"Detenuti psichiatrici, così si torna indietro" di Veronica Capucci La Nuova Ferrara, 28 aprile 2017 Digiuno di protesta contro le modifiche alla legge di ordinamento penitenziario Fiorentini (Si) e Baraldi (Pd): "È la riapertura degli Opg sotto mentite spoglie". Un digiuno a staffetta per dire no al ritorno sotto mentite spoglie degli Ospedali psichiatrici giudiziari. Un digiuno iniziato da Franco Corleone, Commissario unico per il superamento degli Opg, continuata da Leonardo Fiorentini, consigliere di SI, lo scorso 19 aprile, e l’altro ieri dalla consigliera Ilaria Baraldi (Pd). Il timore concreto è che la legge 81 del 2014, che ha fatto fare un grande balzo in avanti al nostro Paese in termini di civiltà, e che ha sancito la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, individuando come soluzione terapeutica e sanitaria per gli autori di reati prosciolti per infermità mentale l’istituzione di Residenze per le misure di sicurezza, (Rems), venga superata dall’introduzione in Parlamento di "Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario". Tali modifiche, se approvate, consentono l’inserimento nelle Rems di autori di reati, a cui siano sopraggiunte patologie psichiatriche durante il regime di detenzione. Così facendo, si tornerebbe ai vecchi Opg o a un loro ritorno sotto mentire spoglie. "La chiusura nel 2014 dei manicomi criminali è stato un atto di grande civiltà -ha esordito il consigliere Leonardo Fiorentini, - ma purtroppo, l’ultimo provvedimento in discussione ora alla Camera dopo avere ricevuto la fiducia del Senato, ha visto l’inserimento di un emendamento che riapre la strada alla trasformazione delle Rems in ospedali psichiatrici giudiziari". Marcello Marighelli, Garante regionale dei detenuti, ha spiegato la nascita della legge 81/2014, in seguito alla visione di immagini di persone rinchiuse negli ospedali psichiatrici giudiziari, e portati alla luce dalla commissione presieduta dal senatore Marino. Da quel documento si sono poi mobilitate varie iniziative e sono state così realizzate le Rems, strutture residenziali destinate ai prosciolti in condizione di infermità mentale. "L’Emilia Romagna ha due Rems, una a Bologna e una a Parma, con 14 e 10 posti letto. Nel biennio 2015/17 sono state 49 le persone ospitate e 25 le dimesse. Le Rems si caratterizzano infatti per essere luogo terapeutico, con équipe sanitaria qualificata, e dove l’attività terapeutica dà buoni risultati e le persone sono responsabilizzate. Il timore ora è che il percorso venga vanificato se il Parlamento approva le modifiche". Franco Corleone ha ricordato come le Rems abbiano "alcuni pilastri: la territorialità, per permettere alle persone ricoverate un più facile inserimento nel territorio, il numero chiuso, (la più grande ha 20 posti), il rifiuto della contenzione meccanica". Ilaria Baraldi ha sottolineato come l’abuso del voto di fiducia possa creare danni "speriamo rimediabili. Proseguiamo il digiuno a staffetta finché non saranno accolte le nostre richieste". Il dialogo oltre le sbarre di Raffaele Natalucci Città Nuova, 28 aprile 2017 Luci e ombre del sistema carcerario italiano: il sovraffollamento, i suicidi, i tentativi di togliersi la vita. Ma anche le esperienze di collaborazione con organizzazioni esterne, come l’incontro tra i giovani del Movimento dei Focolari di Roma e il comitato dei detenuti di Rebibbia. Il lavoro, la festa e la condivisione per ridare speranza Il 21 marzo 2017, al termine del primo anno di attività, il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale ha presentato una relazione al Parlamento. Fra le positività rilevate spicca il sistema minorile, che nel suo complesso sembra funzionare, grazie anche all’istituto della messa alla prova, nonché la chiusura di tutti gli Ospedali psichiatrici giudiziari (OPG). Le criticità attengono al sovraffollamento e alla scarsa qualità della vita detentiva: mancano attività e progetti di reinserimento e la presa in carico delle persone detenute con problemi psichici va a rilento con grave disagio per i pazienti. Seppure in diminuzione rispetto agli anni scorsi, inoltre destano preoccupazione gli ultimi dati: soltanto da gennaio, 12 persone si sono tolte la vita in carcere, mentre i tentati suicidi sono 140 e i casi di autolesionismo 1.262. Secondo Donato Capece, segretario generale del Sappe (Sindacato autonomo Polizia Penitenziaria), negli ultimi 20 anni le donne e gli uomini della polizia penitenziaria hanno sventato, nelle carceri del Paese, più di 21mila tentati suicidi, ogni 24 ore si verificano, in media, 23 atti di autolesionismo a fronte di carenze di organico pari a 7mila agenti. Come riporta il dossier del Senato del 2017 sulle carceri italiane "a partire dal 2016 il tasso di affollamento del nostro sistema carcerario appare in lenta risalita. Nel 2016 la popolazione detenuta è salita a 50. 228, con un tasso di sovraffollamento pari al 109%. A febbraio 2017 i detenuti sono circa 56mila, con un tasso di sovraffollamento intorno al 111%". Dopo vari interventi "emergenziali" come l’indulto del 2006, secondo il dossier, con la legge n.67/2014 il Parlamento è intervenuto "in modo strutturale nel processo penale ordinario, attraverso la sospensione del procedimento penale e la messa alla prova dell’imputato, (..) delegando il Governo ad introdurre pene detentive non carcerarie, a disciplinare la non punibilità per tenuità del fatto e ad operare una articolata depenalizzazione". Il nostro Paese, conclude il dossier, è ancora lontano dal garantire il pieno rispetto della dignità del detenuto. Consapevoli di tali nodi irrisolti, lo scorso 8 aprile, i giovani del Movimento dei Focolari di Roma hanno incontrato il Comitato G9 che prende il nome dall’omonimo reparto del carcere di Rebibbia: sette persone che, pur scontando una pena detentiva, hanno scelto di realizzare attività in favore degli altri detenuti e dell’intero complesso penitenziari, o diventando un esempio di cui le educatrici e il personale di polizia vanno orgogliosi. Da due anni, insieme a loro, i giovani del Movimento dei Focolari organizzano attività, giochi e spettacoli all’interno del carcere coinvolgendo 300 persone, fra detenuti, bambini, familiari, e 60 volontari provenienti dall’esterno. L’obiettivo dell’incontro era quello di dare vita ad un vero e proprio progetto sulla legalità frutto del dialogo alla pari fra i giovani, i detenuti, le educatrici, e destinato in primis a chi vive la detenzione con alcuni momenti aperti all’esterno. In un clima di ascolto e stima reciproca si è delineato un percorso articolato in una serie di tappe. Attraverso libri, cineforum, esperienze e dialogo con esperti, nei prossimi mesi verranno affrontati temi come: l’integrazione fra culture, il dialogo interreligioso, la legalità del noi, la riscoperta dei propri talenti e attitudini nell’ottica di un futuro reinserimento professionale, la psiche e le relazioni interpersonali. Uno dei detenuti ha ottenuto il permesso premio per partecipare al "Villaggio per la terra" svoltosi a Villa Borghese a Roma dal 22 al 25 aprile, per esporre, grazie alla cooperativa Man at work, prodotti realizzati in carcere. "Svolgere dei lavori all’interno del carcere" -spiega uno degli interessati - "significa molto. Prima impiegavo le mie capacità in attività illegali, quello che facevo però era come un gelato d’estate: si scioglie al sole. Organizzare manifestazioni sportive o iniziative a favore dei figli degli altri detenuti invece vale cento volte il salario. Spesso il carcere taglia i ponti con l’esterno e l’abbandono crea mostri". In quest’ottica i giovani hanno proposto di svolgere dei laboratori insieme ai detenuti in occasione del "Roma Summer Campus" (un campo estivo che si svolgerà dal 25 luglio al 3 agosto nelle periferie della Capitale) e di realizzare una festa nel cortile interno di Rebibbia, rivolta ai partecipanti al Campus. È, infatti, proprio durante l’estate che il personale penitenziario si trova a fronteggiare il picco dei suicidi, un periodo che coincide con il calo drastico della presenza di associazioni e di volontari. "Oggi più che mai abbiamo percepito l’assenza completa di barriere" -racconta uno dei giovani dei Focolari. "Abbiamo avuto la testimonianza diretta che non esistono mura inespugnabili e che liberandoci dalla gabbia dei pregiudizi o degli errori commessi è possibile rinascere a vita nuova". Legittima difesa, svolta Pd: "Giusto difendersi a casa" di Errico Novi Il Dubbio, 28 aprile 2017 Il renziano Vazio: non tocca al giudice misurare la paura. Avvicinamento agli alfaniani sul no a perizie psichiatriche per chi è "turbato" dall’intrusione e sulla presunzione di innocenza per chi reagisce nel proprio domicilio. Che ci fosse aria di distensione sulla giustizia era già chiaro da alcuni segnali inviati da Angelino Alfano durante l’intervista a Corriere live di mercoledì sera: "Non saremo noi a far cadere tutto", aveva detto il ministro degli Esteri e leader di Ap a proposito del ddl penale. Svanisce dunque l’ipotesi che i centristi possano chiedere, nell’esame alla Camera, quelle modifiche alla riforma del processo invocate dai penalisti, in particolare su prescrizione e partecipazione a distanza dei detenuti. Ma dell’avvicinamento in corso tra Alternativa popolare e Pd ieri si è avuta conferma sul tema che davvero aveva creato attriti, la legge sulla legittima difesa. Il vicepresidente della commissione Giustizia Franco Vazio, renziano entrato in polemica con Orlando per le mancate ispezioni su Woodcock, ha assicurato di essere "per la legittima difesa e non per la legittima vendetta: niente far west". Ma ha poi allargato un po’ le maglie dell’unica modifica che i dem erano stati finora disposti a concedere, quella sul "grave perturbamento psichico" come ulteriore "causa di errore che porta all’esclusione della colpa" per chi reagisce con le armi all’aggressore. Si tratta dell’intervento sull’articolo 59 del codice penale, che prevede un’ulteriore limite all’accusa di eccesso colposo di legittima difesa. Vazio spiega che "non possiamo gravare il giudice di una valutazione circa il grado del turbamento: se c’è un errore indotto dal rapinatore, quanto sia turbata la vittima è irrilevante. Il giudice non può e non deve stabilire ex post se e quanto sia necessario e giusto avere paura per difendersi legittimamente". Di fatto dovrebbe così venir meno la necessità di sottoporre a perizia psichiatrica chi reagisce a un’intrusione nel proprio domicilio. È questa l’ipotesi per cui era insorta l’Italia dei valori, che sul tema ha raccolto 2 milioni di firme a sostegno di una legge d’iniziativa popolare. Con l’Idv Alfano, non a caso, ha stabilito una "alleanza di scopo". E la precisazione di Vazio piace molto al capogruppo di Alternativa popolare in commissione Giustizia, Nino Marotta, che accoglie "con favore" le parole del deputato dem. Tanto più che quest’ultimo annuncia addirittura modifiche ancora più incisive: "Occorre costituire una presunzione, e cioè che nei casi di violazione di domicilio si presuma fino a prova contraria che il rapinato abbia agito per legittima difesa". Sarebbe un’inversione di marcia netta rispetto alla posizione espressa fin qui dal Pd. "Sarà il giudice a valutare i fatti, ma a chi è stato rapinato non dovrà anche essere chiesto di fornire una prova che potrebbe essere insidiosa e paradossale: gli emendamenti che ho presentato vanno proprio in questa direzione". Una svolta che non piace ai deputati "orlandiani" Marco Di Lello, Giuseppe Berretta e Giuseppe Guerini. Ma che a questo punto non pare più reversibile. Legittima difesa, svolta Pd: presunzione di innocenza di Sara Menafra Il Messaggero, 28 aprile 2017 A ripescare l’argomento dall’ingombro cesto del dimenticatoio ci ha pensato Matteo Renzi. Due sere fa, durante il confronto con gli altri candidati alle primarie del Pd su Skytg24 ha detto che sulla legittima difesa "dobbiamo fare di più, spiace dirlo ma è così, punto". In contemporanea, la discussione ha ripreso vita anche in commissione Giustizia alla Camera e la prossima settimana si tornerà a votare in aula, a partire da mercoledì. Due i paletti, uno di merito e l’altro politico: nel merito, i Dem, nonostante le perplessità di alcuni ministri, sarebbero disposti a rafforzare la legge stabilendo che in ogni caso di rapina domestica si "presume" l’innocenza della vittima del furto, fino a prova contraria. Dal punto di vista politico, anche in vista del possibile trionfo di Renzi alle primarie, la mediazione con i centristi è tornate imprescindibile. Dunque, quello che fino a ieri sembrava un tabù ora pare essere diventato un tema importante per i Dem e un utile argomento di mediazione con i centristi. Alla quadratura del cerchio lavora il responsabile giustizia del Pd David Ermini, già relatore sul testo e autore dell’emendamento di maggioranza fermo da un anno tra commissione e aula. A formalizzare l’apertura di merito è Franco Vazio, vice presidente della commissione giustizia della Camera, renziano di ferro: "Occorre costituire una presunzione, e cioè che nei casi di violazione di domicilio si presuma fino a prova contraria che il rapinato abbia agito per legittima difesa - spiega. Sarà il Giudice a valutare i fatti, ma a chi è stato rapinato non dovrà anche essere chiesto di fornire una prova che potrebbe essere insidiosa e per certi versi difficile e paradossale". Questa modifica si aggiungerebbe a quella già ipotizzata in passato, relativa all’errore dell’aggredito: "In riferimento all’errore che escluderebbe la punibilità, non possiamo gravare il Giudice di una valutazione del grado di turbamento: se c’è un errore indotto dal rapinatore, quanto sia turbata la vittima è irrilevante". La proposta di Vazio, se confermata dal relatore Ermini, sposterà il Pd su un punto che fino a qualche settimana fa sembrava per tutti irrinunciabile: non intervenire sul merito della legittima difesa (articolo 52) ma occuparsi solo delle cause di errore della vittima del furto (articolo 59 del Codice penale) come avevano detto più volte, anche in consiglio dei ministri, Anna Finocchiaro e il titolare della giustizia Andrea Orlando. Al di là del merito, se davvero questa proposta diventerà quella dei Dem sarà un piccolo assaggio del Nazareno dopo le primarie per il segretario: una organizzazione nella quale Renzi tornerà a decidere strategie e tattiche. A cominciare dalla riscoperta dell’accordo con i centristi. Alternativa popolare ha fatto della modifica del testo sulla legittima difesa una battaglia simbolica, sulla quale si è detta pronta a votare in dissenso dal governo. La mediazione sulla presunzione di innocenza per l’aggredito, invece, potrebbe convincerli a siglare una nuova tregua coi dem. Niente più carcere per le pene fino a 4 anni di Luca Fazzo Il Giornale, 28 aprile 2017 Il tribunale: i condannati direttamente ai servizi sociali. Quattro anni di carcere sono una pena importante, che in genere viene inflitta per reati di una certa gravità. Ma ora il tribunale di Milano stabilisce che anche davanti a sentenze di questa entità il condannato possa evitare il carcere, andando direttamente in affidamento ai servizi sociali senza nemmeno passare per la prigione. Una sentenza innovativa, contro la quale la Procura probabilmente ricorrerà in Cassazione, ma che sembra costituire un passo avanti del fronte garantista nella eterna lotta tra fautori della rieducazione e teorici della repressione. La sentenza - resa nota nei giorni scorsi dal sito specializzato giurisprudenzapenale.com - è stata pronunciata dal giudice Maria Idria Gurgo di Castelmenardo, della 11esima sezione penale, e ha salvato dall’ingresso a San Vittore una filippina di 41 anni condannata a tre anni e nove mesi per usura ed estorsione. Secondo la prassi seguita finora, la donna - dopo chela Cassazione aveva reso definitiva la sua condanna - sarebbe dovuta finire in cella ad espiare la sua pena: la sospensione automatica dell’esecuzione della pena per dare e modo al condannato di chiedere come misura alternativa l’affidamento in prova ai servizi sociali, è infatti prevista dalla legge solo per pene non superiori ai tre anni. Così la Procura della Repubblica aveva fatto partire l’ordine di carcerazione. Ma il difensore della donna ha fatto ricorso al tribunale, sostenendo che il limite di tre anni è illogico, visto che dal 2013 il cosiddetto "decreto svuota carceri" voluto dal ministro della giustizia Andrea Orlando prevede che tutti i detenuti cui restano da scontare meno di quattro anni di pena detentiva possano chiedere di uscire di prigione chiedendo l’affidamento in prova. Allora che senso ha, sosteneva in sostanza il difensore della donna, chiudere il condannato in carcere se appena entrato può chiedere di uscire? Risparmiamogli tempo e traumi, e concediamogli di venire affidato senza passare per la cella. Oltretutto, come rimarca nel suo commento l’avvocato Valentina Alberta, una volta entrati in carcere i condannati per uscire devono attendere i tempi assai lunghi del tribunale di sorveglianza, chiamati a decidere sull’istanza di affidamento: imponendo "inutili, prolungati ed evitabili periodi di detenzione". E il giudice ha dato ragione al difensore della filippina: "apparirebbe assolutamente illogico - scrive la Gurgo di Castelmenardo - un percorso deflattivo della popolazione carceraria unicamente in uscita e non anche in entrata". Ordine di carcerazione annullato: la donna attenderà a piede libero di sapere in quale ente andrà a pagare lavorando il suo debito verso la società. In carcere chi froda l’Ue Italia Oggi, 28 aprile 2017 Via libera degli stati Ue alla direttiva contro le frodi sui fondi europei. La tutela degli interessi finanziari dell’Unione richiede il perseguimento penale di ogni condotta fraudolenta. Le sanzioni per le persone fisiche dovrebbero prevedere, in taluni casi, una pena massima di almeno quattro anni di reclusione, includendo almeno i reati in cui siano stati arrecati danni o ottenuti vantaggi considerevoli per un valore superiore a 100 mila euro. Lo prevede una direttiva approvata dal Consiglio dei ministri dell’Unione, nei giorni scorsi (il 5 aprile 2017). La finalità della normativa è stabilire regole riguardo la definizione di reati e di sanzioni nell’ambito della lotta contro le frodi e le altre attività illegali che ledono gli interessi finanziari dell’Unione, per contribuire efficacemente ad una maggiore protezione contro la criminalità. La tutela degli interessi finanziari Ue richiede una definizione comune di frode, che dovrebbe ricomprendere la condotta fraudolenta dal lato delle entrate, delle spese e dei beni ai danni del bilancio generale dell’Unione, incluse operazioni finanziarie quali l’assunzione e l’erogazione di prestiti. La corruzione costituisce una minaccia particolarmente grave per gli interessi finanziari dell’Unione e può essere in molti casi legata a condotta fraudolenta. Poiché tutti i funzionari pubblici hanno il dovere di esercitare il proprio giudizio o la propria discrezionalità in modo imparziale, secondo la direttiva Ue la dazione di tangenti per influenzare il giudizio o la discrezionalità di un funzionario pubblico e la ricezione di tali tangenti dovrebbero rientrare nella definizione di corruzione, indipendentemente dal diritto o dalle disposizioni applicabili nel paese o all’organizzazione internazionale di appartenenza del funzionario interessato. Possono ledere gli interessi finanziari Ue le condotte di funzionari pubblici incaricati della gestione di fondi o beni, che mirano all’appropriazione indebita degli stessi, per uno scopo contrario a quello previsto. Dunque, per la direttiva Ue va introdotta una definizione precisa dei reati in cui rientrino tali tipi di condotta. La tutela degli interessi finanziari Ue richiede una definizione comune di frode, che dovrebbe ricomprendere la condotta fraudolenta dal lato delle entrate, delle spese e dei beni ai danni del bilancio generale dell’Unione, comprese operazioni finanziarie quali l’assunzione e l’erogazione di prestiti. Norme minime. La direttiva stabilisce soltanto un quadro di norme minime, pertanto gli Stati membri avranno facoltà di mantenere in vigore o adottare regole più rigorose. Qualora il diritto di uno Stato non preveda una soglia esplicita per un danno o per un vantaggio considerevole quale base per la pena massima, lo Stato dovrebbe assicurare che i suoi tribunali prendano in considerazione l’entità del danno o del vantaggio in sede di determinazione delle sanzioni per le frodi e gli altri reati che ledono gli interessi finanziari Ue. Per i reati contro il sistema comune Iva, la soglia al raggiungimento della quale il danno o il vantaggio dovrebbe essere presunto considerevole è pari a 10 milioni di euro. No alla confisca: il pm può impugnare di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 28 aprile 2017 Corte di cassazione - Sentenza 20215/2017. Il pubblico ministero può impugnare il decreto con il quale il giudice rigetta la sua richiesta di applicare la confisca, anche nel caso la misura di prevenzione non sia preceduta dal sequestro. Con la sentenza 20215 depositata ieri le Sezioni unite della Cassazione mettono fine al contrasto sul punto e colmano una lacuna del Codice antimafia e delle misure di prevenzione (Dlgs 159/2011). La diversità di vedute nasce dalla lettura dell’articolo 27 (commi 1 e 2) che, nell’elencare i provvedimenti in materia di misure di prevenzione patrimoniali contro i quali può essere proposta l’impugnazione "dimentica" il no alla confisca, non preceduta da sequestro, richiesta dal pm. La giurisprudenza si è spaccata. Per i fautori dell’interpretazione letterale del Dlgs il principio di tassatività dei mezzi di impugnazione non consentirebbe di ampliare l’ambito di applicazione della norma fino a comprendere anche il rigetto della richiesta di confisca non preceduta dal sequestro. Chi sostiene la necessità di un’interpretazione estensiva dà un peso soprattutto alla necessità di sanare la difformità di trattamento tra situazioni analoghe oltre che il vulnus arrecato al principio di parità tra accusa e difesa. Le Sezioni unite si schierano per l’appellabilità, prendendo le distanze dall’affermazione secondo la quale il sequestro sarebbe "propedeutico" alla richiesta di confisca e la sua esistenza pregressa sarebbe il presupposto per l’appellabilità. I giudici ricordano che anche le Sezioni unite (sentenza 36/2000) non indicano assolutamente come necessaria, ai fini dell’applicazione della confisca, la sottoposizione dei beni al sequestro. È infatti del tutto compatibile con una corretta procedura il sequestro contestuale alla confisca disposto con uno stesso atto. È possibile - e in linea con il sistema normativo e con i principi giurisprudenziali - che la richiesta di confisca sia proposta relativamente a beni non sottoposti prima a sequestro con un provvedimento autonomo e che, di conseguenza, il suo rigetto non implichi, un contestuale provvedimento di revoca del sequestro. La soluzione adottata pone rimedio all’irrazionalità di una lettura che crea un’ingiustificata disparità nel regime delle impugnazioni, negando l’impugnabilità del diniego di confisca quando l’articolo 10 della stessa norma prevede un’ampia impugnabilità dei provvedimenti in materia di misure di prevenzione personali. Altrettanto minata sarebbe la parità tra accusa e difesa: il pm sarebbe privato di un potere di impugnazione concesso al contrario quando il giudice si esprima in favore della misura. Secondo le Sezioni unite la lacuna è il frutto del presupposto sbagliato dal quale è partito il legislatore, il quale non ha tenuto conto della possibilità che la confisca venga richiesta senza sollecitare prima il sequestro dei beni. La prova che si tratta di una "svista" sta nel fatto che lo stesso legislatore sta rimediando con il disegno di legge che modifica il decreto legislativo in questione, approvato dalla Camera dei deputati l’11 novembre 2015 (e ora all’esame in Commissione al Senato). Nel Dl l’elenco dei provvedimenti impugnabili è, infatti, integrato con l’inserimento dei provvedimenti di applicazione o diniego del sequestro e appunto di "rigetto della richiesta di confisca anche qualora non sia stato precedentemente disposto il sequestro". Per i giudici anche se il sopravvenuto intervento non ha una portata decisiva è comunque la dimostrazione di una volontà di rimediare ai "vuoti" del testo vigente. Appello al Papa: "mio marito innocente rovinato dal carcere… Francesco aiutaci" Il Dubbio, 28 aprile 2017 L’appello al Papa di una famiglia distrutta da accuse infondate, pagate con un cancro e un ictus. Commento di Rita Bernardini* - Antonietta è una donna di Roma che scrive al Papa e ai magistrati raccontando la vicenda del marito. Una famiglia italiana letteralmente travolta dalla giustizia e dal carcere. Attenzione, stiamo parlando di una famiglia "normale": lei impiegata ad alti livelli in banca, lui odontotecnico, poi laureatosi anche in medicina. Certo, lui con problemi di tossicodipendenza, ma seguito amorevolmente dalle cure dei suoi affetti più prossimi. Tutto avrebbe potuto risolversi con le "risorse" della famiglia e, per quella famiglia, anche con la preziosissima risorsa della fede (che io non ho). Ma ad un certo punto, tanti anni fa, è arrivato per il marito il processo, e poi il carcere e con essi l’ingigantirsi dei problemi. Subire la gogna del processo e lo stigma del carcere comporta conseguenze gravissime anche se - a distanza di anni - ci si ritrova con una perfetta assoluzione, come è accaduto al marito della signora. Perché può capitare (e capita) che l’uomo "assolto", nel frattempo, sia divenuto "altro" da quello che era prima di subire il carcere ingiusto e quelle che prima erano le normali difficoltà della vita divengano pesi insopportabili da portare: la dipendenza da sostanze illecite e le malattie possono travolgerti fino a coinvolgere nella disperazione gli affetti più cari. Oggi, pensate, il problema più imminente e lacerante per quest’uomo (e per la sua famiglia) è che il magistrato di Sorveglianza gli conceda l’elemosina di qualche ora in più per potersi curare da un sopraggiunto tumore al fegato. Eh, sì, "brava gente", l’immonda "giustizia" italiana può colpire chiunque, anche chi in buonafede è convinto di essere immune da contaminazioni con il mondo dei reati. *Coordinatrice della Presidenza del Partito Radicale Sua Santità, mi permetto inviare anche a Lei questa lettera indirizzata ai Magistrati in epigrafe, poiché Lei ha sempre dimostrato sensibilità verso i carcerati. Non tutti possono vedere la verità, ma possono esserla. Quando ultimamente ha visitato il carcere San Vittore Lei ha detto ai detenuti: "non bisogna dire: - lo meritate - perché tu non conosci la storia della persona, non sai cosa c’è dietro". Io sono dell’idea che la vera giustizia si otterrà nell’altro mondo, per ora bisogna accontentarsi della legge. La vita talvolta rassomiglia a un lungo e triste sabato santo. Tutto sembra finito, sembra che trionfi il malvagio, sembra che il male sia più forte del bene. Ma la fede ci fa vedere lontano, ci fa scorgere le luci di un nuovo giorno al di là di questo giorno. La fede ci garantisce che l’ultima parola spetta a Dio: soltanto a Dio! Per questo Le chiedo preghiere, affinché ci sia il trionfo del bene sul male. Gliele chiedo anche per tutti quei detenuti, che non ce la fanno a tenere accesa la luce della speranza e che ricorrono al suicidio. Nel 1984 ho iniziato un cammino di fede. Un fratello di comunità, personaggio pubblico, mi ha presentato quello che è diventato poi mio marito, una persona generosa, altruista, onesta, con valori cristiani e buoni principi morali, con un solo difetto: riesce con molta facilità a mettersi nei guai perché in ogni persona vede solo il bene. Svolgeva l’attività di dentista odontotecnico. Successivamente si è laureato in medicina. Io lavoravo come segretaria presso la presidenza di una banca. La nostra vita era tranquilla fatta di persone lavoratrici e perbene. La vicenda nasce quando una persona ha richiesto a mio marito una prestazione odontotecnica. Alla fine del lavoro lo ha invitato alla sua villa vicino Roma adducendo come motivazione che avrebbe provveduto a saldargli quanto dovuto. Mio marito è andato e lui, invece di liquidarlo, gli ha proposto di entrare a far parte dell’organizzazione a livello internazionale da lui gestita, finalizzata allo spaccio di stupefacenti per l’acquisto di armi da destinare a un paese del Medio Oriente. Mio marito ha rifiutato. Siamo venuti solo successivamente a sapere che questo individuo era sottoposto a intercettazioni ambientali e telefoniche da parte dell’A. G. Ovviamente, essendosi parlati, anche mio marito è stato intercettato. Nell’aprile del 1986, è stato arrestato e condotto nel carcere Regina Coeli con l’accusa di associazione a delinquere e spaccio di droga (rischiava 25 anni di carcere), vi è rimasto per tutta la durata dell’istruttoria: due anni. Successivamente è iniziato un maxi processo durato vari mesi, con più di 100 imputati. Mio marito è stato assolto con formula piena sia in primo grado che in secondo grado di giudizio, su richiesta del Pm. All’epoca non era ancora uscita la legge che risarcisce le vittime di ingiusta detenzione, di chi innocente è stato in carcere. Come è risaputo, il carcere non rieduca, non recupera, il più delle volte abbrutisce e degrada. Il periodo trascorso in carcere è stato sufficiente a produrre gli effetti negativi della detenzione: ad esempio la perdita lavoro, dei contatti con la famiglia e con l’ambiente esterno; ha subito inoltre la contaminazione carceraria e le conseguenze indelebili e stigmatizzanti della reclusione e della desocializzazione. Non c’è di fatto recupero sociale se l’atteggiamento nei confronti del cittadino detenuto o del detenuto liberato, in special modo se è innocente, continua ad essere ispirato ad una ideologia punitiva che, come il marchio di infamia, perpetua la condanna di desocializzazione, producendo anzi un vero e proprio declassamento sociale del cittadino condannato che, pagato il debito verso la società, non è di fatto ricondotto ad una situazione di pari dignità sociale ed incontra maggiori ostacoli allo sviluppo della sua personalità nella proiezione della convivenza sociale. Tale mentalità si è proiettata anche nei miei riguardi e di mia figlia, che eravamo suoi parenti stretti. Io ho dovuto dire addio alla mia carriera bancaria e mia figlia è stata oggetto di episodi di bullismo verbale. Nonostante tutto, mio marito, dopo un periodo burrascoso, in cui ha vissuto come se avesse due vite parallele, grazie all’aiuto della famiglia, composta da persone umili, oneste e con forti radici cristiane, ha seguitato ad essere ben inserito in un contesto sociale e ben considerato nell’ambiente lavorativo. In precedenza la sua clientela era selezionata, composta in particolare da medici odontoiatri che gli commissionavano il lavoro. Dopo l’esperienza del carcere ha iniziato ad avere un rapporto diretto con i destinatari di apparecchi ortodontici, che però erano gli emarginati, gli ultimi, i poveri, i rifiuti della società, coloro che non si potevano permettere tali prestazioni, li trattava con amore e rispetto ed era sempre disponibile con tutti, la maggior parte delle volte non si faceva pagare e/ o chiedeva cifre irrisorie. Nel 2008 è stato ricoverato in ospedale per cirrosi epatica con ascite scompensata. In questi anni ha sofferto di iper-ammoniemia (elevata concentrazione di ammonio nel sangue). Con l’evoluzione della malattia ha iniziato a manifestare: confusione mentale, atassia, disorientamento e deficit cognitivi, che associati alla sofferenza psichica derivante dallo shock della detenzione e problemi di varia natura, si è alimentato una sorta di circolo vizioso, con il conseguente aggravarsi di un disagio psichico con disturbi della personalità. Nel luglio 2015, si è presentato un amico a chiedere ospitalità, che mio marito gli ha concesso, perché sia lui che la mamma anziana erano stati sfrattati e dormivano in macchina e lui era disoccupato. Dopo qual detenuto che giorno sono stati arrestati sia mio marito che il suo amico, che attualmente è ricoverato nel Reparto Psichiatrico di un carcere. Data la gravità della sua malattia, dal carcere, per ben due volte, mio marito è stato trasportato d’urgenza con codice rosso in ospedale, dove è stato ricoverato per parecchi giorni. Nonostante fosse piantonato da due guardie carcerarie, ha tentato il suicidio: ha dato l’allarme una infermiera. Una volta dimesso dall’ospedale è stato trasferito nel Reparto Psichiatrico del carcere. Successivamente è intervenuto il medico legale del Tribunale, che ha disposto quale forma detentiva, gli arresti domiciliari urgentissimi. Prima che uscisse dal carcere, il 1/ 1/ 2016 sono andati a fargli visita, direttamente nella sua cella, dimostrandogli un po’ di calore e di umanità: Marco Pannella, Rita Bernardini, Roberto Giachetti e la direttrice del carcere. La stessa, non ritenendolo una persona pericolosa, lo aveva allocato alla sesta sezione a vigilanza dinamica. Una volta a casa, dopo pochi mesi ho iniziato io a stare male. Nel mese di luglio e agosto dello scorso anno molte autorizzazioni non sono pervenute e nel frattempo la situazione clinica di mio marito è precipitata: gli è stato diagnosticato un tumore al fegato. Quindi è stato ricoverato urgentemente in ospedale dove vi è rimasto per due mesi. Durante la sua degenza ha contratto tre tipi di infezioni ed è stato in pericolo di vita. Una volta dimesso io sono stata costretta ad andarmene di casa, perché affetta da varie patologie invalidanti, nonché una forte depressione con istinti suicidi. Avendo problemi di deambulazione, ho difficoltà anche ad andare dal medico curante. Ad aprile del 2015 sono stata ricoverata in ospedale per ictus. Quindi mio marito è dal mese di novembre 2016 che vive da solo: ha il permesso di uscire per sole due ore dalle 9 alle 11. Avrebbe bisogno di assistenza medica e psicologica, ma a casa non può venire nessuno. Ha saltato molte visite specialistiche, e analisi, per i seguenti motivi: per richiedere il certificato da far pervenire al giudice per il rilascio dell’autorizzazione alla visita specialistica o per effettuare le analisi, bisogna recarsi in ospedale e ci vogliono in media 5 ore, tempo di andata e ritorno, e lui ha il permesso di allontanarsi per sole due ore. Fisicamente non ha le forze, considerata la gravità della sua malattia. L’avvocato per ogni istanza che invia al giudice vuole essere pagato. Mio marito quale suo unico reddito, percepisce una pensione di invalidità di 270€ mensili, mentre la mia unica fonte di reddito è la pensione Inps che non ricopre tutte le spese da sostenere. A breve dovrebbe essere ricoverato di nuovo perché non ha risposto alle cure effettuate per il tumore. Ciò che ci sostiene e ci ha sostenuto fino ad ora sono le nostre preghiere e quelle delle persone che ci conoscono, che noi abbiamo aiutato nel corso della nostra vita. Calabria: Garante dei detenuti; il Consiglio regionale audisce il Radicale Quintieri Ristretti Orizzonti, 28 aprile 2017 È prevista per questa mattina, alle ore 11,30, presso l’Aula delle Commissioni del Consiglio Regionale della Calabria, l’audizione di Emilio Enzo Quintieri, attivista per i diritti dei detenuti del Movimento Nazionale dei Radicali Italiani. L’esponente radicale calabrese, capo della Delegazione visitante gli Istituti Penitenziari autorizzata dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia, sarà audito dalla Prima Commissione Consiliare "Affari Istituzionali, Affari Generali e normativa elettorale" presieduta dal Consigliere Regionale Franco Sergio (Oliverio Presidente) e composta dai Consiglieri Regionali Michelangelo Mirabello (Partito Democratico), Arturo Bova (Democratici Progressisti), Sinibaldo Esposito (Nuovo Centro Destra) e Flora Sculco (Calabria in rete). Alla seduta della Commissione è stato invitato l’Assessore alla Scuola, Lavoro, Welfare e Politiche Giovanili della Regione Calabria Federica Roccisano ed il Dipartimento Sviluppo Economico, Lavoro, Formazione e Politiche Sociali dell’Ente Regionale. L’audizione verterà sull’esame abbinato della Proposta di Legge n. 34/10 di iniziativa del Consigliere Nicola Irto recante: "Istituzione del Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale", presentata il 13 maggio 2015, e della Proposta di Legge n. 221/10 di iniziativa del Consigliere Franco Sergio recante: "Istituzione del Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale e dell’Osservatorio Regionale per le Politiche Penitenziarie", presentata il 21 marzo 2017. Oltre a Quintieri, già membro del Comitato Nazionale di Radicali Italiani, la Prima Commissione del Consiglio Regionale della Calabria, procederà all’audizione dell’Avvocato Gianpaolo Catanzariti del Foro di Reggio Calabria, Referente dell’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Italiane. La Regione Calabria insieme alla Liguria ed alla Basilicata - afferma l’esponente radicale Quintieri - è una delle pochissime Regioni d’Italia a non aver istituito il Garante dei Diritti delle persone detenute o private della libertà personale. Occorre, dunque, che al più presto venga istituito questo organo di garanzia, indipendente, non giurisdizionale, che ha la funzione di vigilare su tutte le forme di privazione della libertà, dagli Istituti Penitenziari, alla custodia nei luoghi di Polizia, alla permanenza nei Centri di Identificazione ed Espulsione, alle Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza, ai Trattamenti Sanitari Obbligatori. Anche perché sul territorio della Regione Calabria, contrariamente a quel che avviene nel resto del Paese, non vi sono nemmeno Garanti Provinciali, Comunali o Metropolitani, fatta eccezione per il Comune di Reggio Calabria ove è stato istituito nel 2006, che possano visitare, senza autorizzazione, gli Istituti Penitenziari per adulti e per minori, le strutture sanitarie destinate ad accogliere le persone sottoposte a misure di sicurezza detentive, le comunità terapeutiche e di accoglienza e le strutture pubbliche e private dove si trovano le persone sottoposte a misure alternative o alla misura cautelare degli arresti domiciliari nonché le camere di sicurezza delle Forze di Polizia ed ogni altro locale adibito o comunque funzionale alle esigenze restrittive e, quindi, vigilare affinché l’esecuzione della custodia delle persone detenute o private della libertà sia conforme ai principi ed alle norme nazionali ed internazionali. Mi auguro, conclude Quintieri, che non si perda più altro tempo ed il Consiglio Regionale, appena la Commissione competente ultimerà i lavori, approvi l’istituzione del Garante e proceda ad avviare l’iter per l’elezione dello stesso. Palermo: alla Casa "Vale La Pena" l’accoglienza per i detenuti in misura alternativa di Serena Termini tuttavia.eu, 28 aprile 2017 Intervista a Piera Buccellato, coordinatrice della struttura. Una giustizia riparativa che metta al centro la persona e la relazione con gli altri nel suo percorso responsabile di crescita umana e sociale. È questo l’obiettivo di Casa "Vale La Pena", la prima comunità di accoglienza in Sicilia, seconda in Italia, del Centro diaconale Valdese della Noce che ospita cinque detenuti in misura alternativa alla detenzione in carcere. Prima che nascesse casa Vale La Pena il centro era già attivo per i detenuti? Il Centro diaconale, in considerazione del delicato tema del sovraffollamento degli istituti penitenziari, in questi ultimi anni a partire dal 2010, si è aperto a nuove proposte progettuali legate alla giustizia riparativa. In questo clima, infatti, ha avviato dei protocolli d’intesa con l’ufficio di Servizio sociale minorile (Ussm) e con l’ufficio esecuzione penale esterna (Uepe) per intraprendere con i soggetti inseriti all’interno del circuito penale dei percorsi di riparazione simbolica del danno. Quando è nata Casa Vale La Pena? Nel 2014 è stata inaugurata casa "Vale La Pena" un centro di accoglienza maschile per detenuti condannati in misura alternativa. La casa, progettata con l’Ufficio di esecuzione penale esterna (Uepe) di Palermo, è stata realizzata grazie alla sensibilità della Federazione delle chiese evangeliche svizzere (Heks) e grazie ad un contributo dell’8 per mille delle chiese valdesi e metodiste. La casa accoglie cinque persone che provengono dall’area penale. Nello specifico si tratta di persone in affidamento all’Uepe, la cui permanenza massima è fissata in 12/18 mesi. Il servizio di accoglienza in comunità residenziale prevede anche un posto per accoglienze brevi ed episodiche in occasione di permessi premio. L’intento è quello di prendere per mano la persona mettendola al centro delle sue scelte per capire come ripristinare il patto tradito con la collettività. Chi può accedervi? Si tratta di persone per le quali il Got (gruppo osservazione e trattamento) prepara una relazione che valuta positivamente la possibilità di avviare questo tipo di percorso. In questo modo si vuole dare alla persona un’opportunità diversa creando una sorta di ponte di passaggio delicato dal dentro al fuori carcere. Dal 2014 ad oggi abbiamo avuto 20 detenuti italiani e stranieri compresi i permessanti. Stiamo registrando anche un aumento delle richieste da parte degli stranieri. Chi entra in Casa Vale La Pena come svolge la sua giornata? La mattina ognuno di loro si dedica a varie attività di volontariato in affiancamento degli operatori per i servizi quotidiani del centro diaconale. Nel nostro microcosmo loro si relazionano con le famiglie e con tutti gli operatori del centro sentendosi autenticamente accolti e riconosciuti come persone e allontanando per quanto è possibile il forte stigma del detenuto. Dei cinque ospiti abbiamo una persona in libertà vigilata, tre in misura alternativa e un posto per un permessante. In alcuni casi ricucite i legami familiari? Nella nostra esperienza abbiamo avuto persone che hanno avuto ricongiungimenti familiari che si sono risolti positivamente. Un posto lo lasciamo sempre per un permesso premio perché sappiamo che all’interno del carcere ci sono persone che non hanno un domicilio e a volte neanche la famiglia vicina. Quando è possibile favoriamo quindi l’incontro con i familiari che generalmente sono dei momenti molto belli. Ricordo che abbiamo fatto incontrare i figli e la moglie ad un ospite che faceva il compleanno ed è stato molto emozionante. La vostra è una formula che funziona? Le nostre esperienze sono state finora tutte positive. Nella persona che viene valorizzata per quello che sa fare e per come si dedica agli altri, cresce l’autostima e quel rapporto di fiducia necessario che gli fa vivere tutto in maniera diversa. Per chi viene da realtà multiproblematiche con uno stato di vulnerabilità sociale molto forte dettata anche da povertà culturale e materiale, lo sforzo è quello di fare riscoprire anche la loro bellezza interiore. In questo modo sentendosi rivalutate come persone, cresce in loro il coraggio e la speranza di cambiamento e di trasformazione della loro vita. Se però la persona a cui viene data la misura alternativa vive in un contesto ad alta densità mafiosa dove non ci sono strumenti culturali di cambiamento il recupero completo diventa molto più difficile ed il rischio della recidiva è molto alto. Quando la persona ha una recidiva ci dobbiamo sentire tutti responsabili, interrogandoci e mettendoci in discussione per riflettere su che cosa abbiamo fatto e dobbiamo ancora fare per migliorare il sistema in generale. Quando escono dalla casa cercate di preparali a quello che sarà il dopo? Casa Vale La Pena è un percorso in cui imparano anche a come andare via da noi che ha a che fare inevitabilmente con il coraggio e la possibilità di mettersi in gioco in cose a cui non erano abituati come l’impegno sociale e lavorativo, il rispetto delle regole e il riconoscimento dei diritti. Il reinserimento sociale non è mai facile. C’è chi è riuscito a stabilizzarsi tornando in famiglia e avendo delle piccole occupazioni lavorative precarie e non sempre regolari. Trovare lavoro a Palermo è difficilissimo nonostante ci si attivi a vario livello per i percorsi di fuoriuscita. Il problema è anche culturale perché la società civile è ancora poco disposta a dare delle opportunità di cambiamento a chi sbaglia a partire dal lavoro. Tutti gli ospiti vivono l’angoscia del dopo come un vuoto che gli fa paura. Si lavora allora anche per alimentare la speranza che aiuterà la persona a cercare di darsi da fare in qualche modo per la collettività. Da dove bisogna partire per migliorare l’immagine di chi ha sbagliato agli occhi della società? Intanto, occorre abbattere in tutti i modi i muri del pregiudizio a partire anche dalla sensibilizzazione sul tema che si può fare nelle scuole, come terreno di semina prioritario, ma anche in altri contesti della società civile. Su questi terreni occorre investire ancora di più proprio per migliorare la percezione sociale nei confronti di chi ha sbagliato - che non deve essere vissuto soltanto in termini di paura e di sicurezza - e allontanando quindi chiusure e stereotipi che bloccano le porte a qualsiasi possibilità di cambiamento personale. Massa Marittima (Gr): biblioteca e carcere uniscono le forze, progetti per il reinserimento grossetonotizie.com, 28 aprile 2017 La Casa circondariale e il Comune di Massa Marittima arricchiscono la loro collaborazione perseguendo insieme l’obiettivo di reinserimento dei detenuti che si apprestano a terminare la loro condanna attraverso strumenti di crescita culturale e relazionale. Stamani, sono stati presentati due nuovi progetti che vedono la partecipazione di noti rappresentanti dell’arte e della letteratura e siglata la convenzione tra le due strutture per lo svolgimento di letture e attività di volontariato in biblioteca da parte degli ospiti del carcere che hanno permessi di uscita. "Un traguardo importante - ha commentato la direttrice della casa dei libri comunale, Roberta Pieraccioli, che giunge nel 150esimo anniversario della struttura, dopo varie iniziative già realizzate con successo da queste due realtà, unite nell’intento di promuovere cultura ed integrazione sociale". Le opportunità offerte dal Comune, in particolare dal settore delle politiche culturali, vedono immediata attuazione con il progetto "Bella storia!" curato dal noto scrittore, apprezzato a livello nazionale, Sacha Naspini, affiancato dalle autrici Valentina Santini e Barbara Guazzini del gruppo Birohazard. Si tratta di un ciclo di incontri in carcere già avviati, durante i quali i detenuti hanno modo di partecipare a un vero e proprio laboratorio di scrittura. Scopo degli appuntamenti è assemblare materiale da riunire al momento opportuno in un’antologia, con racconti, poesie, disegni e pensieri. Da maggio, il laboratorio si evolverà in letture a cadenza mensile, dove saranno presentati alcuni testi scelti dal gruppo di lavoro. Con il supporto nella lettura di Alessandra Simonatti (altra autrice del gruppo Birohazard), verranno approfonditi non solo i romanzi (tematiche, stile, contesto storico, punto di vista sul mondo), ma anche le vicende umane degli autori, i retroscena, le curiosità. "Gli incontri settimanali con i detenuti - ha spiegato Sacha Naspini - hanno già portato a momenti di apertura importanti; la scrittura è uno strumento potente e lo scopo è fornire ai partecipanti gli elementi per la costruzione di una storia. Con le letture cercheremo poi di svelare il resto, tutto ciò che si muove dietro le quinte dei racconti, oltre l’oggetto libro ovvero parlare di dove nascono le grandi storie". Il secondo progetto culturale è invece una mostra che si terrà in carcere dal 2, data di inaugurazione, al 16 maggio, allestita con opere pittoriche e materiche degli artisti Andrea Massaro e Leonardo Cambri, a cura di Patrizia Scapin, dal titolo "Blu d’oltremare scuro". "L’esposizione sarà un percorso intenso - ha commentato la curatrice - che cerca di ricostruire le delicate e spesso tragiche storie dei migranti. Un racconto intimo di tutto ciò che sentiamo ogni giorno intitolato così per richiamare il colore del mare, blu, i luoghi da cui provengono le persone che arrivano e la disperazione simboleggiata dal termine "scuso", che purtroppo sta dietro a molte di queste vicende. Una particolarità dell’iniziativa è che a fare da guida saranno un gruppo di detenuti che stanno formandosi per questo, mentre altri arricchiranno l’evento con letture dedicate al tema". Nel periodo di apertura della mostra sono state organizzate giornate di dibattito a cui parteciperanno anche le scuole, con la presenza di soggetti che si occupano dell’accoglienza dei richiedenti asilo o che conoscono questa realtà. "Cerchiamo di dare un contenuto alle pene - ha dichiarato il direttore della struttura carceraria, Carlo Mazzerbo - e per far questo la cultura è un elemento da cui non si può prescindere. Oltre ai laboratori interni, pensati per gli ospiti che ancora non possono usufruire dei permessi di uscita, cerchiamo anche per gli altri, vicini a fine pena, di favorire il più possibile l’integrazione con la comunità locale e dare loro l’opportunità di sviluppare un positivo senso di appartenenza a questo territorio". La mostra, allestita all’interno dell’area detentiva, sarà visitabile dal 2 al 16 maggio nei giorni del martedì e del sabato, dalle 14.30 alle 16.30, con prenotazione entro la giornata del mercoledì mediante inoltro dei dati anagrafici al fax 0566.905691 oppure via e-mail all’indirizzo cc.massamarittima@giustizia.it. Ravenna: il carcere di Port’Aurea tra i più virtuosi in regione di Federica Ferruzzi settesere.it, 28 aprile 2017 Secondo un recente report sulle carceri curato dal servizio studi del Senato, l’Emilia-Romagna è tra le dieci regioni con un tasso di sovraffollamento carcerario superiore al totale nazionale. Se Bologna presenta la realtà più critica - con 745 detenuti rispetto ad una capienza di 497 - Ravenna è invece tra quelle in cui la situazione, come da stessa ammissione della direttrice Carmela De Lorenzo, "è ancora abbastanza vivibile. Dopo anni di esuberi, ora ci attestiamo su una settantina di presenze". De Lorenzo, una donna minuta per quanto decisa, è alla direzione della casa circondariale di via Port’Aurea dal 2009. Il suo ufficio è pieno di ricordi e di regali di detenuti: imponenti velieri costruiti con bastoncini colorati, un mazzo di fiori realizzati con carta crespa e grande precisione, quadri a tinte forti che esprimono la creatività di chi non può uscire, strumenti musicali tra cui svetta, a grandezza naturale, un’arpa di legno e carta igienica, omaggio ai nove anni di conservatorio della direttrice. De Lorenzo, qual è la situazione, ad oggi? "A Ravenna è presente il carcere più piccolo della regione che, di conseguenza, va in difficoltà prima degli altri. La situazione, però, è sotto controllo e quando superiamo un certo numero di detenuti facciamo richiesta al superiore ufficio del provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, che dà risposta immediata. Sono lontani gli anni in cui si arrivava anche a 180 detenuti". Com’è formata la popolazione carceraria? "Per il 50% è straniera, molti provengono dai paesi dell’Est e, in generale, è presente il problema della tossicodipendenza. La permanenza è breve, c’è un forte turn-over. La maggior parte è dentro per reati contro il patrimonio, spaccio, furti e rapine". Cosa proponete? "Attività scolastica di mattina, laboratori vari nel pomeriggio e colloqui che impegnano la gran parte dei detenuti, per evitare che stiano ad oziare. Le iniziative aumentano sempre: tra le ultime, i laboratori di mosaico e di teatro, corsi di cucina, di pizzeria e di informatica con associazioni e privati. In futuro è in programma la ristrutturazione di due locali attigui che abbiamo unito con l’abbattimento di un muro, progetto finanziato dalla Cassa delle ammende, che prevede la manodopera dei detenuti e che pensiamo di aprire per l’estate. A questo si aggiunge la pavimentazione di uno dei cortili di passeggio con un tappeto erboso. In previsione anche un laboratorio di legatoria finanziato dal Rotary". Quanto è importante offrire stimoli? "Lo è molto. Ricordo un detenuto con grossi problemi psichiatrici e di tossicodipendenza, di difficile gestione. Quando abbiamo scoperto che aveva una grande passione per la pittura lo abbiamo messo in una stanza con tutto il necessario per disegnare: il risultato è che non ha più dato problemi". Dal 2012 ha sempre ricoperto un doppio incarico, come è riuscita ad incastrare tutto? "Per circa tre anni sono stata direttrice anche del carcere di Ferrara, incarico che ho lasciato a settembre per poi accettare, a novembre, quello all’istituto di Rimini. Lì esiste una struttura più grande e più nuova, con una sezione dedicata ai detenuti transessuali. Il doppio incarico non è, di per sé, più difficile, ma ti costringe ad allungare i tempi di lavoro, perché quello che rimane indietro va recuperato". Cosa occorre, secondo lei, per essere rispettati, anche alla luce del fatto che lei è una direttrice in un carcere maschile? "Per essere credibili occorre sempre assumersi le proprie responsabilità e dare risposte. I detenuti accettano qualunque tipo di decisione, l’importante è che l’abbiano e che sia motivata. Dare una risposta è fondamentale al di là del fatto che io sia una donna. Quello di genere è un problema che non ho mai vissuto: ho sempre lavorato in sezioni maschili con personale maschile, ma non ho mai avuto difficoltà ad essere riconosciuta come guida". A dicembre ha fatto discutere la dichiarazione del detenuto Matteo Cagnoni, che paragonava la sua cella ad una suite... "Non esistono suite, le camere detentive sono tutte uguali, così come la gestione dei detenuti, trattati tutti allo stesso modo. Sono dichiarazioni che lui ha reso forse anche alla luce del fatto che si aspettava di trovare un ambiente più ostile. Quando riprendo qualcuno gli dico "perché tu sei stato trattato bene", e subito aggiungo "come tutti gli altri". L’attenzione è alta per ognuno dei detenuti. Gli autolesionismi sono ridotti a pochi numeri all’anno, un tempo erano invece all’ordine del giorno". Da quando è arrivata, il suo sforzo è stato quello di aprire il carcere alla città: come è stata la risposta? "Positiva. Tanto è stato fatto grazie alla risposta che la città ha dato, a tutti i livelli, alla mia sollecitazione. Questo denota l’aver compreso che lavorare insieme in un’ottica di rieducazione è un qualcosa che va a vantaggio di tutti". Per il secondo anno, il carcere partecipa ad un progetto dei Lions che vede protagonisti un cucciolo e due detenuti: quali sono i risultati? "Fino al primo anno d’età il cane verrà istruito dentro la struttura per poi affrontare alcune prove che, se superate, gli permetteranno di frequentare un corso per diventare cane guida per non vedenti. Il cane che avevamo l’anno scorso è stato ammesso al corso: si tratta di un risultato importante, per nulla scontato, infatti è stato il primo in Italia. Quest’anno invece tocca ad Ulla, un labrador affidato a due detenuti: in realtà uno è uscito da poco, mentre l’altro continua ad occuparsene. Tengo a precisare che non si tratta di un cane detenuto: Ulla esce tutti i fine settimana e frequenta luoghi in cui, un domani, dovrà accompagnare la persona a cui farà da guida, questo viene portata anche in negozi e ristoranti. Ovunque le fanno i complimenti perché è molto educata. E il beneficio è doppio: Ulla gioca con tutti e crea coinvolgimento a tutti i livelli. Ha portato una ventata di gioia e contribuisce ad allietare le tensioni". Roma: "Bambini e Carcere", il progetto di Telefono Azzurro da Papa Francesco di Monica Sarno Ristretti Orizzonti, 28 aprile 2017 "Lasciate che i bambini vengano a me" e i bambini del progetto di Telefono Azzurro, Bambini e Carcere, sono arrivati da Papa Francesco, non di persona ma lo hanno raggiunto con una lettera ed un quadro, che la volontaria Giovanna Guerra emozionatissima ha avuto il privilegio di consegnare proprio al Papa insieme al presidente dell’associazione Ernesto Caffo. Piazza San Pietro, ieri 26 aprile, si è in parte tinta di azzurro, cappellini, magliette e striscioni di Telefono Azzurro, un folto gruppo gioioso di volontari e di appartenenti all’Amministrazione Penitenziaria del carcere di Massa, carcere di Prato, di Firenze e Prap di Firenze, guidati e coordinati da Samuele Tamburini andati li per testimoniare il lavoro svolto da quell’esercito silenzioso di persone che quotidianamente varca le carceri italiane per rendere più vivibile il momento dei colloqui a tutti i bambini, figli e nipoti dei detenuti. Tra una delegazione coreana, una degli Emirati Arabi e un piccolo gruppo di suore venute dalla Sardegna, c’era il gruppo di Telefono Azzurro, ad ascoltare le parole, poche ma incisive, del Santo Padre ed a beneficiare di tutti gli sguardi e i gesti di affetto che ha dispensato. Non prevedibile, tra gli sguardi oramai rassegnati degli uomini che lo scortano, abituati a questi repentini cambi di programma, Papa Francesco non ha iniziato l’udienza del mercoledì all’orario previsto, ma è uscito molto prima per concedersi alla folla che come sempre, è accorsa numerosissima a Piazza San Pietro. Ed i bambini sono i veri protagonisti dell’incontro, sono loro, che si recano al carcere di Massa per fare colloqui con i loro papà, zii e nonni ad aver fatto un quadro che raffigura Papa Francesco ed il Terranova Oscar, oramai famoso nonché fedele amico che spesso li accompagna durante quei momenti, non facili, di entrata ed uscita dal carcere, ed una lettera, assolutamente spontanea, nella quale gli scrivono quello che fanno e lo invitano ad andare al carcere di Massa per incontrare Oscar, visitare la ludoteca e a fare un picnic insieme a loro e chissà perché siamo certi che Papa Francesco potrebbe accogliere l’invito. Brindisi: "riforma della giustizia", oggi tavola rotonda Aiga con il presidente Anm di Roberta Grassi Quotidiano di Puglia, 28 aprile 2017 Si terrà a Brindisi oggi alle ore 15.30, presso Palazzo Granafei Nervegna, l’evento organizzato dall’Associazione italiana giovani avvocati sul tema "La riforma della Giustizia penale. Avvocatura, magistratura e accademia in difesa del giusto processo". Interverrà anche il presidente nazonale Anm, Eugenio Albamonte. Alla tavola rotonda, organizzata in collaborazione con La.Pec, Anf, Movimento Forense, Ocf e con il patrocinio del Consiglio nazionale forense, parteciperanno le diverse componenti del mondo del diritto (avvocatura, magistratura ed accademia) le quali discuteranno in uno stimolante confronto del Ddl recante "Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario", già approvato al Senato ed attualmente in corso di esame della commissione Giustizia alla Camera. Una riforma sulla quale l’Aiga ha sempre espresso una forte contrarietà poiché lesiva dei diritti degli imputati e dei principi fondamentali del giusto processo, salvo che per le norme sull’ordinamento penitenziario, pienamente condivisibili e meritevoli di immediata approvazione. Dopo i saluti istituzionali di Stefania Ester Spina, presidente Aiga Brindisi, di Alfonso Maria Pappalardo, presidente del Tribunale di Brindisi, Marco Di Napoli - procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Brindisi, Maurizio Saso - Anm distrettuale Brindisi, Carlo Panzuti, presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Brindisi e Leonardo Musa - Componente Ocf Brindisi, introdurrà il tema Domenico Attanasi, componente della giunta Nazionale Aiga. Interverranno Eugenio Albamonte, presidente nazionale Anm; Rossana Giannaccari - giunta Anm; il deputato Francesco Paolo Sisto, avvocato del foro di Bari; Michele Laforgia, avvocato del foro di Bari; Donatella Curtotti, ordinario di diritto processuale penale all’Università degli studi di Foggia; Vinicio Nardo, dell’organismo congressuale forense; Donata Cappelluto, del direttivo Anf; Luigi Pansini, segretario nazionale Anf; Massimiliano Cesali, presidente nazionale del Movimento forense; Paolo Ferrua, ordinario di diritto processuale penale all’Università degli studi di Torino; Michele Vaira, presidente nazionale Aiga. Concluderà il dibattito Giorgio Spangher, ordinario di diritto processuale penale all’ Università degli studi di Roma "La Sapienza". Terni: "carceri ed estremismo religioso", oggi convegno europeo delle forze dell’ordine tuttoggi.info, 28 aprile 2017 Un convegno a Terni, con la partecipazione di numerose forze dell’ordine europee, in vista di un progetto capace di affrontare il problema dei fenomeni di radicalizzazione e di estremismo religioso che sempre di più maturano in ambito carcerario. L’appuntamento che vedrà la presenza delle forze dell’ordine italiane, olandesi, francesi, portoghesi e di Cipro è stato presentato ieri mattina a Palazzo Spada nel corso di una conferenza stampa tenuta dal sindaco Leopoldo Di Girolamo e da Daniele Pace consigliere per la sicurezza, coordinatore del Nos. Il convegno che si terrà il 28 aprile, con inizio alle 10, al Palasi, vede i saluti del questore di Terni Carmine Belfiore, del capo della Polizia Franco Gabrielli, di Walter Verini della commissione Giustizia della Camera, di Fabio Paparelli vicepresidente della giunta regionale, di Gianfederica Dito direttore dell’ufficio Attività Ispettiva, di Augusto Zaccariello comandante del nucleo investigativo centrale dell’Amministrazione Penitenziaria, di Stefano Anastasia garante dei detenuti in Umbria e Lazio, di Maria Chiara Locci ricercatrice dell’università di Perugia, di Silvia Angeletti professore dell’Università di Perugia. Gli ospiti europei sono Andreas Symeou presidente del consiglio europeo sindacati di polizia, Mariot Neofytous vicepresidente Cpa, di Geert Priem segretario generale del Cesp, di Hans Schones segretario generale del Anvp, di Chantal Pons Meouaki segretario aggiunto Scsi, di Christophe Dumont segretario nazionale del Scsi, di Ricardo Valadas presidente funzionari della polizia giudiziaria del Portogallo, di Rui Miranda segretario generale del Asfic. "Siamo lieti di ospitare a Terni - ha dichiarato il sindaco Leopoldo Di Girolamo - un convegno di così alto spessore. Il nostro comune è capofila di questo progetto che punta alla prevenzione dei fenomeni din radicalizzazione e di estremismo all’interno delle carceri. Un problema che è esploso soprattutto in Francia ma che è comune a tutti gli stati europei. Si tratta di una iniziativa che ha degli aspetti formativi rilevanti rivolti agli operatori dell’amministrazione penitenziaria ma in generale a tutte le forze dell’ordine, in particolare quelle specializzate sui temi del terrorismo e della prevenzione. Ringrazio quanti hanno lavorato a questa iniziativa internazionale, i partecipanti e i relatori che si occuperanno non solo degli aspetti squisitamente giudiziari o investigativi ma anche di quelli sociali e culturali". Andria (Bat): oggi convegno "Enzo Tortora, ingiustamente detenuto in attesa di giudizio" altamuralive.it, 28 aprile 2017 Si terrà venerdì 28 aprile 2017, a partire dalle ore 18,30, presso la sala convegni "Pasquale Attimonelli" dell’Albergo dei Pini, il convegno dal titolo "Enzo Tortora, ingiustamente detenuto in attesa di giudizio" nel corso del quale sarà presentato il libro "Lettere a Francesca" di Francesca Scopelliti. A quasi trent’anni dalla morte di Enzo Tortora, la sua compagna Francesca Scopelliti consegna alla memoria degli italiani una selezione delle lettere che il celebre giornalista e presentatore televisivo le scrisse dall’inferno del carcere nel quale era stato sbattuto per "pentito" dire. All’incontro intervengono: Giannicola SINISI, Magistrato e Presidente di Sezione presso la Corte di Appello di Bari, Armando Veneto, avvocato e Presidente Consiglio Unione Camere Penali Italiane, la sen. Francesca Scopelliti autrice del libro e Giovanni Di Benedetto, giornalista dell’emittente televisiva Tele Norba. L’appuntamento è promosso in collaborazione dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Trani, dall’Associazione Avvocati Andriesi e dalla Camera Penale di Trani. Il convegno sarà aperto dai saluti del Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Trani avv. Tullio Bertolino, dal Presidente dell’Associazione Avvocati Andriesi avv. Francesco Montingelli e dal Presidente della Camera Penale di Trani prof. Avv. Giuseppe Losappio. Il convegno organizzato dagli avv.ti Antonio Nespoli e Annalisa Paradiso e dal sig. Vincenzo D’Avanzo, è stato accreditato dall’Ordine degli Avvocati di Trani con l’attribuzione di n. 3 crediti formativi in materia di Diritto e Procedura Penale. Dal carcere alla giustizia riparativa. Se ne parla in un libro di padre Occhetta farodiroma.it, 28 aprile 2017 "La giustizia capovolta. Dal dolore alla riconciliazione" ovvero una giustizia che cambia volto, si capovolge perché "reinserisce". È questo il fondamento tematico proposto dal gesuita padre Francesco Occhetta. "La giustizia capovolta. Dal dolore alla riconciliazione" ovvero una giustizia che cambia volto, si capovolge perché "reinserisce". È questo il fondamento tematico proposto dal gesuita padre Francesco Occhetta SJ, giornalista, giurista, vice direttore di "La Civiltà Cattolica" e Consulente Ecclesiastico Ucsi (Unione Cattolica della Stampa Italiana) nel suo ultimo libro "La giustizia capovolta", pubblicato dalle Edizioni Paoline. La prefazione è di don Luigi Ciotti fondatore e presidente di Libera mentre la postfazione è di Gian Maria Flick, già Ministro di Grazia e Giustizia. Riflessioni, provocazioni, confronti e testimonianze sul tema della giustizia riparativa: una giustizia che tenga conto della riabilitazione della dignità della vittima e promuova la riconciliazione tra vittime e rei. A Campobasso l’autore del libro incontrerà i detenuti della Casa Circondariale con la pastorale carceraria e il Tribunale con la Scuola Superiore della Magistratura assieme alla realtà giuridica, il mondo del volontariato, della cultura, della stampa e della società cittadina. Dialoghi, testimonianze e confronto con la partecipazione straordinaria di Francesco Cananzi consigliere del Csm, con il quale l’autore ha sviluppato la seconda parte del libro. Giovedì 4 maggio, dunque, carcere e tribunale apriranno le porte alla cultura per una insolita pubblicazione editoriale di interesse spirituale e giuridico ad ampio spettro. La presentazione, promossa dall’arcidiocesi di Campobasso - Bojano, dall’Unione Cattolica della Stampa Italiana del Molise, dalla Pastorale carceraria diocesana, dalla Scuola Superiore della Magistratura, dall’Ordine degli Avvocati, dall’Unimol e dal Comune di Campobasso, sarà articolata in due momenti: spirituale e giuridico sociale. Alle ore 14:30 l’autore incontrerà i circa 150 detenuti tra collaboratori di giustizia e detenuti comuni delle varie sezioni. Accoglieranno l’autore il Direttore del Carcere dott. Giuseppe Silla e il comandante della Polizia Penitenziaria Ettore Tomassi. Con loro, coordinati dal cappellano del carcere don Pasquale D’Elia, padre Occhetta ascolterà alcuni brani del libro letti dai ristretti con dibattito sul tema del "reinserimento". Nella seconda parte, alle ore 16:30, l’incontro pubblico si svolgerà nell’aula I del Tribunale di Campobasso alla presenza della Scuola Superiore della Magistratura (struttura territoriale di formazione di Campobasso), dell’ordine degli Avvocati, della facoltà di Giurisprudenza dell’Unimol, delle rappresentanze del Tribunale per i minori, del Tribunale di sorveglianza, del mondo della scuola, della cultura, dell’ informazione. Di rilievo sarà la testimonianza di un detenuto (art.21) che illustrerà in aula il suo cammino di "reinserimento". Un atteggiamento e un cammino già suggerito profeticamente da papa Francesco in Molise il 5 luglio 2014 quando incontrò i detenuti del carcere di Isernia. "Fare il cammino di reinserimento, che tutti dobbiamo fare. Tutti. Tutti facciamo sbagli nella vita. E tutti dobbiamo chiedere perdono di questi sbagli e fare un cammino di reinserimento, per non farne più. Alcuni fanno questa strada a casa propria, nel proprio mestiere; altri, come voi, in una casa circondariale. Ma tutti, tutti… Chi dice che non ha bisogno di fare un cammino di reinserimento è un bugiardo". All’incontro "Luci sul tema della giustizia riparativa", aperto al pubblico e alla città, interverranno per gli indirizzi di saluto: Rossana Iesulauro, Presidente Corte d’Appello di Campobasso Demetrio Rivellino, Presidente Ordine Avvocati di Campobasso Antonio Battista, Sindaco Campobasso Gianmaria Palmieri Rettore Unimol A seguire, avrà luogo la presentazione del libro con l’autore padre Francesco Occhetta SJ, assieme a Francesco Cananzi, Consigliere del Csm. Dopo il dibattito in aula con i presenti concluderà S. Eccellenza GianCarlo Bregantini, arcivescovo Metropolita di Campobasso - Bojano. Ad introdurre e coordinare gli interventi sarà Daniele Colucci, giudice e formatore decentrato della Scuola Superiore di Magistratura, e il Presidente Ucsi Molise. Migranti. Il procuratore di Catania: "Ong forse finanziate dai trafficanti" di Alessandro Sala Corriere della Sera, 28 aprile 2017 Zuccaro: "Vogliono destabilizzare l’economia italiana per trarne vantaggi". La Lega: fermare le navi e affondarle. Il ministro Minniti: "No alle generalizzazioni". "A mio avviso alcune Ong potrebbero essere finanziate dai trafficanti e so di contatti. Un traffico che oggi sta fruttando quanto quello della droga". Lo ha detto Carmelo Zuccaro, procuratore di Catania (chi è), intervenendo ad Agorà, su Raitre. "Forse la cosa potrebbe essere ancora più inquietante - ha aggiunto Zuccaro: si perseguono da parte di alcune organizzazioni finalità diverse, ovvero destabilizzare l’economia italiana per trarne dei vantaggi". Il magistrato era intervenuto sullo stesso tema anche ieri, al Tgr Sicilia, precisando però che ancora non ci sono prove per dimostrare il fenomeno: "C’è un’indagine conoscitiva sulle Ong che è ancora in corso. Di prove si può parlare soltanto a fronte di conoscenze che possano essere utilizzate processualmente e queste al momento mancano. Tra gli elementi raccolti ci sono i contatti diretti con soggetti che si trovano in Libia che annunciano la partenza di barconi. Non si può fare di tutta l’erba un fascio, ma ci sono Ong che non rispettano le regole". Le sue parole hanno subito scatenato reazioni e polemiche e in tarda mattinata, nel corso del question time a Montecitorio, è arrivata anche la presa di posizione del governo: "Le accuse non possono evidentemente essere sottovalutate - ha detto il ministro dell’Interno, Marco Minniti - ma vanno evitate generalizzazioni e conclusioni affrettate". L’inchiesta di Catania - In un’informativa alla Camera, la procura di Catania aveva parlato di almeno quattro casi nel 2016 (anno record per gli sbarchi in Italia: secondo l’agenzia europea Frontex gli arrivi sono stati 181mila, il 18% in più dell’anno precedente) in cui le navi affittate da ong private si sarebbero spinte fin dentro le acque territoriali libiche, non dunque in acque internazionali, per raccogliere migranti e poi trasportarli non alla più vicina Malta (maltese è una delle ong chiamate in causa) ma sulle coste siciliane o calabresi. Di qui l’ipotesi di un traffico giocato sulle operazioni di salvataggio. Il precedente di Di Maio - La questione era stata sollevata nei giorni scorsi anche dal vicepresidente della Camera, il pentastellato Luigi Di Maio, che aveva parlato di organizzazioni non governative che avrebbero trasportato in Italia anche dei criminali. "Ipocrita - aveva detto Di Maio - chi non vede che dietro l’immigrazione c’è un business". Nel suo intervento aveva preso di mira anche lo scrittore Roberto Saviano che dopo un analogo attacco dal blog di Beppe Grillo aveva parlato dell’inopportunità di attaccare associazioni impegnate nel salvataggio di persone che rischiano di morire annegate. E, ancora, parole che sono state evocate pure mercoledì sera anche nel faccia a faccia tv tra i candidati alla segreteria del Pd: Matteo Renzi e Andrea Orlando, in particolare, si sono trovati d’accordo sulla critica all’esponente grillino ("Dovrebbe vergognarsi"). Ma dopo le parole di Zuccaro, Di Maio è tornato a twittare: "Non so se è chiaro: Ong forse finanziate dagli scafisti! Gli ipocriti continuino pure ad attaccarmi, io vado fino in fondo". La Lega: "Bloccare le navi delle Ong" - Le parole di Zuccaro hanno dato la stura a una ridda di reazioni politiche. Prime tra tutte quelle della Lega. "Occorre bloccare subito l’ingresso di queste navi nelle acque italiane e l’accesso ai nostri porti fino a quando non verrà fatta totale chiarezza sui rapporti con le organizzazioni di trafficanti di uomini - commenta il deputato Paolo Grimoldi. Lo Stato italiano non può essere complice, con il suo silenzio, del traffico degli esseri umani". E Matteo Salvini ironizza via Facebook: "Ma dai, ma chi l’avrebbe mai detto... Cosa dicono la Boldrini, Saviano, Alfano e Papa Francesco? Aiutiamo l’Africa a crescere, non deportiamola in Italia. Bisogna arrestare i trafficanti, affondare tutte le navi usate!". Anche la leader di FdI, Giorgia Meloni, cita le parole di Zuccaro e sottolinea che "chi continua a difendere questo schifo è complice degli scafisti e della tratta di esseri umani". Forza Italia invita a "fare chiarezza" mentre dal Pd arriva l’invito al magistrato a "fare i nomi e a delineare i fatti". La posizione di Caritas e Save the Children - Sulla questione interviene anche il cardinale Francesco Montenegro, arcivescovo di Agrigento e presidente di Cartias Italiana, in un intervista al settimanale La Voce del Popolo: "Tante Ong, generosamente e anche rischiando, vanno incontro a chi sta perdendo la vita o è in prossimità di farlo: credo sia un atto di grande rispetto e che vada sopportato anche da chi sta in terra ferma e decide le sorti di tutti. Non bisogna dire che tutte le Ong approfittano della situazione per arricchirsi. Se ce n’è qualcuna si fanno le debite indagini e ricerche e chi sfrutta questa situazione sarà penalizzato". Stessa linea per Save the Children: "Fino a quando non saranno definite eventuali responsabilità, continuare a generalizzare non solo non è utile a fare chiarezza ma contribuisce a creare un generale clima di sfiducia di cui rischiano di farne le spese bambini, donne e uomini in fuga - commenta Valerio Neri, direttore generale dell’associazione, che partecipa a diverse operazioni di soccorso - Noi siamo al di sopra di ogni sospetto, come affermato dalla stessa Procura di Catania. La nave Vos Hestia opera nella piena legalità e le fonti di finanziamento dell’Organizzazione sono totalmente trasparenti". Tranchant il giudizio di Emergency: "Le polemiche di questi giorni sui soccorsi in mare sono ignobili perché vengono dal mondo della politica che per primo dovrebbe sentire la responsabilità di affrontare la questione delle migrazioni in modo sistematico, aprendo possibilità sicure di accesso all’Europa, invece che costringere migliaia di persone a mettere a rischio la propria vita per attraversare il Mediterraneo". Non solo: "Sono ignobili perché colpevolizzano alcuni tra i soggetti che stanno cercando di dare il loro aiuto nella più grande tragedia che l’Europa si è trovata ad affrontare dal dopoguerra e che, peraltro, lo fanno in strettissima collaborazione con lo Stato italiano, la Marina e il ministero dell’Interno. Lo scorso anno 5.098 persone sono morte in mare. Dall’inizio di quest’anno sono 1.092". Migranti. Le Ong dividono il governo: Orlando le difende, Minniti chiede chiarezza di Francesca Schianchi La Stampa, 28 aprile 2017 Il Guardasigilli contro il procuratore di Catania: atti, non parole. Sulla vicenda delle Ong, nel governo si parlano lingue diverse. A qualche giorno dall’esplosione della polemica su quale sia il ruolo delle organizzazioni non governative nel salvataggio dei migranti in mare, dopo che ancora ieri il procuratore di Catania, Carmelo Zuccaro, ad "Agorà", ha affermato che "alcune Ong potrebbero essere finanziate da trafficanti" (salvo poi chiarire che si tratta di "ipotesi di lavoro, non prove") impostazioni diverse si sono chiaramente avvertite ieri, quando sono intervenuti il ministro della giustizia, Andrea Orlando, e quello dell’Interno, Marco Minniti. Ma anche l’ex segretario ricandidato del Pd, Matteo Renzi. "Spero che la procura di Catania parli attraverso le indagini, gli atti, perché credo sia il modo migliore. Se il pm ha elementi in questo senso faremo una valutazione", richiama il Guardasigilli Orlando a evitare di esprimersi con valutazioni personali. "In generale, non è giusto ricostruire la storia delle Ong come la storia di collusi con i trafficanti, è una menzogna", bacchetta, dopo che già mercoledì sera, nel corso del confronto tra candidati alle primarie Pd, aveva attaccato il grillino Di Maio per le sue parole sui "taxi del Mediterraneo": "Dovrebbe vergognarsi". Perché, oltre che ministro del governo Gentiloni, Orlando è candidato alle primarie, e non dimentica di voler rappresentare l’ala sinistra del partito. Quella che sta con le Ong, che le difende, e sull’inchiesta si mostra più che prudente. E se sulla frase di attacco a Di Maio c’è sintonia col resto del governo ("evitare giudizi affrettati", ha raccomandato anche Minniti) e con Renzi ("la visione degli operatori delle Ong che sono tutti al servizio degli scafisti, come detto da qualche aspirante statista, non va bene"), è sull’impostazione generale che si individua una linea di frattura. "Che qualcuno non si stia comportando bene direi che è possibile. Arrivo a dire, è probabile", dichiara l’ex premier a "Porta a porta": "Che ci siano state alcune vicende discutibili, per me è innegabile. Se qualche Ong va a qualche miglio dalla costa, credo si debba intervenire", considera, "dopodiché vanno combattuti gli scafisti, non i volontari". Altro che la cautela di Orlando. Una linea che, nel governo, incarna bene il ministro Minniti: "Le questioni sollevate non possono essere sottovalutate", ha spiegato ieri in un question time alla Camera, per questo il governo "segue lo sviluppo" di numerose indagini - da quella della procura di Catania a quella della Commissione difesa - e "ha aperto un canale di scambio informativo con la Commissione europea e l’agenzia Frontex". Certo, anche il responsabile del Viminale invita a "non generalizzare", ma anche a non sottovalutare, e garantisce che "gli esiti finali" di tutte le inchieste in corso "verranno valutati con grande attenzione". D’altra parte, quando il presidente della Commissione difesa del Senato, Nicola Latorre, propose un’indagine conoscitiva sul tema, i segnali che gli arrivarono dall’esecutivo furono di incoraggiamento. Due linee a confronto, insomma. Quella "dura" di Minniti sulla questione migranti in generale, secondo qualcuno stava rischiando di trovarsi isolata: più vicina a un approccio solidale è considerata la ministra Pinotti, legata al mondo scout, così come il cattolico Delrio, o anche la Farnesina, dove il viceministro Mario Giro è molto legato alla comunità di Sant’Egidio ed è stato il primo a rifiutare di considerare il salvataggio in mare da parte delle Ong come "pull factor", fattore di attrazione per le partenze. "Ma il Parlamento e l’opinione pubblica sono con Minniti", assicura un sostenitore del governo. E, soprattutto, è con lui il quasi certo nuovo segretario del Pd. Migranti. Carte dai servizi tedeschi e olandesi ma non utilizzabili nel processo di Francesco Grignetti La Stampa, 28 aprile 2017 Il cul de sac dell’inchiesta catanese, la disomogeneità delle procedure. All’ennesima intervista del procuratore di Catania, Carmelo Zuccaro, che forse mai si era espresso tanto chiaramente sui comprovati contatti tra scafisti e alcune associazioni umanitarie, spingendosi a dire che a suo avviso "alcune Ong potrebbero essere finanziate dai trafficanti", si è alzata un coro sdegnato: Fuori le prove! Come se fosse facile. Intanto c’è da dire che un procuratore della Repubblica non può andare in televisione e squadernare atti coperti dal segreto investigativo. Ma in questo caso Zuccaro ha un problema in più: le poche intercettazioni che ha sul tavolo provengono da servizi segreti e non sono state acquisite secondo le regole della procedura penale italiana. Di qui il suo grande imbarazzo. È un rebus giuridico che al momento non ha soluzione. La sua indagine poggia sui report di alcuni servizi segreti - quello tedesco e quello olandese - che da mesi monitorano alla loro maniera le comunicazioni da e per la Libia. Si sono mossi, i servizi d’intelligence del Nord Europa, attraverso le navi militari inquadrate nel dispositivo europeo Eunavformed-Sophia e attraverso alcuni natanti fantasma. Dapprima sono stati informati i rispettivi governi. Poi i loro rapporti sono stati veicolati da Frontex alla procura di Catania attraverso canali riservati. Quei rapporti, però, pur utilissimi per l’inchiesta, sono assolutamente inutilizzabili ai fini del procedimento italiano. La legge è molto chiara. Siccome gli 007 tedeschi e olandesi si muovono senza avere avuto l’autorizzazione preventiva di un magistrato, a differenza dell’intelligence italiana, le loro intercettazioni è come se non esistessero. Ed ecco perché Zuccaro si agita tanto: "Alcune agenzie - diceva anche ieri al sito LiveSicilia - che non svolgono attività di polizia giudiziaria (intendendo cioè dei servizi segreti, ndr), hanno documentato i contatti ma si tratta di atti che non posso utilizzare processualmente, anche se mi danno la conoscenza certa che questo avviene". Il rischio, insomma, è che il caso finisca nel nulla per mancanza di prove processualmente valide. Su quanto avviene in mare, Zuccaro ha le idee chiare: "Ci sono dei natanti di Ong che superano i confini delle acque internazionali, staccano i transponder (i segnalatori satellitari, ndr) per non farsi localizzare e rendersi invisibili a chi li deve monitorare. Vi sono Ong che prendono chiamate dalla Libia in cui si dice: Stiamo per mettere in mare i gommoni, intervenite!". Pare che siano stati documentati comportamenti ambigui di marinai libici in divisa, che non si sa se e a quale Guardia costiera rispondano. Nel frattempo sono arrivati a Catania anche i rapporti riservati dell’intelligence italiana. Altre segnalazioni delicatissime. È stato ricostruito, ad esempio, l’enorme andirivieni dei gommoni nei giorni di Pasqua, con porti di partenza e navi delle Ong in attesa. Sono quelle ricostruzioni che nel governo italiano hanno fatto pensare che vi fosse "una regia" dietro la partenza simultanea di ben 8500 migranti. Questi rapporti, ai sensi della legge 124 sui servizi segreti, sarebbero acquisibili dal magistrato, tramite una delega specifica alla polizia. Ma forse non possono bastare per impiantarvi un procedimento penale. Occorre molto di più. Servirebbe ad esempio qualche prova concreta di un trasferimento di soldi che accompagni i "contatti". Zuccaro lo sa, perciò ha dato disposizione ai suoi investigatori di seguire prioritariamente i flussi finanziari. Ha anche chiesto rinforzi specialistici a Roma. E certo ha trovato un orecchio attento nel ministro dell’Interno, Marco Minniti, che ieri in Parlamento da una parte ha invitato a evitare "giudizi affrettati, attenendosi quindi ad una rigorosa valutazione degli atti", ma dall’altra ha riconosciuto le questioni sollevate dai deputati di Forza Italia "non possono essere sottovalutate". Migranti. "Scafisti nelle Ong": il pm emette la sentenza in tv, senza bisogno del processo di Errico Novi Il Dubbio, 28 aprile 2017 Il procuratore di Catania Zuccaro anticipa il processo. Eppure il pm da cui dovrebbe prendere le mosse tutta questa sequenza, normalmente detta procedimento giudiziario, ha già emesso la sua condanna. In tv. "So di contatti", tra trafficanti di carne umana e organizzazioni umanitarie, dice. E se i contatti ci sono, è fatta. Il reato è accertato. In tv, almeno. Naturalmente non ha detto solo questo, il dottor Zuccaro. Ha descritto una possibile scena del crimine: "Dalla Libia partono telefonate in cui si chiede "possiamo mantenere in mare queste imbarcazioni anche con mare agitato?". E si risponde "fatelo tranquillamente, tanto noi siamo a ridosso". O sono supposizioni o sono atti d’indagine e, nel caso, sarebbe curioso se a svelarli fosse lo stesso pm. Ma c’è un quadro accusatorio molto complesso, che non si limita al trasporto di disperati. Ci sono altri reati, ascrivibili alla spaventosa categoria delle cospirazioni: "Forse la cosa potrebbe essere ancora più inquietante", ha infatti aggiunto il capo della Procura etnea, "si perseguono da parte di alcune Ong finalità diverse: destabilizzare l’economia italiana per trarne dei vantaggi". Quali Ong? Ci sono i nomi? I nomi dei loro referenti? E quali sono i vantaggi? Si sa chi è parte del complotto? Il modo di procedere della magistratura catanese ha già innescato un corto circuito politico tremendo, con il Cinque Stelle Luigi Di Maio che ha subito cavalcato le ipotesi accusatorie, Matteo Salvini che chiede di "affondare le navi" e il resto del mondo politico, e la Cei, che cercano di fermare la deriva. Ci deve pensare il ministro della Giustizia Andrea Orlando, titolare dell’azione disciplinare nei confronti delle toghe, a riportare la questione nella cornice dell’ordinamento giudiziario: "Spero che la procura di Catania parli attraverso le indagini, gli atti, perché credo sia il modo migliore". Dovrebbe essere anche l’unico, ma si sa che il guardasigilli non è uno che usa le parole o le sue prerogative come una clava. Certo la vicenda è disarmante anche dal suo punto di vista. Il tornado andato in onda in mattinata travolge anche il ministro dell’Interno Marco Minniti che, durante il question time, prega di "evitare generalizzazioni", visto che "le indagini della Procura di Catania sono ancora in corso" (ma è dura se a generalizzare è la Procura stessa). Il Capo del Viminale cita anche l’attività conoscitiva del comitato Schengen e della commissione Difesa del Senato, i "contatti con Frontex" aperti dal governo per vederci chiaro. Ma prove di reati e complotti non sembrano emergere. Tanto che timidamente un deputato pd, Giovanni Burtone, propone: "Il dottor Zuccaro ne riferisca alla Commissione d’inchiesta sui Migranti". Lui, il magistrato, ricorda che non tutte le Ong sono uguali (e cattive): "Ci sono quelle che hanno certamente scopi umanitari, come Medici senza frontiere o Save the children". Lo stesso direttore di quest’ultima Ong, Valerio Neri però chiede: "Se ci sono prove rispetto alle gravissime accuse sulle operazioni e sui finanziatori delle Ong che operano nel Mediterraneo, chiediamo che emergano quanto prima". Anche lui vorrebbe insomma che i magistrati "parlassero con gli atti" : proprio come Orlando o come ha spesso ripetuto Matteo Renzi nelle sue polemiche coi pm. Il dottor Zuccaro, al momento, può dire questo: "Sono ipotesi, devo fare degli accertamenti" Cioè alla fine ammette che non ci sono prove. Solo ipotesi, le sue. Ma bastano, eccome se bastano, per una condanna in tv. Migranti. Ma a finanziare i soccorsi sono imprese e filantropi conosciuti in tutto il mondo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 aprile 2017 Dubbi degli inquirenti sulla provenienza delle risorse, ma gli enti ritenuti sospetti sono trasparenti. e salvano meno vite della marina italiana. Seppur riconosca che deve "fare accertamenti", il procuratore capo di Catania Carmelo Zuccaro ha già fornito dettagli su presunti intrecci criminali tra scafisti e Ong. Ha parlato di organizzazioni umanitarie nate dal nulla tra il settembre e l’ottobre 2015 (cinque tedesche, una spagnola e una maltese), che "dimostrano di avere avuto subito disponibilità di denari per il noleggio delle navi, l’acquisto di droni ad alta tecnologia e la gestione delle missioni, di cui sembra molto strano possano dotarsi senza avere un ritorno economico". Le sue tesi offrono di certo una sponda perfetta alle tesi complottiste dell’estrema destra. Non a caso il primo ad accusare le Ong è stato il primo ministro ungherese Viktor Orban. Il quale ha puntato il dito contro il miliardario e filantropo George Soros, reo di finanziarie diverse Ong. Ed è proprio una delle Ong finanziate (anche) da Soros che ha indotto la Procura di Catania ad accendere un faro investigativo: la Moas, Migrant Offshore Aid Station. Si tratta una organizzazione finanziata da Regina e Christofer Catrambone, due imprenditori che dopo il terribile naufrago di Lampedusa avvenuto il 3 ottobre del 2013 - in cui morirono 386 persone - hanno deciso di impegnarsi per salvare le vite dei migranti. Lei calabrese, lui americano, vivono da 7 anni a Malta, dove hanno costituito Tangiers group, un’agenzia che offre assicurazioni, aiuti in caso di emergenza e intelligence nelle zone più pericolose del mondo. La Moas è nata nel 2014 e ad oggi ha salvato più di 33mila vite grazie a due navi. "Phoenix" e "Topaz responder" - Nel corso del 2016, in realtà, la maggior parte degli interventi è stata operata dalla Guardia Costiera italiana, da unità dell’agenzia europea Frontex, dai mezzi militari dell’operazione Eunavfor Med e della Marina Militare. L’intervento delle Ong - che nel 2016 hanno soccorso non più del 28 per cento delle persone - ha invece contribuito a ridurre significativamente il peso degli interventi che gravava in modo significativo sulle navi commerciali presenti nell’area. Migranti. "Il fatto non sussiste", assolto il "passeur" Felix Croft di Enrico Mugnai Il Manifesto, 28 aprile 2017 La procura aveva chiesto più di 3 anni di carcere, era accusato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Le nubi nere che sovrastavano il Tribunale d’Imperia promettevano pioggia, ma le lacrime di gioia dell’anziana nonna e da quelli della mamma di Felix riportano il sole in una giornata storica. Felix Croft è stato assolto dall’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Il collegio, presieduto da Donatella Aschero, ha ritenuto applicabile la "clausola umanitaria". La famiglia aiutata da Felix si trovava in uno stato di bisogno tale da rendere l’aiuto lecito. È la prima sentenza in Italia di questo tenore. Rifacendosi all’articolo 12, comma 2, del Testo Unico sull’immigrazione, i giudici hanno pronunciato la sentenza di assoluzione perché il fatto non costituisce reato. Libero quindi il 27enne francese che i carabinieri avevano arrestato il 22 luglio 2016 quando a bordo della sua Citroen imboccava l’autostrada che da Ventimiglia porta alla Francia. Insieme a lui una famiglia sudanese. Padre, madre incinta di sei mesi, il fratello della madre e i due figli, il maschio di 5 anni e la figlia di 2. Dormivano nella chiesa di Sant’Antonio a Ventimiglia, in condizioni disperate. Presto, per la rotazione imposta dai numeri dei migranti affollati nella città ligure, sarebbero finiti per strada. Erano fuggiti dal Darfur, portandosi dietro nient’altro che le ferite di un genocidio che va avanti da 14 anni. Il bambino ha cicatrici sul fianco riportate nell’incendio che le truppe governative avevano appiccato alla loro casa. Lo stato di estrema frustrazione della famiglia aveva spinto Felix a fare qualcosa che non aveva mai fatto, decidere di attraversare il confine e portarli a casa sua per farli riposare e mangiare adeguatamente. In quel periodo era difficile aiutare i migranti in loco, il sindaco di Ventimiglia aveva emesso un’ordinanza che proibiva, per ragioni sanitarie, di dare cibo ai profughi. Felix ha da subito rivendicato il suo gesto umanitario, anche di fronte alla pesante accusa. Per il Pubblico Ministero Grazia Pradella, che aveva chiesto 3 anni e 4 mesi e 50mila euro di multa, quell’atto metteva in pericolo la sicurezza dello Stato. Alla domanda, "Sapeva che portandoli in Francia commetteva un reato?", Felix aveva risposto semplicemente "Sì". Ma oggi il Tribunale gli ha dato ragione. Il grido Hurriya, libertà in arabo, urlato anche in francese e italiano, è il coro che si sprigiona dalle bocche, fino a quel momento cucite dalla tensione, del centinaio di solidali che hanno accompagnato Croft durante il processo. "Questa è una pietra miliare per chi si sente impotente e stritolato dalle leggi in questo periodo di immense sofferenze" - dice all’uscita dal Tribunale. "Questa sentenza dice alle persone di non avere paura della loro solidarietà. Se lo Stato è assente le persone devono agire perché la loro umanità è la base sulla quale si fondano le società". E a Ventimiglia, nell’estate 2016, né Italia né Unione europea avevano saputo trovare una soluzione per quelle migliaia di persone che premevano sul confine alla ricerca di un po’ di dignità, oltre che di un tetto e un pasto caldo. "Sin dall’inizio non ho voluto ricorrere a scappatoie per difendermi - dice Felix - sapevo che non avevo fatto niente di male e che non dovevo avere paura della mia scelta. Mi hanno accusato di aver messo in pericolo lo Stato, credo che questo derivi dal fatto che c’è la tendenza, purtroppo molto diffusa, a fare l’equazione nero, musulmano, terrorista. Questo pensiero va combattuto col cuore e se c’è una giustizia quella prevarrà sul razzismo e sui pregiudizi". Laura Martinelli, giovane avvocato del foro di Torino, che ha difeso Felix insieme a Ersilia Ferrante del foro d’Imperia, non nasconde la felicità: "È una grande vittoria, il collegio ha riconosciuto che la condotta di Felix non è reato. È un segnale positivo in un momento in cui molte persone e Ong impegnate nell’aiutare i migranti vengono criminalizzate, accusate di essere complici dei trafficanti di uomini. È un precedente importante". "Ora continuerò ad aiutare chi ha bisogno, le migliaia di profughi che anche in Europa non trovano scampo dalle ingiustizie", dice il giovane francese: "Tutto quello che faccio è provvedere a piccole cose che però sono di enorme aiuto a chi si trova privato di tutto, compresa la speranza. Certo dovrò farlo in Francia, visto che ho un foglio di via dall’Italia per una manifestazione a Mentone". Stati Uniti. In Arkansas eseguite 4 condanne a morte in 8 giorni Corriere della Sera, 28 aprile 2017 Continua senza sosta il programma di condanne capitali dello Stato dell’Arkansas: l’accelerazione è dovuta alla volontà di terminare il prodotto usato per sedare i condannati che devono essere uccisi prima della data di scadenza, domenica. "Il detenuto Kenneth Williams ha tremato per circa 10 secondi prima di morire. E questo tre minuti dopo l’iniezione letale". A comunicarlo, alle prime luci dell’alba italiana, alle 11:05 della sera in Arkansas, è stato un portavoce del carcere Cummins Union a Varner, in Arkansas. Parlava della morte del quarto detenuto ucciso nello Stato negli ultimi otto giorni: un programma rapidissimo, dovuto non a esigenze di giustizia, ma alla data di scadenza - domenica - di uno dei farmaci utilizzato nel cocktail letale, il Midazolam. "Chiedo perdono" - Williams, 38 anni, era accusato di quattro omicidi. Le sue ultime parole sono state: "Chiedo umilmente il vostro perdono. Non sono la persona che ero". Con la sua esecuzione, l’Arkansas ha completato il suo programma - che prevedeva di uccidere otto condannati a morte entro domenica. Le condanne eseguite sono state quattro; per quattro detenuti la giustizia statale ha garantito un rinvio. Nella notte tra il 24 e il 25 aprile, l’Arkansas aveva eseguito la condanna a morte di due uomini, Jack H. Jones Jr e Marcel Williams: l’ultima volta che negli Stati Uniti era stata eseguita una condanna multipla era stata nel 2000, in Texas. L’effetto del farmaco - Il Midazolam ha la funzione di anestetizzare i condannati a morte. Non è chiaro se il tremolio di Williams sia dovuto a una scarsa efficacia del farmaco. Venezuela. Massacro nel carcere di Puente Ayala: 12 detenuti morti, 11 feriti dirittiumani.blogspot.it, 28 aprile 2017 Nel carcere sono stati rinchiusi 17 degli arrestati durante le proteste antigovernative. Almeno 12 persone sono morte e altre 11 sono rimaste feriti durante violenti scontri nella prigione di Puente Ayala, a Barcelona, nello stato di Anzoategui, nordovest del Venezuela. La notizia diffusa da deputati dell’opposizione - nel carcere sono stati rinchiusi 17 degli arrestati durante le proteste antigovernative - è stata confermata dalla ministra per i Servizi Penitenziari, Iris Varela. Secondo Varela "nove detenuti sono morti per ferite di arma da fuoco, due per overdose di droga e uno per aver subito contusioni". La ministra ha detto che gli scontri sono scoppiati perché "c’è un gruppo di detenuti che non è d’accordo con il nuovo programma di studio, lavoro e disciplina che vogliamo attuare nella prigione". Varela ha sottolineato che nelle carceri venezuelane "non comandano i gruppetti nè le mafie, comanda lo Stato". Secondo il deputato oppositore Armando Armas invece, i morti a Puente Ayala sono stati 13 e gli scontri sono nati "da una disputa sui traffici illegali da parte di due ‘pranes’, i capomafia che controllano il posto". Egitto. Il racconto choc di Ahmed Amashah: "io torturato nei bunker del Cairo" di Brahim Maarad L’Espresso, 28 aprile 2017 Detenuto senza accusa in una prigione egiziana: "Qui gli uomini vengono annullati". Nei primi tre mesi del 2017 sono state arrestate 871 persone, 50 sono state uccise e altre 41 condannate a morte. "Nella sede della Sicurezza di Stato l’uomo viene annullato. Perde la vista perché è perennemente bendato. Perde la mobilità perché è ammanettato e perde persino la personalità perché qui non ha più un nome o un cognome. Diventa un numero. E l’uno è stato il mio numero per ventuno giorni". Questo è il racconto di Ahmad Abd ElSattar Amashah, attualmente detenuto nel settore J della prigione di Tora, località sul Nilo, a pochi chilometri a sud del Cairo. "Sono stato arrestato il 10 marzo e immediatamente portato nella nuova sede della Sicurezza dello Stato, ad Abbassia. Sono stati gli altri detenuti a informarmi su dove mi trovassi, io non vedevo nulla". L’oscurità ha avvolto la sua vita quel venerdì mattina. E da quel giorno, per tre settimane, non ha visto altro che buio. Amashah, un rispettabile uomo di mezza età, è stato uno degli 871 egiziani arrestati nei primi tre mesi di quest’anno. Ventisette di loro non hanno ancora compiuto la maggiore età. I numeri, forniti dall’Organizzazione araba per i diritti umani e documentati dal Centro El Nadeem, sono sempre approssimati per difetto. Un terzo degli arrestati non risulta ufficialmente detenuto in nessun luogo. Sono le vittime delle sparizioni forzate. Sono i tanti Giulio Regeni d’Egitto. Quando dall’altra parte del buco in cui l’avevano rinchiuso veniva chiamato il numero uno, il dottor Amashah si preparava a rituffarsi nell’inferno. A inizio mese, la prima volta in cui ha potuto rivedere la luce del sole perché è stato finalmente portato in un tribunale, ha voluto raccontare tutto al procuratore che lo dovrà giudicare per qualcosa che non ha mai commesso. "Il primo giorno di detenzione sono stato denudato e ammanettato ai polsi dietro la schiena. Sono stato buttato a terra e per due giorni sono stato torturato con le scariche elettriche. Il terzo giorno hanno minacciato di stuprarmi se non avessi confessato ciò che mi chiedevano e ciò che non avevo mai commesso. Quando mi sono rifiutato hanno abusato di me con un manganello e hanno detto che avrebbero portato anche mia moglie e le mie figlie per violentarle davanti ai miei occhi. Grazie a Dio questo non l’hanno fatto". Per i giorni seguenti la sua vita si è allineata all’orribile quotidianità di tutti gli altri detenuti. Solo il 13 aprile è stato interrogato alla presenza degli avvocati. Ora è in attesa di una sentenza. Questa è una storia della crudeltà dietro alla crudezza di quei numeri. Una delle tante che si ripetono e che abbiamo imparato a conoscere da quel 25 gennaio 2016, quando Giulio non è mai arrivato a quella festa di compleanno. Nei primi novanta giorni del 2017 almeno cinquanta persone hanno fatto la fine del ricercatore italiano. Una ogni due giorni. Diciotto egiziani sono stati giustiziati durante l’arresto, trentadue sono morti nei luoghi di detenzione: cinque a seguito delle torture e 27 per mancate cure e negligenza da parte dell’amministrazione penitenziaria. "Collasso circolatorio". È la motivazione che più si ripete nelle cartelle cliniche dei detenuti deceduti nei commissariati e nelle prigioni egiziane. Questa dicitura ha accompagnato le salme di cinque persone solo nel mese di marzo. Il più anziano aveva 41 anni, il più giovane 25. Contro ogni statistica. Uno dei casi più recenti è datato 13 aprile ad Alessandria. Karim Medhat era stato condannato a due anni per aver preso parte a una manifestazione non autorizzata. Si è ammalato in carcere e durante la prima visita in ospedale non gli è stato diagnosticato nulla. Lo hanno dunque riportato in cella dove è stato abbandonato al quel destino già scritto. In ospedale ci è tornato una seconda volta, per trascorrere l’ultimo giorno della sua vita. L’avvocato della famiglia dice ciò che sanno tutti: "Non ha ricevuto le cure di cui aveva un urgente bisogno". I prigionieri non solo non vengono curati ma sono quotidianamente sottoposti a torture. Oltre cinquanta i casi segnalati nel mese di marzo. Altre persone sono state seviziate ancora prima di essere arrestate. E c’è chi non è mai finito in manette perché è stato giustiziato sul posto. Uno di questi è un insegnante che ha tentato di evitare l’abbattimento della propria casa, ritenuta una costruzione abusiva. È avvenuto il 30 marzo scorso nel governatorato di Buhayra, nel nord del Paese. Quella mattina le autorità si sono presentate con le ruspe al seguito per dare esecuzione al provvedimento giudiziale. Il cittadino aveva però con sé anche una sentenza di sospensione che ha cercato dunque di fare valere barricandosi in casa. Il comandante alla guida della missione non ha esitato: ha dato l’ordine di abbattere la costruzione con il proprietario all’interno. Una condanna a morte eseguita sul luogo, davanti alla popolazione. Le sentenze capitali pronunciate in tribunale, da gennaio a marzo, sono state invece 41. Gli ergastoli 673, 7 al giorno (festivi compresi). In questi giorni Papa Francesco è in Egitto anche per predicare la misericordia. La speranza è che trovi qualcuno che lo ascolti. Iran. Un musicista e un cameraman in gravi condizioni nel carcere di Evin ncr-iran.org, 28 aprile 2017 A causa della mancanza di accesso alle strutture mediche, il musicista Mehdi Rajabian sta perdendo la capacità di camminare, dopo che gli è stata diagnosticata diversi mesi fa la sclerosi multipla. Dopo gli avvertimenti lanciati dal suo medico, i familiari di Rajabian avevano informato le autorità del carcere di Evin sin dal primo giorno del suo arrivo che era affetto da sclerosi multipla e che la sua vita avrebbe potuto essere in pericolo se non avesse ricevuto le necessarie cure mediche. Ora, tre mesi dopo l’accertamento della sua malattia e avendo trascorso il suo 319° giorno di ingiusta reclusione, la forza fisica Rajabian è talmente diminuita che sta perdendo la capacità di camminare. Detenuto nel carcere di Evin da Maggio 2016 per le sue attività artistiche, Rajabian ha iniziato da molto tempo uno sciopero della fame per protestare contro la mancata concessione di un congedo per malattia. Dopo lo sciopero della fame lo stato di salute di Rajabian è peggiorato, lasciandolo in condizioni molto critiche. Intanto anche il medico del carcere ha constatato la sua malattia, ma questo non ha avuto nessun effetto sul modo in cui viene detenuto. La malattia di Rajabian è stata anche accertata dalla commissione medica, ma i funzionari responsabili del suo caso (Guardie Rivoluzionarie) gli stanno ancora impedendo di essere curato o rilasciato. Nel carcere di Evin è rinchiuso anche il fratello dell’artista, Hossein Rajabian al quale, come a suo fratello, viene negato l’accesso alle cure mediche nonostante soffra di problemi ai reni. Processati nella Sezione 28 del cosiddetto Tribunale Rivoluzionario di Teheran, presieduto dal giudice Mohammad Moghiseh, Mehdi ed Hossein sono stati condannati a sei anni di reclusione ciascuno per il reato di "propaganda contro il regime". Sono stati poi portati nel carcere di Evin il 5 Giugno 2016 per scontare la loro pene. La loro condanna è stata poi commutata dalla Sezione 54 dello stesso tribunale, in tre anni di reclusione e tre anni di pena sospesa, più una multa di 20 milioni di toman, ed è stata poi inviata all’Ufficio per l’Esecuzione delle Sentenze del carcere di Evin per essere applicata. I due sono stati privati dell’accesso ad un avvocato durante il processo che, a quanto sembra, è durato solo un quarto d’ora. Una fonte informata a questo proposito ha detto: "Non hanno avuto un avvocato durante l’interrogatorio e neanche in aula, dato che gli era stato detto che nel loro caso veniva richiesto che essi stessi fornissero delle spiegazioni". Argentina. "Io, sbattuto in prigione per mio fratello il Che" di Riccardo Michelucci Avvenire, 28 aprile 2017 La testimonianza di Juan Martín Guevara: "Solo perché ero legato a Ernesto sono stato imprigionato per otto anni in Argentina. A liberarmi fu l’intervento del nunzio Pio Laghi" Una lettera firmata dal nunzio apostolico Pio Laghi accompagnata da un crocifisso e da una medaglia della Vergine Maria. È quello che ricevette in carcere Juan Martín Guevara, fratello minore del Che, durante la sua prigionia a Villa Devoto nel 1975, ai tempi della dittatura argentina. Era stato lui, giorni prima, a scrivere alla nunziatura di Buenos Aires denunciando di aver subito maltrattamenti e torture da parte del potere esecutivo nazionale. L’arrivo di quegli oggetti gli confermò che un contatto col futuro cardinale Laghi era stato stabilito. "Quella medaglia e quel crocifisso mi costarono molte percosse da parte delle guardie carcerarie finché, nel corso di una perquisizione, i militari non me la strapparono dal collo". Esattamente un anno fa, la pubblicazione di documenti d’archivio dell’epoca ha rivelato che in una delle liste di prigionieri inviate dall’ex nunzio ai militari compariva anche il nome del giovane Guevara, che molto probabilmente riuscì a salvarsi proprio grazie all’interessamento di Laghi. In questi giorni Juan Martín è in Italia: oggi sarà l’ospite d’onore della rassegna cinematografica "Al cuore dei conflitti" di Bergamo, giunta all’ottava edizione e come sempre dedicata a storie di ingiustizie, ribellioni e umanità. In Spagna e in Gran Bretagna è appena uscita la traduzione del suo libro Mon frère le Che (scritto con la giornalista francese Armelle Vincent), nel quale ha cercato di attualizzare la figura del fratello facendo emergere il suo lato più umano, nel cinquantesimo anniversario della morte. "Ho atteso quarantasette anni per andare a visitare il luogo dove fu ucciso, la piccola scuola di La Huiguera, in Bolivia, e anche per rilasciare dichiarazioni pubbliche in merito - racconta, dopo tanto tempo sentivo il bisogno di umanizzarlo, di dare forma ai suoi pensieri. Purtroppo quel luogo è stato usato per commercializzare la sua immagine e per dar vita al culto che mi fa orrore, quello di "San Ernesto de la Huiguera", al quale la gente del posto chiede miracoli". Juan Martín ha quindici anni meno del Che ma il suo sguardo tradisce un’innegabile somiglianza con quel fratello che lo considerava il suo erede spirituale. "La grande differenza di età ha fatto sì che all’inizio il nostro rapporto fosse solo quello di un fratello molto più grande nei confronti di un bambino. Ma col tempo abbiamo saputo mantenere un rapporto intimo anche stando lontani, con un grande rispetto reciproco". Subito dopo essere entrato all’Avana alla testa di una delle divisioni di Fidel Castro, nel gennaio 1959, Ernesto lo chiamò a Cuba per fargli vivere quei giorni. "Sono cresciuto in un’epoca segnata dalle rivoluzioni, da grandi cambiamenti in tutta l’America Latina e il Che, oltre a essere mio fratello, è stato un punto di riferimento, come per gran parte della gioventù di quegli anni". Anche a distanza di mezzo secolo, ricorda molto bene il giorno in cui venne a sapere che era stato ucciso. "All’epoca lavoravo come garzone in una ditta casearia di Buenos Aires. La mattina presto appresi la notizia dai giornali e al contrario dei miei familiari, non appena ho visto la foto, mi sono convinto che era vero. Come non ho mai avuto alcun dubbio che a ordinare l’omicidio non fu Fidel Castro ma la Cia, com’è stato poi confermato anche da numerosi documenti d’archivio". Proprio il legame di parentela con il numero due della rivoluzione castrista sarebbe costato a Juan Martín Guevara oltre otto anni di prigionia nelle carceri della dittatura argentina. Arrestato nel 1975, divenne un detenuto "a disposizione del potere esecutivo nazionale", prima di essere condannato per generiche attività sovversive. Ottenne la libertà condizionale solo nel 1983, al crepuscolo del regime, con ogni probabilità proprio grazie all’interessamento dell’ex nunzio Pio Laghi, morto nel 2009. Da allora il mondo è cambiato radicalmente. "Quando ho visto Raúl Castro e Obama che si stringevano la mano annunciando la ripresa delle relazioni diplomatiche dopo cinquant’anni di contrasti - rivela - ho pensato che stava succedendo quello che prima o poi doveva succedere. E ho ricordato cosa rispose mio fratello alla giornalista statunitense che negli anni 60 gli chiese cos’avrebbe dovuto fare Washington nei confronti di Cuba. Niente, le disse, assolutamente niente. Soltanto lasciarci in pace". È inevitabile provare a chiedergli se si riconoscerebbe nella Cuba di oggi. "Non riesco a rispondere al posto suo. Mi sembra metaforico provare a dire quello che penserebbe adesso, non posso certo indovinarlo. Credo però che il suo pensiero sia ancora attuale. Nel mondo ci sono enormi disuguaglianze e sempre più corruzione, ancora più che in passato. Fino a quando i popoli non potranno essere padroni del proprio lavoro, della propria vita e del proprio futuro, si susseguiranno le crisi e le guerre. Oggi il mondo avrebbe bisogno di un altro uomo come mio fratello, che non baratti i suoi princìpi per il denaro e il potere". Il Tibet ricorda il Panchen Lama, da 22 anni detenuto in segreto da Pechino asianews.it, 28 aprile 2017 Gedhun Choekyi aveva sei anni quando fu rapito, e da allora non si hanno notizie. I tibetani lo ricordano il giorno del suo 28mo compleanno. Pechino cerca di imporre le sue scelte sul futuro del buddismo tibetano, ma i tibetani chiedono il rilascio del monaco. In occasione del suo 28mo compleanno, il 25 aprile, esponenti del buddismo tibetano hanno ricordato il Panchen Lama, rapito 22 anni fa da Pechino e da allora tenuto in isolamento. Gedhun Choekyi Nyima fu catturato con la sua famiglia dalle autorità cinesi il 17 maggio 1995, tre giorni dopo essere stato riconosciuto come Panchen Lama dall’attuale Dalai Lama, Tenzin Gyatso. Per il buddismo tibetano, il Panchen Lama è importante perché ha il compito di riconoscere la nuova rinascita del Dalai Lama, dopo la sua morte. Rapito a soli sei anni, Nyimia venne definito il "più giovane prigioniero di coscienza della storia". Un candidato sostenuto da Pechino, Gyaincain Norbu, fu quindi proposto in sostituzione dalla Cina nel novembre dello stesso anno. Egli è tuttora impopolare fra i tibetani. Da quando scomparve con la sua famiglia, non ci sono più state notizie sul destino di Nyima. Inutili le richieste delle Nazioni Unite e di altre organizzazioni e agenzie per i diritti umani di fargli visita, con costanza rigettate da Pechino. Due anni fa, un membro del governo cinese aveva affermato che il Panchen Lama "sta vivendo una vita normale e non vuole essere disturbato". In una lettera aperta pubblicata il 25 aprile, il compleanno del Panchen Lama, il commissario per la Commissione internazionale degli Usa per la libertà religiosa Tenzin Dorjee si è rivolto in maniera diretta a Nyima, definendosi addolorato che il disperso Panchen Lama potrebbe non leggere mai le sue parole. "Da quando sei stato rapito, piccolo bambino di sei anni, il governo cinese ha rifiutato di condividere anche le più basilari informazioni su di te e su dove ti trovi," scrive Dorjee. "Per favore sappi che penso a te ogni giorno, e per ogni giorno che passa, la mia determinazione di trovarti e riportarti al ruolo che ti aspetta diventa più forte". "La continua detenzione in segreto del Panchen Lama è un atto di sparizione forzata", aggiunge il Centro tibetano per i diritti umani e la democrazia con base a Dharamsala (Tchrd) in una dichiarazione di questa settimana. "[Questo] è un crimine internazionale grave che viola diversi diritti umani e libertà fondamentali sanciti dalla Dichiarazione universale per i diritti umani e da altri principali strumenti internazionali sui diritti umani", afferma Tchrd. La selezione dei lama reincarnati nelle aree cinese del Tibet ora è sottoposta all’approvazione di Pechino. Spesso gli insegnanti di alto grado spesso scelti fra i "lama patriottici", su cui la Cina può fare affidamento che non chiederanno l’indipendenza tibetana dal governo cinese. La Cina sta cercando di assicurarsi la scelta del monaco che sostituirà l’attuale Dalai Lama, oramai 81enne, dopo la sua morte. In risposta all’ingerenza di Pechino, Tenzin Gyatso negli ultimi anni ha teorizzato che lui potrebbe essere l’ultimo Dalai Lama. "Senza alcun riconoscimento dal Dalai Lama, le autorità cinesi non potranno mai mettere il timbro di legittimità sulla loro scelta di nessun leader religioso, sia esso il Panchen Lama o il futuro Dalai Lama", afferma in una dichiarazione del 25 aprile Bhuchung Tsering, vice presidente per la Campagna internazionale per il Tibet (Ict) con base a Washington. "La Cina può ambire alla propria versione della Legge dell’incarnazione," dice Tsering. "Ma è la volontà dei fedeli che conta davvero". "Prima le autorità cinesi se ne renderanno conto, meglio sarà per loro".