di stalking e maltrattamenti). Anche se si tratta di reati con una prognosi di particolare pericolosità - in questo caso rapina aggravata - l’applicazione ai minori dello stesso regime dei maggiorenni, spiega la sentenza, instaura un rigido automatismo in conflitto con la particolare tutela offerta dalla Costituzione alla "gioventù" e con la funzione rieducativa della pena. Minori, la pena detentiva è extrema ratio di Eden Uboldi Italia Oggi, 29 aprile 2017 Illegittimo non consentire la sospensione dell’esecuzione della pena detentiva nei confronti dei minorenni condannati per alcuni reati. Lo stabilisce la Corte costituzionale con la sentenza 90/2017, pubblicata ieri, pronunciando un giudizio, stimolato dalla Corte d’appello di Milano, sezione per i minorenni con due ordinanze, rispettivamente del 19/02/16 e del 13/05/16, sulla legittimità costituzionale dell’art. 656, comma 9, lettera a), cpc. In entrambi i casi i minori erano stati condannati per rapina aggravata, reato, previsto dall’4-bis, comma 1-ter, della Legge 354/75, ostativo della sospensione dell’esecuzione. La Corte d’appello lamentava che la disposizione in questione nella parte in cui prevede il divieto di sospensione della pena detentiva anche per reati commessi da minorenni violasse gli articoli 27, comma 3, e 31, comma 2, della Costituzione che riconoscono uno scopo rieducativo alle pene e sanciscono la protezione dell’infanzia e della gioventù. Anche nel dpr 448/1988, che detta la disciplina del processo penale minorile, si prescrive all’art. 19, comma 2 un processo il più aderente alle esigenze educative dell’imputato, e che quindi non precluda gli interventi di demarginalizzazione in corso. Il recupero dell’under 18 è interesse-dovere primario per lo stato, sia nella fase di cognizione, che in quella esecutiva, regolata ancora dall’Ordinamento penitenziario degli adulti, poiché ancora non è stata emanata la legge ad hoc annunciata dall’articolo 79 della legge 354/1975. In particolare la Consulta si è più volte espressa contro la parificazione tra adulti e minori, che godono di un diverso trattamento, pensato per la risocializzazione. La Corte costituzionale ha osservato come il sistema di giustizia minorile debba essere caratterizzate da flessibilità e individualizzazione per poter raggiungere il suo fine, il reinserimento del giovane nella società. Limitarsi al titolo del reato commesso per valutare la pericolosità di un soggetto, escludendo l’analisi del caso concreto, è in evidente contrasto con lo scopo del processo minorile. Secondo la Consulta, quindi, l’art. 656, comma 9, lettera a), cpc è incostituzionale quando si applicata ai minori, per cui l’ingresso nel carcere può compromettere il percorso educativo. Concorso truffa-malversazione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 29 aprile 2017 Linea dura della Cassazione con chi approfitta di erogazioni pubbliche. Il reato di malversazione ai danni dello Stato concorre con quello di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche. Il nodo è sciolto dalle Sezioni unite penali con la sentenza n. 20664 depositata ieri. Di fronte a una giurisprudenza della stessa Cassazione incerta tra la linea del concorso e quella della specialità, le Sezioni unite hanno scelto l’ipotesi più severa, mettendo in luce, innanzitutto, l’autonomia delle due fattispecie. La pronuncia sottolinea l’assenza di un collegamento tra i due delitti, la cui consumazione presuppone una pianificazione autonoma da parte dell’autore. Tre le situazioni che possono verificarsi, nella lettura delle Sezioni unite: a) il privato ottiene illecitamente un finanziamento e, dopo, utilizza la somma per scopi privati (ed è l’ipotesi più frequente); b) il privato ottiene l’erogazione con la frode ma comunque la impiega per opere o attività giustificate; c) il privato ottiene legittimamente il finanziamento ma evita di destinarlo all’attività o all’opera di pubblico interesse per cui era stato erogato. "Nell’ultimo caso - chiosano le Sezioni unite - si verte in ipotesi di malversazione "pura"; nel secondo viene in evidenza l’autonomia fra le due fattispecie, in quanto il privato pone in essere una truffa, ma poi non compie una malversazione; nel primo caso, dopo avere compiuto la truffa, con una condotta anche cronologicamente autonoma ed eventuale, il privato pone in essere la malversazione". Il confronto serve ai giudici per concludere che le situazioni concrete in cui i due reati possono realizzarsi sono diverse e possono combinarsi tra loro con modalità del tutto autonome. Il che attesta la differenza strutturale tra le due fattispecie. Non ha poi una particolare rilevanza il fatto che la malversazione possa in concreto modularsi come una naturale prosecuzione della truffa, perché, ricorda la sentenza, in questo modo si trascura l’elemento essenziale dell’istituto del concorso che si fonda sul confronto della struttura astratta delle fattispecie. "Va da ultimo rimarcato - avverte la sentenza - che i due reati si consumano fisiologicamente in tempi diversi, momento percettivo ed attività esecutiva, di natura omissiva istantanea, della condotta finanziata e che nel caso di specie la condotta qualificata ai sensi dell’articolo 316 bis Codice penale si è distanziata di parecchi anni rispetto alla percezione delle provvidenze". Calabria: in Commissione la proposta di legge per l’istituzione del Garante dei detenuti strill.it, 29 aprile 2017 La Prima Commissione "Affari istituzionali, affari generali e normativa elettorale", presieduta dal consigliere Franco Sergio ha compiuto, nella seduta odierna, l’esame abbinato di due proposte di legge: la prima (n. 34/10^) a firma del presidente del Consiglio regionale Nicola Irto e la seconda (221/10^) d’iniziativa del presidente della stessa Commissione, Franco Sergio, finalizzate all’istituzione del Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale e dell’Osservatorio regionale per le politiche penitenziarie. "La figura del Garante - ha spiegato Sergio - risulta essere un riferimento diretto per tutti coloro che si trovano, per ragioni di giustizia, limitati nella libertà personale. Quindi, figura di mediazione dotata di autorevolezza istituzionale, autonoma sia rispetto all’amministrazione penitenziaria che a quella giudiziaria, indipendente, in grado d’intervenire, di propria iniziativa, ovvero su richiesta, per migliorare le condizioni detentive e per consentire all’interno delle stesse strutture, l’esercizio dei diritti essenziali dell’uomo (vita, dignità, salute, religione, famiglia, istruzione, formazione, lavoro e risocializzazione). Allo stesso tempo - ha sottolineato il Presidente della Commissione - il Garante deve svolgere un ruolo di promozione, di stimolo, e di diffusione culturale del rispetto e della tutela dei diritti. Tale figura assume ancor più valore in considerazione sia del sovraffollamento certificato in molti degli istituti penitenziari calabresi, che in virtù dell’alta percentuale di immigrati che renderebbe necessaria l’introduzione della figura del mediatore culturale, capace di interagire sia all’interno delle carceri che all’esterno nelle relazioni inter-istituzionali". In relazione alle due proposte normative sono stati acquisiti i contributi, corredati da specifica documentazione, dell’avvocato Gianpaolo Catanzariti (referente territoriale dell’Osservatorio carcere dell’Unione Camere Penali Italiane) e del dott. Emilio Quintieri (attivista per i diritti dei detenuti - Movimento Nazionale Radicali Italiani). Nel fornire alcune indicazioni integrative, entrambi hanno espresso "apprezzamento per l’intervento normativo, auspicando tempi celeri di trattazione ed approvazione di un testo unificato". Da parte sua, l’assessore regionale alla Scuola, Lavoro, Welfare e Politiche giovanili, Federica Roccisano, "oltre a sottolineare la valenza culturale che assume per la Calabria questo impegno legislativo, ha richiamato la funzione essenziale della figura del Garante per contribuire ad affrontare con senso di umanità e giustizia le continue emergenze del settore carcerario e per garantire altresì condizioni detentive dignitose". A conclusione del confronto, il presidente Franco Sergio "ha rassicurato sulla celerità con cui si procederà al coordinamento dei due articolati normativi nonché alla stesura di un testo unificato con l’obiettivo di sottoporlo al più presto al vaglio del Consiglio regionale per la definitiva approvazione". Successivamente, l’organismo ha condotto l’esame abbinato di due ulteriori proposte di legge concernenti modifiche alla legge regionale n. 39 del 1995: la prima (n. 85/10^) del consigliere Giuseppe Giudiceandrea e la seconda (n. 228/10^) d’iniziativa del presidente della Prima Commissione, Franco Sergio. Trieste: ucciso in cella dagli psicofarmaci. Ipotesi overdose, aperta un’inchiesta di Corrado Barbacini Il Piccolo, 29 aprile 2017 Era al Coroneo da 4 mesi per una bravata. Lo hanno trovato senza vita mercoledì mattina, riverso sul letto. Non in casa o in una stanza d’albergo, ma all’interno di una cella al secondo piano del Coroneo. Andrea Cesar, 36 anni, una lunga sofferenza psichica alle spalle, è morto dietro alle sbarre del carcere di Trieste. Una morte sulla quale farà luce l’autopsia disposta dal pm Federico Frezza, eseguita già ieri mattina. Sull’episodio, infatti, è stata subito aperta un’inchiesta che, per tentare di spiegare il decesso del detenuto, prende in considerazione diverse ipotesi. Compresa quella, ritenuta finora tra le più probabili, dell’overdose di farmaci, che Cesar assumeva da tempo e in dosi massicce. L’uomo soffriva di devastanti attacchi di panico e altri disturbi psichici che gli impedivano di svolgere una vita regolare. Era trattato farmacologicamente con potenti sedativi e antidolorifici, prescritti prima dai medici privati, a cui si era rivolta la famiglia per tentare di alleviarne le sofferenze, e in seguito dagli esperti del Centro di salute mentale della Maddalena, che avevano preso in carico il caso. Quei farmaci il trentaseienne aveva continuato ad assumerli anche in carcere dopo l’arresto scattato lo scorso dicembre in seguito a un colpo di testa. L’uomo era stato sorpreso da alcuni poliziotti mentre tentava di sfondare un portone, dopo aver rubato le chiavi di una moto a un ragazzo e preso a calci alcuni veicoli. Intemperanze accompagnate anche da una serie di offese rivolte agli agenti che tentavano di calmarlo. Abbastanza per far scattare l’arresto ma, forse, non per trattenerlo quattro mesi in cella in attesa del processo. Eppure, da quel giorno di dicembre, Cesar dal Coroneo non era mai uscito. Anche perché, come ha confermato l’avvocato dell’uomo Marzio Calacione, non voleva uscirne, al punto da rifiutare il trasferimento agli arresti domiciliari, che pure a un certo punto era stato prospettato. Cesar aveva consapevolmente scelto di rimanere in carcere perché, secondo la versione fornita dai familiari, sperava di ricevere lì un’assistenza medica più efficace di quella ottenuta all’esterno. E il Gip Giorgio Nicoli, da parte sua, aveva disposto che venisse preso in cura dai servizi sanitari del Coroneo. Evidentemente, però, al sistema di controllo interno alla casa circondariale qualcosa è sfuggito, visto che il 36enne è stato trovato senza vita in cella. L’allarme è scattato di primo mattino. A chiamare l’agente di sorveglianza è stato uno dei tre detenuti con cui Cesar divideva la cella. Il corpo dell’uomo presentava i segni evidenti di una morte improvvisa, provocata da spasmi violenti all’addome. Una morte che il medico in servizio quella notte in carcere, dipendente dell’Asui Ts, non ha potuto far altro che constatare. Il detenuto sarebbe deceduto - questa è stata la prima ipotesi formulata - a causa di un’assunzione massiccia di farmaci. Sedativi e antidolorifici. Ingeriti - e questo è il nucleo dell’indagine del pm Frezza, che pure non esclude la possibilità di una morte riconducibile all’azione di altre persone - in maniera probabilmente non controllata e forse eccessiva. Anche se, sottolineano i sindacalisti degli agenti di polizia penitenziaria, gli aspetti relativi alla tutela della salute dei detenuti sono di competenza degli stessi e delle autorità sanitarie. Nessun agente cioè, secondo le sigle sindacali, può controllare se un recluso ammalato prende le medicine e, soprattutto, quali e quante ne ingerisce. Il silenzio dei vertici del Coroneo Nessun commento sull’episodio. L’intervento del Garante dei diritti dei detenuti. Nasconde qualcosa, e se sì cosa, il caso di Andrea Cesar? Perché è morto di soffocamento e perché la madre continua a ribadire che "il carcere era l’ultima possibilità di riscatto per Andrea?". Di cosa aveva bisogno Andrea e cosa non gli sarebbe stato dato? Per il momento le indagini sono in corso e queste domande restano tutte senza risposta. Ma l’Ufficio del Garante dei diritti dei detenuti di Trieste è venuto a conoscenza del decesso del ragazzo, a fronte di alcune informazioni richieste dalla madre del ragazzo il 27 aprile. Ed è voluto intervenire. "La situazione rappresentata - scrive in effetti in un comunicato il Garante comunale dei diritti dei detenuti di Trieste, l’avvocato Elisabetta Burla - ha indotto il Garante a inoltrare immediatamente una richiesta formale alla direzione della locale Casa circondariale al fine di verificare quali fossero e siano le garanzie di una corretta e puntuale assistenza sanitaria delle persone private della libertà, quali le garanzie per la promozione della salute, della prevenzione, della diagnosi e delle cure. Più in particolare, e con riferimento all’accaduto, si è chiesto di avere un confronto sulle modalità di presa in carico dei pazienti seguiti dal Csm all’interno dell’Istituto per verificare l’effettivo percorso terapeutico e la corretta somministrazione della terapia farmacologica". "Pare infatti - continua il comunicato - da quanto riferito dai familiari che ripetute siano state le richieste di aiuto da parte del detenuto al Centro di salute mentale per avere supporto e possibilmente una cura efficace al disagio che stava vivendo e che gli rendeva difficile il vivere. La terapia somministrata non sembrava dare gli esiti sperati e la promessa di un nuovo farmaco, fatta a marzo 2017, era rimasta inevasa. L’autopsia disposta potrà accertare eventuali responsabilità". Ma l’avvocato Burla sottolinea ancora: "Resta l’amarezza nel riscontrare, ancora una volta, l’insufficiente attenzione prestata a certi disagi, pur manifestati". Quanto affermato dalla madre resta ovviamente al vaglio della magistratura. Ma, appunto, ci si chiede ancora perché, stando alle parole della madre, non sarebbero state fornite le cure di cui Andrea sembrava aver bisogno? Il direttore del dipartimento di Salute mentale Roberto Mezzina, il quale specifica che "in questo momento non siamo stati chiamati in causa", non si spiega il nesso tra la morte di Andrea Cesar e il Centro di salute mentale della Maddalena. "Il ragazzo è morto di soffocamento, non c’entra dunque con il servizio del dipartimento. Inoltre non aveva la necessità di essere visitato frequentemente secondo quanto mi hanno detto i miei colleghi. Il problema principale non era di salute mentale". Questo emerge dai medici del centro della Maddalena. Quindi sembrerebbe, da quello che spiega Mezzina, che ci potesse essere qualcos’altro dietro alle cure psichiatriche. "Il detenuto aveva un contatto recente con il dipartimento - continua il direttore - e poco prima di andare in carcere è stato visto poche volte, aveva un problema psichiatrico non importante, è stato visitato in carcere dal medico, sono emersi problemi di altra natura che non posso specificare, per cui è stato attivato un altro servizio". Mezzina ci tiene anche a sottolineare che qualunque detenuto abbia bisogno di cure può richiederne l’attivazione e il nostro dipartimento è uno dei pochi in Italia che lo può garantire". Quanto alle poche cure ricevute Mezzina ribadisce che "il medico del Centro della Maddalena è addirittura venuto pochi giorni prima di andare in aspettativa, è un miracolo dei nostri servizi questo, una cosa che non accade dappertutto". Al direttore del dipartimento comunque "non risultano notizie di mancanza di supporto. Tutto quello che è rilevante e che viene richiesto dalle persone può essere fatto proprio attraverso la nostra struttura. Lo ripeto, il detenuto può benissimo richiedere il servizio psichiatrico e noi andiamo a fare la consulenza. Non penso le nostre visite siano state fatte in modo sbagliato". Dal Coroneo invece, nonostante i tentativi di contatto telefonico, i vertici del carcere non hanno voluto al momento commentare la morte del detenuto. Trieste: "mio figlio è stato ucciso da indifferenza e negligenza" di Benedetta Moro Il Piccolo, 29 aprile 2017 Lo sfogo di Daniela. "Nessuno dal carcere mi ha avvisato della tragedia. Ho saputo del decesso solo il giorno successivo dalla telefonata di un amico". "Mio figlio è morto di indifferenza, negligenza e incompetenza. Queste sono le cause". Non ha dubbi la madre di Andrea Cesar, di cui ha seguito da vicino tutte le tappe di un calvario iniziato 15 anni fa. Se suo figlio non c’è più, afferma con decisione Daniela P., la colpa è di un sistema di assistenza del tutto inadeguato, che non ascolta la voce di chi chiede aiuto. Signora Daniela, cosa le hanno raccontato della morte di suo figlio? Mi è stato detto che è morto nel sonno, verso le 4 di mattina. Andrea avrebbe avuto un rigurgito notturno, poi un conato di vomito e infine si sarebbe è soffocato. Sulle cause del decesso comunque è stata avviata un’indagine. Chi ha dato l’allarme? So che i compagni di cella hanno cercato di buttargli dell’acqua in faccia per risvegliarlo. Poi immagino abbiano chiamato le guardie e fatto intervenire l’ambulanza. Da quanto ho capito, hanno provato a rianimarlo per 40 minuti ma non c’è stato nulla da fare. Le cause della morte, però, sono da accertare. Oggi (ieri, ndr) c’è stata l’autopsia. Cos’è successo la sera del 20 dicembre quando suo figlio è stato arrestato? Andrea aveva festeggiato e si era ubriacato. Aveva fatto un gesto eclatante, che secondo me era una chiara richiesta di aiuto. Si è messo a tirare calci contro il portone della casa di un amico. Poi ha tentato di sottrarre le chiavi di un motorino chiedendo una sorta di riscatto. Infine sono intervenute le forze dell’ordine. È stato portato in Questura, dove ha anche offeso un poliziotto e strappato i verbali, ma gli agenti volevano quasi rilasciarlo, perché l’episodio in sé era banale. Lo ripeto, ha commesso un gesto eclatante solo per essere arrestato. Ma per quale motivo voleva finire in carcere? Perché sperava di uscire da un servizio di assistenza che, fino a quel momento, non gli aveva dato alcun conforto. Voleva farsi arrestare perché pensava che in carcere sarebbe stato finalmente seguito. Ed era convinto che avrebbe ottenuto quella "visibilità" necessaria per riuscire ad avere accesso a una comunità terapeutica. Una richiesta che io stessa avevo fatto al Centro di Salute mentale della Maddalena, senza ottenere mai alcun risultato. Lì Andrea non aveva la giusta assistenza e lo ha spiegato anche al gip durante l’interrogatorio dopo l’arresto. E il Gip ha segnalato alle autorità competenti il caso, in maniera tale da sollecitare un intervento. Intervento che c’è stato? Sì ma è stato del tutto insufficiente. Mio figlio ha ricevuto una visita in carcere del medico, che si è però limitato a modificare la terapia, togliendo una pillola contro l’abuso di alcool e sostituendola con un sonnifero. Mio figlio ha chiesto poi di essere seguito psicologicamente, ma dopo un paio di volte è lasciato a se stesso. Beveva? Da parecchi anni, ma saltuariamente, come fanno cioè molti ragazzi il sabato sera, eccedeva nell’alcool. Lo aiutava a superare i blocchi mentali che lo condizionavano quotidianamente e gli consentiva di sfogare la sua frustrazione. Ma non era un alcolista. Bere per lui era un rimedio fai da te, visto che tutte le terapie non aveva avuto riscontro. Poi, cos’è successo? Il Gip voleva concedergli le misure alternative, ma mio figlio ha chiesto di rimanere in carcere, perché se avesse avuto i domiciliari, una volta conclusi, tutto sarebbe ricominciato da capo. Quando è stato visitato per l’ultima volta in carcere suo figlio dal medico del Csm? Il 2 marzo, su sollecitazione dell’Ufficio per l’esecuzione penale esterna, dove era stato aperto un fascicolo sul caso di Andrea, nonostante non gli fosse ancora stata data la condanna definitiva. A quella sollecitazione le autorità sanitarie avevano risposto per iscritto, sostenendo che mio figlio veniva visitato settimanalmente, cosa non vera come dimostrano i registri. Comunque dopo il colloquio del 2 marzo a mio figlio è stato promesso un nuovo farmaco miracoloso. Che però non è mai arrivato. Quando l’ha sentito l’ultima volta? Lunedì ho parlato al telefono con lui. Mi ha detto che non stava tanto bene, perché aveva preso un’infezione alla gamba e altri dolori. Ci diamo dati appuntamento per il sabato successivo (oggi, ndr), ma quel colloquio non c’è stato perché Andrea è stato trovato senza vita mercoledì. Come ha saputo della morte di suo figlio? Da un suo amico, che mi ha telefonato giovedì verso le 12. Mi ha detto: "Mi dispiace tanto per Andrea". Solo in quel momento ho saputo che il giorno prima era morto. Com’è possibile che dal carcere nessuno l’avesse avvisata? Avevano avvisato il mio ex marito, il padre di Andrea, con cui non parlo però da 30 anni e loro pensavano che lui me l’avesse riferito. Sa che cura venivano fornite a suo figlio in carcere? Solo farmaci, sempre quelli. So che prendeva lo Xanax e il Tavor. E altre cose come antidolorifici per l’ernia, mal di denti. Droghe invece non ne ha mai prese. Come stava al Coroneo? Si era iscritto a un corso di informatica, perché voleva tenersi occupato e sperava di aprirsi una nuove possibilità di vita. Quella vita che gli è stata portata via dall’indifferenza, dalla negligenza e dall’incompetenza del sistema. Cassino (Fr): un giovane detenuto muore al carcere San Domenico, disposta l’autopsia di Katia Valente ciociariaoggi.it, 29 aprile 2017 Muore a trentadue anni nel corridoio del carcere San Domenico di Cassino. Il magistrato dispone l’autopsia per fare chiarezza sulle cause del decesso. Tutto è accaduto nella mattinata di ieri, verso le 10.30. Un detenuto, in cella, avrebbe iniziato ad avvertire un malore. Ad accorgersene sarebbe stato un agente della penitenziaria che, subito, avrebbe chiamato il medico interno. Da quel momento la sequenza si sarebbe fatta veloce, per certi versi precipitosa. Tutto, secondo una primissima ricostruzione dei fatti, avviene nel giro di poco tempo. Il ragazzo sembra avere problemi di respirazione. Mentre continuano le cure prestate nell’istituto penitenziario, viene chiamata l’ambulanza. Immediato il trasferimento dalla cella al piazzale interno della struttura dove il mezzo di soccorso è stato fatto entrare. Ma in quel tragitto avviene l’irreparabile. Sembra infatti che l’uomo abbia perso completamente i sensi. Le manovre di rianimazione sarebbero scattate all’istante ma senza sortire l’effetto desiderato. E, a quanto pare, in quel corridoio, a pochi centimetri dall’uscita, il detenuto sarebbe morto. La tragedia, intorno alle 11, ha lasciato sgomenti tutti. Inutile ogni manovra per salvare la vita al trentaduenne. Informato dei fatti, il magistrato di turno ha disposto l’autopsia. Il cadavere si trova all’obitorio del Santa Scolastica a disposizione dell’autorità giudiziaria. Ora si indaga per capire l’esatta causa del decesso. L’uomo, un romano, era arrivato in carcere a Cassino da circa un mese, trasferito da altri istituti. Tanti gli ospiti del San Domenico spostati lì da altre sedi. Tanti, o forse troppi, dal momento che il San Domenico risulta tra i più affollati del provveditorato - comprendente Lazio, Abruzzo e Molise - sia in termini numerici che proporzionali. Sarebbero 333 i detenuti a fronte di 203 posti a disposizione con un super lavoro per gli agenti della penitenziaria. Forlì: petizione contro i detenuti nella ex canonica, il M5S "l’hanno tenuta nascosta" forlitoday.it, 29 aprile 2017 "Il Comune occulta la petizione e ci nega la sala di quartiere": è la protesta del Movimento 5 Stelle che interviene sul progetto "Casa della Speranza" che dovrebbe svilupparsi a Malmissole. "Il comune occulta la petizione e ci nega la sala di quartiere": è la protesta del Movimento 5 Stelle che interviene sul progetto "Casa della Speranza" che dovrebbe svilupparsi a Malmissole, piccola frazione del forlivese di circa 500 abitanti. Il progetto, coordinato da un’associazione temporanea di scopo composta da Diocesi, associazione Papa Giovanni XXIII e Caritas, prevedrebbe di ospitare all’interno dei locali della canonica 13 detenuti a fine pena, da avviare ad un percorso di reinserimento sotto il controllo di 2 educatori "che paiono francamente molto pochi rispetto agli ospiti", protesta il M5S. "Da quello che abbiamo appreso da alcuni cittadini, il progetto non convince affatto la popolazione locale - dichiarano i consiglieri comunali Daniele Vergini e Simone Benini del Movimento 5 Stelle di Forlì - che, a quanto pare, sarebbe stata inspiegabilmente tenuta all’oscuro del progetto fino all’ultimo momento; per quale motivo l’Amministrazione ma soprattutto il comitato di quartiere, che sapevano di questo progetto, non hanno informato i concittadini?" si domandano i pentastellati. "Abbiamo successivamente appreso che i cittadini di Malmissole hanno presentato una petizione, corredata da diverse centinaia di firme, che chiede di rimettere in discussione il progetto - affermano Vergini e Benini - ma la cosa grave è che questa petizione, depositata il 10 aprile e indirizzata al Consiglio è stata tenuta nascosta ai consiglieri e assegnata inspiegabilmente al Sindaco, in spregio ai regolamenti comunali! Questa è una cosa molto grave e chiediamo che venga ripristinato al più presto l’iter corretto, convocando urgentemente, come da regolamento, una commissione consiliare che discuta la petizione, come era evidentemente nelle intenzioni dei proponenti, in un dibattito pubblico," insistono i consiglieri. "Ma c’è dell’altro: avevamo anche intenzione di organizzare proprio nei quartieri di Malmissole/Barisano il prossimo appuntamento delle nostre assemblee itineranti "Movimento in ascolto", volte ad ascoltare le problematiche e le proposte della cittadinanza, ma ci siamo visti negare la sala di quartiere in via Trentola, richiesta per ospitare la nostra iniziativa", denunciano i pentastellati, "è inaccettabile che l’Ufficio Partecipazione ci neghi l’utilizzo della sala adducendo motivazioni risibili; chi paga le bollette della sala di via Trentola dove si riunisce il comitato del quartiere Barisano? Ovviamente il Comune, con i soldi dei forlivesi! E allora per quale motivo viene negato il suo utilizzo a consiglieri eletti da più di 7000 forlivesi?", domandano Vergini e Benini. Reggio Calabria: gli studenti del "Panella" incontrano i detenuti del Carcere di Arghillà di Serena Guzzone strettoweb.com, 29 aprile 2017 Reggio Calabria dall’altoStamattina, presso il Carcere di Arghillà, si è conclusa la prima fase del progetto "Giovani dentro, Giovani fuori", che ha visto il coinvolgimento degli studenti dell’Istituto "Panella Vallauri" e i detenuti delle carceri reggine. Ad aprire e coordinare l’incontro è stato Mimmo Nasone, docente e referente di Libera, che ha ringraziato i quaranta studenti che hanno partecipato al progetto e i detenuti che hanno scelto di aderirvi volontariamente. L’intento del progetto era di aprire uno spazio di confronto e uno scambio di esperienze tra gli studenti delle ultime classi del "Panella-Vallauri" e i detenuti, liberandosi dai facili pregiudizi e dalle semplificazioni. L’obiettivo in tal senso è stato pienamente centrato, ha precisato Nasone, "gli studenti hanno avuto l’occasione, di aumentare la propria consapevolezza di cittadini e di comprendere che anche le persone che commettono degli errori hanno diritto a compiere un percorso di piena riabilitazione sociale". La coordinatrice del Progetto, Patrizia Surace, complimentandosi con gli studenti, ha illustrato gli step del progetto che ha previsto anche la somministrazione di un test iniziale per sondare la percezione dei concetti di legalità e illegalità. "Somministreremo ai ragazzi ulteriori test anche per verificare l’efficacia del percorso" ha precisato la dott.ssa Surace "al fine anche di verificare un eventuale cambio di opinione nei ragazzi a seguito del loro confronto diretto con i detenuti". È intervenuto anche il Commissario della Polizia Penitenziaria, Domenico Paino, che ha sottolineato il forte valore di prevenzione del progetto, rammentando a studenti e detenuti l’importanza di incontri e scelte di vita che possono essere determinanti; "ciò che è doloroso dentro il carcere non è tanto il rumore della porta che si chiude alle proprie spalle, ma lo strazio dei familiari. Per questo è necessario conoscere la dimensione carceraria, per avere maggiore consapevolezza e compiere scelte responsabili." Il progetto ha avuto il supporto concreto dell’agenzia di comunicazione Iamu.it che ha realizzato un breve video documentario sapientemente diretto da Sergio Conti. "Non un video spot - ha precisato Conti - bensì un racconto reale fa comprendere la percezione che i giovani hanno della sofferenza di chi vive recluso. Nelle video-interviste gli studenti hanno dimostrato grande sensibilità ma pongono anche degli interrogativi importanti". Interrogativi ai quali hanno fornito delle prime risposte Angelica Incognito e Daniela Tortorella, entrambe Magistrati di Sorveglianza, che hanno sottolineato l’occasione offerta agli studenti di conoscere concretamente la dimensione carceraria, di confrontarsi con i detenuti, ascoltare le loro dirette testimonianze, capire che le braccia della comunità devono sempre essere aperte. "Va perseguita una strada orientata verso la cultura - ha dichiarato la dott.ssa Incognito - perché cultura e legalità vanno di pari passo". "Lo spirito del Codice è di creare una osmosi tra carcere e comunità, - ha aggiunto la dott.ssa Tortorella - il reato e la devianza in generale sono spesso la conseguenza di fattori che non scegliamo, come ad esempio l’impossibilità di accedere allo studio o il vivere in contesti di marginalità sociale". Il bilancio positivo del progetto è stato evidenziato dalla Dirigente scolastica dell’Istituto "Panella-Vallauri" Anna Nucera che ha esortato i suoi studenti: "A volte, certe scelte si compiono in una frazione di secondo; questa esperienza di confronto così forte e dirompente con i detenuti deve aiutarvi proprio quando vi ritroverete in quella precisa frazione di secondo, quando dovrete compiere scelte che si ripercuoteranno nella vostra vita, ricordandovi sempre che niente è mai del tutto perduto e anche allorquando si commettono degli errori c’è sempre una seconda possibilità di riscatto. Spero che ogni studente possa portare con sé questa esperienza e raccontarla agli amici e ad altri giovani." "L’esperienza positiva di dialogo tra Scuola e Carcere non termina qui - ha assicurato Mario Nasone, referente del Centro Comunitario Agape, che ha fortemente promosso il progetto che è stato sostenuto dalla Regione Calabria - un ulteriore evento finale attende i ragazzi per la fine di Maggio e si lavorerà da subito per estendere le modalità di azione". "È una pratica che non deve limitarsi solo alla provincia di Reggio Calabria - ha concluso l’Assessore regionale Federica Roccisano - ma deve allargarsi su scala regionale per continuare a costruire comunità educanti ed una Calabria aperta ed inclusiva". Senigallia (An): alla Biblioteca comunale raccolta di libri per le carceri viveresenigallia.it, 29 aprile 2017 A partire dal 2 maggio fino al 2 giugno la Biblioteca Antonelliana di Senigallia ospiterà un punto per la raccolta di libri da destinare alle biblioteche e ai programmi di studio nelle carceri del Distretto Marche, Abruzzo, Molise e Umbria. È quanto prevede il progetto "Sulla scia delle Ali della Libertà", promosso da Rotaract e patrocinato dal Comune di Senigallia. "Una bella iniziativa - afferma il sindaco Maurizio Mangialardi - che coinvolge la nostra Biblioteca per dare la giusta attenzione a un mondo spesso dimenticato. La realtà carceraria, infatti, è particolarmente complicata nel nostro paese e soffre di problemi come il sovraffollamento, l’integrazione e la difficoltà a investire in nuove strutture. Dunque, ringraziamo e salutiamo con favore il progetto promosso da Rotaract, che mira, attraverso i libri e la cultura, a dare un segnale di controtendenza". "L’obiettivo - spiega il presidente del Rotaract Club di Senigallia, Marco Pettinari - è sostenere, in collaborazione con l’Amministrazione carceraria, la risocializzazione e la rieducazione dei detenuti, fornendo loro strumenti culturali adeguati. Per tale motivo, invitiamo tutti a partecipare alla raccolta dando spazio prioritariamente alla donazione di testi di carattere didattico in buono stato". "Abbiamo aderito subito - aggiunge il direttore della Biblioteca Antonelliana, Italo Pelinga - perché non solo crediamo che sia compito delle biblioteche pubbliche promuovere la lettura, ma anche perché siamo convinti che ciò abbia importanti risvolti di carattere sociale e per la crescita di tutte le persone e in particolare di chi si trova in una situazione di difficoltà. Come Biblioteca metteremo a disposizione anche parte dei testi didattici che ci sono già giunti in donazione". "Un progetto di grande valore - conclude l’assessore alla Cultura Simonetta Bucari - che dimostra ancora una volta l’importanza dei libri, e più in generale dell’istruzione, nei processi di inclusione sociale e riscatto personale. L’invito è dunque rivolto a tutti i cittadini che abbiano un libro in buono stato e che decidano di privarsene per un scopo nobile". San Gimigano (Si): "Scriviamo…con gusto", il blog di cucina fatto dai detenuti Redattore Sociale, 29 aprile 2017 Il blog è realizzato dai detenuti della Casa di reclusione di Ranza, a San Gimignano, che frequentano la sede carceraria dell’Istituto Enogastronomico di Colle Val d’Elsa. Raccoglie ricette, poesie e riflessioni curate dagli studenti detenuti sviluppando ogni mese un tema diverso. Un blog di ricette e riflessioni che hanno il sapore della libertà. È quello realizzato dai detenuti della Casa di reclusione di Ranza, a San Gimignano, che frequentano la sede carceraria dell’Istituto Enogastronomico di Colle Val d’Elsa, indirizzo dell’Istituto d’Istruzione superiore statale "Bettino Ricasoli" di Siena. Il blog, intitolato "Scriviamo…con gusto" (scriviamocongusto.wordpress.com), raccoglie ricette, poesie e riflessioni curate dagli studenti detenuti sviluppando ogni mese un tema diverso. A coordinare testi e pubblicazione sono le docenti Gilda Penna e Laura Staiano, che curano la formazione dei detenuti insieme ad altri insegnanti impegnati nella sede carceraria dell’istituto senese con lezioni di italiano, matematica, storia, economia, lingua inglese e francese, scienze degli alimenti, laboratori di cucina, sala e vendita. "Il blog - spiega Gilda Penna, referente dell’Istituto ‘Ricasoli’ di Siena per la sede carceraria - coinvolge ogni mese gli studenti dei circuiti di Alta e Media Sicurezza del carcere di Ranza su un tema diverso, con una ricetta pensata e realizzata in team e, successivamente, raccontata e condivisa con il mondo esterno. Insieme alle ricette, in lingua italiana, inglese e francese, trovano spazio sul blog ricerche storiche sulla gastronomia, italiana e non, e riflessioni che guardano fuori dalle sbarre attraverso la cucina. Gli studenti possono, così, mettersi in gioco e valorizzare le loro capacità aprendosi, attraverso la rete, a tutti coloro che si interessano di gastronomia e cogliendo un’opportunità di arricchimento personale e professionale". Napoli: "Fair Play… noi di Secondigliano", detenuti contro i clan sul terreno di gioco Il Mattino, 29 aprile 2017 Raccontare la loro esperienza per trasmettere alle giovani generazioni un messaggio di riscatto e di speranza contro i cattivi esempi della criminalità organizzata. E trasformare quel messaggio in gioco di squadra, non violenza e rispetto per il prossimo in un quadrangolare che si disputerà il 5 maggio. L’evento s’intitola "Fair Play… noi di Secondigliano" e vedrà protagonisti i detenuti del carcere di Secondigliano che, prima della gara, incontreranno gli studenti dell’istituto secondario di I grado Sauro-Errico-Pascoli a cui lanceranno il loro monito contro la camorra e la violenza in genere. Dopo il dibattito i reclusi scenderanno in campo per un mini torneo che li vedrà sfidarsi con agenti di polizia penitenziaria e residenti del quartiere. Un’iniziativa che, per la prima volta, vede Secondigliano aprire le sue porte al mondo carcerario allo scopo di creare un "ponte" tra i giovani e chi, quel quartiere, lo vive solo attraverso le sbarre di una prigione. A patrocinare il progetto - è la VII Municipalità che, come spiega il presidente Maurizio Moschetti: "È un territorio difficile, dove la camorra trova terreno fertile tra i giovani soprattutto per l’alto tasso di disoccupazione. Ecco perché lo scopo dell’iniziativa è di diffondere, attraverso i carcerati, un modello di legalità per favorire l’integrazione e l’inclusione sociale". La manifestazione, ideata dall’associazione Sguardo Sociale e dalla E-vent, è sostenuta dal direttore del carcere di Secondigliano Liberato Guerriero e ha il patrocinio della Municipalità in collaborazione con la cooperativa Mare Dentro, l’associazione Larsec, Secondigliano Futura, Centro Sportivo Andrea Capasso, Cavalieri Templari, Parrocchia Santi Cosma e Damiano, Missionari dei Sacri Cuori, Associazione Aristide per la Famiglia. Il quadrangolare del 5 maggio si svolgerà, alle 10.30, presso il campo sportivo Andrea Capasso di via Limitone di Arzano e vedrà affrontarsi per la conquista della I edizione del "Trofeo Fair-play - Event cup" le squadre di: detenuti del carcere di Secondigliano, polizia penitenziaria, parrocchia dei Santi Cosma e Damiano e rappresentativa del quartiere che sfiderà le altre compagini sotto le bandiere di "Vivi Secondigliano". Il torneo sarà preceduto, alle 9.30, da un incontro-dibattito che vedrà faccia a faccia i reclusi e gli studenti. Subito dopo si svolgerà l’esibizione del campione del mondo di aeromodellismo Luca Pescante. A introdurre il calcio d’inizio del match sarà la solenne benedizione delle autorità e degli sportivi. Nel pomeriggio infine una fiaccolata - che partirà alle 17 dalla chiesa dei Santi Cosma e Damiano in corso Secondigliano - si snoderà tra le vie del quartiere fino a raggiungere l’ingresso del carcere dove si concluderà il percorso. La partenza del corteo sarà preceduta dalla santa messa e dal concerto gospel del coro Polifonico Maranathà diretto da padre Geppo Tranchini. "Ombre dal fondo". Il fardello maledetto di testimone del Male di Domenico Quirico La Stampa, 29 aprile 2017 Anticipazione da "Ombre dal fondo", il nuovo libro del nostro inviato di guerra Domenico Quirico. Quante volte mi hanno detto: basta pensare alla morte e alla strage, volta la testa dall’altra parte, rinuncia... scrivi di cose belle! Già, un buon consiglio. Ma se quello ti scorre dentro con tutto il mercurio e lo zolfo che ormai ti ha iniettato nelle vene? Io mi trovo sempre nel Male. È terribile dirlo ma è così. È naturale. Non posso farci niente, lui è in me, in noi. Non mi lascerà mai, non ci lascerà mai. Solo che voi non ve ne accorgete, non sentite le voci che salgono dal Fondo perché semplicemente siete un poco più lontani, non avete superato certe frontiere, non vi siete messi in cammino in certi luoghi. Guardo il mondo attraverso una fessura delle sue mura, le mura del Male. Mi accorgo con il passare del tempo che quella fessura, quello squarcio si allarga impercettibilmente. Il paesaggio, tremendo, si fa via via più largo, arrivo a vedere particolari sullo sfondo lontano che prima mi apparivano velati e come inconsistenti. Eppure non è che questo dilatarsi significhi la possibilità di liberarsi. No. Al contrario la prigione del Male si fa, illogicamente, più stretta. Non la posso lasciare, non potrò lasciarla mai. Piena com’è sempre più soltanto di carcerieri, padroni, macellai. Una confessione. Subito. È una cosa che al tempo del sequestro non ho detto. Ci sono cose per cui la sincerità non è immediata, ha bisogno di tempo per consolidarsi, si ha bisogno di tempo per meditare su di sé, per convincersi che parlarne, rivelarla è un dovere. I miei sequestratori non hanno agito per denaro. I primi sì, quelli a cui fu commissionato il rapimento o ne ebbero l’idea. Volevano far soldi con l’occidentale perché pensavano che avrebbero guadagnato assai più che con i poveri ricchi siriani con cui si riempivano normalmente le tasche. Ma il loro scopo era vendermi agli altri, ai purificatori. E lo scopo di questi ultimi era di mostrarmi, tra i primi, direttamente, che cosa era il loro Male stavano preparando: un cimitero maledetto per una umanità che doveva essere inghiottita. Era il 2013. L’alambicco era quasi pronto, si preparavano a farlo arrivare all’ebollizione. Cercavano un testimone - sono stato forse l’ultimo a dover rivestire questo ruolo per loro, dopo sono venute le vittime sacrificali per riti sanguinosamente comunicativi. Sapevano che se non fosse accaduto nulla di imprevisto alla fine mi avrebbero liberato, forse anche se nessuno avesse pagato. Togliete questo elemento e il mio sequestro si riempie di misteri. Volevano che un occidentale, un testimone di mestiere, guardasse in faccia il Male, vi si immergesse fino in fondo, lo respirasse. E poi tornasse ad annunciare, a raccontare: laggiù voi parlate di al-Qaida, di vecchio terrorismo. Questo è un’altra cosa, un progetto più grande e terribile... È il rovesciamento dei ruoli: non nascondersi come gli antichi settari islamici dediti all’autobomba, bensì svelarsi annunciare gridare ai quattro venti il proprio progetto di palingenesi. È per questa impossibilità di fuggire diventata più salda di un reticolato, di un muro, che io ritorno ogni volta laggiù, nel Fondo. Come per un richiamo che funziona in modi arcani, come la sirena di una nave e la voce delle sirene. Non possiamo farci niente, quello che abbiamo vissuto, voi non lo vivrete per fortuna mai...almeno per ora. Come esploratori del Male, siamo diventati nostro malgrado degli esseri a parte, non peggiori o migliori: solo diversi. Come coloro che lavorano in miniera o in posti tossici e pericolosi: il tempo, la permanenza li ha deformati. Non c’è nulla di eroico in tutto questo. Niente. Solo una constatazione. Siamo più duri per certe cose. Guardare la morte la tortura il macello. Ma quando cerchiamo di amare, di spiegarci, di vivere in mezzo a voi, di entrare dentro di voi, siamo infinitamente più fragili. Non sappiamo più amare. In fondo è così anche con Dio... Ma di questo non ora, per pietà, di questo dovremo parlare ancora prima della fine. I Radicali: superare il Tso, eredità dell’epoca dei manicomi di Flavia Amabile La Stampa, 29 aprile 2017 Presentata una proposta di riforma: stop alla contenzione meccanica, garanzia del diritto di visita all’interno dei reparti psichiatrici di poter comunicare con l’esterno, limite al numero di rinnovi del Trattamento. A Torino il Comune e l’Asl si preparano a firmare un nuovo protocollo d’intesa sul Trattamento sanitario obbligatorio (Tso), nella speranza di stabilire regole che evitino il ripetersi di tragedie. Ma anche a livello nazionale si sta cercando di superare le procedure attuali. I Radicali italiani hanno presentato la scorsa settimana una "legge Mastrogiovanni" per riformare il Tso. Prende il nome da Franco Mastrogiovanni, maestro elementare che nel 2009 perse la vita dopo 87 ore di ininterrotta contenzione nel reparto di psichiatria dell’ospedale di Vallo della Lucania, dove era stato ricoverato sulla base di un Tso. La proposta di riforma prevede tra l’altro, lo stop alla contenzione meccanica, l’introduzione di una difesa tecnica e quindi di diritto di informazione e ricorso a beneficio di chi è sottoposto a Tso, la garanzia del diritto di visita all’interno dei reparti psichiatrici di poter comunicare con l’esterno, il limite al numero di rinnovi del tso, oggi non previsto dalla legge, e la segnalazione di ogni rinnovo al Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. "Meccanismi di garanzia irrinunciabili in uno Stato di Diritto", li definisce Michele Capano, tesoriere di Radicali Italiani. "A 39 anni dalla legge Basaglia nella sua applicazione concreta ha perpetuato una concezione manicomiale del trattamento psichiatrico. Siamo di fronte a un’emergenza culturale". Anche l’Unione camere penali italiane ha dato il proprio sostegno all’iniziativa di riforma. Il segretario Franco Petrelli ha osservato che si assiste a "una straordinaria dissociazione culturale della normativa: chi si presuppone abbia commesso reato è tutelato dalle garanzie previste dall’art. 13 della Costituzione, per chi è vittima di eventuali patologie invece questo articolo si spegne e si assiste a una reificazione del corpo del malato mentale". Poco si sa del Tso. Nella sua prima relazione al parlamento il Garante dei Detenuti ha denunciato la mancanza di statistiche specifiche sull’applicazione del Trattamento. Gli unici dati disponibili si riferiscono alle dimissioni e descrivono un fenomeno enorme: quasi 11mila solo nel 2015. "Si tratta di 30 al giorno", sottolinea il segretario di Radicali Italiani Riccardo Magi, "Bisogna sottrarre questo tema allo scontro tra avvocati e psichiatri: le maggiori garanzie previste da questa riforma non pregiudicano l’efficacia della cura, a comprometterla sono invece gli automatismi burocratici e spersonalizzanti che ledono anche il lavoro dei medici. L’obiettivo fondamentale è aprire il dibattito nel paese su una questione trascurata da politica e media e la strada potrebbe essere una legge d’iniziativa popolare. Lo stiamo valutando", conclude Magi. Migranti. Dal No alla legge Bossi-Fini al Sì alle espulsioni di Giuliano Santoro Il Manifesto, 29 aprile 2017 La formula è nota: "Il buonismo è servito solo ad alimentare le ruberie Mafia Capitale". Per salvataggi in mare Di Maio, Grillo e Di Battista adoperano la stessa retorica, col grimaldello della corruzione sfondano le porte già aperte del razzismo diffuso. Gli Ok Corral televisivi e le campagne securitarie aizzano la gente contro i migranti? I grillini questa volta non si indignano. Qualche volta hanno anche lo stomaco di accodarsi esplicitamente. Così, a Gorrino, nel ferrarese, compaiono barricate contro l’accoglienza ai richiedenti asilo e il meet up locale dice laconicamente di essere "dalla parte dei cittadini". E a Roma, la città che Grillo in un tweet descriveva come invasa da "topi e clandestini", da mesi il Baobab viene considerato un problema di ordine pubblico e sul tema accoglienza diversi presidenti di municipio si fanno dettare la linea dalla destra. Attenzione: nel Movimento 5 Stelle le posizioni retrive si presentano sotto traccia, perché c’è sempre una spinta dal basso da irreggimentare. Prima, ad esempio, circolavano posizioni più progressiste sullo ius soli e sul reato di clandestinità. Poi Grillo e Casaleggio hanno detto che sull’immigrazione e sulle paure che essa solleva c’è soltanto da alzare le mani. Altrimenti addio presa del potere, altro che primo partito: sarebbero scattate percentuali da prefisso telefonico. La questione è rimasta a galleggiare, irrisolta, per lungo tempo. "Non ne parliamo, perché è un tema divisivo", spiega un parlamentare. Un compromesso temporaneo è venuto dalla proposta di alcuni parlamentari europei: consentire ai migranti sbarcati in Italia di presentare richiesta d’asilo in qualsiasi altro paese Ue. Per mesi, la linea ufficiale è stata questa. Un colpo al cerchio progressista accompagnato da quello alla botte reazionaria: accogliere soltanto chi ne ha diritto e dunque "Facilitare le espulsioni" (come se la legge in vigore non si chiamasse ancora "Bossi-Fini"). La narrazione è liquida, varia a seconda delle occasioni e delle platee. Viene declinata a volte in chiave antiliberista, altre in forma più sciovinista: si descrive l’Italia come un paese che deve riconquistare la sua "sovranità", vittima di oscure forze internazionali, alcune delle quali manipolerebbero i movimenti migratori. È una tesi che ricorda lo scenario descritto nel teorema senza prove dal pm di Catania Zuccaro. La nazione perseguitata dei grillini non sarà la "grande proletaria" di Giovanni Pascoli ma alla fine della storia appare come una comunità assediata, da perimetrare e da difendere nella sua integrità. Da preservare di fronte alla speculazione finanziaria e da proteggere al cospetto di orde di invasori che, seppure descritti come incolpevoli e a loro volta vittime, sono dipinte come masse impazzite, informi, prive di soggettività. I cui movimenti finiscono per turbare un equilibrio pre-esistente, minare l’ordine pubblico, intaccare la tranquillità economica. Israele. Scontri e feriti nel "Giorno della rabbia" dei palestinesi di Michele Giorgio Il Manifesto, 29 aprile 2017 Migliaia ieri in strada a manifestare sostegno di detenuti palestinesi in sciopero della fame. Marwan Barghouti conferma il suo carisma. Israele intanto annuncia l’intenzione di costruire molte migliaia di case per i coloni nella zona palestinese di Gerusalemme. Ai posti di blocco israeliani intorno alle città palestinesi e a Gerusalemme est, i manifestanti ieri hanno trovato soldati in assetto antisommossa, pronti a rispondere al "Giorno della rabbia" proclamato dal partito Fatah a sostegno dello sciopero della fame che da 12 giorni osservano oltre 1500 palestinesi nelle carceri israeliane. I feriti tra i dimostranti sono stati decine, alcuni da proiettili veri. Gli scontri più seri sono divampati davanti alla prigione di Ofer, a Betlemme, Betunia, Qalandiya, a Silwad, Tequa, Nablus, Hebron e altre località della Cisgiordania. Spiccavano ieri i poster con l’immagine di Marwan Barghouti, il segretario generale di Fatah, incarcerato con cinque ergastoli in Israele e messo in isolamento perché promotore dello sciopero della fame. Contro le previsioni di molti, in Israele e anche tra i palestinesi, lo sciopero della fame va avanti. Accusato da non pochi nel suo partito di cercare, attraverso questa protesta, visibilità e potere, boicottato dal movimento islamico Hamas che ha ordinato ai suoi militanti in carcere di non aderire allo sciopero organizzato dai rivali di Fatah, descritto come un "terrorista sanguinario" da Israele, Barghouti ha dimostrato di poter ancora accendere le strade della Cisgiordania. Proprio come fu in grado di fare prima e durante la Seconda Intifada (2000), quando a capo di Tandhim, l’organizzazione di base di Fatah, guidò la protesta palestinese contro gli accordi di Oslo, Israele e anche l’Anp. È la prima volta dai giorni della Seconda Intifada che Fatah rivolge un appello alla popolazione a "cercare lo scontro" con i soldati. Una novità che ha messo in allarme i comandi militari israeliani e spinto l’Autorità nazionale palestinese (Anp) a schierare centinaia di agenti di polizia nei punti più caldi per impedire l’escalation degli scontri. Quella di ieri è stata una prova generale dell’iniziativa popolare che le correnti di Fatah legate a Barghouti stanno organizzando per il prossimo 3 maggio in Piazza Mandela a Ramallah, proprio nel giorno in cui il presidente dell’Anp Abu Mazen incontrerà alla Casa Bianca Donald Trump. Un raduno, si prevede, di migliaia di palestinesi che potrebbe mettere in imbarazzo un Abu Mazen che vuole presentarsi da Trump come un leader che controlla della situazione e implacabile con dissidenti e avversari politici come dimostra il braccio di ferro che ha avviato con il movimento islamico Hamas a Gaza. Ambizioni velleitarie quelle del presidente palestinese. Abu Mazen resta un leader debole non in grado di influenzare in alcun modo le decisioni di Israele. Il governo Netanyahu fa ciò che vuole. Ha appena fatto sapere, attraverso il ministro dell’edilizia Yoav Galant, di voler costruire 15.000 nuove case a Gerusalemme est, il settore palestinese della città che Israele ha occupato 50 anni fa. "Costruiremo 10mila unità a Gerusalemme (Ovest, la zona ebraica) e circa 15mila nei confini municipali della città (a Est)", ha spiegato Galant. L’annuncio potrebbe essere fatto nel "Giorno di Gerusalemme", il 24 maggio, due giorni dopo l’arrivo di Trump in Israele. Iran. Una generazione perduta tra oppio, disagio giovanile e traffico di droga di Vincenzo Mattei Il Manifesto, 29 aprile 2017 Reportage. Il carbone incandescente illumina di rosso il viso di Reza mentre la luce da campeggio legata sul suo capo punta alla pipa. Reza soffia forte e ad intermittenza ritmata sul tizzone che tiene con l’altra mano tramite una pinza di ferro fino a far quasi sciogliere il pezzo di oppio sulla palla di legno di questa specie di cilum, poi aspira profondamente gonfiandosi il più possibile e strabuzzando gli occhi. La musica soave dei Pink Floyd oltrepassa il cielo stellato intorno a Shiraz. C’è un foro microscopico che pulisce con uno spillo legato ad una catenina ottonata alla pipa. Reza ha 26 anni, ha iniziato da un anno a fumare, da circa sei mesi lo fa più di frequente. "Il nostro governo vuole che usiamo le droghe", afferma convinto il suo amico Omid, 25 anni, mentre afferra la pipa. "Se usi le droghe diventi dipendente e il tuo corpo diventa debole e non puoi ribellarti contro il governo, non puoi protestare. Con l’alcool invece è un’altra storia, sei più forte e consapevole, puoi combattere e ribellarti, le altre droghe ti indeboliscono e ti conducono alla morte", gli fa eco Reza In Iran il consumo di sostanze stupefacenti è aumentato vertiginosamente rispetto al passato, ma non ci sono statistiche ufficiali per poterlo attestare. Secondo Roham Gudarzi, giovane dottore presso uno degli ospedali di Shiraz che si occupa del recupero degli oppiomani, uno dei fattori determinanti per questa crescita è il cambiamento della considerazione verso i drogati visti fino a poco tempo fa come criminali, costretti a nascondersi, mentre ora trattati come malati da curare. Fondamentale è ovviamente la favorevole posizione geografica dell’Iran, proprio in mezzo alla "Via della seta" dell’oppio; la droga dall’Afghanistan transita nella terra di Persepoli per arrivare al Medio Oriente e all’Europa, è naturale quindi che lungo la via parte della "merce" si fermi qui. Reza e Omid sono consapevoli che fumando fanno il gioco del governo ma non riescono comunque a smettere. "Non abbiamo alternative: non ci sono discoteche, nightclub, bar, non ci sono mai concerti (in Iran sono proibiti o devono essere in linea con il pensiero degli ayatollah), come possiamo svagarci? Siamo giovani e vogliamo divertirci", afferma tristemente Omid. L’Iran è sdoppiato, diviso in due, all’estero una comunità numerosa infoltisce l’arte iraniana, i giovani "intrappolati" in patria ascoltano musica di tutti gli esiliati dall’attuale governo. Una cultura parallela che è possibile vivere solo in casa o sugli smartphone, lontana da quella ufficiale, ma vicina alla modernità che il regime parzialmente rifiuta. "Non possiamo avere una ragazza, non possiamo fare quello che fanno le altre persone nel resto del mondo. L’alcool è stato inventato dai persiani, ma non possiamo usarlo (sebbene esista un’ampia produzione di vino e grappa fatti in casa). Se hai idee ed immaginazione in altri posti ti aiuterebbero, invece in Iran ti constringono a fermarti a non fare nulla", afferma arrabbiato Reza. Interrompe la conversazione e prende la pipa inalando avidamente una profonda boccata, poi continua: "Il cinema? La fotografia? La pittura? La lettura? Sì, è vero, potremmo dedicarci ad altro ma al nostro posto chiunque farebbe lo stesso. Attualmente la situazione è triste, non esiste altro paese al mondo come il nostro: non ci sono relazioni politiche, sociali né economiche, tutto è molto caro e i salari sono bassi, non possiamo risparmiare soldi per il futuro. In Persia diciamo "Sukhtanu sukhtan", cioè viviamo come se il nostro corpo stesse bruciando, bruciamo vivi ma continuiamo a vivere, è la nostra dannazione. La maggioranza delle persone non può dire nulla perché ha paura per la propria vita, per il proprio lavoro, ha paura di parlare e di alzare la voce". Un altro amico, Iraj, è critico verso i due ragazzi, fuma anche lui, non spesso, solo quando ne ha voglia, almeno così dice. "Potrebbero fare altre cose, sono solo scuse, la verità è che non vogliono smettere di fumare e non vogliono prendersi le proprie responsabilità, non vogliono trovare un lavoro. Vorrebbero solo guadagnare tanto ma non hanno le competenze per ottenere quello che desiderano, l’oppio è solo una scusa". Secondo Omid non è proprio così, e sa su chi puntare l’indice per la situazione in Iran: "Il nostro governo è pieno di soldi, siamo un paese ricco, ma preferiamo finanziare Hazbollah, la Siria, lo Yemen mentre qui la gente lotta contro la povertà". Il risentimento tra i giovani è forte, anche se la presa del governo si è allentata molto dal 2009, momento culmine dell’Onda Verde, permettendo nel privato delle mura domestiche, molte cose che prima venivano tassativamente perseguitate come party, alcool, ragazze in minigonna, omosessualità, accettata solo nel cerchio delle amicizie. "Da 4-5 anni è così, prima nessuno andava a vivere da solo. Per la mentalità iraniana a 30 anni dovresti aver messo su famiglia ed avere un buon lavoro, ma con la situazione economica attuale è impossibile, a mala pena riusciamo a portare qualcosa a casa per noi, figurarsi per un’intera famiglia." Reza fuma di nuovo, poi si versa un tè caldo che ha portano nel thermos, qui c’è la convinzione che il tè aiuti l’assunzione dell’oppio, mentre l’alcool dà effetti opposti. Fumare oppio prevede un rituale stabilito in un luogo poco frequentato come le montagne intorno a Shiraz: musica, tè, fornellino da campeggio, carbone, lampadina, accendino, pinza e pezzi di materassi di spugna per sedersi più comodi. Continua Reza: "Siamo come questa bottiglia, se è piena e continui a versarci acqua traboccherà, la pazienza della gente è così, quando non potremmo più sopportare il dolore allora scoppieremo. Quando quel momento arriverà sarò pronto". Omid mostra un video virale sul web in cui ci si fa beffa dei mullah e di tutto il sistema iraniano, la seconda generazione nata dopo la rivoluzione sembra essere stanca dell’attuale situazione. Reza è convinto che prima o poi smetterà, afferma di tenere l’assuefazione sotto controllo, ma non smette di tagliare le stecche di oppio sopra lo smartphone. Ha iniziato ad andare in palestra, ma per via dell’oppio si muove troppo lento, ma è sicuro che migliorerà con il tempo. Mette un altro cubetto sulla pipa, la musica di Division Bell culla i fumi dell’oppio che aiutano nella serata stellata a non avvertire la temperatura di -7°. La montagne sono un posto sicuro, e anche se la polizia può arrivare in qualsiasi momento ci sarà sempre un altro posto dove andare, un altro luogo dove non pensare. Il traffico internazionale di oppio - L’oppio arriva a Reza e Omid attraverso diversi canali, è abbastanza semplice reperirlo grazie anche a personaggi come Ali e al circuito internazionale in cui si muovono i trafficanti di droga. Ali vive a Kerman, ha la pelle scura, capelli e occhi neri e denti bianchissimi. Ride spesso, mette a proprio agio l’interlocutore ma il suo sguardo è tagliente e capace di leggere oltre la figura di chi gli è davanti. Ali è diventato trafficante di droghe "quasi per caso", i dealer avevano un problema a Kerman, nel sud-est dell’Iran, un impasse che bloccava la merce in città per una possibile retata della polizia che avrebbe sequestrato tutto il carico. Amici di amici fino ad arrivare a lui, un passaparola per trovare l’uomo giusto, così Ali si è trovato in mezzo al giro e alla fine ci è rimasto. Ali racconta come trasferiscono l’oppio in Iran: "Alcuni vengono da Chabahar e vanno a Bandarabbas (porto a sud del paese), poi vengono a Kerman e da qui verso il nord, Teheran è a sua volta un hub importante per il transito della droga. Mandano l’oppio dall’Afghanistan al Pakistan e da qui all’Iran perché è più facile attraversare il confine". Si passa per il deserto o attraverso le montagne con jeep e fuoristrada, seguendo le orme sterrate che solo i trafficanti conoscono, trasportano intorno ai 10-20 kg soprattutto per lo spacciato all’interno dell’Iran. "I clienti fumano immondizia perché l’oppio viene mischiato alla morfina e ad altre sostanze chimiche, però quello trasferito dai grandi khan (boss) è di qualità superiore e si aggira intorno ai 500-1000 kg", afferma convinto. "I khan più potenti appartengono ai clan Beluchan, del Belucistan (regione iraniana a confine con l’Afghanistan), sono loro che controllano l’importazione di oppio dall’Afghanistan. Ogni clan riceve un grosso quantitativo di oppio, lo nascondono in contenitori per la benzina o per l’olio dentro camion e autoarticolati". "La frontiera è ben sorvegliata dalla polizia e dall’esercito, per passarla basta pagare forti tangenti ai capi militari, così facendo si riesce a trasferire anche 2 tonnellate di droga. Pagata la mazzetta si hanno tre giorni per entrare in Iran, scaricare e tornare in Afghanistan, scaduto il termine concesso i due apparati statali intervengono e ogni tanto ci sono scontri a fuoco cruenti. I trafficanti che vengono uccisi dalle forze dell’ordine vengono chiamati martiri, perché è l’unico lavoro con il quale possono sfamare le proprie famiglie. Nella regione non c’è altro lavoro possibile, non ci sono industrie né produzione agricola … poi c’è una grande richiesta di oppio in Iran, la gente lo vuole e noi ci siamo per soddisfare questa domanda crescente", spiega Ali. Kerman e l’altra città di Yazd sono punti di stoccaggio, sono le porte verso l’intero Iran e l’Europa. "Aiuto a trasportare la roba fuori città. L’oppio e la droga arrivano in Europa con il sistema che chiamiamo a Grappolo, perché i boss e i dipendenti sono interconnessi tra loro e attraversano tutto il paese per arrivare a destinazione. Il carico viene diretto nel nord-ovest del paese e si usa gente del posto, i kurdi e i turchi iraniani che hanno collegamenti con la mafia turca", poi Ali spiega meglio come si attraversa il confine con la Turchia: "Con piccoli pick-up, massimo carichiamo 100 kg di oppio. Chiamiamo questo sistema Dog Justice, perché se non paghiamo i militari turchi e iraniani alla frontiera i cani possono annusare il contenuto, ti prendono subito. Ci dobbiamo sbrigare sempre perché se cambiano il turno dobbiamo pagare una nuova tangente al comandante della stazione doganale", Ali scoppia in una fragorosa risata "Tutti quelli che non pagano il governo o la polizia vengono giustiziati (impiccati), ma chi ha i soldi non finisce mai in galera. Una volta la polizia ha trovato su un aereo a Teheran 14 tonnellate di droga, ma alla stampa ha detto che erano solo 2, che provenivano dalla Cina e che il iraniano le avrebbe usate per fare medicine!". Secondo Ali esiste un interesse da parte del governo iraniano nel traffico di droga, una vera e propria commistione: "I trafficanti, i khan, trasferiscono 10 tonnellate solo per lo smercio internazionale ma il governo fa la stessa cosa: sfrutta il commercio della droga per comprare armi grazie alle tangenti che prende dai cartelli della droga". Ali confessa di non essere mai stato in Turchia, solo al confine, poi conclude: "Mi piace questo lavoro, è avventuroso, c’è adrenalina … ma soprattutto mi piacciono i soldi che guadagno". Ali scende dall’auto parcheggiata sul ciglio dell’ampia tangenziale di Kerman, deve continuare il suo giro. Entra nel suo pick-up, accende il motore e si perde dentro il traffico cittadino, diretto al prossimo scalo, per il prossimo carico e verso un’altra città, continuando la catena che porta la felicità in giro per il mondo. Centri di disintossicazione e dipendenza - Le ragioni della tossicodipendenza in Iran sono le stesse che esistono in altri paesi nel mondo, ma la forte vicinanza con l’Afghanistan, che è il maggior produttore mondiale di oppio, rappresenta uno dei motivi principali per un uso così massiccio di oppio. L’Iran è un paese di transito per il traffico internazionale e molti giovani lo usano perché è facilmente reperibile. Il problema della tossicodipendenza si è così diffuso da imporre allo Stato un intervento: "Esistono molti centri di Anonimi Narcotici diffusi in tutto il paese, dalle grandi città ai piccoli centri, ci sono molte cliniche specializzate solo nel settore di disintossicazione", afferma il dott. Gudarzi. Nella periferia nord orientale di Shiraz si trova uno dei centri di disintossicazione il cui nome, "Il domani", è un segnale di speranza per chi entra in questo luogo dalle pareti disegnate con graffiti e murales. All’ingresso un triangolo con scritto in persiano le parole Incontro, Famiglia e Lavoro per ricordare l’impegno e la costanza necessari per riuscire ad uscire dal mondo della droga. Calcio balilla, una piccola biblioteca e larghi spiazzali dove passare il tempo. Nello stanzone-dormitorio ci sono una dozzina di letti a castello, le pareti con la scritta le parole della spirale della droga: solitudine, noia, fame, rabbia, ritrovi per drogarsi, amici per drogarsi e droga. Infrangere anche una sola di queste regole significa aver fallito il recupero. Le prime tre settimane di permanenza sono per la disintossicazione fisica, dopo di che è possibile ritornare alla propria vita ma chi vuole può rimanere anche mesi. La sveglia è alle 7, si fanno 15 minuti di ginnastica, la colazione e la preghiera per chiedere ad Allah di avere un altro giorno senza droghe. Poi tempo libero fino alle 17:30 per la seduta collettiva dove ognuno parla della propria esperienza coadiuvato da uno psicologo. L’età dei residenti varia dai 25 ai 50 anni. Tutti si siedono a circolo. Khalid ha 29 anni, ha iniziato a 21 con l’oppio e l’uso di pillole per "svago", per noia. È alto, capelli corti e un ciuffo che gli taglia obliquo il viso olivastro. L’uso "ricreativo" è diventato subito una dipendenza dalla quale non poteva uscire, così ha deciso di venire al centro "Il Domani". Faceva l’intonacatore, il lavoro gli piaceva, i soldi non erano male, ma la mattina non riusciva ad alzarsi o arrivava sempre in ritardo così ha perso tutto, anche la moglie dalla quale ha divorziato. Samad, 30 anni, ha iniziato a 15 con l’hashish per essere accettato dagli amici. Con gli anni ha introdotto altre droghe, sempre più forti: "Stavo affogando sempre di più ma allo stesso tempo cercavo uno sballo maggiore", ammette con lo sguardo colpevole. Negli occhi di ognuno nel cerchio si legge la propria colpa, l’autostima che è stata schiacciata a terra e che forse, anche dopo il recupero, sarà difficile riportare a galla. "Non avevo alcun obiettivo nella vita e vivevo alla giornata, non ho mai pensato al futuro, avevo solo le droghe in testa che prendevano decisioni per me", continua amareggiato Samad. Sattar ha 43 anni, è sposato con due figli, ha iniziato a 28 ed ora è nel centro da 25 giorni. È la terza volta che ci prova, l’oppio è una tentazione troppo inebriante da accantonare così facilmente. "Anche se si supera la dipendenza dura tutta la vita, ce l’abbiamo nell’anima perché diventa una malattia cronica. Nel centro impediamo alla malattia di crescere, costruiamo una diga, se la conserviamo bene nel corso della vita allora forse saremo capaci di smettere di usare droghe", afferma Sattar. Ha il viso marcato dalle rughe, baffi lunghi e spessi, la pelle scura e neanche un capello bianco. La sua dipendenza la teneva ben nascosta, alla moglie, ai figli, agli amici … Sattar ha scelto il centro perché è l’unico modo per comunicare con qualcuno, secondo lui solo chi è nella sua stessa condizione può capirlo, l’oppio ha disegnato una linea sottile che lo divide dal mondo ordinario, che lo separa dagli affetti. "Seguo le sette regole che ci insegnano, non ho sentito dolore recentemente ma ho avuto la tentazione di rifumare. Pazienza e pazienza per riuscire, passo dopo passo siamo stati risucchiati dalla droga e è solo in questo modo che possiamo uscirne". Sattar racconta a gli altri compagni di percorso la sua storia e l’azione della droga: "I primi mesi li chiamiamo il "Golden Period", perché lo sballo è forte e non ha grandi conseguenze sulla vita normale, ti senti due spanne sopra il livello degli altri. Si è felici ma dopo un po’ l’effetto incomincia a svanire, e ci si ritrova due gradini sotto la gente normale. Così l’assunzione quotidiana diventa un modo per ritornare ad essere normali. Infatti senza la droga non ero in grado di uscire di casa e di andare a lavoro, ed è proprio in questo periodo che iniziai ad avvertire gli effetti collaterali e i danni dell’oppio. Ma se non lo usavo non potevo riconoscermi come essere umano, come parte della comunità in cui vivevo". Uscire dal circolo vizioso della droga dipende da molti fattori come spiega il dott. Gudarzi: "Dalla situazione socio-economica del tossicodipendente, dal supporto della famiglia, dalla società che lo circonda. L’uso di farmaci aiuta ad inibire lo stimolo fisico all’assuefazione, però gli ospedali e le cliniche hanno successo se riescono ad aiutare le famiglie a capire la situazione, fornire più informazioni, come trattare con i tossicodipendenti o come comportarsi con coloro che hanno lasciato la droga alle spalle. Bisogna dar loro un nuovo ruolo all’interno della comunità in cui vivono e lavorano, avendo fiducia nelle proprie capacità e aiutandoli a governare la propria esuberanza per evitare che tornino indietro" L’atteggiamento della società iraniana di fronte al problema della dipendenza da sostanze stupefacenti è diversa a seconda del luogo. "In un piccolo centro abitato la gente è più comprensiva, prova ad aiutare, proponendo nuove possibilità di lavoro e si fida dell’individuo, i paesini costituiscono una comunità più unita. Nelle grandi città dipende soprattutto dal supporto della famiglia. Purtroppo le persone ordinarie non hanno molta confidenza con i tossicodipendenti e tendono ad etichettarli e a diffidarne, però grazie al lavoro degli operatori sociali e dei media l’atteggiamento della società sta cambiando". Il dott. Gudarzi spiega che uno dei problemi è la differenza tra cliniche private e strutture pubbliche nel trattamento ai tossicodipendenti, nel primo caso i costi sono a carico del paziente, che viene seguito dall’ingresso fino all’uscita dalla struttura, negli ospedali pubblici, invece, i dottori sono tenuti a curare il tossicodipendente, ma la post-degenza in una struttura adatta al supporto psicologico è a discrezione del singolo soggetto. Il consumo di oppio in Iran rimane alto perché per molte persone è l’inizio prima di passare ad altre droghe. "… normalmente ai consumatori abituali di oppio non piacciono le droghe sintetiche", specifica Gudarzi. Per quanto negli ultimi anni il governo centrale abbia intensificato controlli, perquisizioni ed esecuzioni capitali per i trafficanti, il percorso rimane in salita e difficile da estirpare. Le nuove generazioni sono risucchiate dal circolo vizioso della modernità che li allontana sempre più da un paese che politicamente e culturalmente non li rappresenta appieno. Arabia Saudita. Il programma di de-radicalizzazione dei detenuti visto dall’interno di Sara Brzuszkiewicz* ispionline.it, 29 aprile 2017 A destra l’edificio per le visite matrimoniali, a sinistra il salone per le cerimonie e di fronte a noi il resto dello sterminato complesso delle prigioni di Hair, a pochi chilometri da Riyadh, in Arabia Saudita. "Non abbiamo niente da nascondere, le porte delle nostre prigioni sono aperte" è lo slogan che accoglie i visitatori all’ingresso. Proprio all’interno di questi istituti di pena viene avviato il percorso di de-radicalizzazione che poi procederà nel centro di riabilitazione. Nel marzo di quest’anno ho avuto l’opportunità, rara per un ricercatore occidentale e per una donna in particolare, di trascorrere un soggiorno di ricerca in Arabia Saudita per conto di al-Mesbar Studies & Research Centre di Dubai, riuscendo ad osservare da vicino il trattamento saudita dei crimini legati al terrorismo nelle prigioni e all’interno del Muhammad Bin Nayef Counselling and Care Center, ideato poco più di un decennio fa proprio dal Principe Bin Nayef e finalizzato alla de-radicalizzazione e riabilitazione di ex-terroristi e più in generale dei detenuti accusati di crimini legati al terrorismo. Dopo gli attacchi avvenuti nel Regno degli al-Saud nel 2003, la Famiglia Reale ha iniziato a favorire attivamente l’applicazione, accanto a quelle di stampo repressivo, di strategie di "soft counter-terrorism", con l’obiettivo di combattere le giustificazioni ideologiche e religiose al jihadismo. Nella sua globalità, la strategia si basa sull’acronimo "Prac" (Prevention, Rehabilitation, Aftercar), in cui l’aspetto riabilitativo rappresenta la componente primaria e con le maggiori risorse. Il programma nasce in carcere, dove è condotto da psicologi, psichiatri, esperti di diritto islamico ed imam. Al termine della pena, il soggetto viene trasferito al centro di riabilitazione dove si suppone completi il suo percorso seguito da un team di esperti con differenti background i quali, alla fine della permanenza, si esprimeranno sul rilascio o sull’eventuale ritorno in carcere. Per quanto riguarda le carceri, i detenuti nelle cinque giurisdizioni di Riyad, Damman, Gedda, Qasim e l’Area Meridionale sono in tutto 4.993. 1054 individui hanno tra i 26 ed i 30 anni, dato che rende questa la fascia d’età più rappresentata. Nella maggioranza dei casi, i detenuti sono condannati per "terrorism-related crimes", reati legati alla droga, e omicidi commessi all’interno di conflitti inter-tribali. Riguardo al primo gruppo, i soggetti erano in maggioranza membri o simpatizzanti attivi di al-Qaida o Daesh. All’interno del complesso c’è un ospedale completamente equipaggiato e gratuito, viene fornito ogni grado di istruzione e molti detenuti si laureano ogni anno, vi sono biblioteche, sale da pittura e uno studio di incisione, oltre alla possibilità di contrarre matrimonio, come è già avvenuto in tre casi dal 2007 ad oggi. Ogni detenuto, uomo o donna, ha diritto ad almeno due visite matrimoniali al mese in stanze senza telecamere e gli uomini lavorano in due grosse serre per quattro ore al giorno, consumando poi quanto coltivato. Secondo un detenuto "l’agricoltura aiuta i prigionieri a sviluppare una progettualità e un nuovo attaccamento alla propria terra". Più concretamente, dopo il rilascio molti di loro avviano attività commerciali basate sulle nuove competenze. Di recente è stata introdotta nel sistema anche la Bayt al-Aily, "Casa famigliare": una serie di appartamenti nei quali i soggetti più disciplinati, nella totale assenza di telecamere, possono permanere con le proprie famiglie fino a tre giorni consecutivi, durante i quali cessano di essere chiamati detenuti per diventare temporaneamente ospiti. Dal punto di vista organizzativo, quasi tutti i ministeri hanno un ufficio permanente all’interno del carcere. Degno di nota però, è soprattutto la presenza dell’Ufficio per il monitoraggio dei diritti umani entro le mura, che le autorità non hanno mancato di sottolineare più volte a beneficio di una osservatrice occidentale. Dopo la permanenza in carcere, i detenuti per crimini legati al terrorismo vengono trasferiti al Markaz Muhammad Bin Nayef li al-Nasia wa al-Raya, (Centro Muhammad Bin Nayef per il Counselling e la Riabilitazione). Il progetto è andato sviluppandosi dal 2004 a partire da un decreto reale e finora sono passate da questo centro 3.181 persone, tra le quali da circa dieci anni una quota significativa di ex-detenuti di Guantánamo. L’azione di counselling è attuata da un gruppo di professionisti e studiosi di differenti discipline quali psicologia, sociologia, studi islamici, ed è organizzata in dipartimenti che presiedono ad attività eterogenee, dagli studi shariatici a quelli storici, dallo sport al training professionale. Molti ricercatori hanno evidenziato la lunga lista di privilegi riservati ai detenuti, tanto che si è più volte parlato della prigione di Hair e del Centro Bin Nayef alla stregua di "alberghi di lusso per terroristi". Tale definizione, pur motivata dalla situazione detentiva fuori dal comune è semplicistica e fuorviante. Al di là di quelli che sembrano palesi eccessi infatti, il programma sembra essere dotato di fondamenta piuttosto solide e un buon livello di efficacia. Secondo le statistiche ufficiali il tasso di successi si attesta tra l’80 ed il 90%, anche se per fornire stime più attendibili sulle recidive sarebbero necessari altri anni. Per quanto riguarda i cardini dell’approccio, essi si innestano su una profonda rilettura del messaggio religioso, la cui interpretazione jihadista aveva condotto i soggetti all’accettazione ideologica e talvolta all’utilizzo della violenza come mezzo di cambiamento, e sul parallelo sviluppo della intima wabany, il senso di appartenenza nazionale coltivato al duplice scopo di aumentare la fiducia degli individui nel Regno e di scoraggiare l’opposizione violenta ad esso. Esempio emblematico di come il sistema riabilitativo cerchi di appropriarsi dei concetti della narrativa jihadista per creare un discorso alternativo è una delle scritte presenti all’ingresso del complesso, che commemora i poliziotti morti come "martiri del dovere". L’utilizzo dell’epiteto shuhada (sing. shahid), "martiri", per le forze di sicurezza, e soprattutto la scelta di affiancarlo al concetto di dovere in senso nazionale, rappresenta un potenziale scacco ideologico non indifferente nei confronti della retorica jihadista. Anche i dipinti dei detenuti - la cui presenza stessa è significativa considerando che alcune interpretazioni ultra-conservatrici vietano la raffigurazione di soggetti reali in quanto significherebbe volersi sostituire a Dio nell’atto creativo - contengono messaggi nazionalistici espliciti, gridati, con "Daesh e le sue sorelle" schiacciate dal pugno della sicurezza nazionale. Nonostante l’indiscutibile forza della narrativa nazionale, persistono tuttavia alcuni dubbi sulla fisionomia del programma. In particolare, i rischi individuati durante l’osservazione diretta sono stati due. Innanzitutto, una sorta di graduale normalizzazione della violenza jihadista: se il terrorismo è qualcosa che semplicemente avviene e i soggetti si possono in seguito riabilitare, il rischio è che ciò venga almeno in parte normalizzato come fenomeno ineliminabile, che in ultima analisi potrà essere trattato solo a posteriori. In secondo luogo, per quanto riguarda l’attenzione accordata allo sviluppo del senso di appartenenza nazionale, l’impressione è che in essa sia racchiuso il rischio di presentare in modi differenti la violenza perpetrata in patria - del tutto inaccettabile - e quella all’estero, sulla quale la formazione ideologica nel Centro non sembra concentrarsi con la stessa intensità. *Dottoranda Università Cattolica del Sacro Cuore e Fondazione Eni - Enrico Mattei Venezuela. Bande armate e miseria, Caracas nell’incubo della guerra civile di Paolo Mastrolilli La Stampa, 29 aprile 2017 Anche le roccaforti del chavismo scaricano Maduro. L’opposizione prende coraggio: ora voto anticipato. Verso l’ora del tramonto, la piazza Altamira è illuminata solo dai fuochi di sbarramento accesi dai ragazzi della protesta contro il governo chavista. Bottiglie molotov in mano, passamontagna calati sulla faccia, hanno appena salutato l’ultima vittima della repressione, lo studente ventenne Juan Pernalete, ucciso da una bomba lacrimogena che lo ha colpito al petto. La polizia ha bloccato le strade, ma dopo i trenta morti dell’ultimo mese, stasera almeno lascia fare. È l’immagine di un Venezuela arrivato al bivio, tra l’incubo di una guerra civile che già si intravede, la perpetuazione del chavismo in una dittatura militare, o una soluzione politica di compromesso che però nessuno sembra in grado di immaginare. L’accelerazione è cominciata a fine marzo, quando la Corte suprema legata al regime ha tentato di esautorare l’Asamblea Nacional, il parlamento dove l’opposizione ha una maggioranza di due terzi. Dicono che l’abbia fatto per trasferire al presidente Maduro i poteri necessari a garantire i prestiti chiesti alla Russia, indispensabili per evitare il default dello stato sommerso dai debiti. Quella sentenza maldestra è stata denunciata persino dalla procuratrice generale Luisa Ortega Diaz, ed è stata mezzo revocata poche ore dopo, ma per l’opposizione è diventata l’occasione della svolta. Da allora in poi è scesa in piazza tutti i giorni, con manifestazioni che puntano a costringere il governo ad accettare nuove elezioni. Sicura che Maduro le perderebbe, perché i sondaggi più generosi non gli danno oltre il 20% dei consensi. Proprio per questo il regime ha risposto con la repressione, e potrebbe continuarla o inasprirla, fino a cancellare le presidenziali che in teoria dovrebbero tenersi l’anno prossimo. Fin dal golpe fallito del 1992, il chavismo si era giustificato con l’obiettivo di combattere corruzione e povertà, risollevando la gente dimenticata dall’élite che lasciava cadere solo le briciole della ricchezza prodotta dal petrolio, le altre risorse naturali come l’oro, e il turismo. Quando nel 2006 ero venuto a seguire le elezioni vinte da Chavez contro Rosales, nelle "favelas" di Caracas questa logica reggeva ancora, grazie al boom del greggio che consentiva di finanziare l’assistenzialismo, la corruzione, e pure la sopravvivenza del castrismo a Cuba, anche se nel frattempo la struttura produttiva del Venezuela veniva lentamente smantellata. Col prezzo del petrolio crollato da oltre 100 dollari al barile a meno di 30, però, l’illusione è finita. Oggi un ingegnere, se va bene, guadagna cento dollari al mese, e se ha figli fatica a garantire loro il pane. Ammesso che lo trovi, perché persino i generi alimentari di base vengono importati dal Messico o dai paesi vicini, e si trovano quando arrivano. Al supermercato si fanno i turni, nel senso che puoi andare a fare la spesa solo nei giorni in cui il numero finale della tua tessera sociale corrisponde con quello autorizzato a mettersi in fila. L’inflazione era al 150%, ma alcuni la stimano oltre l’800%. Un dollaro vale circa 10 bolivares al cambio ufficiale, ma oltre 4.000 a quello nero. Nel frattempo la carenza di risorse e medicine ha fatto tornare anche malattie debellate, come la malaria: dei 400.000 casi registrati in Sudamerica nel 2016, 240.000 erano in Venezuela. Inutile dire che l’attività economica è precipitata: le stesse autorità locali ammettono che nel giro degli ultimi due anni il numero delle piccole e medie imprese è diminuito da 750.000 a circa 250.000. Il paese resta tra i primi sette produttori di greggio al mondo, primo in termini di riserve ancora da sfruttare, ma fatica a vendere pure quello. Nei giorni scorsi la compagnia petrolifera Pdvsa ha ceduto ai russi di Rosneft il 49,9% della sua sussidiaria americana Citgo, come collaterale per un prestito di Mosca di cui Caracas ha bisogno per evitare il default. E anche se l’operazione riuscisse, diversi analisti prevedono che a settembre il Venezuela si troverà di nuovo sull’orlo del fallimento, senza però avere più questa risorsa da cedere allo scopo di evitarlo. Per cercare di conservare un po’ di consenso, il governo aveva lanciato il piano dei Clap, cioè i comitati locali di assistenza, che al prezzo politico di 10.000 bolivares, un paio di dollari, distribuiscono ai poveri buste di generi alimentari per la sopravvivenza. A patto che partecipino a tutte le marce indette dal regime e facciano i bravi. Solo che l’obiettivo era raggiungere almeno 8 milioni di persone, cioè 8 milioni di voti in vista delle prossime elezioni, ma la distribuzione si è fermata a circa la metà. Questa miseria sta alimentando la violenza criminale, al momento ancora più grave di quella politica. Ogni giorno in Venezuela muoiono circa 80 persone uccise dalla delinquenza, e Caracas è ormai la città più pericolosa del continente. A ciò si aggiungono i colectivos, cioè i gruppi paramilitari che difendono il regime sparando contro gli oppositori. Li riconosci per la strada, quando sfrecciano sopra moto di alta cilindrata senza la targa. Sono armati, e ormai non vengono utilizzati solo per reprimere le manifestazioni degli oppositori, ma anche per tenere sotto controllo le "favelas", dove il consenso per il chavismo sta svanendo e cresce la voglia di riversarsi sulla capitale per far esplodere il malcontento. Tutto questo c’è dietro alle proteste, che ieri hanno marciato su Ramo Verde, il carcere dove sono rinchiusi i detenuti politici, come i leader dell’opposizione Leopoldo Lopez e Gilber Caro. Altri, come l’ex sindaco di Caracas Antonio Ledezma, sono agli arresti domiciliari, accusati di aver complottato contro lo Stato o preso fondi pubblici, spesso senza portarli neppure in tribunale. Henrique Capriles, avversario di Maduro nelle presidenziali del 2013, è invece libero ma interdetto dai pubblici uffici. Giovedì, partecipando alla manifestazione di Altamira per ricordare Juan Pernalete, ha denunciato: "Maduro è un genocida, chiediamo le elezioni anticipate". Nel frattempo l’Asamblea Nacional, riunita fuori dalla sua sede dove non può più entrare, ha approvato un documento in cui afferma che dopo la repressione violenta il governo non è più legittimato a guidare il Venezuela, chiude la porta alla mediazione tentata a fine anno dal Vaticano, e chiede di andare subito al voto. Il bivio, che potrebbe portare il paese alla guerra civile. Maduro, infatti, sa che perderebbe le elezioni vere e non intende cedere. L’esercito finora è rimasto con i chavisti, anche se il consenso tra i ranghi scricchiola, ma se decidesse di cambiare posizione, come spera l’opposizione, si rischierebbe lo scontro diretto con i colectivos armati. I manifestanti invece non hanno molto, oltre alle molotov, e se questo li rende moralmente superiori, li espone alla repressione. Il Parlamento Europeo e la responsabile Ue degli Esteri Mogherini hanno chiesto le elezioni, come Roma, che però deve preoccuparsi anche dei circa 150.000 italiani e oltre un milione di oriundi che vivono nel Paese. Il presidente Trump giovedì ha detto che "il Venezuela è un disastro", ma Washington è prudente perché teme che le sue critiche rafforzino Maduro, oppure accelerino una crisi che esploderebbe alle sue porte con migliaia di rifugiati. Il regime spera di fiaccare l’opposizione, però sul piano economico ha le spalle al muro, e l’anno prossimo comunque dovrebbe tenere le presidenziali. Se un Venezuela così arriverà all’anno prossimo.