Il mio digiuno per le Rems ridotte a discariche umane di Michele Passione* Il Dubbio, 27 aprile 2017 Il Ddl penale destina le strutture per le misure di sicurezza anche ai detenuti con infermità psichica sopraggiunta. da qui l’azione a cui aderisce anche don Ciotti. Con delibera del 19 aprile il Csm ha dato conto dell’attività istruttoria svolta "allo scopo di verificare il concreto impatto sul sistema giudiziario delle nuove disposizioni in materia di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari", oggi finalmente chiusi. Com’è noto, l’eccezionalità, la transitorietà, la territorialità delle misure di sicurezza detentive (oggi applicabili nelle "Rems"), costituiscono alcune delle fondamentali modifiche introdotte dalla legge 81 del 2014, che ha già superato due "tagliandi" da parte del Giudice delle Leggi da quando è entrata in vigore, a seguito di questioni di legittimità costituzionale sollevate, per aspetti diversi, dal Tribunale di Sorveglianza di Messina e dal Gip di Napoli. La legge di riforma, come tutte le novità radicali, non ha dunque evitato attacchi, ma lentamente ha mostrato, e sta dimostrando, come il tema del disagio mentale, sia pur quando sfoci in fatti di reato (ad opera del folle/ reo), possa e debba essere affrontato con metodi e coordinate diversi dal passato; la sicurezza della cura, piuttosto che la cura della sicurezza. Stupisce, allora, che il Governo abbia ritenuto di presentare un emendamento al ddl poi approvato in Senato, secondo il quale le Rems, vera e propria extrema ratio per affrontare il tema sopra citato, dovrebbero costituire la risposta anche a chi sia destinatario di misure di sicurezza provvisoria, a chi riveli, da detenuto, una sopravvenuta infermità psichica, e perfino qualora ciò occorra ancora accertare. Com’è evidente, se ciò venisse approvato anche alla Camera si assisterebbe ad un ritorno al passato, assolutamente intollerabile, ponendo le basi per commistioni tra soggetti con diversi percorsi di cura, abdicando rispetto al dovere di cura (anche psichica) nei confronti dei detenuti, e di fatto determinando nelle Rems un over-crowding per il quale siamo stati condannati dalla Corte europea dei Diritti dell’uomo. Una "follia", a parere di chi scrive. Del resto, come la delibera del Csm non manca di evidenziare, ad oggi si assiste a "prassi" contra legem, talvolta con mantenimento in carcere di persone per le quali è stata revocata la misura cautelare e disposta una misura di sicurezza (spesso, quasi sempre, applicata in via "prudenziale", piuttosto che dopo un concreto ed approfondito vaglio critico della situazione in atto), in altri casi sanzionando con il ritorno in Rems violazioni di prescrizioni a corredo della libertà vigilata, ciò che la Legge non consente. Ponendo la fiducia, impedendo un dibattito serio (anche) su questo delicatissimo punto, il Governo ha tradito la fiducia di chi si aspettava una riforma seria e definitiva, e di chi, come tanti di noi, aveva messo a disposizione tempo, esperienze professionali, impegno, per provare a "cambiare lo stato di cose esistenti", come si diceva una volta. Vogliamo pensare che ci sia ancora tempo e modo per ragionare, per avere "fiducia" nel cambiamento, per non farsi condizionare dalle paure di chi, come già ai tempi di Basaglia, preferisce chiudere, piuttosto che includere. Anche per questo, dal 12 aprile decine di persone digiunano, "perché non devono tornare gli ospedali psichiatrici giudiziari". Oggi tocca a me; condivido questa pratica, antica, democratica, non violenta, con Gisella Trincas, Stefania Amato, Don Luigi Ciotti, Pietro Pellegrini, Anna Gioia Trasacco, Natascia Curto, che sento vicini e ringrazio. Cambiare è difficile, ma a volte si deve. *Avvocato penalista Invito a cena senza delitto. C'è del buono nell'economia carceraria italiana di Elisa Poli La Repubblica, 27 aprile 2017 Verdure e frutta biologiche, dolci lievitati naturalmente, prodotti presidi Slow Food, ma anche cene stellate "al fresco", produzione di salse e pasticceria per hotel e mense, racconti gastronomici dietro le sbarre: c'è del buono nell'economia carceraria italiana. Come cantava Fabrizio De André se "dai diamanti non nasce niente..." le situazioni più difficili possono essere foriere di nuove occasioni e ricchezze, individuali e sociali. Proprio in quest'ottica guardiamo ai progetti che coinvolgono case di reclusione, detenuti ed ex-detenuti e che aiutano il nostro Paese a ripensare in modo più vivibile il sistema detentivo, combattendo sovraffolamento e carenza di percorsi di riabilitazione e reinserimento. Eccone alcuni tra i più riusciti e innovativi. Orto bio, negozio e progetto artistico: seimila metri quadrati di terra, coltivati in regime biologico. Siamo alla Giudecca, a Venezia. Qui l'Orto delle Meraviglie, all'interno dell'istituto di pena femminile, è attivo dal 1994, quando la cooperativa sociale "Rio Terà dei Pensieri" ha preso in gestione quest'area abbandonata. Oggi produce secondo stagione verdura, erbe aromatiche della macchia mediterranea e molte essenze, utilizzate in un adiacente laboratorio di cosmetica. Grazie a questa iniziativa alcune persone in stato di detenzione sono coinvolte a cadenza settimanale anche nella vendita diretta di prodotti freschi a contatto con il pubblico. Questo spazio godrà di un contributo culturale unico nel suo genere: l'artista Mark Bradford, che rappresenta gli Stati Uniti alla 57a Esposizione Internazionale dell'Arte di Venezia del 2017, curerà con Rio Terà dei Pensieri per 6 anni il progetto di integrazione sociale "Process Collettivo". E, infine, proprio qui sta per aprire, il 29 aprile 2017, Rio Terà dei Pensieri (rioteradeipensieri.org) il secondo store di Economia Carceraria, dopo Freedhome di Torino. Il primo store di economia carceraria: Freedhome è un progetto messo a punto dalle imprese cooperative che lavorano dentro gli istituti di pena italiani e che promuovono eccellenze, alimentari e non, realizzate dietro le sbarre. Torcetti della Val D’Aosta, panettoni e cioccolato di alta pasticceria di Busto Arsizio, mandorle e torroni siciliani, taralli pugliesi, caffè campano e tanti altri prodotti enogastronomici, alcuni dei quali patrocinati da Slowfood, sono in vendita on line (myfreedhome.it) e nel negozio di Torino in via Milano 2/c. L'obiettivo portare lavoro nelle strutture detentive e ripensare il sistema penitenziario in Italia: svolgere un’attività professionale, infatti, significa ricostruire la dignità delle persone, riscrivere il futuro in termini di comportamenti virtuosi e abbassare notevolmente il rischio di recidiva. Freedhome ospita i prodotti: Banda Biscotti, Casa Circondariale di Verbania; Brutti e Buoni, Casa Circondariale di Aosta Brissogne; Extraliberi, Casa Circondariale di Torino; Dolci Libertà, Casa Circondariale di Busto Arsizio, Varese; O Press, Casa Circondariale di Marassi, Genova; Rio Terà dei Pensieri, Casa Circondariale e Carcere Femminile di Venezia; Carta Manolibera, Casa Circondariale di Forlì; Cibo Agricolo Libero, Casa Circondariale di Rebibbia, Roma; Caffè Lazzarelle, Casa Circondariale femminile di Pozzuoli, Napoli; Campo dei Miracoli, Casa Circondariale di Trani; Sprigioniamo Sapori, Casa Circondariale di Ragusa; Dolci Evasioni, Casa Circondariale di Siracusa. Cenare al fresco: le Cene Galeotte, attive dal 2008, al carcere di Volterra mettono la "brigata galeotta" di cucina alla realizzazione di una cena gourmet sotto la guida di uno chef, che nella nuova edizione di appuntamenti tiene anche una lezione inserita nel calendario didattico dell'Istituto Alberghiero all'interno della casa di reclusione. La scuola è nata infatti nel 2012 proprio all'interno del carcere di Volterra e ha classi miste formate dai carcerati e dagli oltre venti ragazzi che ogni giorno varcano le porte della struttura per seguire gli studi. Le serate vedono la partecipazione di cuochi rinomati, come e la collaborazione con importanti aziende vitivinicole, mentre l'intero incasso della serata viene sempre devoluto in beneficienza (informazioni e programma cenegaleotte.it, prenotazioni Agenzie Toscana Turismo tel. 055.2345040). Dolcezze made in carcere: abbiamo conosciuto i prodotti della "Pasticceria Giotto" grazie all'Osteria Plip (via San Donà, Mestre, facebook.com/pg/OsteriaPlip) che spesso ospita i loro dolci, biscotti e lievitati come panettoni e colombe. Cosa ha di speciale, oltra alla bontà, la Pasticceria Giotto? Si tratta di uno dei progetti attivi di Officina Giotto (officinagiotto.com) nella casa di reclusione "Due Palazzi" di Padova. I detenuti ricevono una formazione adeguata alle mansioni svolte, dopo un primo periodo di inserimento vengono regolarmente assunti e sono seguiti dall’ufficio sociale del consorzio in collaborazione con la direzione e gli operatori del carcere. Oltre alla pasticceria artigianale attiva dal 2005, nel carcere di Padova le cucine della casa di reclusione, completamente rinnovate nel 2004, sono gestite dai detenuti che cucinano 900 colazioni, pranzi e cene 365 giorni l’anno. Dalle cucine inoltre ogni giorno partono per l’esterno semilavorati, come insalata tagliata e lavata, macedonie, tramezzini, torte e pasticceria salata, giungono a hotel a quattro stelle, ristoranti, catering e mense universitarie. InGalera, ristorante alla periferia di Milano famoso anche oltreoceano: "InGalera" è il nome del primo ristorante in Italia all'interno di un carcere, un progetto all'avanguardia ospitato dalla casa di reclusione di Bollate (Milano), che ha destato l'attenzione, e le lodi entustiaste, del giornalista del New York Times Jim Yardley. Nelle ultime settimane questo speciale ristorante, nato a fine 2015 grazie alla direttrice e ideatrice Silvia Polleri, ha ricevuto anche le visite dello chef Carlo Cracco accompagnato dal ministro dall'agricoltura Maurizio Martina e probabilmentesarà replicato anche nelle carceri di Torino e Genova. InGalera a un anno e mezzo dalla partenza funziona solo grazie a personale interno, propone una cucina raffinata a base di ingredienti selezionatissimi, menù alla carta e degustazione (con piatti come l'immancabile risotto giallo e la cotoletta milanese con l'osso), una bella carta dei vini, prezzi equi e la non trascurabile emozione di trovarsi per qualche ora in un posto "proibito" (informazioni e prenotazioni (ingalera.it). Un progetto che ha un chiaro effetto positivo sui detenuti riabilitati e che ci stimola a pensare nuove soluzioni per risolvere i problemi del ssistema carcerario italiano, ancora sotto osservazione da parte della Corte europea dei diritti dell'uomo. Scriviamo... con gusto: è il nome del blog degli studenti della sede carceraria di Ranza-S.Gimignano dell’Istituto Enogastronomico di Colle Val d’Elsa (Istituto d’Istruzione superiore statale "Bettino Ricasoli" di Siena). Su scriviamocongusto.wordpress.com troviamo ricette che tengono conto di calorie e food cost, ricerche sulla gastronomia nazionale, riflessioni che raccontano il lavoro all’interno delle aule e dei laboratori dei reclusi dei circuiti di alta e media sicurezza, insomma tutto ciò che può aiutare a gettare, grazie a internet, uno sguardo e un ponte oltre le sbarre. L’elaborazione dei testi, di cui sono autori i detenuti, è coordinata dai docenti Gilda Penna e Laura Staiano con gli insegnanti che curano le lezioni nelle diverse materie. Il progetto è anche un ottimo strumento per comunicare le attività della scuola che negli anni passati ha promosso la pubblicazione di un ricettario e una gara di cucina con gli studenti di Colle Val d’Elsa. Filiera sociale a km Zero: a Cremona il nuovo progetto "dalla terra alla tavola" di filiera solidale unisce detenuti-cuochi, minori stranieri e persone con fragilità psichiche. Nell'azienda agricola della Cooperativa Nazareth a Persico Dosimo migranti e disabili psichici coltivano ortaggi biologici che vengono poi trasformati in gustose conserve e salse dai detenuti-chef della casa circondariale cittadina di Cà del Ferro. I detenuti, in una sequenza di corsi della durata complessiva di 120 ore, ottengono attestati su HACCP e sicurezza sul lavoro e affrontano esercitazioni pratiche per apprendere come trattare gli ingredienti e come cucinarli sotto la guida di uno chef professionista (rigeneracremona.it). "Rob De Matt" a Milano: si chiama proprio "Rob De Matt" (robdematt.org), "roba da matti" in milanese, il locale in via Enrico Annibale Butti a Milano che offre cucina a base di piatti di verdure, carne e pesce e a fine pasto anche le ricette dei piatti degustati. L'aspetto veramente speciale di Rob de Matt però è che forma e fa lavorare persone con disagio psichico, migranti in difficoltà ed ex-detenuti a fianco dello chef Edoardo Todeschini, che ha avuto l'idea del progetto con l'educatore Franz Purpura. Inaugurato il 7 aprile 2017 all'interno della sede dell'associazione L'Amico Charly (amicocharly.it) "Rob De Matt" serve 40 coperti e ha un giardino e un orto a cui sono chiamati anche gli abitanti del quartiere Dergano a collaborare. Olio d'oliva DOP per il recupero sociale: la società agricola Il Cavaliere Bio di Salò è impegnata in un'olivicoltura ad alto impatto e recupero sociale, producendo Olio Garda DOP anche grazie all'inserimento di giovani usciti dal carcere e al recupero di oliveti abbandonati. Tra prescrizione e diritto alla vita di Francesco Petrelli* L’Unità, 27 aprile 2017 Una prescrizione troppo lunga offende il "diritto atta vita"? È una verità sulla quale spesso non si riflette abbastanza. Se la sanità non funziona ce la prendiamo con i medici, con gli ospedali magari, ma non con i malati. Se un esercizio commerciale non va, non ce la prendiamo con i clienti, ma con i commessi e piuttosto con il titolare. Se il sistema processuale non va, perché prendersela con i cittadini? I processi si prescrivono perché durano troppo. Se avessero una durata ragionevole non si prescriverebbero. Negli altri Paesi i processi durano mediamente, a seconda della gravità dei reati, quanto dura la nostra prescrizione. E questo dimostra come il problema, nel nostro Paese, non è quello della prescrizione troppo breve, ma quello di un sistema processuale troppo lento e di processi troppo lunghi. Quando si dice che una prescrizione troppo lunga offende il "diritto alla vita" si dice una verità sulla quale spesso non si riflette abbastanza. La durata di un processo deve essere calibrata sulla durata dell’esistenza di un individuo. Pensate ad un ragazzo che con i soldi regalati dai genitori, per aver superato brillantemente l’esame di maturità, acquisiti la moto dei suoi sogni, usata. Che il motoveicolo risulti poi per avventura rubato e il povero ragazzo finisca imputato di ricettazione. Dati i tempi di un processo ordinario, farà l’Università da imputato, si sarà laureato da imputato, dovrà forse rinunciare a qualche concorso a causa di quella pendenza, poi forse si sposerà da imputato e quando avrà ventotto anni il processo sarà ancora forse in fase di appello. Avrà dei figli che avranno un papà imputato, che tuttavia - grazie alla riforma della prescrizione - potranno compiere tre anni quando la Cassazione (forse) annullerà senza rinvio la condanna. È solo un banale esempio che tuttavia può forse chiarire come processi, prescrizione, durata ragionevole non siano problemi astratti, da proiettare in una logica criminale, ma dinamiche concrete da calare nella nostra vita, nella vita di ogni cittadino, nei parametri di equità e nei principi di civiltà e di libertà cui una società moderna deve aspirare. L’Europa non ci chiede affatto di allungare la prescrizione, ma di fare i processi in tempi ragionevoli. Sono due cose molto diverse. Se dicessimo con onestà ai nostri amici europei che l’amministratore di una multinazionale sospettato di corruzione saprà dell’esito del suo processo dopo venti anni (come vuole il Ddl) pensate che ci faranno un applauso di entusiasmo? Pensate che questi tempi, santificati dalla "nuova" prescrizione, agevoleranno gli investimenti, promuoveranno l’Italia nel mondo, ne faranno un paese più efficiente e più moderno? Le statistiche ministeriali hanno dimostrato che, in fondo, una sana ed oculata amministrazione dei tribunali garantisce tempi processuali ragionevoli ed annulla di fatto il problema della la prescrizione. Quando apprendiamo che un reato gravissimo come l’abuso sessuale si è prescritto perché il fascicolo è rimasto fermo fra un grado e l’altro per nove anni, la reazione non dovrebbe essere quella di trovare un rimedio razionale? Cercare di annullare quei "tempi morti", piuttosto che allungare la prescrizione, inseguendo i tempi delle disfunzioni, disincentivando la riorganizzazioni degli uffici e rendendo con ciò i processi sostanzialmente eterni? E questo vale anche per le persone offese e per le parti civili, "condannate" ad attendere decenni prima di poter ottenere ragione e per poter essere risarcite. La durata dei processi deve essere calibrata, infatti, non solo sulla durata e sulle esigenze di vita di un individuo ma anche sulla vita e sulle esigenze dell’intera collettività. Non solo la riforma della prescrizione contenuta nel Ddl non è affatto "necessaria", ma è per queste ragioni deleteria sotto il profilo pratico e pericolosa sotto quello ideologico, perché confonde le cause con gli effetti, ed anziché curare la patologia la perpetua. *Unione Camere Penali Italiane Come cambierà la legittima difesa: sarà "allargata", deciderà il giudice di Claudia Fusani L’Unità, 27 aprile 2017 La legittima difesa cambia. Ma non per merito della Lega che, ingolosita dalla propaganda facile e da un consenso spiccio, sembra essersi intrecciata in promesse che non può mantenere come quella di togliere di mezzo ogni tipo di valutazione da parte di un pm e poi di in giudice. "Chi mette piede in casa e non è invitato gli sparo e basta" è il leit motiv leghista rilanciato da talk show e dibattiti televisivi. Il testo del disegno di legge, proposto dal Carroccio, doveva andare in aula ieri a Montecitorio ma è slittato nuovamente, causa Def, alla prossima settimana. Con una modifica sostanziale che porta però la firma del Pd. Assodato che è impraticabile la strada intrapresa dal Carroccio di eliminare ogni valutazione del giudice, il responsabile giustizia del Pd Davide Ermini, dopo aver ascoltato in Commissione magistrati, penalisti e professori di diritto, ha concentrato le energie non sull’articolo 52 del codice penale (legittima difesa) né sul 55 (eccesso colposo) ma sul 59 che prevede l’errore scusabile e stabilisce "le circostanze che attenuano o escludono la pena valutate in favore dell’agente", cioè chi spara per difendersi. Nessun automatismo, dunque, tra ingresso nei confini di una proprietà privata e l’uso delle armi come vorrebbe la Lega. Ma un ampliamento delle attenuanti in favore di chi, sentendosi minacciato, reagisce con l’uso delle armi. Un modo per rispondere ai timori e alla paura di rapine in casa e nei negozi, La modifica introduce l’elemento del "grave turbamento psichico" causato dalla condotta di chi aggredisce e che di per sé può escludere la colpa. La prima Commissione Affari costituzionali ha intravisto però nella formulazione "grave turbamento psichico" una maglia troppo larga, discrezionale e quindi rischiosa perché troppo interpretabile. Proprio ieri Ermini ha presentato un emendamento che ha circoscritto in maniera oggettiva le fattispecie del grave turbamento psichico; quando c’è rischio per la incolumità fisica personale e di altre persone nella casa; ma anche se tentano di rubare un auto su cui il proprietario ha investito molto. Non ci può essere se rubano una bici e dei meloni in un campo. Saranno queste, da quello che è emerso ieri pomeriggio al Comitato dei Nove, le uniche modifiche al sistema di articoli che regolano la legittima difesa. Che cambia, sarà più larga ma non nella direzione, impraticabile, cercata dalla Lega. Già così, comunque, come ha ricordato il ministro della Giustizia Andrea Orlando ospite a Di martedì, "il 90% dei casi di eccesso colposo di legittima difesa vengono archiviati dalla magistratura". Con le modifiche, in pratiche, rischierà la punizione solo chi spara al ladro che fugge prima di aver toccato alcunché. Il 25 aprile Matteo Salvini ha organizzato a Verona la giornata dedicata alla legittima difesa, una piccola Pontida ricostruita nel Palasport di Verona. Seimila persone, non un grande successo che Salvini ha a addebitato alla "stampa italiana ridotta in stato di sevi tu". Sul palco il segretario ha invitato Graziano Stacchio il benzinaio di Nanto che il 13 febbraio 2015 sparò e uccise uno dei banditi della banda che assaltò la gioielleria di Robertino Zancan proprio vicino al suo distributore e Franco Birolo il tabaccaio di Civè di Correzzola. Persone che hanno sparato contro i rapinatori, hanno ucciso, sono state indagate ma poi anche assolte. Birolo, ad esempio, è stato condannato in primo grado a due anni e 6 mesi per aver ucciso - era il 2012 - il ventenne moldavo che con tre complici era entrato nella sua tabaccheria. In più avrebbe dovuto anche risarcire la famiglia della vittima. Il 17 marzo è stato assolto in Appello. La nuova legittima difesa modificata dalla maggioranza dovrebbe impedire condanne di questo genere. Strage di Alcamo. Risarcito (da morto) un altro innocente di Errico Novi Il Dubbio, 27 aprile 2017 Dallo Stato 6,4 milioni anche agli eredi di Giovanni Mandalà. La mostruosa storia di ingiustizia iniziata con l’omicidio di due carabinieri nel 1976 continua a produrre riparazioni milionarie a chi ne fu accusato dopo orrende torture. Giuseppe Gulotta ha potuto raccontare la sua storia. È stato torturato, accusato e tenuto 22 anni in galera per un delitto atroce che non aveva commesso. Ma ne è uscito vivo. Di Giovanni Mandalà si sapeva che era stato pure lui assolto, o meglio riabilitato, post mortem, dalla stessa ingiusta accusa: aver ucciso due carabinieri in quella che è passata alle cronache come la "strage di Alcamo marina" del 27 gennaio 1976. Ma la tragedia di Giovanni, forse ancora più atroce di quella dell’altra vittima, è rimasta più nascosta. E neppure era mai circolata la notizia di un maxi "risarcimento" per ingiusta detenzione e per errore giudiziario ottenuto dai suoi eredi a ben 18 anni di distanza dalla sua scomparsa. Giovanni è morto nel novembre del ‘ 98, dopo 16 anni di galera. La Corte d’Appello di Catania ha ordinato nel luglio 2016 di "indennizzare" sua moglie e i suoi figli per l’ingiustizia patita dal familiare. Che non aveva fatto nulla. Ancora non si conosce il nome dei veri colpevoli dell’omicidio dei carabinieri Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo. Si sa però che Peppino Impastato aveva trovato elementi interessanti. E che l’inchiesta "vera" della Procura di Trapani aveva fatto balenare un’orrenda macchinazione per coprire un traffico d’armi destinato alla struttura segreta di Gladio. Una storia di misteri, probabilmente di servizi deviati, di certo inquinata da prove inventate e confessioni estorte con la tortura, continua a macinare inevitabili ristori milionari: 6 milioni e mezzo a Gulotta, ora si scopre che altri 6 milioni e 400mila euro sono stati riconosciuti agli eredi di Mandalà. Non si finisce mai. Un pozzo senza fondo, per lo Stato, questa mostruosa storia di ingiustizia. Ma anche con il corollario di numerosi paradossi che accompagnano i giudizi sulle "riparazioni" a Gulotta e ai familiari di Mandalà. Il no della cassazione a risarcire le torture - Non sono certo pochi, i 6.391.996 euro assegnati alla moglie e ai figli di Giovanni. Loro non si sono mai sognati di farli passare per un’elemosina. Hanno però tentato di avere giustizia fino in fondo, e cioè di veder risarcito come danno da fatto illecito, anzi di gravissimo rilievo penale, anche le torture inflitte nel lontano 1976 a Giovanni da una "squadra" di carabinieri dimostratasi, nei fatti, criminale e spietata. Con sentenza dello scorso 31 gennaio (numero 18168), la quarta sezione penale della Cassazione ha stabilito che un simile risarcimento è inaccessibile perché la legge sulla riparazione da errore giudiziario impone allo Stato di pagare solo per la "attività di un pubblico dipendente che sia rivolta il conseguimento dei fini istituzionali" dell’ente, in questo caso dell’Arma. Tutto il resto, se è crimine, prevaricazione tortura, "non può essere "riferito all’amministrazione". Ma le abiezioni commesse su Mandalà e gli altro quattro innocenti - tra i quali Gulotta - non potevano più dar luogo a un’azione di risarcimento del danno nei confronti dei carabinieri-aguzzini, le cui condotte erano nel frattempo andate in prescrizione: risalivano al 1976, la verità è cominciata a venir fuori solo a partire dal 2008 ed è stata accertata con la revisione processuale conclusa appunto, per Mandalà, ben 6 anni dopo. Perciò i familiari di Giovanni sono stati condannati di fatto dalla Suprema corte a non vedere risarcite fino in fondo le sofferenze del congiunto. È la storia infinita di cinque innocenti accusati, torturati e ingiustamente puniti con condanne rivelatesi ingiuste troppo tempo dopo. Nella notte maledetta di Alcamo marina loro non c’entravano nulla. Né Giovanni né i suoi presunti quattro complici. Non c’entrava nulla Giuseppe Vesco, che accusò tutti gli altri, per poi ritrattare ed essere trovato impiccato in cella. Né Vincenzo Ferrantelli né Gaetano Santangelo, fuggiti in Brasile per sottrarsi a una mostruosa ingiustizia. Né Giuseppe Gulotta, rimasto in carcere 22 anni Giovanni Mandalà si era sempre dichiarato innocente ed è morto nella disperazione di una condanna all’ergastolo, divorato da un cancro che se l’è mangiato nella certezza di non poter avere mai giustizia. Giovanni ottenne la scarcerazione e la detenzione ai domiciliari per gravi motivi di salute: perché appunto aveva un tumore maligno e ormai incurabile. L’unica attenuazione che gli fu concessa fu di morire a casa. È per questo che i suoi eredi hanno inutilmente reclamato, nell’impugnazione davanti alla Suprema corte, una cifra superiore. Avrebbero voluto vedere sanate due ferite: l’impossibilità di chiedere il risarcimento del danno per le torture subite dopo l’arresto: e il comprensibile desiderio di veder risarcita in modo specifico anche la malattia come conseguenza dell’ergastolo. Qui il no della quarta sezione suona particolarmente amaro: è il relatore Pasquale Gianniti (presidente Fausto Izzo) a evocare "la complessiva enorme durata della carcerazione, il carattere definitivo della stessa (ergastolo), che priva di speranza di liberazione il condannato, la sua protrazione fino alla morte, annunciata negli ultimi anni a seguito della contrazione del cancro, la forzata privazione di una vita normale, il tutto nella consapevolezza della propria innocenza a causa di un complotto di infedeli servitori dello Stato". Tenuto conto di questo, che la Corte d’Appello di Catania aveva già posto a fondamento della sentenza di riparazione, la Suprema corte ha confermato, che "non risultava provato che la morte del Mandalà sia stata conseguenza della carcerazione". Ci vuole davvero la precisa individuazione di una relazione immediata tra un calvario come quello di Giovanni e il cancro che l’ha ucciso, per ritenere che lo si debba risarcire anche per quello? Resta comunque il riconoscimento da parte dello Stato di una terribile ingiustizia, che trascina le sue scorie da oltre quarant’anni. Strage di Alcamo. Quella confessione estorta con botte e scariche ai testicoli di Simona Musco Il Dubbio, 27 aprile 2017 Il racconto di Giuseppe Gulotta, assolto dopo 22 anni in cella. Tredici milioni di euro per mettere la parola fine a quello che forse verrà ricordato come il più grande errore giudiziario italiano e che ancora continua a registrare colpi di scena. Tredici milioni da dividere per due famiglie dilaniate per anni e anni da accuse ingiuste, che hanno divorato le vite di tutti i protagonisti. Si tratta di Giovanni Mandalà e Giuseppe Gulotta, due dei protagonisti della strage di Alcamo. Una strage alla quale, in realtà, non hanno mai preso parte. Ma per riconoscerlo hanno dovuto passare decenni dietro le sbarre e affrontare torture e tribunali. Un’innocenza che per Gulotta vale appunto 6 milioni e mezzo di euro, la cifra stabilita per ripagare 22 anni in carcere senza motivo. Quaranta anni dopo essere finito in manette con un’accusa pesantissima, ad aprile 2016, la Corte d’Appello di Reggio Calabria ha stabilito quanto costa l’errore giudiziario che si è consumato sulle sue spalle, condannando il ministero dell’Economia e delle Finanze al pagamento di un maxi risarcimento. "Nessuna cifra al mondo potrebbe risarcire quanto ho subito. Sei milioni e mezzo sono tanti e di certo adesso, dopo una vita di stenti, potrò far fronte alle necessità familiari. Ma dopo 40 anni di vita rubata, possono bastare?", ha commentato Gulotta al Dubbio, lo scorso anno, poco dopo la lettura della sentenza. Lo Stato, infatti, ha riconosciuto ad ogni anno della sua vita un valore di 163mila euro. Poco, pochissimo a fronte di come Gulotta ha trascorso quegli anni: dietro le sbarre. Per questo i suoi avvocati, Saro Lauria e Pardo Cellini, avvalendosi di un tecnico, avevano chiesto 56 milioni di euro. "Non è una somma a caso. Questa, forse, è l’ennesima beffa subita in questi 40 anni - ha spiegato. Speravo in qualcosa di più ma se per lo Stato tutte le mie difficoltà corrispondono a questa cifra rispetterò la sentenza. Però l’amarezza rimane. Alle volte non si trovano le parole per esprimere i sentimenti". La vita di Gulotta è stata presa e gettata via quando aveva solo 18 anni. Era un giovane muratore quando, di notte, si è ritrovato ammanettato, legato con le caviglie ad una sedia, picchiato e umiliato fino a confessare un reato che non aveva commesso e del quale non sapeva nulla. Per 22 lunghissimi anni, quel 27 gennaio del 1976 è stato lui a trucidare il 19enne Carmine Apuzzo e l’appuntato Salvatore Falcetta, della caserma di Alkamar, in provincia di Trapani. Dopo settimane di rastrellamenti, il colonnello Giuseppe Russo e i suoi uomini ammanettarono quattro ragazzi. Furono ore di pestaggi, minacce, finte esecuzioni, scariche elettriche ai testicoli, acqua e sale in gola, fino ad una confessione urlata per ottenere la salvezza. Iniziarono così i 36 anni di calvario di Gulotta, che ha ottenuto la revisione del processo dopo la rivelazione di un ex carabiniere, Renato Olino, sui metodi usati per estorcere quelle confessioni. Fu poi un pentito, Vincenzo Calcara, a parlare di un ruolo della mafia nella strage, collegandola all’organizzazione "Gladio", la struttura militare segreta con base nel trapanese: i militari potrebbero essere stati uccisi per avere fermato un furgone carico di armi destinato a loro. L’assoluzione di Gulotta è arrivata il 13 febbraio 2012, 36 anni esatti dopo il suo arresto. "Ho subito tutto senza sapere né come né perché. So che è stato fatto il mio nome, mi hanno fatto confessare e, anche se ho ritrattato subito, i giudici non mi hanno creduto - ha raccontato. Lo Stato, per errore, ha tenuto la mia vita in sospeso per 40 anni. Spero in un futuro migliore. Ma il mio passato è andato perso, i miei 18 anni non ci saranno più" Fausto Silini: "aspetto ancora d’incontrare il terrorista che mi sparò 40 anni fa" di Maurizio Bonassina Corriere della Sera, 27 aprile 2017 Fausto Silini, ex caporeparto, fu gambizzato a Sesto dalla "Walter Alasia" nel 1977"Ho voluto dimenticare il suo volto, ma ora parlargli mi darebbe la pace". "Tam! Tam! ta! Ho sentito questo rumore secco e ho visto una faccia giovane davanti a me. Poi mi sono accorto che quel ragazzo nella mano stringeva una pistola. Era nera e lucida. A quel punto ho capito: "Cosa fai, cosa fai?" ho gridato. Solo allora ho sentito il dolore e mi sono accasciato davanti al cancello della ditta. Ed è arrivata, in ritardo, la paura". Racconta così, Fausto Silini, 94 anni, l’aggressione davanti alla Breda ad opera delle Brigate Rosse. "Sono arrivato a Sesto San Giovanni da Grumello, nella Bergamasca, che ero ragazzino - prosegue - con una scuola professionale interrotta alle spalle e mio padre che mi dava poche scelte, studiare o lavorare. Nel 1942 sono entrato alla Breda". I colpi di pistola dei terroristi della colonna "Walter Alasia" hanno una data: "9 giugno 1977, ore 7, 30 del mattino, il solito giro con l’autobus per arrivare, in orario, in azienda. Non me l’aspettavo. Quella mattina ho preso il pullman con i miei colleghi, un giorno come gli altri". Erano gli "anni di piombo" e Sesto era la "Stalingrado d’Italia". "La mia storia, quella che mi ha portato ad avere il "privilegio" di sei colpi di rivoltella alle gambe, di cui tre a segno, nasce dalla mia carriera in azienda - ricorda Silini. Alla Breda ho passato tanti reparti: dovunque andassi risolvevo situazioni che i dirigenti faticavano a gestire. Sono arrivato ai confini della dirigenza, ma non avevo un diploma e oltre non potevo andare. Il guaio - continua - è stata la riorganizzazione del magazzino prodotti: trenta operai, dopo il mio intervento, sono stati trasferiti e, in un certo senso, declassati. Lì, non servivano più: spostati a lavorare all’aperto, in ambienti scomodi. La responsabilità, per i sindacati, era mia, una colpa che si è tradotta in quella aggressione". Di quella mattina nera, l’ex caporeparto porta i segni: un menisco che non c’è più e le cicatrici ben evidenti. "Ma - afferma oggi Fausto Silini - i terroristi hanno sbagliato. Non sono mai stato comunista ma ho sempre guardato anche a sinistra. La mia ideologia non è mai stata rigida, capivo i "rossi" e gli antagonisti. Tanti operai erano miei amici, molti di loro, malgrado quello che si diceva, andavano a messa e nessuno mangiava i bambini. Eravamo tutti colleghi e io stavo poco in ufficio. Lo dicevo anche ai miei superiori: per capire come va il lavoro bisogna lasciare la sedia e andare giù in reparto. Quel momento era comunque segnato, i brigatisti mettevano tutti nel mirino, senza scegliere. Il viso e il nome di chi mi ha sparato l’ho voluto dimenticare. Quando i carabinieri, al tempo, mi costrinsero a scendere in Via Filangeri (il carcere di San Vittore, ndr), nella gabbia, per il processo, ho guardato le loro facce senza neppure vederle. Tra i tanti c’era lui, io invece volevo solo dimenticare. Ho un dispiacere - dice -: quel ragazzo, mi hanno detto, si è poi pentito e si è rivolto alla Curia per denunciare un deposito di armi arrugginite nascoste in un tombino". La storia ricorda di una confessione e una richiesta di perdono: la firma è di Ernesto Balducchi tra gli imputati del gesto (come esecutore materiale, ricordano invece le cronache dell’epoca, fu indicato Piergiorgio Palmero). La consegna delle armi, nel giugno 1984, avvenuta all’improvviso: dentro un borsone gettato sul tavolo del segretario del cardinal Martini. Poi l’intervento del prefetto e un coro di richiesta di perdono dai terroristi, che il cardinale ha successivamente ben accolto. "Ma il mio aggressore - ribadisce la vittima - non ha avuto il coraggio di venire da me. Un gesto che invece mi avrebbe riconciliato con la vita". Felix Croft alla sbarra per reato di solidarietà di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 27 aprile 2017 Il francese ha aiutato una famiglia di migranti a passare il confine italiano. I pm liguri lo accusano di favoreggiamento dell’immigrazione. Lui non ci sta: "ho soccorso una famiglia con una donna incinta". Oggi la sentenza del tribunale di Imperia. Recita l’articolo 2 della Costituzione italiana: "La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale". La solidarietà dunque intesa come dovere, solo che nel nostro paese sembra che un pilastro della convivenza civile come questo sia in via di smantellamento. Capita infatti che un cittadino francese, Felix Croft, oggi sarà giudicato dal tribunale di Imperia per "reato di solidarietà". Croft nel luglio del 2016 è stato arrestato dai Carabinieri al casello di Ventimiglia per aver tentato di passare la frontiera: a bordo della sua auto, i 5 componenti di una famiglia sudanese, si trattava di una donna incinta con il marito, il fratello e due bimbi piccoli, come si può verificare dal comunicato del comitato di sostegno per Felix. Croft ora rischia una condanna pesante, 3 anni e 4 mesi, oltre ad una multa di 50mila euro, per il reato di favoreggiamento all’immigrazione clandestina. In realtà la famiglia proveniente dal Darfur aveva trovato ospitalità presso una chiesa proprio nei giorni dell’estate scorsa quando il sindaco di Ventimiglia aveva emanato l’ordinanza che vieta di dar da mangiare ai migranti. Racconta Croft: "Mi sono trovato di fronte a una situazione che mi ha colpito nel profondo: la donna incinta di 6 mesi era duramente provata, uno dei bambini aveva ancora su un fianco i segni di una profonda ustione, per non parlare del racconto tragico del loro viaggio e della distruzione del loro villaggio, dato alle fiamme. Si trovavano lì bloccati, senza vie d’uscita. Impossibile per loro camminare lungo l’autostrada, rischiando la morte con i bambini, impossibile anche prendere un treno, viste le continue perquisizioni in atto sui convogli che passano la frontiera; non avevano denaro per pagarsi un passeur per tentare di raggiungere la Germania dove hanno dei parenti. Più volte la giovane madre mi ha chiesto aiuto, quasi implorandomi di portarli via con me: il resto lo sapete, siamo stati fermati al casello autostradale di Ventimiglia, io sono stato arrestato". Il tutto è avvenuto ed avviene vicino le spiagge ricche della Costa Azzurra. Molti volontari e osservatori parlano delle Alpi Marittime come una sorta di zona di non droit, molti sono coloro che tentano di far passare la frontiera ai migranti, si tratta di una vera e propria emergenza tanto che si è arrivati al punto che recentemente il Tribunale Amministrativo di Nizza ha condannato il Prefetto per "violazione del diritto d’asilo". La sentenza del Tribunale d’Imperia riveste un’importanza particolare poiché in caso di condanna si costituirebbe un precedente pericoloso per tutti coloro che tentano di aiutare i migranti. Sta nascendo infatti un nuovo tipo di delitto: il reato di solidarietà. In Francia sono state rinviate a giudizio molte persone, semplici cittadini accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Il risultato della politica di frontiere blindate e allarmi terrorismo. Ora anche in Italia potrebbe succedere lo stesso. Il presidente dell’associazione Antigone, Patrizio Gonnella, spiega bene di che meccanismo si tratta: "Ancora una volta vediamo tribunali e forze dell’ordine impegnate a perseguire reati di solidarietà. Ma utilizzare il diritto per colpire questi episodi non può trovare giustificazioni. Non si può paragonare chi è mosso da principi umanitari a chi traffica esseri umani per profitto sottolinea Gonnella. La richiesta di condanna a 3 anni e 4 mesi più una multa di 50mila euro è oltretutto totalmente sproporzionata rispetto al reato commesso. Giustificare tale richiesta con ragioni di sicurezza, ovvero per il fatto che qualcuna delle persone trasportate sarebbe potuta essere un foreign fighter affiliato all’Isis, giustifica un connubio, quello tra immigrazione e terrorismo, pericoloso e alimentato spesso a solo scopo propagandistico per un tornaconto elettorale". Gli avvocati di Felix Croft, Laura Martinelli e i colleghi Ersilia Ferrante e Gianluca Vitale, hanno chiesto che venga applicata la clausola che consente l’eccezione alla fattispecie di reato di favoreggiamento per "attestati motivi umanitari", come previsto dalla legislazione europea. Il caso di Cedric Herrou, l’agricoltore della Val Roja che aiutò 200 migranti a passare la frontiera, assolto dal tribunale di Nizza proprio per comprovati atti umanitari, si spera possa aver fatto scuola, un’eventualità alla quale si aggrappa anche Francesca Peirotti che il prossimo maggio saprà se verrà confermata la richiesta di 8 mesi di reclusione sempre per gli stessi "reati". Chi è ai domiciliari commette evasione se non risponde al citofono di Andrea A. Moramarco Il Sole 24 Ore, 27 aprile 2017 Corte d’appello di Cagliari, sentenza 1° febbraio 2017, n. 72. Commette il reato di evasione il soggetto sottoposto agli arresti domiciliari che non risponde al citofono in occasione di un controllo notturno da parte delle Forze dell’ordine. La mancata risposta al citofono per un rilevante lasso temporale, infatti, è indice dell’allontanamento senza autorizzazione dal luogo di esecuzione della misura restrittiva. Nel caso di specie, l’imputato non ha risposto a chiamate ripetute nell’arco di dieci minuti e tali da destare un individuo da un sonno non patologico. Colpa medica, più favorevole ai sanitari la vecchia legge Balduzzi: spazio al favor rei di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 27 aprile 2017 Corte di cassazione, Quarta sezione penale, Notizia di decisione n. 3 del 2017. Sulla colpa medica si sono strette le maglie. Tanto da rendere applicabile un classico principio del diritto penale come il favor rei. In altre parole, ai fatti verificatisi prima del 1° aprile, data di entrata in vigore della nuova disciplina, si dovrà applicare la vecchia e più favorevole previsione della legge Balduzzi, che aveva escluso la rilevanza penale delle condotte caratterizzate da colpa lieve, in tutte quelle situazioni nelle quali è possibile l’applicazione di linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica. A chiarirlo è la Corte di cassazione con la notizia di decisione n. 3 del 2017, presa dalla quarta sezione penale nell’udienza del 20 aprile scorso. Le motivazioni saranno note solo tra qualche tempo, ma intanto è già possibile osservare come, a una primissima valutazione, la Cassazione ha proceduto a un confronto tra le norme penali che si sono succedute nel tempo per disciplinare la medesima fattispecie, quella della colpa medica. A dire la verità, la Corte, sentenza n. 16140 della medesima Sezione, aveva avuto modo di sottolineare come l’entrata in vigore della legge 24 del 2017 "assume rilievo nell’ambito del giudizio di rinvio, posto che la Corte di appello, chiamata a riconsiderare il tema della responsabilità dell’imputato, dovrà verificare l’ambito applicativo della sopravvenuta normativa sostanziale di riferimento, disciplinante la responsabilità colposa per morte o lesioni personali provocate da parte del sanitario. E lo scrutinio dovrà specificamente riguardare l’individuazione della legge ritenuta più favorevole, tra quelle succedutesi nel tempo, da applicare al caso di giudizio, ai sensi e per gli effetti dell’articolo 2, comma 4, Codice penale, secondo gli alternativi criteri della irretroattività della modificazione sfavorevole ovvero della retroattività della nuova disciplina più favorevole". Adesso, il nuovo articolo 590 sexies, che la notizia di decisione considera applicabile solo a fatti successivi al 1° aprile, prevede che se l’evento dannoso si è "verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto". Una formulazione che sembra lasciare margini di discrezionalità più ampi all’autorità giudiziaria rispetto alla situazione precedente. Starà infatti al giudice valutare, situazione per situazione, l’adeguatezza delle linee guida al caso concreto. Si è poi circoscritta la limitazione di responsabilità alle sole condotte rispettose delle linee guida caratterizzate da imperizia. Una soluzione che appare dissonante rispetto alle aperture fatte dalla stessa Cassazione sui margini applicativi della legge Balduzzi. Con il forte rischio che, per effetto di un confine assai esile tra le varie ipotesi di colpa, l’accusa punti a trasformare casi di imperizia in imputazioni per negligenza e imprudenza. Ipotesi nelle quali non scatta l’esenzione per aderenza alle linee guida. Un esempio di questo orientamento della Cassazione più favorevole ai medici e che ora potrebbe uscire compromesso o limitato? La recente sentenza n. 23283 del 2016, con la quale venne stabilito che la limitazione di responsabilità della legge Balduzzi poteva essere prevista anche in caso di un’accusa di omicidio colposo, per errori caratterizzati da profili di colpa generica diversi dall’imperizia. Reati societari, il concorso tra reati di tipo diverso diminuisce l’entità della pena Il Sole 24 Ore, 27 aprile 2017 Reati fallimentari - Reati tributari - Occultamento o distruzione di documenti contabili - Concorso tra reati - Ammissibilità - "Ne bis in idem" sostanziale - Reato fallimentare (articolo 216 legge fall.) - Reato tributario (articolo10 Dlgs. 74/2000) - Principio di specialità - Insussistenza. Non sussiste rapporto di specialità (ex articolo 15 cod. pen.) tra la bancarotta fraudolenta documentale (articolo 116 legge fall.) e l’occultamento o distruzione di documenti contabili (articolo 10 Dlgs. n. 74/2000), stante la diversità delle fattispecie incriminatrici, richiedendo quella tributaria la impossibilità di ricostruire l’ammontare dei redditi o il volume degli affari, intesa come impossibilità di accertare il risultato economico di quelle sole operazioni connesse alla documentazione occultata o distrutta; diversamente, l’azione fraudolenta sottesa dall’articolo 216, n. 2, legge fall. si concreta in un evento da cui discende la lesione degli interessi creditori, rapportato all’intero corredo documentale, risultando irrilevante l’obbligo normativo della relativa tenuta, ben potendosi apprezzare la lesione anche dalla sottrazione di scritture meramente facoltative. Inoltre, nell’ipotesi fallimentare la volontà del soggetto agente si concreta nella specifica volontà di procurare a sé o ad altro ingiusto profitto o alternativamente di recare pregiudizio ai venditori, finalità non presente nella fattispecie fiscale. • Corte di Cassazione, sezione III, sentenza 20 aprile 2017 n. 18927. Reati tributari - Omesso versamento delle ritenute d’imposta (articolo 10-bis Dlgs. n. 74/2000) - Innalzamento della soglia di rilevanza penale del fatto (articolo 7 Dlgs. n. 158/2015) - Fatti commessi prima dell’entrata in vigore - Applicazione del principio del "favor rei" - Insussistenza del reato. Trova applicazione il principio del "favor rei" ex articolo 2, comma 4, cod. pen., anche ai fatti commessi prima della sua entrata in vigore, la formulazione della normativa da ritenersi più favorevole della precedente laddove innalza la soglia di rilevanza penale del fatto, nel caso dell’omesso versamento delle ritenute d’imposta inferiore a 150 mila euro, di conseguenza provocando l’annullamento della sentenza di condanna impugnata per insussistenza del reato, posto che la soglia di rilevanza penale deve ritenersi elemento costitutivo del reato contribuendo la stessa a definirne il disvalore. (Nel caso di specie, il legale rappresentante di una s.r.l., condannato per omesso versamento delle ritenute d’imposta per oltre 75 mila euro, ai sensi dell’articolo 10-bis Dlgs. n. 74/2000, ricorreva in Cassazione adducendo l’abnormità della decisione d’appello che aveva ravvisato quale elemento soggettivo il dolo eventuale nell’esercizio di un’attività imprenditoriale, quando, al contrario, avrebbe dovuto riconoscere l’ipotesi della forza maggiore per l’impossibilità di adempiere per mancanza di liquidità e di accesso al credito successivamente alla messa in liquidazione della società ed al fallimento. La Suprema Corte cassa senza rinvio perché il fatto non sussiste). • Corte di Cassazione, sezione III, sentenza 20 aprile 2017 n. 18925. Reati societari - Reati tributari - Frodi carosello - False fatturazioni e prestazioni inesistenti - Amministratore di fatto - Amministratore di diritto - Responsabilità degli amministratori - Concorso nel reato - Condotte commissive e omissive - Punibilità. Il dato fattuale della gestione sociale deve prevalere sulla qualifica formalmente rivestita, pertanto, sussiste la responsabilità dell’amministratore di diritto, a titolo di concorso nel reato di utilizzo di false fatturazioni, afferenti cioè a prestazioni inesistenti, con l’amministratore di fatto non già ed esclusivamente in virtù della posizione formale rivestita all’interno della società ma in ragione della condotta omissiva dallo stesso posta in essere, consistente nel non avere impedito, ex articolo 40 c.p., comma 2, l’evento che aveva l’obbligo giuridico di impedire, vale a dire, nel mancato esercizio dei poteri di gestione della società e di controllo sull’operato dell’amministratore di fatto, connaturati alla carica rivestita. In ogni caso, limitatamente alla responsabilità dell’amministratore di fatto nei reati omissivi propri formalmente imputabili al prestanome, in relazione ai reati tributari previsti dal Dlgs. n. 74/2000, l’amministratore di fatto risponde o quale autore principale, in quanto titolare effettivo della gestione sociale, o comunque perché equiparato a quello di diritto. • Corte di Cassazione, sezione III, sentenza 20 aprile 2017 n. 18924. Reati tributari - Omesso versamento debito Iva - Società di capitali - Responsabilità dell’amministratore - Verifica contabile e fiscale - Elemento soggettivo - Crisi finanziaria - Onere della prova - Determinazione della pena - Elementi di valutazione. In caso di omesso versamento del debito Iva da parte di una società di capitali e di reati previsti dal Dlgs. n. 74/2000, la responsabilità è attribuita all’amministratore individuato secondo le norme civilistiche, cioè a colui che rappresenta e gestisce l’ente, colui che succede nella carica dopo la presentazione della dichiarazione d’imposta e prima del termine ultimo per il versamento. L’assunzione della carica di amministratore comporta una minima verifica della contabilità, dei bilanci e delle ultime dichiarazioni dei redditi per cui, ove ciò non avvenga, risponde dei reati tributari in materia di mancato versamento di imposte colui che subentra nella carica di sociale/legale rappresentanza in un momento successivo alla presentazione della dichiarazione di imposta, in quanto con l’assunzione della carica si espone volontariamente a tutte le conseguenze che possono derivare da pregresse inadempienze. La crisi finanziaria non è elemento sufficiente per escludere il dolo del reato: l’indagato deve allegare la prova dell’impossibilità di reperire le risorse necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, per cause indipendenti dalla sua volontà ed a lui non imputabili. Nella determinazione della pena, sia la gravità del fatto che la personalità dell’imputato essere valutati in vista di fini diversi senza ledere il principio del "ne bis in idem" (come nel caso di specie, ove le circostanze attenuanti venivano negate anche a causa dei precedenti penali dell’indagato in materia di tutela della salute dei lavoratori e per omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali). • Corte di Cassazione, sezione III, sentenza 19 aprile 2017 n. 18834. Giudizio per cassazione - Divieto "ne bis in idem" sostanziale - Indeducibilità. La violazione del divieto del "ne bis in idem" sostanziale non è deducibile per la prima volta davanti alla Corte di Cassazione, in quanto implicherebbe un apprezzamento di merito, pertanto inammissibile, l’accertamento sull’identità del fatto oggetto dei due diversi procedimenti. • Corte di Cassazione, sezione VII, ordinanza 4 ottobre 2016 n. 41572. Reati fallimentari - Bancarotta fraudolenta - Sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte (articolo 11 Dlgs. n. 74/2000 ante modifiche apportate dalla legge n. 122/2010) - Concorso tra reati - Ammissibilità. Il concorso tra il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione e di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte è ammissibile poiché le norme incriminatrici regolano materie diverse, vista la diversità del bene giuridico tutelato nelle due fattispecie delittuose: da una parte, nel reato fiscale prevale l’interesse dell’amministrazione finanziaria al buon esito della riscossione coattiva, dall’altro, nel reato fallimentare, l’interesse al soddisfacimento dei diritti della massa dei creditori; da un lato, un reato come quello fiscale di pericolo, dall’altro, un reato di danno come quello fallimentare; quanto all’elemento soggettivo, un dolo specifico nel primo caso, un dolo generico nel secondo. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 27 gennaio 2016 n. 3539. Sicilia: suicidi nelle carceri, firmato decreto con le nuove linee guida di prevenzione palermotoday.it, 27 aprile 2017 L’assessore alla Salute Baldo Gucciardi: "Sicilia tra le prime regioni a recepire le indicazioni del legislatore". Dall’accoglienza alla gestione del disagio, fino al monitoraggio e alla valutazione degli interventi. Sono le nuove linee guida del Programma operativo di prevenzione del rischio autolesivo e di suicidio nelle carceri presente nel decreto firmato dall’assessore alla Salute della Regione Baldo Gucciardi. "Il decreto nasce dall’esigenza di fronteggiare un fenomeno che presenta numeri preoccupanti negli ultimi anni. Basti pensare - sottolinea Gucciardi - che nel 2016 si sono registrati in tutto tre suicidi all’interno delle carceri siciliane e nei primi tre mesi del 2017 sono già stati due. Inoltre, in questi primi tre mesi del 2017 sono venti i tentativi di suicidio e circa duecento i casi di autolesionismo. Le linee guida, dunque, recepiscono le indicazioni del Legislatore degli ultimi anni. La Sicilia è tra le prime Regioni d’Italia ad avere firmato il decreto col quale si presenterà al tavolo del Consiglio dei ministri della prossima settimana - spiega l’assessore - e si tratta di un provvedimento doveroso. Il carcere rappresenta un momento doloroso, nel quale la dimensione umana può non trovare un’adeguata risonanza in un contesto per sua natura omologante. Alle eventuali forme di patologia pregresse del soggetto, infatti, spesso si aggiungono altre forme di disagio determinate dalla condizione di vita imposta dalla privazione della libertà. Considerata, dunque, la significatività della percentuale di persone detenute portatrici di disagio psichico, corre l’obbligo di una pronta presa in carico al fine di fronteggiare adeguatamente i rischi di autolesione e di suicidio". Dopo la firma del decreto, le Aziende sanitarie, in collaborazione con tutti gli operatori penitenziari che a diverso titolo interagiscono con il detenuto, dovranno approntare percorsi di prevenzione e diagnostico-terapeutici da avviare già nella fase di ingresso nell’istituto penitenziario della persona reclusa. Ecco nello specifico le linee strategiche stilate nel provvedimento: 1 - Accoglienza, prevenzione e prima gestione del detenuto con disagio psichico a rischio suicidio. In questa fase è fondamentale provvedere con immediatezza all’acquisizione di notizie sul soggetto anche attraverso il contatto diretto con la famiglia e distinguere i vari profili con cui il disagio mentale può manifestarsi al primo ingresso (dai soggetti con evidenti disturbi psichici a coloro che comunicano l’intenzione di suicidio al momento dell’ingresso nell’istituto). 2 - Coordinamento efficace ed efficiente dello staff multidisciplinare e degli operatori coinvolti nell’accoglienza e nella gestione dell’eventuale disagio psichico con rischio di suicidio. Lo staff multi-professionale impegnato nella gestione del detenuto è composto da personale di polizia penitenziaria, medico, infermiere, psichiatra e psicologo. In questa fase è decisivo il percorso di formazione. Il personale, infatti, deve essere adeguatamente motivato e formato e scelto secondo criteri di idoneità. 3 - Gestione operativa del disagio psichico e del detenuto. In questa fase la presa in carico del soggetto presuppone una valida interazione tra gli operatori sanitari e gli operatori penitenziari. Un’interazione tesa a individuare aspetti caratteriali connotati da fragilità cronica e insorgenza di criticità in ordine psicologico. Tutto questo al fine di rimuoverne, nei limiti del possibile, le cause e predisporre gli interventi più idonei dal punto di vista sanitario, farmacologico, trattamentale e di custodia. 4 - Interventi urgenti in caso di episodio autolesionistico, tentativo di suicidio e suicidio. Nei casi di autolesionismo, bisogna procedere subito all’attività di pronto soccorso, alla quale deve seguire un’immediata valutazione psicologica. Nei casi di suicidio, invece, bisogna attivare le procedure specifiche volte a ricostruire e documentare l’evento e identificare i fattori che hanno portato al suicidio. Fondamentale anche preoccuparsi di un’eventuale ricaduta che il suicidio può avere sugli altri detenuti soprattutto nelle quattro settimane successive all’episodio. 5- Monitoraggio e valutazione dei risultati ed eventuale rimodulazione critica delle azioni intraprese. Emilia Romagna: il Garante dei detenuti Marighelli "salvaguardare modello delle Rems" di Cristian Casali cronacabianca.eu, 27 aprile 2017 Il Garante regionale delle persone private della libertà personale ha raccolto l’appello di StopOpg contro il rischio di riaprire la stagione degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (Opg). "Ho sottoscritto l’appello dell’associazione StopOpg per chiedere lo stralcio della proposta di modifiche al codice penale, già approvata al Senato e ora in discussione alla Camera, che, se approvata, rischia di riaprire la stagione degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (Opg)". Il Garante regionale delle persone private della libertà personale, Marcello Marighelli, è intervenuto in mattinata all’iniziativa organizzata a Ferrara da La società della ragione, onlus che si occupa di diritti, raccogliendo l’appello di StopOpg contro la riapertura degli opg. "Non sono state dimenticate - ha evidenziato Marighelli - le immagini delle persone rinchiuse negli ospedali psichiatrici giudiziari, portate drammaticamente alla luce dalla commissione parlamentare presieduta dal senatore Marino: persone disperate costrette per anni a situazioni degradanti". Da quel documento, ha sottolineato, "ha avuto inizio una discussione che ha messo in dubbio la validità del modello manicomio anche nell’ambito giudiziario e si è provato a smontarlo. Non senza ostacoli è stata superata la scandalosa situazione di questo tipo di strutture e, finalmente, sono state realizzate le Residenze sanitarie per l’esecuzione delle misure di sicurezza detentive (Rems)". Le Rems, ha poi spiegato il Garante, "non sono luoghi di sola custodia, ma sedi di cura e riabilitazione, dove le persone, in condizioni di sicurezza, possono essere assistite, riabilitate e quindi dimesse". In un recente incontro con il direttore della Rems di Bologna, ha sottolineato Marighelli, "ho manifestato la preoccupazione per il concreto rischio che quanto realizzato possa essere vanificato". L’andamento altalenante della legislazione in materia penale, ha concluso il Garante, "suscita inquietudine quando, per soddisfare esigenze securitarie e non affrontare i ritardi dell’amministrazione penitenziaria nella realizzazione delle sezioni per l’osservazione psichiatrica in carcere, contraddice la riforma del 2014. Il principio della territorialità dell’esecuzione penale è addirittura ignorato dalla modifica di legge in discussione, per cui la presa in carico socio-sanitaria e il reinserimento delle persone detenute diventa sempre più difficile se non impossibile". Trani: il Comune ha instituito la figura del Garante per i diritti dei detenuti traniviva.it, 27 aprile 2017 Opererà per migliorare le condizioni di vita e di rinserimento dopo il carcere. Con 19 voti favorevoli e due astenuti, il Consiglio comunale ha approvato l’ultimo punto all’ordine del giorno, ossia il regolamento che disciplina l’esercizio delle funzioni del garante per i diritti delle persone private della libertà personale, i requisiti e le modalità per l’elezione dello stesso. Questa figura, istituita presso il Comune di Trani, opera per migliorare le condizioni di vita e di inserimento delle persone agli arresti domiciliari e dei detenuti presenti al Carcere maschile e femminile attraverso: 1) la promozione della sensibilizzazione pubblica sui temi dei diritti umani e dell’umanizzazione delle pene; 2) promozione di iniziative volte ad affermare per le persone private di libertà il pieno esercizio dei diritti e delle opportunità di partecipazione alla vita civile e la fruizione dei servizi presenti sul territorio comunale. Il garante farà da tramite con l’amministrazione comunale con visite ai luoghi dove essi si trovano nonché con le associazioni che si occupano di tutelare i diritti delle persone. Chi potrà ricoprire questo ruolo? Cittadino italiano con competenze in ambito penitenziario, nel campo delle scienze giuridiche, delle scienze sociali e dei diritti umani, in possesso del titolo di laurea magistrale. Non sono eleggibili cittadini che ricoprono già incarichi istituzionali sia in politica che nella pubblica amministrazione (assessori, consiglieri, associazioni che ricevono convenzioni dal Comune, amministratori). Le candidature dovranno essere presente con apposita istanza al Presidente del Consiglio Comunale accompagnate da apposito curriculum e verranno sottoposte all’esame della Commissione consiliare permanente. Il Garante, eletto con maggioranza assoluta dai votanti e con scrutinio segreto, rimarrà in carica per 5 anni per un massimo di due mandati. Trento: la Uil con il personale "nel carcere non ci sono maltrattamenti" di Erica Ferro Corriere del Trentino, 27 aprile 2017 È vero, la Casa circondariale di Trento soffre dei noti problemi di sovraffollamento (342 detenuti presenti a fronte dei 240 previsti dall’accordo fra Stato e Provincia) e di carenza di organico (132 agenti di polizia penitenziaria in servizio invece dei 214 programmati). "Ma non può passare il messaggio che all’interno di questa struttura i detenuti subiscano maltrattamenti da parte del personale" afferma il segretario generale della Uil-Pa Polizia penitenziaria Angelo Urso, che ieri insieme a Walter Alotti e al segretario regionale di settore Leonardo Angiulli ha fatto visita al carcere di Spini di Gardolo. Fra le criticità emerse, un servizio di assistenza sanitaria inferiore alle necessità, per il quale Alotti "avvierà un’interlocuzione" con l’assessore Luca Zeni. Il sopralluogo rientra in un’attività di monitoraggio che la Uil porta avanti sul territorio nazionale per verificare le condizioni di igiene, salubrità e sicurezza degli ambienti e luoghi di lavoro del personale. "Ma in particolare - precisa il sindacato - lo stato d’animo della polizia penitenziaria". Il carcere di Trento, infatti, negli scorsi mesi è salito alla ribalta delle cronache per dei casi di presunti maltrattamenti nei confronti dei detenuti da parte degli agenti di custodia, denunciati dal garante nazionale dei detenuti Mauro Palma e che ora stanno seguendo il loro iter processuale (la Procura ha chiesto l’archiviazione). "Siamo i primi a condannare chi compie atti del genere e a pretendere che la magistratura faccia luce, ma non può passare il messaggio che nella struttura trentina i detenuti subiscano maltrattamenti - chiosa Urso - Auspico che l’amministrazione penitenziaria, nel momento in cui ci sarà la definitiva archiviazione del caso, proceda a una denuncia per diffamazione". Gli eventi critici, inoltre, negli ultimi tre anni sono triplicati, anche a Trento dove, dall’inizio dell’anno, sono avvenuti 2 episodi di aggressione ad agenti e 9 fra detenuti. Oltre alla mancanza del 35% del personale (che di sicuro, almeno fino alla primavera del 2018, non sarà colmata) e al sovraffollamento, "causato principalmente da quello degli altri istituti, visto che a Spini, da gennaio, sono state condotte e registrate 99 persone arrestate in provincia di Trento", un problema della casa circondariale riguarda la manutenzione ordinaria, che nel 2014, scaduti i 4 anni che una convenzione delegava in capo alla Provincia, è passata all’amministrazione penitenziaria, la quale "come tutte le amministrazioni pubbliche - ricorda Urso - vive il problema dei tagli lineari di questi anni". Un’altra emergenza riguarda la carenza del servizio di assistenza sanitaria, "inferiore rispetto alle necessità, perché tarato sulla presenza di 240 detenuti - spiega Alotti - servono dunque trasferimenti in luoghi esterni di cura (133, con 5 piantonamenti in ospedale, ndr) e chiederò all’assessore Zeni di intervenire". Il segretario della Uil trentina, inoltre, auspica che "la figura del garante dei detenuti venga istituita a breve anche in Trentino". Catanzaro: al carcere minorile ragazzo di nazionalità marocchina tenta il suicidio quicosenza.it, 27 aprile 2017 Nell’ultima visita in Calabria il Garante Nazionale dei detenuti aveva segnalato condizioni detentive poco adatte ai minori. Tragedia sfiorata all’Istituto Penale per Minorenni di Catanzaro. Un ragazzo di nazionalità marocchina ristretto nel carcere minorile calabrese ha tentato di suicidarsi oggi intorno alle 13,30. Secondo quanto si apprende dal segretario regionale dell’Ugl Polizia penitenziaria, Walter Campagna, il giovane, dopo aver legato le lenzuola alle inferriate del bagno della sua cella, ha tentato di impiccarsi lasciandosi cadere dalla sedia su cui era salito. È stato l’intervento del personale di servizio a evitare il peggio. Il detenuto è stato sottoposto alle cure necessarie nell’area sanitaria della struttura. La Calabria come noto è priva di una legge sul Garante regionale dei detenuti, ma nell’ultima ispezione effettuata da una delegazione del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale sono riuscite ad emergere le criticità del penitenziario minorile catanzarese. Innanzitutto dei 17 ragazzini detenuti, meno della metà, ovvero solo otto, sono iscritti a scuola. Inoltre nel documento che cristallizza l’attuale situazione in cui verte la struttura sono segnalati due gravi realtà. La prima riguarda le attività. L’istituto è infatti dotato di una biblioteca e di un campo di calcetto, che non viene utilizzato, a seguito dell’evasione di un ragazzo che è uscito sfuggendo al controllo degli agenti dopo aver scavalcato il muro di recinzione. La delegazione ha poi osservato, con un certo stupore, che i ragazzi al termine delle attività o delle ore di socialità vengono chiusi nelle proprie stanze detentive. "Considerata l’età e la particolarità dell’azione rieducativa che in un Istituto minorile deve essere sviluppata, - si legge nel Rapporto - il Garante Nazionale ritiene che debbano essere esperite tutte le vie per ampliare la partecipazione collettiva e sociale dei giovani ristretti e riservare la chiusura delle stanze detentive alle mere ore di riposo. Pertanto raccomanda che la Direzione dell’Istituto Penale per Minorenni di Catanzaro valuti la possibilità di diminuire consistentemente le ore di chiusura delle stanze detentive, limitandole possibilmente alle sole ore di riposo notturno". Napoli: il 19 maggio Conferenza internazionale sui figli di genitori detenuti lettera21.org, 27 aprile 2017 Il 19 maggio 2017, presso il Castel Nuovo-Maschio Angioino di Napoli, Bambinisenzasbarre e Children of Prisioners Europe (Cope), organizzano la conferenza internazionale "Figli dei genitori detenuti". Un argomento molto attuale e spinoso quello della relazione genitoriale e psicoaffettiva dei bambini che hanno i propri genitori detenuti. Al centro di dibattiti e discussioni legislative, in questi anni si è cercato di migliorare, specialmente per i bambini, la vita dei genitori detenuti in particolare per le madri, creando luoghi di detenzione, lontani dalle sbarre e dal rumore assordante di chiavi e blindi, le palazzine Icam. La conferenza di Napoli verterà sulle buone prassi per la tutela del mantenimento dei rapporti tra genitori detenuti e figli, attraverso un sistema che attivi effetti positivi non solo sui bambini, sui genitori e le famiglie, ma anche e principalmente sul sistema penitenziario e giudiziario italiano. Durante l’evento saranno infatti presentate esperienze di buone pratiche disciplinari in Europa. All’evento presenzierà il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute Mauro Palma che terrà le fila dei quattro argomenti analizzati nell’arco della giornata. La partecipazione alla conferenza è gratuita, ma è necessaria l’iscrizione al seguente link: http://childrenofprisonerseurope.wildapricot.org/page-1840459 Torino: il sapore della libertà tra cioccolato e Gran Paradiso di Nadia Toppino storiedicibo.it, 27 aprile 2017 Per la serie "Storie di cibo dietro le sbarre" oggi parliamo di tavolette di cioccolato paradisiache, nel senso che sono legate alle immagini del Parco del Gran Paradiso. Sono quelle realizzate dai giovani detenuti dell’Istituto penitenziario Minorile Ferranti Aporti di Torino, tavolette dal marchio "Il sapore della Libertà", disponibili nelle varianti latte, fondenti e fondenti gentili con granella di nocciola tostata caramellata, e confezionate con un packaging realizzato ad hoc con le immagini del Parco Nazionale Gran Paradiso, scattate dal fotografo Francesco Sisti. L’iniziativa è promossa da Murialdofor onlus, Gruppo Spes e Parco Nazionale Gran Paradiso, e appunto realizzate dai giovani detenuti coinvolti nel progetto Spes@Labor, un progetto di Comunità Murialdo Piemonte e Gruppo Spes, avviato nel 2013 in collaborazione con questo Istituto Penale per Minorenni di Torino, che mira al reinserimento di giovani detenuti all’interno del tessuto sociale, mediante interventi di inclusione lavorativa e professionale. Il programma prevede l’apprendimento delle competenze dell’addetto alla produzione del cioccolato attraverso la formazione teorica e la pratica nel laboratorio allestito all’interno del carcere. In parallelo l’attività educativa fa sì che l’esperienza pratica diventi per il giovane anche occasione per relazionarsi e imparare a "fare bene insieme" in un luogo, il laboratorio del cioccolato, dove vengono privilegiati ascolto e condivisione. In questi anni il progetto si è evoluto dando priorità al percorso teorico ed educativo per formare i giovani ad essere realmente pronti all’esterno, nel lavoro e nei rapporti con il prossimo. I ragazzi coinvolti vengono anche in piccolo retribuiti attraverso le borse lavoro di cui beneficiano sia i detenuti al Ferrante Aporti, sia i ragazzi in penale esterna che svolgono la pratica presso la Fabbrica del Cioccolato del Gruppo Spes a Torino, grazie le borse lavoro. Ad oggi hanno partecipato al progetto più di 32 ragazzi; di cui cinque, una volta concluso il percorso, hanno continuato a collaborare con il Gruppo Spes. Non conoscevo il marchio del Gruppo Spes e ho richiesto informazioni. Questa la risposta completa e ricca di orgoglio produttivo. "Spes è uno storico marchio del cioccolato in Torino, già dal 1970: materie prime di eccellenza, alta artigianalità italiana e scrupolosa attenzione allo stile delle confezioni sono i punti fondamentali della nostra offerta e ci rendono unici sul mercato per qualità ed innovazione. Il Gruppo Spes è una cooperativa sociale la cui missione e le cui attività si concentrano su giovani e lavoro. La Fabbrica del Cioccolato è il cuore di produzione del Gruppo: tramite la produzione di cioccolato artigianale di primissima qualità, con scrupolosa attenzione alla scelta delle migliori materie prime e grazie alla competenza di esperti maître chocolatier la Fabbrica, così come i due punti vendita torinesi, offre possibilità di inserimento lavorativo a giovani, con particolare attenzione a chi vive situazioni di difficoltà, e auto-finanzia progetti socio-educativi, di sostenibilità e di imprenditorialità a favore dei giovani. Il Gruppo Spes crede nella co-partecipazione e nella forza dei consumatori alla costruzione di un modello sociale nuovo che, anche mediante la qualità degli atti di acquisto e l’esperienza di consumo, generi opportunità e valore per i giovani ed il loro futuro". Per quanto riguarda la commercializzazione di queste tavolette golose, il prezzo consigliato di vendita al pubblico è di 3 euro per le tavolette al latte e fondente; 3,50 euro per la tavoletta con granella di nocciola. Un prezzo davvero "politico" ed etico, considerando che nessuno dei tre enti coinvolti ricaverà qualcosa dalla vendita del prodotto, ma tutto l’incasso sarà destinato esclusivamente al sostegno del progetto Spes@Labor. Trani: i detenuti "ripartono" dalla pasta, progetto di Granoro e Factory del Gusto coratoviva.it, 27 aprile 2017 Riprende, dopo l’intensa e proficua esperienza vissuta nel 2015 con i detenuti del penitenziario maschile di Trani, "Ripartiamo dalla pasta", progetto di riqualificazione sociale articolato attraverso un percorso formativo in cui si fonderanno cibo e letteratura con l’obiettivo di dare nuovi stimoli e un rapporto consapevole con l’ambiente, la natura, le tradizioni e il sociale a chi dopo aver scontato la propria pena, cercherà di reinserirsi nella società. Il progetto, pensato e ideato da Granoro e Factory del Gusto, una scuola di cucina barese (con sede a Molfetta), già sperimentato con successo nel 2013, nel 2014 presso il penitenziario femminile e nel 2015 in quello maschile, si ripropone l’obiettivo di fornire attraverso un percorso di riqualificazione numerose opportunità di sviluppo favorendo l’acquisizione di competenza, professionalità e qualità nel settore del food e in quello pastario (un alimento consumato quotidianamente in tutta Italia) grazie alla presenza di importanti aziende come Granoro. "Ripartiamo dalla pasta" sarà riservato a 10 detenuti del penitenziario tranese. Il percorso, articolato con lezioni teoriche e pratiche tenute dai tecnici dell’azienda Granoro e dai cuochi della Factory del Gusto, avrà la finalità di formare i detenuti sul processo di lavorazione industriale della pasta secca di semola di grano duro nell’ottica finale di far comprendere le caratteristiche intrinseche del prodotto per una migliore rielaborazione dello stesso nel momento della sua preparazione. Inoltre avrà l’obiettivo di creare formazione specializzata in campo alimentare, migliorare l’autostima e l’immagine di sé, individuale e di gruppo, costruire una conoscenza accademica più approfondita intorno al tema dell’alimentazione. Così come accaduto nella terza edizione, anche quest’anno il percorso di formazione potrà contare su di un valido alleato culturale: grazie al Presidio del Libro di Corato, istituzione che si propone di sperimentare nuove forme di coinvolgimento dei lettori e di promozione dei libri, soprattutto nei momenti e nei luoghi in cui mai ci si aspetterebbe di incontrarli, i detenuti avranno la possibilità di leggere alcuni stralci tratti da saggi di libri dedicati all’alimentazione, selezionati con cura dalla Responsabile del Presidio del Libro di Corato Angela Pisicchio. La scelta di quest’anno è ricaduta su "Spaghetti, cozze e vongole" di Nicola Lagioia e "Fulmine" di Lello Gurrado. Alla presentazione, in programma venerdì 28 aprile alle ore 10.30 presso il Penitenziario Maschile di Trani interverranno la Dott.ssa Bruna Piarulli - Direttrice del Penitenziario Maschile di Trani, la Dott.ssa Marina Mastromauro - Amministratore Delegato di Granoro, Salvatore Turturo - Amministratore della Factory del Gusto e la prof.ssa Angela Pisicchio - Responsabile del Presidio del Libro di Corato. Lecce: "Niente ci fu", detenute in scena con un testo di Beatrice Monroy di Elena Carbotti ilpaesenuovo.it, 27 aprile 2017 "Niente ci fu" è il titolo del nuovo spettacolo realizzato dalle detenute di massima sicurezza del carcere di Borgo San Nicola di Lecce. Al loro fianco, per il 4° anno consecutivo, i Koreja, con l’obiettivo di lavorare all’interno dell’ambiente carcerario per diffondere, attraverso il teatro, i valori di dignità e umanità: un’importante esperienza di risocializzazione che porta la mente ad esplorare altri universi e altre opportunità. Continuando il lavoro sull’identità, amicizia al femminile e scelta fatto gli scorsi anni con le detenute, quest’anno si è approfondito un tema quanto mai attuale: parlare di violenza e di scelta oggi, con donne detenute. Giovedì 27 aprile, alle ore 18, appuntamento con "Leggere dentro", finale di laboratorio realizzato dalle detenute di massima sicurezza della Casa Circondariale Borgo San Nicola di Lecce guidate da Anna Chiara Ingrosso e Carlo Durante, attori di Koreja. Dopo la precedente esperienza con i testi di Camilleri, Pirandello ed Elena Ferrante, è la volta di Beatrice Monroy: "Niente ci fu", questo il titolo del lavoro teatrale nato parallelamente all’esperienza della lettura di gruppo. "Niente ci fu", ambientato nella Sicilia degli anni 60, il testo racconta la vicenda realmente accaduta a Francesca Viola, prima donna in Italia a ribellarsi al matrimonio riparatore. dopo avere rifiutato le avances di un innamorato, viene rapita, come spesso usava a quel tempo in Sicilia, mentre si trova nella sua casa di Alcamo. Filippo Melodia, rampollo della famiglia dei Rimi, la tiene segregata e la violenta per una settimana intera. L’epilogo sarebbe stato il matrimonio riparatore, previsto dalla legge italiana come ‘ristoro’ in caso di violenza sessuale. Il padre di Franca invece finge di accettare un accordo per liberare la figlia, avvisa i carabinieri e fa arrestare Melodia. L’appuntamento rientra in "Itinerario Rosa", la manifestazione promossa dall’Assessorato alla Cultura, Spettacolo e Turismo del Comune di Lecce che punta a valorizzare il ruolo sociale e culturale della donna attraverso una serie di iniziative di recupero delle principali espressioni artistiche. I "Colpevoli" si raccontano: storie di vita dietro (e oltre) le sbarre Redattore Sociale, 27 aprile 2017 La giornalista Annalisa Graziano ha incontrato per mesi 17 detenuti e ha raccolto in un libro (Edizioni La Meridiana) la loro visione personale e il rapporto con le vittime dei reati. Un lavoro in collaborazione col Csv Foggia e la Fondazione Banca del Monte. Una branda, uno sgabello e un tavolo. Silenzio, nient’altro. L’isolamento, che costringe a pensare e a fare i conti con un tempo ristretto e con l’inquietudine, l’incertezza del domani, l’assenza degli affetti. Donato ha vissuto così per due mesi, subito dopo l’arresto. È sua la prima storia raccontata in "Colpevoli. Vita dietro (e oltre) le sbarre", il volume scritto dalla giornalista foggiana Annalisa Graziano, edito da "edizioni la meridiana", che dà voce a 17 detenuti della Casa circondariale di Foggia. "Il libro è frutto di un lavoro collettivo - spiega l’autrice - e nasce da una lunga chiacchierata con il direttore della Casa circondariale di Foggia, Mariella Affatato. Dopo l’esperienza della mostra e del volume fotografico ‘l’altra possibilità’, realizzati a quattro mani con Giovanni Rinaldi, ho pensato di raccontare la vita e le vite dentro". "Colpevoli" è un viaggio nelle sezioni dell’istituto penitenziario foggiano, tra le celle, le aule scolastiche, i passeggi, nella cucina e in tutti i luoghi accessibili. È, soprattutto, la rivelazione delle storie che ci sono dietro i nomi e le foto segnaletiche cui ci hanno abituati la cronaca nera e giudiziaria. Non solo rapinatori, omicidi, ladri e spacciatori, ma anche uomini, padri, figli e mariti con storie che nessuno aveva ancora raccolto. "Colpevoli alcuni detenuti si sentono fino in fondo, - dice ancora Graziano, - altri in parte. Ma tutti si sono messi in discussione, raccontandosi e hanno scritto alcune pagine insieme a me". Numerose le vite che si intrecciano tra sbarre e pezzi di cielo. Ci sono il 22enne Luigi, che ha iniziato a rubare per pagare le bollette e Gerardo, che ha incrociato lo sguardo di una detenuta della sezione femminile e si è innamorato "dentro". Non mancano pagine drammatiche, come quelle che danno voce a Carmine, che alle spalle ha una vita piegata dalla dipendenza. "Smettere di drogarsi è solo una questione di volontà - racconta - e non può essere diversamente: non può convincerti un’altra persona. Non ce la fai finché non lo vuoi veramente, fino a quando non ti siedi per terra e non hai più nemmeno il sedere e capisci che stai perdendo tutto o forse lo hai già perso". La prefazione del volume, realizzato con il sostegno della Fondazione Banca del Monte e in collaborazione con il Csv Foggia, porta la firma di don Luigi Ciotti. "Queste pagine - scrive il presidente di Libera - ci aiutano a ricordare che il carcere non è una terra marginale o un mondo a parte, ma un’eventualità nella storia delle persone. Scaturita certo da scelte sbagliate, di cui è giusto rendere conto, ma anche da opportunità negate, dall’assenza di alternative". La postfazione è stata affidata a Daniela Marcone, vicepresidente di Libera e figlia di Francesco Marcone, vittima innocente di mafia. "Uno dei temi che ho cercato di affrontare con ogni detenuto - spiega Annalisa Graziano - è quello del rapporto con le vittime dei reati, un punto delicato, che abbiamo sviscerato poco per volta, durante i vari colloqui". È quanto emerge dal racconto di Donato, che ha fatto recapitare un messaggio al figlio della sua vittima. "Naturalmente, non mi aspettavo nulla dopo quella lettera - racconta - ma già il fatto che l’abbia presa in mano, per me è stato importante. Significa che almeno mi considera un essere umano. Io al posto di quel figlio non so se sarei riuscito a farlo: è stato un gesto nobile. Mettermi nei panni dei parenti delle vittime è impossibile, ma credo che abbiano provato un dolore lancinante. Forse sono stato egoista nello scrivere quella lettera, è stata una mia esigenza: dovevo raccontare la mia verità, spiegare che non ci si può accontentare di quella giudiziaria. Quell’uomo spiega il giovane detenuto farà parte per sempre della mia vita. Il pensiero, la sua immagine è diventata costante, talmente intensa che non posso e voglio cancellarla. E un giorno, spero di avere la possibilità di parlare con i parenti di questa persona, anche se so che sarà molto difficile. Non so se sia possibile perdonare, io non sono ancora riuscito a perdonare me stesso per tanti errori. Credo che l’indulgenza possa essere pericolosa: ho costruito con fatica delle certezze, ma ho ancora tanti dubbi. Ho affidato le mie riflessioni a un libretto, lì c’è la mia verità, la mia condizione". "Colpevoli" si compone di due parti: la prima dedicata al mondo carcere; la seconda all’esecuzione penale esterna, attraverso il racconto delle realtà del terzo settore segnalate dall’Uepe, l’Ufficio di esecuzione penale esterna di Foggia. Annalisa Graziano ha rinunciato ai diritti d’autore. I proventi di "Colpevoli", acquistabile sul sito della casa editrice, sosterranno attività nel carcere di Foggia. "I terroristi sono miei fratelli", di Luciano Piras intervista realizzata da Maurizio Carta tpi.it, 27 aprile 2017 La storia di Don Bussu, il prete giornalista che ha difeso i diritti dei carcerati, nell’intervista a Luciano Piras, autore del libro "I terroristi sono miei fratelli". A dicembre 1983 Giovanni Paolo II fa il suo ingresso nel carcere di Rebibbia per stringere la mano al suo attentatore, il turco Ali Agca. Lo stesso mese un umile prete di provincia, cappellano del carcere nuorese di Badu e Carros, si autosospende dal suo mandato sacerdotale. Piccolo di statura ma gigante nel coraggio, Don Salvatore Bussu viene da Ollollai, un piccolo paese all’interno della Sardegna, in provincia di Nuoro. Don Bussu si è schierato senza timore in difesa dei reclusi, che da tempo stanno attuando lo sciopero della fame. Oltre a essere un prete, è anche un giornalista, cosa che l’ha aiutato non poco nella sua battaglia. Quella del 1983 è la prima rivolta pacifica nella storia delle carceri italiane a denunciare le condizioni disumane in cui vivono i reclusi. Alcuni dei carcerati hanno un passato da brigatisti, come Franco Bonisoli e Alberto Franceschini. Il cappellano parla apertamente di "terrorismo di Stato", facendo da catalizzatore per una tempesta di polemiche che fa addirittura intervenire l’allora ministro di Grazia e Giustizia Mino Martinazzoli per attenuare il regime di massima sicurezza in cui i brigatisti sono reclusi. Il parlamento si mette a lavorare sul caso e arriva alla stesura della legge Gozzini, dando attuazione al dettato costituzionale che prevede il divieto di detenzione senza il rispetto dei diritti umani. Il provvedimento supera una legge del 1975, che prevedeva la possibilità di far prevalere esigenze di sicurezza sulle norme di rieducazione e di trattamento umano. Le legge Gozzini diventa allora bersaglio di attacchi, così come lo stesso Don Bussu che la difende sempre a spada tratta. Con il gesto di schierarsi dalla parte dei brigatisti reclusi il sacerdote non vuole certo appoggiarne l’operato - cosa di cui spesso viene accusato - ma lottare per un trattamento degno di una società civile. Don Bussu cerca il giusto equilibrio fra la pena da scontare e l’aspetto rieducativo per il recluso, facendo leva sul concetto del perdono nella fede cristiana. La vicenda è stata raccontata nel libro "I terroristi sono miei fratelli" di Luciano Piras, giornalista del quotidiano La Nuova Sardegna. Il titolo è provocatorio come le parole che il cappellano del carcere ha utilizzato per manifestare la sua posizione. Il libro ricostruisce la storia con l’aiuto dello stesso Don Bussu. Quanto è stata decisiva la battaglia di Don Bussu nella riforma carceraria italiana? Dire che la battaglia di un umile prete della periferia sarda è stata decisiva, può sembrare un’esagerazione. Eppure, quella lontana e clamorosa "rivolta" partita da Nuoro è stata determinante nella storia d’Italia, tant’è che ha segnato il definitivo tramonto del vecchio ordinamento penitenziario fermo al 1975, anche se ormai nessuno sembra più ricordarsene. Era stato lo stesso senatore Mario Gozzini, padre della riforma del 1986, del resto, a sottolineare che gli scioperi della fame nel supercarcere di Badu e Carros e il cosiddetto "sciopero della messa" del cappellano don Salvatore Bussu segnarono uno spartiacque nella vita carceraria: prime rivolte, salite sui tetti, violenze anche estreme; dopo, simili fatti sono diventati rarissimi. Tant’è vero che il parlamento dimostrò presto di aver recepito la "sollecitazione" arrivata dalla Barbagia. Don Bussu è stato inizialmente visto dalle istituzioni sia politiche che clericali come un ingombrante peso. Va inoltre aggiunto che allora non si avevano certo gli stessi mezzi di comunicazione di oggi per poter promuovere una simile battaglia. Quali sono i suoi meriti nell’essere stato persuasivo e abile anche nella comunicazione? Ingombrante? Mite e pacifico, persino timido, ieri come ancora oggi, don Bussu è stato addirittura additato come sovversivo. È stato bollato come "il cappellano delle Br"… roba da matti! Ha avuto comunque la fortuna di avere dalla sua parte un grande vescovo, monsignor Giovanni Melis, che non condivise le "dimissioni" di don Bussu, e soprattutto non condivise le parole dirompenti che don Bussu usò per "dimettersi" da cappellano, ma lo sostenne ugualmente perché certo che il suo prete agiva in pace con la coscienza, da vero cristiano senza steccati. Ma se è vero che don Bussu è un prete che ha avuto una parte non marginale nella sconfitta del terrorismo italiano (Gozzini lo ha ribadito più volte), altrettanto vero è che don Bussu è battagliero nato, direttore del settimanale diocesano L’Ortobene. Un giornalista inquieto per Cristo, che proprio per questo ha saputo usare uno dei più popolari e diffusi canali di comunicazione di massa di allora: l’agenzia Ansa. È all’Ansa che consegnò la sua lettera di dimissioni, è l’Ansa che spinse la notizia ovunque. Sempre attento al mondo dell’informazione, probabilmente oggi don Bussu affiderebbe quella sua lettera ai social, a Facebook… anzi, no… credo che si affiderebbe più a Twitter. Da uomo di Chiesa Don Bussu si è spesso appellato alla laicità della Costituzione italiana, che prevede che "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". Quanto nella pratica oggi un carcere italiano può garantire questo diritto costituzionale? Purtroppo l’Italia, quanto a sistema penitenziario, è ancora ferma allo stato delle caverne. Le violazioni dei diritti umani nelle carceri italiane sono quotidiane. Violazioni della legalità accertate in giudizio anche davanti a corti interne, tanto che ormai si parla di una giurisprudenza costante. E non sono io a dirlo, sia chiaro: sono gli stessi dati ufficiali del ministero della Giustizia, a testimoniarlo, e - cosa ancora più grave - le ripetute sentenze di condanna inflitte allo Stato italiano dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. La Corte di Strasburgo ha detto più volte che il primo colpevole, spesso, è lo stato che costringe i detenuti a scontare pene inumane e illegittime. Diversi sono i casi emblematici che fanno della Repubblica italiana uno stato "fuori norma" e parecchio lontano dal rispetto dei diritti fondamentali della persona e dagli impegni assunti formalmente con la sottoscrizione di atti e convenzioni internazionali. Ancora oggi, dunque, le carceri italiane presentano standard molto bassi. Spesso la Corte di Strasburgo ne ha evidenziato la gravità. Qual è lo stato delle carceri italiane adesso rispetto agli altri paesi? In una parola: pessimo. Basti pensare che appena qualche anno fa, mentre nella Repubblica Ceca la percentuale dei detenuti in attesa di primo giudizio era ferma all’11 per cento, in Italia toccava la soglia del 42 per cento. Una vera e propria cancrena che lascia l’Italia indietro rispetto al resto dell’Europa e al mondo occidentale. Una misura eccezionale - la "custodia cautelare" o "detenzione preventiva" - che invece diventa sistematica, "perché in Italia non si riesce a concludere i processi in tempi ragionevoli", come denunciava già nel 1991 Mario Gozzini. Significa che oggi quasi il 20 per cento dei detenuti è in carcere da innocente, visto che "l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva", come recita l’articolo 27 della Costituzione repubblicana. Che uomo è oggi Don Bussu? Si sente ancora, nonostante l’età, un combattente sacerdote? Don Bussu resta il leone di sempre, anche se "la vecchiaia avanza e le forze non sono più quelle di prima", scherza con la sua tipica autoironia. A quasi novant’anni, dopo essersi ritirato dalla vita pubblica è in cerca del meritato riposo. Ma è comunque sempre pronto a rifare quello che ha fatto, se ci dovessero essere le stesse condizioni di quel Natale 1983, quando uscì dal supercarcere nuorese di Badu e Carros sbattendo i cancelli, mentre quasi in contemporanea papa Wojtyla entrava in una cella di Rebibbia per visitare il suo attentatore Alì Agca. "Non volevo morire così, Santo Stefano e Ventotene". Storie di ergastolo e di confino di Fabiana Luca affarinternazionali.it, 27 aprile 2017 In questo volume Pier Vittorio Buffa descrive due mondi diversi. Storie e vite apparentemente distanti tra loro, accomunate da spazi di reclusione contigui in cui i protagonisti sono costretti a scontare la loro pena. Da una parte l’isola di Santo Stefano, luogo di detenzione forzata fin dalla fine del Settecento. Qui rivive la memoria di assassini, delinquenti e rapinatori, così come di uomini innocenti e oppositori politici. Dall’altra, l’isola di Ventotene, resa da Mussolini luogo di confino per uomini che hanno combattuto il fascismo e creduto nella fondazione di una nuova Italiae di una nuova Europa. A separarle, appena un tratto di mare. E ad unire simbolicamente la storia delle due isole sono i destini di Sandro Pertini, futuro presidente della Repubblica italiana, e Umberto Terracini, tra i più celebri padri della nostra Costituzione. Entrambi condannati dal Tribunale speciale fascista, finirono prima confinati nelle carceri di Santo Stefano, confondendosi, indistinti, tra la folla degli altri prigionieri. E poi, una volta scontata la pena lì dentro, rimasero, fino alla caduta del fascismo, segregati al confino. Finirono proprio a Ventotene, insieme ad alcune tra le personalità più significative per il Paese e per la futura Europa unita. Sull’isola dove, durante la seconda guerra mondiale, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Eugenio Colorni elaboravano il Manifesto di Ventotene, celebrato oggi come un atto fondativo dell’integrazione europea. Da storie di sofferenza, dolore e di prigionia forzata (spesso anche ingiustificata) si affermavano quindi valori e princìpi condivisi, che, sulle ceneri della guerra, avrebbero costituito la base di una nuova Europa unita. Sono pagine che ricostruiscono la vita di confinati e detenuti per preservarne la memoria nel tempo. Un riconoscimento, in particolare, per quei personaggi che, in queste isole prigioni, persero prematuramente la vita dopo aver combattuto per conquistare la libertà per il proprio Paese. Per non lasciare all’oblio della Storia il ricordo e il sacrificio di uomini che, appunto, non sarebbero voluti morire prima di aver visto realizzato il sogno di un’Italia democratica e, nuovamente, libera. "Non volevo morire così, Santo Stefano e Ventotene. Storie di ergastolo e di confino", di Pier Vittorio Buffa. Editore Nutrimenti, Roma, 2017, pagg. 288, 16 euro. La libertà di stampa in Italia c’è, ma non la usa nessuno... di Piero Sansonetti Il Dubbio, 27 aprile 2017 Cinquantesimi dopo il Ghana, l’Estonia e le Isole Samoa? I 5 Stelle spesso usano la violenza verbale contro i giornalisti, ma parlare di intimidazione è veramente eccessivo. "Reporter senza Frontiere" sostiene che la condizione della libertà di stampa, in Italia, è migliorata. Eravamo oltre il settantesimo posto in classifica ora siamo più o meno cinquantesimi. Abbiamo scalato 25 posti. Però la Giamaica, l’Estonia, la Namibia, il Ghana e il Suriname sono sempre parecchio davanti a noi. Avremmo potuto arrivare molto più in alto (magari vicino alle isole Samoa, che sono al ventunesimo posto), dice "Reporter senza Frontiere" - se Beppe Grillo e i 5 stelle non avessero svolto una sistematica opera di intimidazione contro i giornalisti. Naturalmente non è vero. Non è vero che siamo cinquantesimi, tantomeno è vero che l’anno scorso eravamo settantacinquesimi, e ancora meno vero è che Grillo minaccia la libertà dei giornalisti. Infatti Beppe Grillo è insorto contro queste calunnie, facendo capire che considera meno che niente la scientificità dell’indagine. E ha perfino avanzato, sospettoso, l’ipotesi che questi di "Reporter" siano al soldo dei grandi giornali italiani. Ha ragione, credo (sull’anti-scientificità, dico, perché il sospetto del complotto, al solito, è roba da ridere). Chissà perché, però, non era insorto un anno fa e due anni fa, e tre anni fa quando l’Italia era stata messa da "Reporter" in "zona retrocessione" e la colpa era stata attribuita a Berlusconi e al suo strapotere. L’anno scorso, di questi tempi, il blog di Grillo applaudiva al documento di "Reporter" e tuonava contro Renzi e Forza Italia che strapazzano la verità e l’informazione. Come stanno veramente le cose? Naturalmente è vero che lo schieramento politico che si raggruppa attorno a Grillo e ai suoi giornali spesso usa toni violentissimi contro i giornalisti. Altre volte, su questo giornale, abbiamo paragonato la rozzezza delle loro polemiche allo stile di un vecchio gerarca fascista, che si chiamava Roberto Farinacci e che a un certo punto fu accantonato persino da Mussolini per il suo eccesso di volgarità. Però Farinacci e i suoi - diciamo così - andavano un po’ oltre la violenta aggressione verbale: bastonate, olio di ricino, licenziamenti. Sarebbe saggio se - anche nelle polemiche - cercassimo tutti di mantenere un senso della misura. Non credo che siano molti i giornalisti che si sentono intimiditi da Grillo. Non credo - francamente - che siano molti neppure quelli che hanno paura di altri politici, o dei giudici, o degli imprenditori, o persino delle organizzazioni criminali. Non ricordo negli ultimi 25 anni molti episodi di violenza contro i giornalisti. Qualche decennio fa le cose erano un po’ diverse. Volete qualche nome? Pippo Fava, Mauro Rostagno, Walter Tobagi, Giancarlo Siani. Sono i primi che mi vengono in mente: uccisi. Dalle Brigate Rosse, dalla mafia (per conto proprio o per conto della politica). Oggi, per fortuna non è così. E in Italia c’è la libertà di stampa. Le classifiche di "Reporter senza Frontiere" fanno ridere e servono solo - di volta in volta - a rinfocolare le polemiche politiche sulle quali i nostri intellettuali, o giornalisti, o politici, o blogger, amano gettarsi a corpo morto senza sapere nemmeno di cosa si parla. Questo vuol dire che in Italia c’è un buon giornalismo? Oh, no davvero. Il giornalismo italiano è pessimo. Il suo problema non è quello di essere minacciato da un grado basso di libertà di stampa, il suo problema è quello di essere impreparato, privo di idee, spesso anche di capacità di racconto, e - quasi sempre - volontariamente e orrendamente subalterno. Subalterno talvolta ai politici (sicuramente, in parte, anche ai politici a 5 stelle), talvolta - spessissimo - ai magistrati, talvolta agli imprenditori. E questo succede per molte ragioni. Delle quali, una è chiarissima: la mancanza di editori veri, di editori puri. Cioè di imprenditori che - come avviene in latri paesi occidentali - dedicano la loro impresa allo sviluppo dell’informazione. In Italia gli editori sono imprenditori che in genere si occupano di altro: finanzieri, impresari edili, costruttori di automobili, proprietari di cliniche eccetera eccetera eccetera. Sono loro i padroni. E a loro non interessa molto l’informazione, interessa il rapporto con i poteri: quello politico o quello giudiziario. E ai loro giornalisti non chiedono informazioni, o racconti, o pensiero, o cultura: chiedono di mettersi la casacca di una squadra politica e giudiziaria, e di rispettare gli ordini dell’allenatore. Reporter Senza Frontiere: "Grillo è un problema per l’informazione". di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 27 aprile 2017 Lui: "No, è la lottizzazione". Libertà di stampa mai così a rischio nel mondo. L’Italia guadagna 25 posizioni, dal 77esimo al 52esimo posto. Ma resta il buco nero della condizione dei precari e freelance. Rsf attacca M5S e Grillo sulle liste di proscrizione dei giornalisti: "Non esitano a comunicare pubblicamente l’identità di quelli che gli danno fastidio". L’ex comico ironizza e contrattacca: "Smontiamo le bufale contro di noi". Reporter senza frontiere (Rsf) ha denunciato le liste di proscrizione dei giornalisti sul blog di Beppe Grillo nel rapporto annuale sulla libertà di informazione. "Il livello di violenza contro i giornalisti, incluse intimidazioni e minacce verbali e fisiche, è allarmante" a causa di "politici come Beppe Grillo del Movimento 5 Stelle, che non esitano a diffondere l’identità di giornalisti sgraditi" si legge nella sezione italiana del rapporto diffuso ieri. I giornalisti inoltre subiscono "pressioni" da tutti i politici e o "optano sempre di più per l’auto-censura". Nel mirino di Rsf c’è anche il nuovo testo di legge sulla diffamazione contro i politici, magistrati o funzionari che prevede pene da sei fino a nove anni di prigioni. Infine, sono ancora sei i giornalisti minacciati dalla criminalità organizzata, "in particolare nella capitale e nel sud del paese". L’ultimo episodio è stato quello dell’incendio a Gaeta della macchina dell’avvocato di Federica Angeli, giornalista di Repubblica che fa inchieste sulla mafia di Ostia. A dispetto di questi elementi, il piazzamento dell’Italia nella "classifica" internazionale sulla libertà di stampa è migliorata: dal 77esimo posto dell’anno scorso, quest’anno l’Italia si ritrova al 52esimo posto. La scheda-paese di Rsf non si sofferma sulle cause di questa scalata di 25 posti. La federazione nazionale della stampa (Fnsi) deduce che sia il frutto di "un rapporto positivo tra istituzioni e rappresentanze dei giornalisti", a partire dal confronto in atto "sulla riforma dell’editoria". Dall’indagine non risultano riferimenti alla condizione materiale dei giornalisti italiani. Nel 2015, sostiene l’osservatorio Lsdi, sono aumentate le dichiarazioni a zero reddito dei giornalisti non contrattualizzati, due su tre degli iscritti in via esclusiva alla gestione separata Inpgi. Il 56% dei precari ha dichiarato meno di 5 mila euro di reddito annuo. L’estrema debolezza economica, e la quasi totale assenza di tutele e norme a sostegno di precari e freelance, possono essere considerati un attentato alla libertà di opinione, come una minaccia mafiosa o una querela temeraria da parte di un politico. L’inefficace presidio sindacale, oltre che politico, a favore della stragrande maggioranza dei giornalisti può avere portato al non proprio onorevole 52esimo posto. L’attacco di Rsf a quello che è considerato il primo partito in Italia - il Movimento 5 Stelle (M5S) - ha provocato ieri una risposta a colpi di cannone da parte di Grillo. Sul suo mlog il capo pentastellato ha provato a usare l’ironia: "Ho scoperto di essere io la causa del problema di libertà di stampa in Italia" ha scritto. Quanto alle liste di proscrizione Grillo ha puntualizzato che "non viene pubblicata l’identità dei giornalisti sgraditi, viene smentita la balla che diffondono o viene risposto alle loro offese gratuite". Le liste, con i nomi ben in chiaro, i pedinamenti dei direttori, e altre soluzioni di questo tipo, sarebbero dunque le "risposte" contro le "bufale" diffuse dai giornalisti per attaccare il movimento. Nulla però si dice sulle bufale prodotte dal blog, su migranti, vaccini e quant’altro. Chi denuncia le "fake news", di solito è il primo ad usarle. Il caso di Trump ha fatto scuola. Una parte del successo del movimento è tuttavia alimentato dalla richiesta di verità, informazione e partecipazione negate ad ogni livello in Italia. Una parte importante di questa domanda sociale passa anche dalla rete e M5S, o meglio dal suo avatar. Grillo ha richiamato questo elemento invocando il nome del guru di Wikileaks Julian Assange per il quale M5S avrebbe addirittura "squarciato il velo dei filtri della vecchia stampa mainstream corrotta". Il problema è complesso, e occorrerebbe da parte di Rsf un maggiore approfondimento su un movimento fondato sul "populismo digitale". Non tre righe di commento. L’uscita di Rsf contro Grillo ha alimentato lo scontro politico con il Pd. "Tra i problemi della libertà di opinione c’è Grillo e noi lo denunciamo da tempo" sostiene Ettore Rosato, presidente dei deputati Pd. "Temono la libertà di stampa e con il loro capo usano il manganello contro chi ha il compito di informare" aggiunge Andrea Romano, deputato Pd, già condirettore de L’Unità. "Un anno fa citava Rsf per attaccare la stampa - aggiunge Lorenza Bonaccorsi (Pd) - Oggi Grillo lo citerà contro se stesso?". Ed è subito campagna elettorale permanente. Un clima in cui il "circo mediatico" si trova benissimo. Turchia. La più grande prigione al mondo per giornalisti di Désirée Klain articolo21.org, 27 aprile 2017 Una vera e propria "Giornata della Liberazione" a Napoli il 25 aprile, per il rilascio di Gabriele Del Grande, il giovane reporter, che è stato detenuto in Turchia, senza che nessuna accusa sia stata formalizzata nei suoi confronti. Gabriele, così come gli altri suoi colleghi, sembra aver commesso il reato, intollerabile in un paese dittatoriale, di documentare la verità. Désirée Klain, responsabile di Articolo 21 sezione Campania, Claudio Silvestri, che presiede il Sindacato Unitario Giornalisti della Campania, Ottavio Lucarelli, presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Campania, Paolo Siani, presidente della Fondazione Polis, il giudice Alfredo Guardiano, in rappresentanza della Fondazione Premio Napoli e Carlo Verna si sono uniti in un sit in di protesta, davanti alla Mehari di Giancarlo Siani, la macchina simbolo della libertà di stampa (custodita al Pan di Napoli), per denunciare l’immobilismo della politica nei confronti dei regimi dittatoriali, che continuano ad imprigionare ingiustamente i giornalisti. "La liberazione di Del grande - ha scritto da Parigi, il giornalista Marco Cesario, in un messaggio letto durante l"incontro - è un’ottima notizia che ci rende tutti felici. Ma non dobbiamo abbassare la guardia perché i giornalisti stranieri non ricevono in Turchia lo stesso trattamento dei giornalisti turchi in patria. Mentre un giornalista straniero viene fermato e dopo un po’ espulso (ma la prigionia di Gabriele è durata troppo, quasi un monito all’Europa di non mettere il dito negli affari di confine della Turchia e delle limitazioni dei diritti umani), i giornalisti turchi subiscono da anni soprusi, censura, licenziamenti". "Con la vittoria al referendum - ha scritto ancora - macchiato dall’utilizzo di circa 2,5 milioni di schede non timbrate come ravvisato dagli osservatori dell’Osce, la Turchia sta lentamente scivolando nella dittatura. Ricordiamo che nelle prigioni turche ci sono attualmente 155 giornalisti, di cui numerosi in prigione da anni, con accuse prive di fondamento e sempre in attesa di processo. Basti pensare che alcuni giornalisti di cui ho scritto nel mio reportage del 2011 - poi diventato il libro "Sansür" nel 2012 - sono tuttora in prigione mentre altri, vedasi il cronista Ahmet Sik, autore dell’esercito dell’Imam, è già entrato ed uscito di prigione più volte ed ora è in detenzione da mesi senza uno straccio di prova. Cento cinquantacinque giornalisti in prigione è una cifra abnorme, che fa della Turchia la più grande prigione al mondo per giornalisti. Ma questo numero diventa paradossalmente irrisorio se lo paragoniamo alle quasi 50 mila persone arrestate in Turchia dal fallito golpe del 15 luglio scorso a oggi. In breve: una società civile intera è dietro le sbarre!". Poi, in diretta telefonica, sempre a Napoli ce stata la testimonianza di Dogan Özgüden, il giornalista turco che ha dedicato la propria vita alla difesa della libertà d’opinione, delle minoranze, dei diritti civili e sindacali, raccontando la propria esperienza nel libro Journaliste "apatride". Il reporter, costretto a lasciare la Turchia per sfuggire alla persecuzione della dittatura militare, si è stabilito in Belgio dove, insieme con moglie, ha promosso molte iniziative politiche e culturali. La coppia ha parlato di temi a lungo proibiti in Turchia, ed è perciò invisa al potere, che la ha perseguitata in vario modo, privando infine entrambi della cittadinanza turca nel 1984. Dal 1975 guidano l’agenzia di stampa Info-Türk, che pubblica un prezioso bollettino mensile su tutto quello che riguarda la Turchia: politica, cultura, problemi delle minoranze, al fine di proteggere i diritti di tutti. "La situazione in Turchia - ha spiegato Özgüden - è anomala a causa della dittatura islamo-fascista di Erdogan. È per questo che Gabriele del Grande è stato imprigionato, e colgo l’occasione per fargli i miei migliori auguri e porgergli i miei saluti. Attualmente in Turchia ci sono più di 150 giornalisti in cella. Sono stati arrestati anche coloro che lavoravano nelle testate storiche. Un esempio è Kadri Gürsel, il quale si trova ancora in prigione". Gürsel doveva essere ospite ad "Imbavagliati", il festival internazionale di giornalismo civile, che si è tenuto a Napoli lo scorso settembre, ma riuscì a presenziare alla manifestazione, perché gli fu revocato il visto. Poi "arresto. "La Turchia - ha continuato lo storico giornalista turco - in questo momento attraversa un periodo delicato. Ad aprile c’è stato un referendum il cui fine era quello di estendere il potere despotico di Erdogan. I Paesi centrali della Turchia, come Istanbul e Ankara, si sono schierati contro la nuova costituzione. Questo è un forte segnale, c’è speranza che le cose cambino. Intanto, il Parlamento Europeo sta cercando di gestire al meglio i rapporti con la Turchia, poiché si rende conto che nel paese vengono perpetrate continue violazioni dei diritti umani. Ricordiamo che in giro per l’Europa, soprattutto in Olanda Belgio e Germania, ci sono giornalisti, esiliati politici, solo perché hanno criticato il regime. Anche loro sperano in un cambiamento nel paese, poiché il potere centrale rifiuta ogni tipo di contestazione. Nel 2019 ci saranno le elezioni presidenziali e legislative. Si spera che in quest’occasione le cose cambino, in modo che i giornalisti possano finalmente raccontare la verità su ciò che è accaduto in Turchia, senza filtri". La Turchia risponde a Strasburgo con una maxi retata di Chiara Cruciati Il Manifesto, 27 aprile 2017 Nuova epurazione contro presunti membri della rete dell’imam Gulen, mentre il Consiglio d’Europa pone Ankara sotto osservazione: 1.120 detenuti, 3.224 i mandati d’arresto. Erdogan risponde agli europei: pronto a rinunciare all’adesione. Convitato di pietra del referendum turco del 16 aprile, l’Europa viene chiamata in causa dalle opposizioni, da un progetto di adesione vecchio ormai cinque decenni e da una posizione verso Ankara che definire ambigua ridurrebbe la portata delle effettive responsabilità. Ieri il partito repubblicano Chp ha annunciato il ricorso alla Corte Europea per i diritti umani sull’esito del voto e la questione brogli, dopo essersi visto chiudere le porte sia dalla Commissione elettorale turca che dal Consiglio di Stato. L’annuncio arriva in mezzo ad una due giorni concitata. Martedì il Consiglio d’Europa - organizzazione a cui aderiscono 47 paesi, esterna alle istituzioni della Ue e chiamata a vigilare su diritti umani e democrazia negli Stati membri - ha posto sotto osservazione la Turchia a seguito della campagna di epurazione lanciata dopo il fallito putsch del 15 luglio 2016. Con 113 voti a favore e 45 contrari, il Consiglio ha avviato un processo di controllo del paese e chiesto ad Ankara di scarcerare subito giornalisti e parlamentari detenuti e assumere misure immediate per il ripristino di libertà di espressione e di stampa. Secondo il sito di monitoraggio Turkey Purge, al 18 aprile 2017 sono state licenziate 134mila persone (tra poliziotti, soldati, dipendenti pubblici, insegnanti, accademici, giornalisti); quasi 100mila sono state fermate e 49mila definitivamente arrestate; 2.099 università e scuole sono state chiuse, insieme a 149 agenzie stampa, emittenti tv e radio, giornali. A nove mesi dal tentato golpe, i numeri continuano a salire: ieri oltre mille persone sospettate di avere legami con l’imam Gülen e il movimento Hizmet sono state arrestate in una serie di raid in tutto il paese che ha coinvolto 8.500 poliziotti. I 1.120 arrestati - definiti dal ministro degli Interni Soylu "imam segreti" e tutti membri delle forze di polizia, che seguono ai 10.700 poliziotti e ai 7.400 soldati già in galera - sono solo un terzo dei 3.224 mandati d’arresto spiccati dal Mit, i servizi segreti, su richiesta della procura di Ankara che conduce l’inchiesta sulla presunta "struttura segreta" dentro la polizia. Quella portata avanti in 81 province, di notte, è una delle operazioni più dure contro la rete di Gülen, alleato storico dei piani di islamizzazione di Erdogan (sia in casa che tra le comunità turche in Europa) e di controllo di istituzioni e network economici, poi diventato la bestia nera del presidente. Contro di lui (come contro la comunità kurda) si è scatenata la campagna di epurazione, necessaria al governo a individuare, eliminare e punire chi esprime fedeltà - vere e presunte - a soggetti estranei alla leadership e potenzialmente distruttivi del modello di società omogenea che la riforma costituzionale appena votata intende imporre. Restano i dubbi sugli effettivi benefici (per Erdogan) di epurazioni dai numeri impressionanti. I vertici di esercito e polizia sono decapitati, la magistratura e il mondo accademico "ripuliti" dei nemici e rimpinzati di fedelissimi, in apparenza il miglior modo per garantirsi un paese asservito. Ma sul medio e lungo termine una tale violenza di Stato non potrà che avere effetti negativi per le istituzioni che Erdogan sta plasmando, internamente indebolite, a partire da quelle forze dell’ordine e forze armate ampiamente impiegate nella repressione interna, nella campagna contro la comunità kurda e in svariati fronti all’estero. La maxi retata è anche una risposta all’Europa. Ovviamente decisa in precedenza, la tempistica - a poche ore dall’annuncio del Consiglio d’Europa - pare una reazione ufficiosa a cui fa seguito quella ufficiale di Erdogan. I parlamentari del suo partito, l’Akp, boicotteranno le sessioni del Consiglio fino a quando la procedura di controllo non sarà cancellata. In un’intervista alla Reuters, il presidente ha poi detto di non aver intenzione di aspettare alle porte europee per sempre e di essere pronto a rinunciare all’adesione se persisterà un clima ostile e islamofobo: "Non c’è una singola cosa che non siamo pronti a fare, ma continuano a lasciarci alla porta". Una porta che Ankara oggi rifiuta, più interessata a rivolgersi a oriente, a farsi leader di un progetto neo-ottomano regionale. Ricordando però che chiudendo con Bruxelles dovrà rinunciare anche a 600 milioni di euro girati ogni anno dalla Ue come fondi pre-adesione. Venezuela. Già 30 i morti, torna il dialogo del Vaticano di Geraldina Colotti Il Manifesto, 27 aprile 2017 Almagro preme per altre sanzioni. Maduro potrebbe uscire dall’Osa. Il 2 maggio riunione Celac. "Hanno ucciso la Negrita. Le hanno sparato venti colpi. Ni Una Menos". La distanza non attenua il dolore. La donna piange, a Roma, ricevendo la notizia dal Venezuela per whatsap. Jacqueline Delgado, nota come "la Negrita" era una leader comunitaria molto conosciuta, che coordinava anche i Comités Locales de Abastecimiento y Producción (Clap) in vari settori della Valles del Tuy. Un femminicidio politico, commesso nell’ambito delle proteste violente che scuotono il paese come nel 2014. Nello stesso giorno, dei sicari incappucciati hanno ammazzato Emir Ramirez, dirigente sindacale di Ferrominera, nello Stato di Bolivar… I morti sono già 30, ma - come ha preannunciato uno dei capi dell’opposizione, il presidente del Parlamento, Julio Borges - "ce ne saranno altri". La lista dei morti è indicativa, ma i media mettono tutto sullo stesso conto: quello di una "dittatura" che non accetta di far spazio alla volontà dei "pacifici manifestanti" ormai maggioritaria. Ma è davvero così? Qualche dato induce a riflettere: su oltre 1.000 emittenti radio o tv, il 67% sono private, il 28% gestite dalle comunità e il 5% di proprietà statale. Su 108 quotidiani, 97 sono privati e 11 pubblici. Il 67% della popolazione ha accesso a internet. Non esiste libertà di espressione? Tra il 1958 e il 1998 (anni di democrazia rappresentativa) vi sono state 24 elezioni. Dalla vittoria di Chavez (1998) a oggi, 25, tre con Maduro. E ora è in corso la registrazione dei partiti per le regionali e poi le comunali. Si violano i diritti umani? E perché allora a Ginevra, il Venezuela ha passato l’esame annuale dell’Onu? Dice l’analista internazionale Pasqualina Curcio: "La farina di mais precotta è aumentata del 3.700%. Perché gli imprenditori, che hanno ricevuto dal governo dollari a tasso preferenziale e materia prima sottocosto, che hanno aumentato i prezzi di quasi il 4.000% in meno di un anno, vedendo le file, anziché aumentare la produzione l’hanno diminuita dell’80%?". La procuratrice generale Luisa Ortega, corteggiata anche dalle destre, ha tenuto una conferenza stampa: "Respingo - ha detto - tutti gli episodi di violenza, sono una donna di pace". Ha raccomandato alle forze dell’ordine di "seguire la procedura prevista per gli arresti" (per due morti ci sono poliziotti in carcere) e accusato degli omicidi le bande armate. Di quale colore? Per i media si tratta dei "collectivos" chavisti. Per la sinistra, si tratta di gruppi paramilitari che compiono omicidi mirati e soprattutto femminicidi politici, perché le donne sono in prima fila nella difesa delle conquiste sociali. Paramilitari, delinquenti, o che altro? Nello scontro, il gioco si fa torbido. "Governo e opposizione - ha detto Ortega - devono tornare al dialogo". Sulla carta, il dialogo è vigente, sotto l’egida dell’Unasur e del Vaticano, e guidato dallo spagnolo Zapatero. Ma la crisi venezuelana presenta molti chiaroscuri. A volere il dialogo sono senz’altro i settori governativi più legati a Maduro, e un’agenda politica era già stata approvata da entrambi gli schieramenti. Vogliono smarcarsi dalle violenze anche settori moderati dell’opposizione, come quelli capeggiati da Henry Falcon, governatore dello Stato Lara, che aspira a essere il candidato presidenziale contro Maduro. Gli altri - dall’estrema destra di Voluntad Popular e di Primero Justicia ai centristi di Accion Democratica - preferiscono la via violenta per cancellare la costituzione bolivariana: che vieta di svendere le immense risorse petrolifere. Un’agenda da imporre con l’appoggio internazionale: di Trump e delle istituzioni come l’Osa in cui pesano i due grandi del continente, Brasile e Argentina, ora a destra. E proprio la ministra degli Esteri argentina, Susana Malcorra, che ha incontrato il papa venerdì scorso, ha dato la sua versione alla stampa internazionale. Secondo Malcorra - che ha guidato l’espulsione di Caracas dal Mercosur per firmare il Tlc con l’Ue e che ora ha la presidenza di turno della Unasur - Bergoglio ha chiesto a Maduro di "adempiere agli impegni presi". Anche in questo caso, le cose vanno lette in filigrana. Da una parte c’è la posizione della Conferenza episcopale venezuelana e di molti cardinali modello Wojtyla, che sfilano con l’opposizione e ne assumono il punto di vista, dall’altra l’atteggiamento del "papa bolivariano" e dei suoi consiglieri progressisti. Bergoglio ha ricevuto Maduro in Vaticano e, più di recente, il suo amico gesuita Numa Molina, fautore del dialogo e delle 3T (casa, terra, lavoro). E si sa, da fonte sicura, che disapprova le politiche neoliberiste di Macri (ora in visita da Trump) per l’Argentina, almeno quanto quelle di Temer in Brasile. Forte dell’appoggio del segretario dell’Osa, Luis Almagro, Malcorra vorrebbe convocare un’altra riunione contro Caracas. Se vengono di nuovo violate le procedure, il Venezuela uscirà dall’Osa. Il 2 maggio, invece, si riunisce sul tema il vertice della Celac, la Comunità degli Stati latinoamericani e caraibici, che comprende 33 stati americani tranne Canada e Usa. Venezuela. Amnesty International: è caccia al dissidente di Riccardo Noury Corriere della Sera, 27 aprile 2017 In un nuovo rapporto diffuso ieri, Amnesty International ha accusato le autorità del Venezuela di aver intensificato la persecuzione e le punizioni nei confronti di chi la pensa diversamente, in un contesto di crisi politica in cui le proteste che si susseguono in tutto il paese hanno dato luogo a più di 30 morti e a centinaia di ferimenti e arresti. Il rapporto, intitolato "Ridotti al silenzio con la forza: detenzioni arbitrarie e motivate politicamente in Venezuela", fornisce dettagli su una serie di azioni illegali intraprese dalle autorità venezuelane per reprimere la libertà d’espressione, tra cui: arresti senza mandato da parte del Servizio bolivariano dell’intelligence nazionale (Sebin) nei confronti di attivisti non violenti, uso ingiustificato della detenzione preventiva e una campagna diffamatoria sui mezzi d’informazione nei confronti di oppositori politici. Nella maggior parte dei casi le persone arrestate vengono accusate di reati quali "tradimento contro la madrepatria", "terrorismo", "furto di beni dell’esercito" o "ribellione", grazie ai quali l’uso della detenzione preventiva è consentito anche in assenza di prove che possano confermare l’accusa. Questi reati ricadono sotto giurisdizioni speciali, tra cui quella militare, prive d’indipendenza, raramente imparziali e che non dovrebbero riguardare imputati civili. Amnesty International ha inoltre documentato casi in cui i contatti tra i detenuti e i loro avvocati e familiari sono stati limitati col conseguente incremento del rischio di subire maltrattamenti e torture. Tunisia. Troppi detenuti per droga, legge diventa più mite Ansa, 27 aprile 2017 Sono 53% popolazione carceri. Attenuanti in attesa nuova legge. Il parlamento tunisino ha approvato a larghissima maggioranza la modifica alla legge 52 del 1992 su consumo e spaccio di stupefacenti, giudicata da molti antiquata e troppo severa, oggetto di acceso dibattito da lungo tempo in Tunisia per via degli effetti nefasti su molti giovani incarcerati solamente per l’uso di droghe leggere. L’emendamento riguarda il solo articolo 12 che nella sua nuova versione concede al giudice la facoltà di applicare attenuanti varie a seconda dei singoli casi. L’adozione della modifica è una soluzione provvisoria nell’attesa di una nuova legge organica, le cui norme prevedono, oltre alla possibilità per il giudice di applicare attenuanti, quella di sanzioni amministrative ai consumatori sorpresi per la prima volta e pene alternative al carcere. Secondo l’Alto Commissariato Onu per i Diritti Umani, il 53% dei detenuti in Tunisia si trova in carcere per reati legati alla droga. La legge in vigore punisce il consumatore e il detentore anche di modiche quantità con la reclusione da uno a cinque anni e con pena pecuniaria da 500 a 1.500 euro circa. Somalia. La fuga di Zeinab, venduta a un uomo per salvare le sorelle dalla siccità di Alessandra Muglia Corriere della Sera, 27 aprile 2017 Tra gli arbusti bruciati dal sole, con i raccolti perduti, gli animali morti e i pozzi vuoti, Abdir Hussein non vedeva nessun’altra possibilità per salvare la sua famiglia dalla fame che "vendere" la figlia Zeinab, 14enne. Un uomo del villaggio l’aveva chiesta in sposa offrendo in dote mille dollari. Il necessario per intraprendere il viaggio che avrebbe permesso di sopravvivere a lei e alle altre figlie, con nipoti e nipotini al seguito. Destinazione Dolow, cittadina somala al confine con l’Etiopia dove le agenzie umanitarie distribuiscono cibo e acqua agli sfollati in fuga dalla terribile siccità che sta colpendo il Paese dove oltre la metà dei 12 milioni abitanti necessita di aiuti per non soccombere, stima l’Onu. Il "baratto" - All’inizio la ragazzina aveva opposto resistenza: "Preferisco correre nella foresta ed essere divorata dai leoni", la sua reazione. "Allora staremo qui a morire di fame e gli animali mangeranno anche le nostre ossa", la replica della madre, riferisce la Reuters. Barattare la libertà di Zeinab per la vita delle sorelle è stata una "decisione difficile, ho messo fine ai sogni della mia bambina ma senza quei soldi saremmo tutti morti". C’è chi nella grande fuga lascia indietro bambini che non camminano o mariti invalidi. "Scelte come queste stanno diventando frequenti in un Paese dove non piove praticamente da due anni e la presenza dei miliziani Shebab complica i movimenti di soccorritori e degli stessi abitanti", raccontano al Corriere gli operatori di Coopi - Cooperazione italiana - , presenti dal 1984 in Somalia con programmi di distribuzione di voucher per alimenti, protezione dei rifugiati e iniziative di sostentamento agli animali. È proprio grazie all’iniziativa di questa ong italiana se la vicenda di Zeinab ha avuto un lieto fine. Tra gli Shebab - Perché la ragazzina, a soli tre giorni dalle nozze, è riuscita a scappare e a raggiungere i suoi familiari che un po’ a piedi un po’ in sella a degli asini (affittati) avevano percorso i cinquanta chilometri che separano il luogo della salvezza, Dolow, dal loro villaggio vicino a Malmaley, sempre nella regione di Ghedo. Un viaggio non facile: per arrivarci occorre passare da zone controllate dai miliziani Shebab che estorcono "pedaggi" ai passanti, sequestrano ragazzini da arruolare come combattenti, bloccano gli uomini. Zeinab assicura di essere stata "trattata bene", altro non vuole dire, ha troppa paura di ritorsioni dopo che il suo volto è circolato sui media locali. Passata indenne dalle zone controllate dagli estremisti, Zeinab si è trovata il marito alle calcagna. L’aveva inseguita. Minacciava la madre: "O mi ridate la dote o mi riprendo la ragazza con la forza". Non avrebbero potuto restituire neanche un centesimo del dovuto. Non esistono programmi ad hoc per rimediare a queste situazioni, diventate più frequenti dopo la carestia. È a questo punto che entra in scena Coopi. "Dobbiamo fare qualcosa sennò ogni notte ci sarà uno stupro", disse Deka Warsame, coordinatrice regionale di Coopi, arrivata sul posto per la visita dei donatori Ue dell’Echo. Ed è partita una raccolta fondi. Così l’uomo è stato "risarcito" e Zeinab ora è una ragazza libera. Con un progetto: "Voglio studiare e diventare un’insegnante di inglese".