Quando i direttori si fanno in due per gestire gli istituti penitenziari di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 aprile 2017 Su 191 strutture sono 56 quelle amministrate da 28 dirigenti che si devono dividere. La Sardegna è maglia nera: su 10 carceri solo due hanno il titolare a tempo pieno. Un numero considerevole di direttori del carcere si trova a gestire più di un istituto penitenziario a testa. Il Dubbio ha elaborato i dati del Dap presenti sul sito del ministero della Giustizia e risulta che ben 28 direttori dei penitenziari si ritrovano a gestire contemporaneamente due strutture - in alcuni casi dislocati in Regioni diverse per un totale complessivo di 56 istituti accorpati su 191 presenti. La maglia nera è in Sardegna dove su 10 istituti, solo due - tra i quali quello nuovo di Uta - sono gestiti a tempo pieno dal direttore penitenziario. Ma c’è di più, sempre in Sardegna abbiamo il caso del direttore Pier Luigi Facci che, oltre a dover amministrare due penitenziari tra i quali quello di Oristano dove sono presenti numerose criticità, ricopre il ruolo di direttore dell’ufficio personale e della formazione del Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria della Sardegna. C’è, poi, il caso estremo del direttore Carlo Berdini che, oltre a dirigere un carcere di massima sicurezza come quello di Parma che, come ha denunciato lo stesso Garante, presenta una serie di problemi, si è ritrovato pro tempore a gestire anche un altro istituto altrettanto importante e impegnativo come quello di Sollicciano, a Firenze, a oltre duecento chilometri di distanza. In una situazione dove il sovraffollamento è in crescita e diversi istituti penitenziari presentano delle enormi problematicità, la figura del dirigente penitenziario diventa sempre più indispensabile. I direttori penitenziari sono attualmente inquadrati sui tre livelli; di essi alcuni svolgono le funzioni di direttori di istituto, altri, gli ex collaboratori di istituto penitenziario, hanno compiti di collaborazione alla direzione pur non potendone avere la reggenza. Le attribuzioni del direttore penitenziario riguardano la definizione di procedure sul funzionamento e la disciplina delle attività del personale, la direzione dei gruppi di osservazione e dello svolgimento dell’esecuzione penale, anche rispetto all’eventuale ammissione al lavoro esterno dei detenuti. Cura inoltre i collegamenti con la magistratura, in particolare con quella di sorveglianza, è responsabile della gestione amministrativa e contabile dei fondi assegnati; formula piani di addestramento del personale e di nuovi servizi. Un ruolo delicato e importantissimo, ma parliamo di una categoria numericamente esigua e che faticano a far sentire la loro voce. I tagli dello spending review del governo Monti aveva toccato anche loro e un decreto del presidente del Consiglio del giugno 2015 ha successivamente imposto una riduzione del numero dei posti di funzione dirigenziale, con la conseguenza che diversi penitenziari sono stati accorpati. A questo va aggiunto che l’ultimo concorso pubblico per dirigenti penitenziari risale al 1997, con il risultato che tra pensione e dislocamento verso altri uffici ammnistrativi, la categoria rischia di invecchiare e sfoltirsi sempre di più e senza alcun rimpiazzo. Inoltre i direttori dei penitenziari che gestiscono più istituti subiscono un eccessivo accumulo di responsabilità, legato soprattutto all’ impossibilità di essere costantemente presente nelle carceri. Quindi sono costretti a delegare molte competenze. E una delega obbligata è un modo per spogliarlo delle sue funzioni e relegarle ai comandanti della polizia penitenziaria, nonostante continui a rispondere anche penalmente degli atti delegati. Andrea Orlando: "contro i magistrati, Renzi si cerchi un altro ministro" di Fabrizio D’Esposito Il Fatto Quotidiano, 26 aprile 2017 Il Guardasigilli Andrea Orlando ha celebrato la Liberazione a Sant’Anna di Stazzema, in provincia di Lucca, laddove il 12 agosto 1944 la ferocia nazista si scatenò contro 560 civili. Buon 25 aprile, ministro. A Sant’Anna ci sono state divisioni come a Roma? È stato un momento unitario, come è giusto che sia. Senza differenze. Coloro che si sono battuti in montagna avevano diverse convinzioni politiche o religiose ma hanno fatto parte dello stesso processo. Senza unità non ci sarebbe stata la Liberazione. Per il prossimo 25 aprile bisogna ritornare uniti, questo deve essere l’impegno del Pd. Mancano pochi giorni alle primarie e Renzi anche ieri ha coltivato la sua ossessione per il caso Consip. "Andremo sino in fondo", ha detto a proposito delle intercettazioni manipolate sul papà indagato. Non lo so se Renzi sia ossessionato. So però che né io né Emiliano abbiamo strumentalizzato le polemiche di queste settimane. Però si parla di pressioni su di lei per mandare ispezioni a Napoli e punire i pm. Nessuno si è mai permesso di chiedermelo di persona. Ho letto però di esplicite prese di posizione di vari renziani. L’ultimo è Franco Vazio, vicepresidente della commissione Giustizia alla Camera: "Orlando non ha saputo fermare gli attacchi dei magistrati contro Renzi". Sono parole che mi addolorano e mi feriscono profondamente. Da ministro ho cercato sempre di muovermi con grande equilibrio quando c’erano elementi di anomalia. L’ho fatto per il sindaco Raggi a Roma, per la fuga di notizie durante il suo interrogatorio sul caso Marra, e l’ho fatto per tanti poveri cristi, cittadini normali, senza alcun blasone di partito. L’ho fatto per esponenti politici di tutti gli schieramenti senza guardare a partiti o correnti. Renzi, meglio, qualche renziano pretendeva un’attenzione maggiore. Precisiamo: qualche renziano. Io non ho girato la testa dall’altra parte, ho scritto al procuratore generale per eventuali anomalie nell’attività della polizia giudiziaria: non ho azionato l’attività ispettiva perché non emergevano profili disciplinari. Tutto questo, come sempre, l’ho fatto senza alcun carattere intimidatorio. Se i renziani che mi hanno criticato pensavano che utilizzassi i poteri ispettivi come una clava contro l’autonomia della magistratura hanno sbagliato persona. Dovevano chiedere che facesse il ministro della Giustizia qualcun altro. La clava rimanda a una certa concezione della giustizia dell’ultimo ventennio. Che oggi non corrisponde a quella della maggioranza. In che senso? Oggi non si discute più di autonomia dei magistrati a rischio né di aggressione o di complotti. E io rivendico questo merito. In Italia, al netto delle estremizzazioni corporative, c’è un dibattito in linea con l’Europa: parliamo di pensionamenti e ferie. Sono passi in avanti rispetto agli ultimi vent’anni. Domenica si vota per le primarie del Pd. Tre candidati: lei, Renzi ed Emiliano. "Primarie clandestine" oppure "morte", per Enrico Letta. Se si limitano a essere una conta per rilegittimare il leader è questo il pericolo. Se si vincono le primarie senza garantire una competitività elettorale si fa la fine di Hamon in Francia. Ma Renzi si erge a Macron. Macron non ha fatto le primarie ed è un uomo nuovo non assimilato con la conduzione del potere, come Renzi tre o quattro anni fa. E mi risulta che Macron non abbia mai tolto la bandiera europea alle sue spalle mentre parlava. Tra i "padri" ex Pci, le analisi sul voto francese sono divergenti: per Napolitano i populismi sono stati fermati; Veltroni, invece, è più cauto e ritorna sulla crisi tra sinistra e popolo; D’Alema, infine, predi li gel’ anti- establishment di Mélench on e non demonizza il populismo. Non per fare l’ecumenico ma ci sono elementi condivisibili in tutti e tre. E Mélenchon dimostra che se la sinistra radicale è competitiva può svolgere una funzione di tenuta del sistema. Meglio Mélenchon di Grillo. Impossibile dialogare con il M5s? Io non demonizzo i grillini, ma loro non sono Podemos. Certo, non mi sfugge che attraggono voti in quei settori popolari che votavano a sinistra ma hanno un forte elemento di ambiguità. Le loro posizioni sull’Europa oppure le parole di Di Maio sui migranti li rendono incompatibili con il Pd. Domenica teme brogli, truppe cammellate? Nessuno mi ha fatto pressioni di persona, ma ho letto prese di posizione dei renziani che mi hanno ferito Se qualcuno ha pensato che avrei utilizzato i poteri ispettivi come una clava contro i pm ha sbagliato porta La fatidica asticella è fissata oltre il milione? L’asticella la decidete voi giornalisti, per quanto mi riguarda ho fatto il massimo per garantire più partecipazione. Renzi scarica sugli altri la "colpa" di aver voluto votare in fretta il 30 aprile. Ma era stato lui a imporla. O no? La stragrande maggioranza dei componenti della commissione per il congresso sono renziani, faccia un po’ lei. In questa campagna qual è, a suo giudizio, il problema del Pd emerso con maggiore nettezza? Quello di rompere il nostro isolamento sociale e politico. C’è un tema di cui non scrivete nemmeno voi del Fatto, che pure vi occupate di scandali quotidianamente. Quale? La diseguaglianza sociale: il 25 per cento della ricchezza concentrato nelle mani dell’un per cento. Se non capiamo questo, non capiamo la fortuna dei populisti. A furia di parlare dell’Italia dell’eccellenza non abbiamo saputo raccontare l’Italia che non ce la fa. La contro-Liberazione in armi del Carroccio: "dobbiamo poter sparare ai ladri" di Alberto Mattioli La Stampa, 26 aprile 2017 Almeno cinquemila persone alla manifestazione leghista. E chi ha ucciso viene acclamato come una popstar. "Se suoni ti rispondo. Se scavalchi ti stendo". Il cartello, pare, vale sia come avviso ai malintenzionati che come programma di governo. Perfetto, quindi, per "La difesa è sempre legittima", il Contro 25 Aprile di Matteo Salvini al Pala Olimpia di Verona. Magari un po’ drastico, no? "No. È quel che pensa chiunque abbia una famiglia da salvaguardare", risponde l’autore dello slogan, Paolo Fasoli, agricoltore a Illasi. "Siamo stufi di vedere degli anziani massacrati di botte per 20 euro". Eccolo qui, il popolo leghista che chiede la giustizia fai-da-te, il grilletto libero per difendere affetti e proprietà da una delinquenza percepita come scatenata (le statistiche dicono altro, ma ai comizi si portano poco). Non pensate a Charles Bronson come giustiziere della notte: è gente pronta a sparare, o che dice di esserlo, soprattutto perché è spaventata. A vari livelli di aggressività, certo. Per il vecchietto che inalbera una macabra vignetta con una bara e la scritta "Bravo Mario, 1 di meno" (il riferimento è a Cattaneo, l’oste del Lodigiano che ha freddato un ladro) e, dopo i complimenti per il buon gusto, ti spiega subito che lui è "favorevolissimo" alla pena di morte, c’è anche chi prova a ragionare. Prendete Renato Lelli, sottufficiale dell’Aeronautica in congedo, che spiega che sì, il Far West non va bene ma la legge attuale neppure, e "insomma, la domanda di potersi difendere è forte". Ma lei la pistola ce l’ha? "Certo". Fra i gadget, gli orologi "Ruspa" contendono i banchetti con "Legittima difesa", il libro di Marco e Nicolò Petrali, figli di Giovanni, il tabaccaio di Milano che uccise un rapinatore e ne ferì un altro. Dentro, ci sono cinque o seimila persone su di giri, anche se gli striscioni per la libera pistola in libero Stato sono minoritari rispetto a quelli contro l’"invasione" dei migranti. Però è festa grande per i tre testimonial convocati dalla Lega. Sono Giuseppe Maiocchi, l’orefice milanese il cui figlio freddò un rapinatore montenegrino, Robertino Zancan, il gioielliere di Vicenza rapinato, e Graziano Stacchio, il benzinaio che intervenne per difenderlo uccidendo un bandito. Specialmente lui è acclamato come una popstar o un centravanti: "Stac-chio!, Stac-chio!", "Stacchio, uno di noi, sei uno di noi!". Spiega che in certi momenti "o ti giri dall’altra parte o agisci". Ma francamente colpisce il contrasto fra il modo sempre pacato e spesso doloroso con cui queste persone normali finite in situazioni eccezionali raccontano le loro storie e il tifo da stadio che le accoglie. Arringa la folla chiedendo law and order Gianni Tonelli, segretario generale del Sap, uno dei sindacati dei poliziotti. L’avvocato Giulia Bongiorno, ex deputato di An forse in cerca di una nuova casa politica, illustra gli aspetti giuridici della questione. Il governatore della Lombardia, Roberto Maroni, ribadisce il mantra di giornata, "la difesa è sempre legittima, e lo dico da ex ministro dell’Interno". Quello del Veneto, l’elegantissimo Luca Zaia, spiega che "le forze dell’ordine non devono girare con il Galateo, ma con il manganello, e avere la libertà di usarlo. Sul banco degli imputati ci dev’essere l’aggressore e non l’aggredito". Chiude Salvini. E qui, mistero. Perché il caro leader sembra completamente dimenticarsi dell’oggetto della manifestazione e parte con la solita arringa contro Bruxelles, i migranti, la Boldrini e per la "nuova resistenza" contro "l’Unione sovietica europea". Sull’autodifesa dei padani minacciati, quasi niente: premesso che "gli sparatori non sono pistoleri", e vabbè, la questione viene liquidata con tre citazioni, insolite nella bibliotechina leghista: Sant’Agostino, San Tommaso e perfino Gandhi. Un po’ poco e un po’ moscio, in verità. Ma forse è meglio così: mandare a casa la gente dicendole che può tirare fuori la pistola sempre e comunque magari sul momento paga, ma di certo alla lunga è molto pericoloso. Tribunali e immigrati, verso il debutto per 26 sezioni specializzate di Marco Noci Il Sole 24 Ore, 26 aprile 2017 Dal 19 aprile scorso è in vigore la legge 46/2017 (di conversione del dl 13/2017) che riscrive molta parte delle norme in materia di immigrazione e protezione internazionale. Tra le novità più rilevanti c’è il varo di 26 nuove sezioni di Tribunale specializzate in materia (nel dl erano soltanto 14) con sede nei capoluoghi di Corte d’appello. Le sezioni specializzate giudicheranno, dal 17 agosto 2017, in composizione monocratica, sulle seguenti questioni: • mancato riconoscimento del diritto di soggiorno sul territorio nazionale in favore di cittadini Ue; • impugnazione del provvedimento di allontanamento nei confronti di cittadini Ue per motivi di pubblica sicurezza; • l’impugnazione dei provvedimenti delle commissioni territoriali preposte all’esame delle domande di protezione internazionale; • impugnazione dei provvedimenti adottati dall’autorità preposta alla determinazione dello Stato membro competente all’esame della domanda di protezione internazionale; • mancato rilascio, rinnovo o revoca del permesso di soggiorno per motivi umanitari; • diniego del nulla osta al ricongiungimento familiare e del permesso di soggiorno per motivi familiari; • accertamento dello stato di apolidia; • accertamento dello stato di cittadinanza. Le sezioni sono territorialmente competenti a seconda: • del luogo in cui ha sede l’autorità che ha adottato il provvedimento impugnato; • del luogo in cui ha sede la struttura di accoglienza governativa o del sistema di protezione di cui all’articolo 1-sexies del decreto-legge 416/1989, convertito, con modificazioni, dalla legge 39/1990, ovvero il centro di cui all’articolo 14 del testo unico di cui al dlgs 286/1998 in cui è presente il ricorrente; • del luogo in cui il richiedente ha la dimora. Protezione internazionale: procedimento amministravo - Con le nuove norme, le notificazioni di comunicazioni e provvedimenti delle Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale sono regolarmente effettuate all’ultimo domicilio comunicato dal richiedente ovvero presso i centri o le strutture di accoglienza che costituiscono il domicilio legale dello straniero. Per i richiedenti nei centri e nelle strutture di accoglienza le notificazioni vanno fatta mediante Pec all’indirizzo del responsabile del centro o della struttura che, quale pubblico ufficiale, avrà il compito di consegnarlo all’interessato dandone immediata comunicazione, sempre a mezzo Pec, alla Commissione. Le notifiche sono comunque validamente effettuate presso il centro o la struttura di accoglienza in cui si trova il richiedente se la consegna di copia dell’atto al richiedente da parte del responsabile del centro è impossibile per irreperibilità del richiedente o inidoneità del domicilio dichiarato o comunicato; l’atto è depositato in Questura, e la notifica si intende perfezionata decorsi 20 giorni. Altra novità è la videoregistrazione dell’audizione del richiedente innanzi alla Commissione territoriale. In sede di conversione è stata prevista la possibilità che l’interessato si opponga con istanza motivata; sull’istanza decide la commissione territoriale con provvedimento non impugnabile. Protezione internazionale: le controversie - Le controversie in materia di protezione internazionale davanti alle nuove sezioni specializzate sono regolate dal rito camerale (a contraddittorio scritto e a udienza eventuale) anziché dal rito sommario di cognizione e per questo tipo di procedimenti non opera la sospensione dei termini processuali nel periodo feriale (1 - 31 agosto). Il ricorso contro i provvedimenti in materia di riconoscimento emanati dalle Commissioni è proposto, a pena di inammissibilità, entro 30 giorni dalla notificazione (o 60 giorni se il ricorrente risiede all’estero) e può essere depositato anche a mezzo posta o tramite rappresentanza diplomatica o consolare italiana; in questo caso l’autenticazione della sottoscrizione e l’inoltro all’autorità giudiziaria italiana sono effettuati dai funzionari della rappresentanza e le comunicazioni relative al procedimento sono effettuate presso la medesima rappresentanza; la procura speciale al difensore è rilasciata dinanzi all’autorità consolare. Introdotto il ricorso, è previsto un termine per il deposito di note difensive e della documentazione, compreso il file della videoregistrazione, da parte della Commissione territoriale (entro 20 giorni dalla comunicazione del ricorso da parte della Cancelleria) e il termine entro cui l’interessato può depositare una propria nota di replica (entro 20 giorni dalla scadenza del termine per la costituzione dell’amministrazione). L’udienza orale è prevista quando si è in presenza di elementi nuovi o è indispensabile ai fini dell’integrazione dei fatti e delle prove allegate nel ricorso e, in ogni caso in cui il giudice, visionata la videoregistrazione, ritenga necessario sentire personalmente il richiedente o chiedere chiarimenti alle parti. L’udienza orale è prevista anche quando l’interessato ne abbia fatto motivata richiesta e il giudice ritenga la trattazione del procedimento in udienza essenziale ai fini della decisione. Il procedimento camerale è definito con decreto entro quattro mesi dalla presentazione del ricorso ed è ricorribile solo per Cassazione. È stato quindi eliminato, tra mille polemiche, il grado d’appello. Altre misure - È stata infine prevista una specifica disciplina per i giudizi di impugnazione delle decisioni di trasferimento del richiedente verso lo Stato membro competente a esaminare la domanda di protezione internazionale ai sensi del regolamento 604/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 Giugno 2013. Il ricorso è ammesso entro 30 giorni dalla notifica, e il giudizio si svolge in camera di consiglio nelle forme del procedimento di volontaria giurisdizione. Il procedimento si conclude con decreto non reclamabile, entro 60 giorni dalla presentazione del ricorso. Dlgs Antiriciclaggio con regole più soft di Marco Mobili e Giovanni Parente Il Sole 24 Ore, 26 aprile 2017 Un parere articolato quello che le commissioni Finanze e Giustizia della Camera si apprestano a licenziare domani sullo schema di decreto che recepisce la quarta direttiva comunitaria antiriciclaggio. Il relatore Sergio Boccadutri (Pd) della Commissione Finanze ha raccolto circa 90 osservazioni allo schema di decreto presentato dal Governo. Tutte con un solo filo conduttore: quello di rendere più soft i numerosi adempimenti chiesti a imprese e professionisti per adeguarsi alle regole dell’antiriciclaggio. In questo senso, ad esempio, la Camera chiede al Governo di prevedere l’applicazione del cumulo giuridico in caso di più violazioni amministrative commesse con più azioni oppure omissioni. Non solo. Per restare in tema di sanzioni, lo schema di parere sottolinea l’opportunità di estendere l’oblazione a tutte le sanzioni amministrative antiriciclaggio nella prospettiva di deflazionare a monte il contenzioso amministrativo. Per quanto riguarda, poi, eventuali illeciti precedenti all’entrata in vigore del nuovo decreto attuativo sarebbe ipotizzabile l’introduzione di un pagamento in misura ridotta delle sanzioni. Particolare attenzione andrebbe posta all’idea di introdurre con il Dlgs attuativo il principio del "sospetto" nel ritardato invio della comunicazione oltre i 30 giorni. L’effetto di un principio eccessivamente rigido produrrebbe, secondo i deputati, un inutile eccesso di comunicazioni o per inverso la mancata notifica all’Uif oltre il termine dei 30 giorni di segnalazioni di maggior rilievo. Il tutto per evitare la sanzione. La bozza di parere va incontro alle richieste arrivate dalle categorie professionali in audizione (si veda Il Sole 24 Ore del 28 marzo). Si punta a mantenere, infatti, l’esonero dagli obblighi antiriciclaggio per chi riveste gli incarichi di sindaci o altri organismi di controllo sulle società. In una sorta di continuità con la disciplina attualmente in vigore. E per non aggiungere ulteriori adempimenti e obbligi agli studi il Parlamento invita il Governo a rivedere fino alla totale soppressione le norme che, nell’ambito dell’adeguata verifica del cliente, arriverebbero a obbligare il professionista a svolgere delle vere e proprie analisi patrimoniali. Sui poteri di controllo della Guardia di Finanza la richiesta che sarà avanzata al Governo mira a integrare l’elenco dei soggetti sottoposti al nucleo speciale di Polizia valutaria con gli operatori non finanziari che esercitano le attività di custodia e trasporto di denaro contante, titoli o valori anche attraverso l’utilizzo di guardie giurate. Doppio intervento sulla gestione della fase transitoria. Per quanto riguarda i professionisti, in pratica il Governo dovrebbe valutare la possibilità di concedere dodici mesi a tutti gli Ordini per adeguare le linee guida di comportamento dall’entrata in vigore delle nuove disposizioni antiriciclaggio. E ancora in aggiunta ai sei mesi di periodo transitorio richiesti da Abi e Ania in audizione lo schema di parere arriva anche a prevedere la possibilità di continuare ad applicare le regole del "vecchio" decreto legislativo 231/2007 (ora vigente) fino all’entrata in vigore delle disposizioni di attuazione delle autorità di vigilanza di settore e di tutti i provvedimenti attuativi previsti dal nuovo testo. Per quanto riguarda il mondo dei giochi, in particolare di quelli online, i Monopoli dovrebbero riscontrare l’autenticità dei dati contenuti nelle richieste di aperture dei conti di gioco anche utilizzando il sistema pubblico per prevenire il furto di identità. Andrebbe poi chiarito su chi ricadono le attività di identificazione del cliente quando si parla di Vlt o new slot. Antiriciclaggio. Allarme di Transparency: troppe falle nel sistema di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 26 aprile 2017 A un anno dall’esplosione dello scandalo dei Panama Papers, il sistema di antiriciclaggio europeo rimane troppo esposto al rischio di ripulitura su grande scala dei proventi di origine criminale o di provenienza extrafiscale. Il dibattito innescato lo scorso anno anche dentro le stesse istituzioni comunitarie non ha sortito effetti significativi, sia nelle politiche di repressione sia in quelle di aggiornamento - e di armonizzazione - dell’impianto normativo. È l’autorevole Transparency International, associazione fondata nel 1993 e oggi ramificata in più di cento Paesi, a rilanciare l’allarme sulla contaminazione del denaro criminale nel sistema finanziario mondiale, ma soprattutto europeo, su cui è concentrata la ricerca pubblicata ieri "I difetti importanti nel sistema antiriciclaggio". Secondo la Policy Officer dell’associazione, Laure Brillaud, "sembra che gli Stati membri dell’Ue abbiano sofferto di amnesia dopo i Panama Papers. Negando l’accesso pubblico all’identità dei titolari effettivi delle società schermo stanno consentendo di fiorire a un sistema ombra di proprietà e controllo". Il documento, molto analitico, individua gli ambiti critici in cui non si è ancora intervenuti, e indica poi una serie di raccomandazioni urgenti per chiudere le falle del sistema Aml (anti money laundering). Gli Stati passati al microscopio (Italia, Slovenia, Portogallo, Repubblica Ceca, Olanda e Lussemburgo) non sono neppure i peggiori del G20 - la Slovenia peraltro è la più virtuosa, l’Italia quinta, la Cechia però penultima - ma forse proprio per questo l’allarme è ancora più acuto. I gap legislativi sono diversi, ma il più serio secondo Transparency è la definizione legale di beneficiario effettivo (Bo), declinato in sede nazionale, che prevede una soglia di "disclosure" troppo alta (il 25% dell’azionariato o del diritto di voto) oltre a vari escamotage per nascondere il Bo (per esempio nominando e qualificando i dirigenti come titolari effettivi). Ancora, l’accesso ai dati delle banche dati antiriciclaggio non è sufficientemente pubblico né abbastanza omogeneo per i criteri adottati, per ricostruire con facilità la portata e la rete del fenomeno. Non manca neppure un richiamo ai professionisti non finanziari (avvocati, notai e commercialisti) sul versante dell’adeguata verifica del cliente: spesso non dispongono di adeguati strumenti né di risorse umane e tecniche per capire, prima ancora di segnalare, il fenomeno. Anche gli stessi intermediari finanziari, nell’ambito delle loro organizzazioni aziendali, spesso privilegiano il dato formale alla ricerca del titolare effettivo. Non ultimo, molti Stati non redigono o comunque non rendono pubbliche le statistiche sull’antiriciclaggio. Da qui le molte proposte di intervento, a cominciare dall’aggiornamento delle leggi per rendere trasparenti trust e società schermo, abbassare le soglie di disvelamento, abolire i titoli al portatore (ammessi ancora in molti Stati). Ancora, il sistema di contrasto deve avere adeguate risorse umane e tecnologiche, serve un’authority di riferimento per controllare gli intermediari, è inevitabile prevedere un sistema sanzionatorio effettivo e sufficientemente severo. Importante, infine, la raccomandazione sui settori dove accendere i fari della trasparenza: i giochi d’azzardo virtuali e il real estate, i canali oggi preferiti dal grande riciclaggio internazionale. Antiriciclaggio al nodo-sanzioni di Valerio Vallefuoco Il Sole 24 Ore, 26 aprile 2017 Le proposte di modifica di professioni e istituzioni allo schema di decreto legislativo. Sotto tiro anche le regole sulla segnalazione di operazioni sospette. Si chiude l’indagine conoscitiva sullo schema di decreto legislativo di recepimento della quarta direttiva antiriciclaggio. Le commissioni parlamentari riunite Giustizia e Finanze hanno sentito tutte le categorie e le istituzioni interessate dalla direttiva, dai professionisti alla Consob all’Abi, dall’Ania all’Unità di informazione finanziaria (Uif) della Banca d’Italia. È emerso un quadro composito in cui non sempre il nuovo coincide con il meglio. Così, se in molti casi il progetto di riforma che è stato sottoposto al Parlamento risponde alle esigenze di potenziamento del sistema di prevenzione e di contrasto del riciclaggio e del terrorismo, in altri potrebbe determinare un arretramento rispetto agli standard di efficienza a oggi raggiunti. Archivio e registro - Delle molteplici novità introdotte i soggetti interpellati, per motivi diversi, hanno dimostrato di apprezzare, soprattutto, la scelta di eliminare l’obbligo di istituzione dell’Archivio unico informatico, l’introduzione del Registro dei titolari effettivi, la specifica disciplina di taluni settori a rischio, un più mirato ricorso alle sanzioni penali. Le maggiori criticità riguardano, invece, il concetto di segnalazione tardiva, il principio di proporzionalità delle sanzioni e la necessaria differenziazione degli obblighi antiriciclaggio rispetto alle peculiarità dimensionali e non solo dei soggetti obbligati. 7 L’adeguata verifica della clientela è finalizzata a consentire al professionista di stabilire per chi sta "realmente" lavorando e a cosa sono finalizzate le prestazioni richieste, così da appurare se vi sia un rischio di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo. L’adempimento si sostanzia nell’identificazione e verifica dell’identità del cliente e di quello che deve essere considerato il titolare effettivo dell’operazione Sos tardive - Quasi tutti i soggetti interpellati hanno evidenziato i rischi correlati alle Sos tardive. L’articolo 35, comma 2, dello schema di decreto stabilisce, infatti, che "in ogni caso, è considerata tardiva la segnalazione effettuata decorsi trenta giorni dal compimento dell’operazione sospetta". Secondo l’Abi, per esempio, questo termine "non tiene affatto conto del processo che nella banca consente l’emersione del sospetto" con la conseguenza di indurre i soggetti obbligati a effettuare segnalazioni "cautelative", per non incorrere in una sanzione per tardiva segnalazione. Dal canto suo l’Uif sollecita un ripensamento perché le Sos tardive, rispondendo a "criteri rigidi e meccanicistici" potrebbero indurre gli obbligati a una non corretta valutazione del sospetto. Quadro sanzionatorio - Il mondo bancario si sofferma poi sulla necessità di mettere a punto un quadro sanzionatorio effettivamente in linea con i principi dettati dalla IV direttiva antiriciclaggio eliminando o comunque alleggerendo la responsabilità che la riforma configura a carico dei dipendenti degli intermediari bancari e finanziari nell’ipotesi di omessa o tardiva segnalazione di operazione sospetta. Il tema della proporzionalità ed equità delle sanzioni è affrontato anche dai professionisti, che paventano un "eccesso di delega" auspicando l’introduzione del cumulo giuridico. L’Uif denuncia, poi, la scarsa rispondenza del sistema sanzionatorio ai principi di efficacia, proporzionalità, dissuasività e ne bis in idem quali prefigurati dalla legge delega. In particolare, non convince il "rilievo sanzionatorio che l’articolato attribuisce anche alle violazioni diverse da quelle qualificate come gravi, ripetute o sistematiche ovvero plurime" che invece sembrano essere le uniche sanzionabili in base alla legge. Ragioni equitative imporrebbero anche di rivedere gli importi delle sanzioni che dovrebbero essere diversamente graduati in relazione alla natura della violazione, riservando quelle maggiormente afflittive all’inosservanza dell’obbligo di segnalazione delle operazioni sospette "il cui adempimento rappresenta l’obiettivo finale della disciplina, rispetto al quale l’adeguata verifica e registrazione rivestono carattere strumentale". Adeguata verifica - Assogestioni propone di meglio dettagliare il "set informativo", necessario all’assolvimento degli obblighi di adeguata verifica della clientela, stabi- lendo che le informazioni sulla situazione economico-patrimoniale del cliente debbano sempre far parte di tale set. L’Ania suggerisce un’integrazione degli indici di rischio relativi a tipologie di prodotti, così da dare ai soggetti obbligati immediata evidenza della possibilità di applicare misure semplificate di adeguata verifica. L’Unione fiduciaria invoca un regime degli obblighi antiriciclaggio per le fiduciarie di primo livello, vigilate da Banca d’Italia differente da quello applicabile alle fiduciarie di secondo livello. La Consob giudica in positivo soprattutto la scelta di escludere i consulenti finanziari abilitati all’offerta fuori sede dal novero dei soggetti destinatari diretti degli obblighi in materia antiriciclaggio posto che già nel sistema vigente il consulente incaricato da un intermediario è di fatto equiparato alla generalità dei collaboratori e del personale dell’intermediario. Positivo anche il giudizio della Gdf per la quale lo schema di decreto ben realizza "il rafforzamento del vigente assetto" consolidando nel contempo una strategia di prevenzione già sperimentata con successo. Più critico l’intervento del Garante della privacy, che ha sottolineato la necessità di tutelare i dati raccolti (si veda anche il Sole 24 Ore del 22 marzo scorso). Ingroia e Di Matteo: ecco la nostra legge contro i corrotti di Errico Novi Il Dubbio, 26 aprile 2017 Legislazione speciale contro i politici. Il Pm Di Matteo in campo con l’ex collega. Venerdì a Palermo l’ex magistrato e l’inquirente appena passato alla Dna rilanciano le norme che assimilano i reati economici a quelli di mafia. "Ipotesi utile per un polo allargato al M5S", dice Ingroia. Dopodomani a Palermo l’ex pm Antonio Ingroia rilancia un suo vecchio pallino: una legge che applica il "doppio binario" previsto nelle indagini di mafia anche ai presunti corrotti. Il progetto sarà presentato in una conferenza stampa nella quale interverrà anche un importante magistrato tuttora nelle sue funzioni, Nino Di Matteo. "Si tratta di una proposta intitolata alla memoria di Pio La Torre", spiega Ingroia al Dubbio, "e potrebbe far parte di una piattaforma di idee adatta a un’alleanza formata dal M5s con altre forze attente ai temi della giustizia". L’appuntamento sembra dunque anche l’anteprima di uno schieramento giustizialista che potrebbe vedere alcuni pm direttamente coinvolti. Compreso Di Matteo? Difficile, ma intanto l’idea dei sequestri preventivi per chi è solo indiziato di corruzione lascia intendere in quale orizzonte potrebbe muoversi un futuro polo ultra- giustizialista. I pm non vogliono far politica. Davigo meno di tutti. Eppure qualcosa che potrebbe mettere insieme espressioni della magistratura e Cinque Stelle sul fronte del giustizialismo comincia a muoversi. A offrirne un esempio sono un ex pm che ha già tentato di mettere su un movimento politico, Antonio Ingroia, e una figura tuttora a pieno titolo in magistratura ma spesso indicata come candidato ideale del M5s, Nino Di Matteo. Dopodomani presenteranno insieme, in un’aula del municipio di Palermo, la proposta di legge anticorruzione intitolata "La Torre bis". È un tentativo di estendere a presunti corrotti e corruttori il doppio binario normativo della legislazione antimafia. Vi si prevede di applicare ai reati contro la pubblica amministrazione (corruzione e concussione) il "sequestro preventivo" dei beni predisposto per chi è anche solo indiziato di associazione mafiosa. Sequestro preventivo e eventuale successiva confisca possibili sia per i politici e i pubblici ufficiali che si fanno corrompere, sia per i corruttori "abituali". Come per chi è sospettato di mafia, le misure patrimoniali scatterebbero già nella fase delle indagini, sulla base di semplici indizi e con la sola ulteriore condizione che l’indagato abbia a disposizione beni che non si giustifichino con le sue fonti di reddito lecite. Ciliegina sulla torta, sempre analoga al doppio binario antimafia: sul sequestro si instaura un processo parallelo a quello per corruzione, in cui al presunto malfattore si applica il meccanismo dell’inversione della prova, cioè è lui a dover dimostrare che i beni non sono frutto dell’attività illecita. L’iniziativa di venerdì ha anche valore simbolico: due giorni dopo, domenica prossima, ricorre il 35esimo anniversario dell’assassinio di Pio La Torre, il parlamentare e sindacalista che contribuì a promuovere sia la legge sul 416 bis sia il "doppio binario" sui sequestri ai mafiosi. Sono diversi anni che Ingroia si batte perché il Parlamento recepisca questo tipo di proposte. E infatti più che sul piano tecnico- giuridico, la "presentazione" di venerdì è rilevante dal punto di vista politico. Ad affiancare l’ex collega dell’inchiesta sulla presunta "trattativa" sarà infatti un pm "impegnato" come Di Matteo - e con loro, ci saranno il figlio di Pio La Torre, Franco, e il docente di Economia Vincenzo Provenzano, con il giornalista del Fatto Giuseppe Lo Bianco a fare da moderatore. È l’anteprima di una nuova "discesa in campo" di Ingroia, con la sua Azione civile, in vista delle Politiche? Interpellato dal Dubbio, l’interessato spiega: "Non penso a una proposta politica autonoma in vista delle elezioni. Credo però che alcune nostre battaglie possano essere da stimolo e anche da fattore aggregante per un nuovo polo". Di cui dovrebbero far parte i Cinque Stelle? Ingroia risponde: "Io penso che il Movimento di Grillo dovrebbe cominciare a guardarsi attorno. Se non vogliono lasciarsi rinchiudere ancora in una sterile opposizione devono guardare ad altre forze con cui sarebbero possibili convergenze". Azione civile potrebbe far par- te insomma di un fronte di sinistra attivo innanzitutto sul piano dell’elaborazione programmatica, e magari anche della proposta elettorale, con cui i grillini, secondo Ingroia, potrebbero allearsi. È prematuro, eppure dall’iniziativa sul "ddl La Torre bis" pare intravedersi l’idea di un campo giustizialista, ultra-legalitario di sinistra, in cui nella prossima campagna elettorale potrebbe trovarsi anche qualche magistrato. Nel ricordare che la sua proposta sui sequestri ai corrotti finora non è stata veicolata in Palamento, Ingroia dice un’altra cosa interessante: "Le norme che presenteremo venerdì erano comunque state considerate in una più ampia proposta di legge da un gruppo di senatori di cui facevano parte un fuoriuscito dai Cinque Stelle, Francesco Campanella, altri di Sel e alcuni della minoranza Pd come Laura Puppato". Qualcosa di molto vicino all’ensemble che Ingroia vede come alleato ideale dei grillini. In tutto questo, potrebbe mai Di Matteo, appena assegnato alla Dna, essere della partita? Ingroia in proposito non può pronunciarsi. In ogni caso sembra difficile. Eppure iniziative come quella di venerdì confermano che una magistratura su posizioni molto restrittive nel campo delle riforme processuali è attivissima. E ha testimonial autorevoli come lui. Conferma che idee come quella del "ddl La Torre bis" costituiscono una batteria a disposizione dei Cinque Stelle. "La nostra proposta è una mediazione, in fondo, rispetto a ipotesi avanzate proprio dal Movimento di Grillo, più restrittive perché estese anche a reati come l’abuso d’ufficio". Che è tutto dire. L’armata giustizialista c’è. Di Matteo potrebbe anche non farne parte in prima persona. Ma come nel caso di Davigo, offrirebbe un supporto di idee non da poco a un progetto politico che, almeno sulla giustizia, fa venire i brividi. Quelle norme senza fortuna sui risarcimenti per chi è assolto di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 26 aprile 2017 Iter accidentato per la proposta di Albertini, stravolta dai grillini in Senato. Il termine per presentare gli emendamenti cade oggi, alla fine di un ponte che ha svuotato anche Palazzo Madama: segno che il parlamento crede poco nel progetto. L’esponente di Ap non si ferma: "soldi alle banche anziché agli innocenti". Il termine per la presentazione degli emendamenti al disegno di legge 2153 in materia di rimborso delle spese di giudizio per "ingiusta imputazione", presentato lo scorso anno in commissione Giustizia dal senatore Gabriele Albertini (Ap), scade oggi pomeriggio. Tralasciando ogni commento sulla scelta di porre come termine il primo giorno dopo il ponte del 25 aprile, la discussione a Palazzo Madama si preannuncia comunque infuocata. Il testo originale è stato, infatti, completamente stravolto. L’iniziale previsione stabiliva che in caso di assoluzione "se il fatto non sussiste, se l’imputato non lo ha commesso, se il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, il giudice, nel pronunciare la sentenza, condanna lo Stato a rimborsare tutte le spese di giudizio, che sono contestualmente liquidate (...). Nel caso di dolo o di colpa grave da parte del pubblico ministero che ha esercitato l’azione penale, lo Stato può rivalersi per il rimborso delle spese sullo stesso magistrato che ha esercitato l’azione penale". Il disegno di legge Albertini, che riscosse un grandissimo consenso bipartisan venendo sottoscritto da 194 senatori, è stato però in questi mesi "affossato", non essendoci, a detta dei tecnici del Senato, la necessaria copertura economica. Copertura, dicono alcuni fautori della riforma, che è stata invece trovata per salvare le banche e, probabilmente, verrà trovata nelle prossime settimane per garantire l’ennesimo salvataggio di Alitalia. Il testo finale, fortemente voluto dai grillini, relatore il senatore Maurizio Buccarella, prevede la sola deducibilità, nessun rimborso dunque, delle spese legali fino ad un massimo di 10mila euro in tre anni. Un obolo sufficiente, in un processo penale di media complessità, per pagare i diritti per le copie degli atti. La disposizione sul rimborso delle spese legali è in vigore, pur con qualche differenza, in 30 Paesi europei. In alcune legislazioni la cifra da rimborsare viene valutata di volta in volta dal giudice, in altri, come ad esempio la Gran Bretagna, il rimborso attiene all’intera parcella del legale. Fra gli emendamenti che verranno proposti dai senatori di Forza Italia vi è anche quello di portare almeno a 250 mila euro la somma deducibile. Albertini, comunque, non ci sta a che il suo testo sia definitivamente "annacquato" e ha già annunciato battaglia. "Non si trovano i soldi per risarcire gli innocenti mentre le Procure hanno budget no limits, spendendo centinaia di milioni l’anno solo per le intercettazioni telefoniche". No al rinvio dell’udienza per sciopero dell’avvocato se si discute di misure cautelari di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 26 aprile 2017 Corte di cassazione - Sezione II -Sentenza 20 aprile 2017 n. 18955. L’avvocato non può chiedere il rinvio dell’udienza per adesione allo sciopero se il procedimento da far slittare riguarda una misura cautelare. L’impossibilità di far slittare l’udienza vale anche se la misura cautelare non è stata applicata ma è in discussione la sua applicazione o meno. La Corte di cassazione, con la sentenza 18955 del 20 aprile scorso, prima di decidere nel merito il ricorso, dà atto che il Collegio aveva dichiarato inammissibile la richiesta di astensione inviata per iscritto dai difensori di un indagato per estorsione aggravata, e riproposta a voce dai sostituti processuali dei difensori in udienza, respingendo così la richiesta di rinvio. Il collegio nella sua ordinanza di rigetto aveva ricordato che, in base all’articolo 4 lettera a) del codice di autoregolamentazione forense per gli scioperi, l’astensione non è consentita per i procedimenti relativi all’adozione o alla revoca delle misure cautelari. Una nozione - aveva precisato il Collegio - che nella sua nozione più ampia deve includere anche i casi in cui le misure cautelari non siano ancora state applicate ma è in discussione proprio la loro applicazione. Un’interpretazione che discende dunque proprio dal codice di autoregolamentazione degli scioperi e che ha ricevuto l’avallo della giurisprudenza di legittimità. È chiaro che la ragione del "paletto" sta nella necessità di adottare, nel più breve tempo possibile, la decisione sulla sussistenza o meno dei presupposti per l’applicazione della misura cautelare. Un interesse che riguarda l’intera collettività e il soggetto sottoposto o da sottoporre a una misura che limita la sua libertà. Occupazione di immobili scriminata solo se necessaria e inevitabile di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 26 aprile 2017 Tribunale di Genova - Sezione I penale - Sentenza 23 gennaio 2017 n. 301. L’applicabilità della causa di giustificazione dello stato di necessità all’ipotesi di invasione di edifici non è a priori esclusa. Difatti, nel concetto di danno grave alla persona, idoneo ai sensi dell’articolo 54 del codice penale a scriminare la condotta altrimenti penalmente rilevante ex articolo 633 Cp, rientra anche la situazione di emergenza abitativa, posto che il diritto all’abitazione fa parte dei diritti fondamentali della persona tutelati dall’articolo 2 della Costituzione. Tuttavia, l’operatività dell’esimente è subordinata alla sussistenza ed al rigoroso accertamento della assoluta necessità dell’occupazione abusiva e della inevitabilità del pericolo che in caso contrario deriverebbe per l’occupante. Solo in tal caso, infatti, è giustificabile la compressione del diritto dei terzi proprietari. Ad applicare tali principi è il Tribunale di Genova con la sentenza 301/2017. Il caso - La vicenda trae origine dalla scoperta, in seguito a sopralluogo degli agenti di Polizia municipale, dell’occupazione abusiva di un alloggio di edilizia residenziale pubblica da parte di una signora. L’immobile, nonostante risultasse essere libero e non assegnato, era in realtà completamente arredato ed abitato dalla donna. In seguito a tale accertamento, la signora veniva tratta a giudizio per rispondere del reato di invasione di edifici. Le motivazioni - Il Tribunale ritiene accertato il fatto di reato sulla base della mera occupazione dell’immobile da parte della signora, non giustificata da alcun titolo abitativo, e considera altresì non applicabile al caso di specie l’esimente dello stato di necessità. Il giudice, a tal proposito, prende atto del fatto che l’operatività della scriminante dell’articolo 54 Cp alle occupazioni di alloggi popolari è un tema controverso in giurisprudenza. La soluzione più recente è quella per la quale la mancanza di un alloggio può fondare in linea di principio quella situazione di pericolo di danno grave alla persona che consente di scriminare la condotta abusiva. Tuttavia, deve esserci il rigoroso accertamento dei requisiti dell’assoluta necessità di reperire un’abitazione e dell’inevitabilità del pericolo "non potendo i diritti dei terzi essere compressi se non in condizioni eccezionali chiaramente comprovate". E nel caso di specie, dall’istruttoria dibattimentale non era emersa la prova della necessità e dell’inevitabilità, non potendo così risultare applicabile la causa di giustificazione dello stato di necessità. Niente tenuità del fatto per l’automobilista che oltraggia il pubblico ufficiale di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 26 aprile 2017 Corte di cassazione n. 19010/2017. Niente tenuità del fatto per l’automobilista che, fermato dagli agenti e sanzionato per guida in stato di alterazione, li oltraggia alla presenza di altre persone mentre stanno compiendo il loro dovere. La Corte di cassazione (sentenza n. 19010) avalla la scelta dei giudici di merito di negare al ricorrente l’applicazione dell’articolo 131-bis che prevede la non punibilità per la particolare tenuità del fatto. Per la Cassazione il no era giustificato dal carattere virulento delle espressioni usate all’indirizzo dei pubblici ufficiali e dalla contestuale violazione delle norme di legge, oltre che dalla personalità complessiva dell’imputato. A far scattare la condanna per il reato di oltraggio al pubblico ufficiale (articolo 341-bis del Codice penale), era stata "l’oggettiva valenza offensiva dei beni dell’onore e del prestigio dei pubblici ufficiali, proprio mentre essi stavano procedendo ad una legittima attività di controllo a tutela della regolarità della circolazione stradale: espressioni ingiuriose che i giudici di merito hanno motivatamente apprezzato come finalizzate non tanto a incidere sul compimento dell’atto di ufficio (in via di definizione) quanto piuttosto a contestare aspramente, e con modalità disdicevoli, il doveroso operato dei pubblici ufficiali". Il reato scatta, ricordano i giudici, quando le espressioni "incriminate" possono essere udite dai presenti. Una potenzialità che costituisce un aggravio psicologico tale da compromettere la prestazione, disturbando l’agente mentre compie un atto del suo ufficio e gli fa avvertire l’avversità nei suoi confronti e verso la pubblica amministrazione di cui fa parte. Padova: la lezione del voto (in carcere) Di Stefano Allievi Corriere del Veneto, 26 aprile 2017 Tra breve si vota. No, non alle amministrative, per le quali ci vuole ancora qualche settimana. E nemmeno per il referendum sull’autonomia, per il quale attenderemo l’autunno. C’è però chi andrà alle urne prima, a fine aprile: sono i detenuti del carcere Due Palazzi, che eleggeranno i loro rappresentanti (è il secondo caso in Italia, dopo Bollate, e il primo in Veneto). La notizia è minore, certo. Ma, primo: ci consente di parlare di carcere, cosa che si fa troppo poco. Anche come opera di misericordia, quella di visitare i carcerati è la meno praticata delle sette canoniche: assai meno di quelle già non proprio frequentatissime che ci invitano a dar da mangiare all’affamato, da bere all’assetato, vestire gli ignudi, curare gli infermi, alloggiare i pellegrini e seppellire i defunti. Secondo: ci offre un utile spunto di riflessione sul senso stesso delle elezioni, della democrazia rappresentativa, della democrazia tout court, anche per ragionare su altre campagne elettorali in corso. Cosa accadrà al Due Palazzi? È abbastanza semplice. Si voteranno i rappresentanti dei detenuti delegati a trattare (parola forte, trattandosi di soggetti deboli: diciamo a confrontarsi) con l’amministrazione penitenziaria. Lo scopo? Creare un canale comunicativo tra l’amministrazione e gli amministrati, nei due sensi: eleggendo allo scopo le persone migliori e più disponibili, che possano fare il meglio nelle condizioni date. Sulmona (Aq): detenuti al lavoro per coltivare l’aglio rosso Il Centro, 26 aprile 2017 Siglata l’intesa tra la Regione e la direzione del carcere, si ricorrerà a tecniche di agricoltura biologica. Detenuti-agricoltori e custodi della biodiversità agricola abruzzese nel supercarcere diventato azienda agricola. Si aprono nuovi orizzonti per gli ospiti di via Lamaccio, grazie a un protocollo d’intesa siglato nella struttura penitenziaria dall’assessore regionale alle Politiche agricole Dino Pepe, dal presidente della terza commissione Lorenzo Berardinetti e dal direttore del carcere di Sulmona Sergio Romice. In particolare i detenuti coltiveranno l’aglio rosso di Sulmona, con tecniche di agricoltura biologica. L’accordo impegna le parti alla gestione dei campi di proprietà della casa reclusione di Sulmona, affinché quest’ultima diventi parte attiva nella costituenda rete degli agricoltori custodi del germoplasma autoctono regionale (i semi tipici abruzzesi). Il carcere ha di recente acquisito la qualifica di industria agricola. Di essa fanno parte oltre ai terreni di pertinenza, un frutteto (destinato alla produzione di melograni), un forno e 8 arnie per l’allevamento di api e la produzione di miele. "L’esperienza degli anni passati e gli impegni ora formalmente assunti con la Regione", ha sottolineato Romice, "unitamente al lavoro dei detenuti, dei volontari, del personale dell’area trattamentale e contabile dell’istituto e, non ultimo, della polizia penitenziaria, fanno ben sperare per una presenza qualificata sul territorio di un’azienda agricola composta da detenuti qualificati ed esperti in produzioni biologiche e di qualità". Le tecniche saranno quelle dell’agricoltura biologica, come evidenziato dall’assessore Pepe. "La produzione del supercarcere dovrebbe dare una mano alla diffusione dell’aglio rosso, ormai sbarcato all’estero, dall’America all’Australia passando addirittura per l’Indonesia. Un mercato globale che si amplia grazie all’e-commerce. Le vendite on-line del prodotto tipico sulmonese hanno dato una spinta decisiva alla diffusione del prodotto nel mondo. Il mercato digitale, inoltre, ha avuto l’effetto tutt’altro che trascurabile di aumentare la domanda. Così negli ultimi due anni i soci del consorzio produttori aglio rosso sono cresciuti di numero, passando da 25 a 68, e la produzione annua supera i mille quintali. Ora l’auspicio è che la produzione aumenti anche grazie ai detenuti-agricoltori del carcere di via Lamaccio. Alessandria: corso per aspiranti volontari penitenziari con l’associazione Betel alessandrianews.it, 26 aprile 2017 L’Associazione Betel Onlus, che rappresenta una realtà di volontariato consolidata sul territorio con oltre trent’anni anni di attività sia all’interno degli Istituti Penitenziari, attraverso attività di supporto ai detenuti, sia all’esterno, con un supporto al reinserimento sociale in collaborazione con diversi Enti del territorio (tra essi, Uepe, Caritas e Enti Locali), organizza un corso per aspiranti volontari penitenziari. La città di Alessandria ospita due Istituti penitenziari, ed è quindi toccata in modo diretto dal mondo carcerario, una realtà complessa ed articolata, dalle molteplici sfaccettature. Spesso i riflettori della cronaca o della politica sono puntati su questa realtà, che però risulta quasi sempre oscura e sfuggente. In questo ambito, l’Associazione Betel Onlus, che rappresenta una realtà di volontariato consolidata sul territorio con oltre trent’anni anni di attività sia all’interno degli Istituti Penitenziari, attraverso attività di supporto ai detenuti, sia all’esterno, con un supporto al reinserimento sociale in collaborazione con diversi Enti del territorio (tra essi, Uepe, Caritas e Enti Locali), organizza un corso per aspiranti volontari penitenziari. Il Corso, che prevede 4 incontri rivolti alla popolazione con l’obiettivo di aiutare a conoscere e comprendere meglio la realtà del sistema carcerario, alla luce del fatto che essa è appunto parte integrante del nostro territorio, è realizzato in collaborazione con la Casa di Reclusione di San Michele, l’Ufficio Esecuzione Penale Esterna di Alessandria, il Garante per i detenuti di Alessandria, la Caritas Diocesana e con il supporto del Csvaa. Da questo percorso, la Betel auspica possano "svilupparsi" nuove energie che contribuiscano a dare continuità al servizio che l’Associazione svolge a favore dei detenuti, ex detenuti e alle loro famiglie. Gli incontri si svolgeranno ad Alessandria in via Vochieri 80, presso la Sala Formazione del Csvaa, in orario 9,30-11,30, per quattro sabati a partire da sabato 6 maggio. Diversi saranno i temi trattati: verranno evidenziati gli aspetti motivazionali e strutturali del volontariato penitenziario, saranno illustrate le iniziative di sostegno alla Betel da parte di rappresentanti di Caritas e Uepe (Ufficio Esecuzione Penale Esterna), verranno altresì illustrate gli aspetti base dell’Ordinamento Penitenziario, della struttura organizzativa del carcere e del ruolo di Volontari ed Educatori. Per chi fosse interessato a partecipare al corso e mettere a disposizione parte del proprio tempo per questa delicata e importante attività di volontariato, i contatti dell’associazione sono i seguenti: mail betelonlus@libero.it, tel. 335 5283979. Napoli: tra i detenuti di Poggioreale a parlare d’amore di Stefano Piedimonte Il Mattino, 26 aprile 2017 I cognomi sono altisonanti, per chi conosce questa città. Parleremo d’amore, tema intorno al quale gira il mio ultimo romanzo. Alcuni di loro l’hanno letto. Non mi ci vedo a parlare d’amore con questi signori. Non mi ci vedo a prescindere (se mi cadesse il cartellino "visitatore" nessuno riuscirebbe a distinguere fra me e loro: mi riferiscono che un detenuto, giorni prima, vedendo la mia foto sul libro ha domandato: "Ma non è che a questo lo conosciamo già"), figurarsi in mezzo alla fierezza barbuta e tatuata che affollerà la stanza. Mi muovo con scioltezza per dissimulare la tensione. È un’ansia buona, però: mi trovo assai meglio con i carcerati che in alcuni circoli letterari. È gente abituata a non dare niente per scontato e, soprattutto, almeno loro non sono rimasti impuniti. Vengo accompagnato dai volontari dell’associazione "La mansarda", che organizza attività con i detenuti. Il capo, Samuele Ciambriello, è un ex sacerdote che tutto sembra meno che un santo. I secondini lo avvicinano a più riprese, si scambiano frasi a bassa voce; lo conoscono tutti. È da tempo che gira in questi corridoi. I laboratori, le distrazioni che ha offerto a questi scordati da Dio non si contano più. Un giorno, in cielo - o anche in terra - avrà la sua contropartita. "Stiamo chiusi qua dentro tutto il giorno", mi dice uno di loro. L’ordine tassativo è quello di non rendere riconoscibili i carcerati all’esterno del carcere, quindi non mi è consentito, adesso, dilungarmi nella descrizione. È giovane, però. Gli domando cos’altro facciano, in generale, al di là del nostro incontro mattutino. "Niente. Abbiamo solo l’ora d’aria". Non occorre un sociologo per capire che un uomo chiuso anni e anni dentro una gabbia, se già prima d’entrarci non era una bestia, lo diventerà. La riabilitazione è un concetto troppo grande: fra le sbarre delle carceri italiane fa fatica a passare, anche se lo metti di profilo. Un altro mi spiega che non bisognerebbe parlare tanto di peggioramento quanto di un vero e proprio accrescimento criminale. "Secondo te, se io prima di essere arrestato facevo il killer e lui lo spacciatore, e ci tengono chiusi in cella tutto il giorno, e noi parliamo, parliamo, senza fare altro, che succede quando usciamo di qui’ Succede che io, oltre al killer, ho imparato a fare anche lo spacciatore, e lui ha imparato come si ammazza la gente". Non c’è tanto da argomentare. È così. La regola basilare che i nostri governanti non hanno compreso è che se la detenzione diventa un’esperienza solo punitiva, una volta giunto il suo termine l’ex detenuto scaglierà contro lo Stato una reazione uguale e contraria. "Molti di noi, quando escono di qua è come se si volessero vendicare". Se è vero che fuori dal carcere ci sono poche possibilità di reintegrarsi nella società, è evidente che qui, nel padiglione di alta sicurezza, non c’è alcuna chance di coltivare i buoni propositi. È un girotondo perverso: il crimine ti condanna al carcere, il carcere ti condanna al crimine. Non se ne esce. Non ho alcuna condiscendenza, né finta né vera, per queste persone. Fino a prova contraria hanno fatto parte di squallide accozzaglie, rovinato la terra e terrorizzato i suoi abitanti. Ma la redenzione esiste anche fuori dalle chiese: amputarne le radici è forse un crimine più orrendo di quello che ha portato questi uomini dietro le sbarre. "Il protagonista del tuo romanzo s’innamora sempre. Regala i fiori alle donne, fa i complimenti... Io sono sposato da trent’anni. Lo sai che non avevo mai detto a mia moglie ti amo. Gliel’ho detto la prima volta dopo che sono entrato qua". "Io non l’ho letto tutto, però secondo me non è come dici tu. L’amore eterno esiste, io amo mia moglie come il primo giorno che ci siamo fidanzati". Domando se è così convinto che le cose sarebbero andate allo stesso modo anche fuori dal carcere. Napoli è piena di gente esasperata che evade dai domiciliari per farsi incarcerare e togliersi così la moglie dalle scatole. È sicuro, lui e anche gli altri, che se qualcuno non li avesse ammanettati e portati in prigione, quello stesso amore sarebbe stato eterno. Si guardano, ci pensano un po’. Scuotono la testa. Forse sì, ma forse no. Chi può saperlo. Oggi, almeno, non li si può tacciare di disonestà. Napoli: Football Leader, detenuti di Poggioreale a lezione di tattica Tuttosport, 26 aprile 2017 Ulivieri, Capello e allenatori Aiac il 5 giugno a Poggioreale. Il calcio incontra i detenuti a Football Leader 2017: lunedì 5 giugno l’Associazione italiana allenatori calcio (Aiac) terrà un laboratorio con la partecipazione del presidente Renzo Ulivieri, di Fabio Capello e di altri tecnici di serie A presso la Casa Circondariale di Poggioreale a Napoli. Gli allenatori terranno una lezione di calcio, di educazione sportiva e di tecniche di allenamento per i detenuti. Il direttore del carcere, Antonio Fullone, ha sposato subito il progetto: "Poter ospitare Football Leader ha un significato speciale per il carcere: non essere solo luogo della società, ma anche, suo palcoscenico privilegiato. Per una volta - sottolinea - sembra ribaltarsi la logica ordinaria. Gli ospiti dell’istituto potranno trovarsi al centro dell’attenzione del mondo del calcio. Partecipare a questa manifestazione, dove si incontrano i protagonisti migliori del calcio, è un momento sul quale continuare a costruire un futuro diverso anche per la comunità di Poggioreale". "Siamo molto felici e stimolati da questo laboratorio - afferma Ulivieri. Noi crediamo che scontare la pena debba avere come scopo il reinserimento sociale e questo progetto segue questa linea di pensiero. Durante il laboratorio di Football Leader - spiega - e attraverso altre iniziative in cantiere cercheremo di trasmettere la cultura delle regole e del sapersi rapportare agli altri al fine di mettere i partecipanti nelle condizioni di poter diventare essi stessi docenti educatori". Un giovane su due pensa che la mafia sia più forte dello Stato Corriere della Sera, 26 aprile 2017 Il 74% degli studenti ritiene che la presenza mafiosa incida molto o abbastanza sull’economia della propria regione, e solo una minoranza ritiene che la criminalità organizzato possa essere sconfitta. Il rilevamento del Centro Studi Pio La Torre. Quasi un giovane su due (il 47%) ritiene che la mafia sia più forte dello Stato, meno di un terzo (il 29,8%) crede che sia possibile sconfiggerla definitivamente e la stragrande maggioranza di loro non ha fiducia nei politici, né nazionali (84,5%), ne locali (79,9%). È quanto emerge dall’indagine sulla percezione mafiosa condotta per il decimo anno dal Centro Studi Pio La Torre tra i ragazzi che partecipano al Progetto educativo antimafia promosso dal Centro e i cui risultati sono contenuti in un numero speciale della rivista "A Sud d’Europa" che sarà presentata venerdì, alle ore 11, al Teatro Biondo di Palermo, alla presenza del Capo dello Stato, in occasione della manifestazione per il 35esimo anniversario dell’uccisione di La Torre e Di Salvo. Sono stati 3061 gli studenti che hanno risposto alle quarantasette domande del questionario. Dal Nord al Sud - "Non c’è differenza significativa tra i giovani del Centro-Nord e del Sud sulla percezione della corruzione delle classi dirigenti locali - sottolinea Vito Lo Monaco, presidente del Centro Pio La Torre. La mafia è forte perché si infiltra nello Stato che è più forte delle mafie solo per un 13% dei giovani. Ma la stragrande maggioranza dei giovani, oltre il 90%, ripudia la mafia e ritiene che sia più forte il rapporto tra mafia e politica". Lo hanno dichiarato infatti molto forte il 41,18% degli intervistati, abbastanza forte il 48,72%, debole il 4,27%, inesistente l’1,16%, mentre un altro 4,66% non si è espresso. I ragazzi però hanno fiducia negli insegnanti (l’83%) La preoccupazione per il futuro - Alla domanda se si ritiene che la presenza della mafia possa ostacolare nella costruzione del proprio futuro, il 32,32% ha risposto sì, molto, il 28,24% sì, poco, il 18,99% no, per niente e il 20,45% non so. Emerge un senso d’impotenza e rassegnazione, che trova la massima espressione nella risposta alla domanda: "A tuo avviso, tra lo Stato e la mafia chi è più forte?", dove il 47,27% ha risposto la mafia, mentre sono ugualmente forti il 27,86% e solamente il 13,49% dichiara di mostrare maggior fiducia nello Stato. Ancora più sconfortante è il quadro che emerge dalle risposte alla domanda: "Secondo te, il fenomeno mafioso potrà essere definitivamente sconfitto?", dove la risposta no prevale sul sì anche quest’anno in maniera rilevante. In particolare: il 42,35% ha risposto no, il 29,8% sì, mentre il 27,86% non so. Il 74% degli studenti ritiene che la presenza mafiosa incida molto o abbastanza sull’economia della propria regione. La presenza della mafia è considerata un forte ostacolo per la costruzione del proprio futuro dal 36% dei rispondenti di Sicilia, Calabria e Campania, dal 32% da quelli delle altre regioni meridionali e dal 24% da quelli delle regioni del Centro-Nord. Se nel complesso, infatti, il 42% del campione ritiene che il fenomeno non potrà essere definitivamente sconfitto, tale percentuale risulta nettamente più bassa nelle regioni di insediamento tradizionale, dove si attesta al 38% a fronte di oltre il 50% registrato nel Centro-Nord. Droghe e città, ma dove sono i Sindaci? di Susanna Ronconi Il Manifesto, 26 aprile 2017 Sarà a breve presentata al Parlamento Europeo la Dichiarazione di Varsavia del 2016 sul ruolo delle città nella politica delle droghe e di riduzione del danno. Come già nel 1990 a Francoforte, ma oggi con tutto il peso di venticinque anni di evidenze, la Dichiarazione di Varsavia insiste su pragmatismo, salute pubblica, mediazione sociale, e invita a ridimensionare le politiche di ordine pubblico, che non debbono ostacolare o sovra determinare quelle sociali. I punti forza sono gli interventi di Riduzione del danno (Rdd) a favore dei consumatori, che hanno ricadute a favore di tutti i cittadini (un sistema di servizi a bassa soglia integrato nel welfare locale, interventi nei luoghi del loisir, politiche di inclusione e de-stigmatizzazione), con la partecipazione di tutti gli attori attorno a un tavolo capace di rappresentarne e mediarne gli interessi. La città è il luogo dove le politiche sulle droghe non possono permettersi la retorica, dove il governo del fenomeno si misura con cambiamenti, problemi e bisogni, e si mette alla prova la capacità delle istituzioni locali di gestirli. Non è un caso che fin dagli anni ottanta, in Europa, sono le città ad aver innovato le politiche: lì è nata la riduzione del danno, perché in essa molti sindaci hanno trovato una politica di mediazione sociale e di salute pubblica, ben più capace dell’approccio Law & Order di tenere basso l’impatto di rischi e danni correlati. È questa consapevolezza che porta ciclicamente società civile e municipalità europee a promuovere il ruolo delle città e a farlo "dal basso", con taglio pragmatico: 1990, Conferenza di Francoforte, prima formale adozione della Rdd come approccio delle città; 1990-2000, network European Cities on Drug Policy; 2005- 2011, Democracy, Cities and Drugs; 2010-2017 European Urban Drug Policies, con le Dichiarazioni di Praga nel 2010 e di Varsavia nel 2016. Gli esempi concreti di città come Francoforte, Zurigo, Lisbona, Amsterdam e Vancouver forniscono tutte le evidenze necessarie. E l’Italia? Nel 2005 il Forum Sicurezza Urbana (Fisu), commissionò uno studio sulle strategie delle città europee, curato da chi scrive, in cui di queste evidenze si rendeva conto. È rimasto in un cassetto. L’assenza delle nostre città da questo confronto, già dal 1990 e più ancora oggi, è eclatante. E anche la loro delega a politiche nazionali che poco sembrano sapere di come vanno davvero le cose e continuano nella logica securitaria, che i problemi li crea invece che gestirli. Ma i sindaci lo sanno, come vanno le cose: pensiamo alle movide urbane, alle piccole o grandi scene aperte del consumo. Davvero pensano che il decreto Minniti e il Daspo contro i piccoli spacciatori sia la soluzione? Davvero puntare sulla repressione di pesci piccoli e consumatori sembra loro la migliore delle politiche locali? La carta di Varsavia ci ricorda che è possibile uscire dalla delega impotente a politiche nazionali che hanno, da decenni, dimostrato il proprio insuccesso, e trovare l’orgoglio della sperimentazione e dell’autonomia. Per governare un fenomeno che - stando alle stime sui consumi - tocca il 25% dei loro cittadini, i sindaci hanno già da ora un’agenda potenziale che si avvale di 25 anni di esperienza: dal "sindaco della notte" per la mediazione sociale attorno alle movide, alle "stanze del consumo" per le scene aperte, da agenzie locali aperte a tutti gli attori, alla valorizzazione dell’alleanza con i consumatori, da un welfare inclusivo per abbassare i costi sociali, alla drug education mirata a tutta la società. Solo per cominciare. Il Tso e quei pazienti deceduti: proposta di legge dei Radicali sul ricovero coatto e forzato di Valentina Santarpia Corriere della Sera, 26 aprile 2017 I Radicali italiani hanno presentato una proposta di legge di riforma della normativa sui Trattamenti Sanitari Obbligatori a cui vengono sottoposti alcuni pazienti psichici, che punta a mettere un freno al fenomeno e prevedere una relazione annuale per fare chiarezza sui numeri. Obiettivo: evitare gli abusi e le degenerazioni che hanno portato, in alcuni casi, anche alla morte. Costretti per ore legati, senza mangiare né bere, e imbottiti di medicinali dall’efficacia sospetta. A volte il Tso, il Trattamento sanitario obbligatorio che può essere richiesto per malati psichici gravi che rischiano di diventare pericolosi per sé e per altri, può diventare un incubo. Mortale. Come dimostrano alcuni tremendi casi di cronaca. Secondo la legge, il Tso non giustifica la contenzione, è assolutamente vietata la violenza fisica, e il paziente soggetto a Tso conserva il diritto alla propria tutela fisica, alla dignità e alla libertà della persona, oltre che la possibilità di comunicare con chi vuole e di essere dimesso in qualsiasi momento. Ma questa è la teoria. Nella pratica il provvedimento di limitazione della libertà personale, l’unico trattamento sanitario che in Italia prevede il ricovero coatto e forzato, può sfociare in abusi nei confronti del paziente, fino ad arrivare a casi di veri e propri sequestri di persona. Di qui nasce la legge Mastrogiovanni, una proposta di riforma della normativa sul tema, promossa dai Radicali italiani che punta a mettere un freno al fenomeno dei Trattamenti Sanitari Obbligatori e prevedere una relazione annuale per fare chiarezza sui numeri. "Ogni giorno si dispongono una trentina di Tso in Italia, ci sono i margini per fornire più tutela dei diritti per i pazienti", commenta Riccardo Magi segretario dei Radicali italiani. Un Tso deve esser caratterizzato da alcune condizioni, sottolinea Gilda Losito, dell’Ufficio del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, "rispondere a sintomi ben precisi, essere proporzionato a condizione salute, essere definito in un progetto terapeutico monitorato e concludersi nel più breve tempo possibile". Per questo, a 39 anni dalla Legge Basaglia che la istituiva, l’ipotesi di riforma della normativa vigente, ovvero dell’articolo 3 della 833/1978, prevede il diritto di informazione e ricorso per la persona interessata, il divieto della contenzione meccanica, la necessità di una visita da parte di uno psichiatra prima del trattamento, la possibilità di comunicazione dei pazienti con l’esterno. Inoltre il divieto di rinnovo per più di tre volte (oggi non esiste un limite) e una relazione annuale a cura del Garante dei Detenuti. "Serve una presa di coscienza politica", è l’appello di Grazia Serra, nipote di Mastrogiovanni. "Non possiamo accettare - spiega - che una persona magari in un periodo di fragilità, come accaduto a mio zio, entri sano fisicamente in ospedale e dopo 4 giorni esca morto. Credo sia un dovere della politica tutelare la salute di tutti i cittadini". Quanto al futuro di questa ipotesi di riforma, conclude Magi, "potrebbe essere oggetto di una legge di iniziativa popolare, ma non escludiamo l’ipotesi che possa esser depositata da qualche deputato. L’importante, intanto, è aprire un dibattito su questo tema così trascurato". Il maestro di scuola elementare Francesco Mastrogiovanni è morto a 58 anni durante un Tso, con le caviglie e i polsi legati a un letto, dopo 87 ore di inferno: 87 ore è anche il titolo del film che è stato dedicato alla sua vicenda, e che si basa in gran parte sulle immagini delle telecamere di sorveglianza che hanno svelato gli abusi sull’uomo. Il 15 novembre del 2016, con sentenza di secondo grado della Corte d’Appello di Salerno, sono stati condannati i sei medici e gli 11 infermieri in servizio nel reparto di psichiatrica dell’ospedale di Vallo della Lucania, dove Mastrogiovanni era ricoverato. L’uomo, con un passato da anarchico, era stato segnalato dai vigili urbani al sindaco, che aveva ordinato il Tso. Era entrato in ospedale calmo e collaborativo, il "maestro più alto del mondo", come lo chiamavano i suoi alunni che stava trascorrendo le sue vacanze a San Mauro Cilento in quell’agosto del 2009. Ma è finito dalla sabbia calda al freddo tavolo dell’obitorio in poche ore: imbottito di un cocktail di calmanti e sonniferi, viene legato al letto mani e piedi in un caldo infernale, nudo. Come si vede dai video delle telecamere, chiede di bere, urla, cerca di liberarsi, ma nessuno gli dà ascolto: in 87 ore mangia una sola volta e assorbe poco più di un litro di liquidi, solo tramite flebo. Intorno alle due di notte del 4 agosto 2009 muore, ma il personale se ne accorgerà solo cinque ore più tardi. Alla nipote Grazia- che era in Aula alla Camera venerdì per appoggiare la proposta di legge dei Radicali, rispondono: "Mi hanno detto che era meglio non parlarci per non farlo agitare", racconta. "Poi mi hanno assicurato che stava bene e che stava seguendo le terapie". Il giorno dopo arriva la notizia della morte di Franco Mastrogiovanni per edema polmonare. Sono stati quasi 11.000 solo nel 2015, in Italia, i trattamenti sanitari obbligatori su persone con disagio psichico, ma il numero è fortemente sottostimato perché in materia non esiste una rilevazione statistica approfondita. Uno degli ultimi casi riguarda Fabio Boaretto, un 61enne di Galzignano Terme morto il 3 novembre 2016 poche ore dopo un Tso nell’ospedale di Schiavonia: la Procura della Repubblica di Padova ha deciso di aprire un’inchiesta. In Aula alla presentazione della proposta di legge dei Radicali c’era anche Adele Malzone, sorella di Massimiliano, il 39enne di Montecorice morto l’8 giugno del 2015 dopo un Tso presso l’ospedale di Sant’Arsenio, in provincia di Salerno. Il ragazzo, in passato, aveva subito altri due Trattamenti sanitari obbligatori, nel 2010 e nel 2013. Durante l’ultimo ricovero, 112 giorni, i familiari non hanno mai potuto vederlo. Lui ha provato a contattarli, usando un cellulare di una paziente, alle 12.45 del giorno in cui è morto: la telefonata fu interrotta bruscamente, dopo meno di tre ore Massimiliano morirà. Il medico che avvisa Adele della morte del fratello è lo stesso che era stato già condannato a 4 anni in primo grado per il decesso di Mastrogiovanni con l’accusa di sequestro di persona, morte come conseguenza di altro reato e falso ideologico, per non aver annotato la contenzione meccanica nella cartella clinica. La Procura di Lagonegro ha aperto un’inchiesta. A supportare la proposta dei Radicali c’era anche Osvaldo Esposito, il papà di Marcello, morto a 33 anni il 13 giugno del 2016 a S. Giorgio a Cremano, in provincia di Napoli. Anche l’uomo è stato colpito per evitare che ferisse un poliziotto che stava cercando di fermarlo. In quel caso non c’era stata alcuna richiesta di Tso, ma la famiglia più volte aveva segnalato la pericolosità del ragazzo, ma erano stati lasciati soli: il giudice non aveva ritenuto opportuno chiuderlo in una Rems, una struttura apposita. A riassumere il senso della vicenda il sindaco, Giorgio Zinno: "Sento di poter dire che oggi abbiamo perso tutti perché un ragazzo è morto, perché lo Stato non ha attuato nella realtà ciò che avrebbe dovuto realizzare con la legge Basaglia". Il Tso è un atto di privazione della libertà - afferma il tesoriere dei Radicali Italiani Michele Capano - che costituisce un atto di esercizio del potere, benché in ambito sanitario. E là dove c’è potere deve esserci controllo, perché può esser fonte di anomalie e abusi. La nostra riforma vuole colmare questo vuoto". In questi anni infatti la cronaca continua a dare conto di drammatiche vicende che evidenziano come il Tso, spesso associato a contenzione meccanica, violi diritti fondamentali in ambito sanitario. "Una delle criticità del funzionamento del Tso" però, come sottolineato nella relazione del Garante Nazionale dei Detenuti presentata lo scorso 21 marzo, "è l’impossibilità di avere dati statistici chiari". Al netto di circa un quarto dei casi che si convertono in volontari, sono stati 11.182 nel 2014 e ben 10.882 nel 2015 (dati Istat), particolarmente concentrati in alcune regioni come la Sicilia, mentre residuali nel basagliano Friuli Venezia Giulia. Ma il Rapporto Salute Mentale del Ministero della Salute parla di 9.067 nel 2014 e 8.777 nel 2015. "Anziani, poveri, detenuti, adolescenti che usano stupefacenti, omosessuali: sono queste le persone che più spesso rientrano tra quelle a maggior rischio di subire un Tso", spiega Gioacchino di Palma, avvocato di riferimento di Telefono Viola, la linea d’ascolto contro gli abusi in psichiatria, e queste persone "entrano poi in un circolo vizioso da cui è difficile uscire". I casi di cronaca sono tantissimi, e molti finiscono nell’ombra, dimentica, o semplicemente archiviati da processi finiti con assoluzioni eclatanti. Giuseppe Casu, ambulante, aveva sessant’anni quando è stato prelevato da piazza 4 novembre di Quartu Sant’Elena, il 15 giugno 2006: sette giorni dopo sarebbe morto nell’ospedale Santissima Trinità di Cagliari dopo essere stato sottoposto ad un Tso, ed essere rimasto sette giorni legato mani e piedi al letto d’ospedale, sedato e imbottito di farmaci. La Cassazione ha assolto a distanza di dieci anni tutti i medici coinvolti "perché il fatto non sussiste", una decisione di segno diametralmente opposto alla sentenza di secondo grado, che aveva concluso che "se detto ricovero non fosse mai avvenuto, il Casu sarebbe ancora vivo", e rilevando che "il trattamento sanitario riservato al Casu è stato caratterizzato da una eccessiva e prolungata contenzione, da una altrettanto invasiva sedazione e da un prolungato accanimento farmacologico, il tutto attuato senza curarsi minimamente di monitorare le sue condizioni, così integrato un caso macroscopico di mala sanità". Resta un dato certo, come ricorda la figlia Natascia che ha fondato il comitato "Verità e giustizia per Giuseppe Casu": alcune parti anatomiche del venditore ambulante sono state prelevate e sostituite prima dell’autopsia, per cui non sono mai state accertate le cause della morte di un uomo che aveva, come unica "colpa", quella di aver dato in escandescenza dopo che gli avevano inflitto una serie di multe per sgomberare la piazza dagli ambulanti. L’ultima ammontava a 5 mila euro. Andrea Soldi aveva 45 anni e pesava 100 chili: era soprannominato il gigante buono. È morto soffocato dal braccio di un vigile che lo ha stretto al collo con troppa forza, nel tentativo di mettere in atto un Tso. Era il 5 agosto del 2015 e Andrea, malato di schizofrenia, stava seduto in piazza Umbria a Torino sulla sua panchina preferita. All’improvviso era arrivata un’ambulanza. Lo psichiatra di Soldi e tre vigili urbani si erano avvicinati a lui e lo avevano invitato a salirvi sopra. Destinazione, ospedale. Andrea si era rifiutato. Si era aggrappato alla panca. Due vigili si erano piazzati di fianco a lui, uno per lato, immobilizzandolo e un terzo da dietro gli aveva messo un braccio contro il collo, stringendo. Secondo il medico legale dell’accusa, quella stretta fu fatale. Dopo la presa, Andrea aveva perso conoscenza e si era accasciato al suolo. Più di un testimone aveva assistito a questa scena. Privo di sensi, era stato ammanettato e caricato sull’ambulanza a pancia in giù. Una posizione che non consentiva la ripresa della respirazione né la possibilità di rianimarlo o anche solo di mettergli davanti alla bocca la mascherina dell’ossigeno. Se Andrea fosse stato soccorso a dovere durante il viaggio, forse sarebbe ancora vivo. A gennaio i familiari di Andrea hanno saputo (in udienza preliminare, davanti al giudice) della proposta di risarcimento di 400 mila euro fatta da Asl e Comune, citati a giudizio come responsabili. E c’è anche qualche malato che ha talmente paura del Tso da finire per essere ucciso prima ancora che si verifichi. È il triste caso di Mauro Guerra, 33 anni, laureato in Economia aziendale, con qualche problema psichico, morto il 30 giugno del 2015 nel tentativo di sfuggire ad un Tso: è successo a Carmignano di Sant’Urbano, Padova. Il comandante della stazione dei carabinieri, Marco Pegoraro, 42 anni, gli ha sparato mentre cercava di divincolarsi da un collega, il brigadiere Stefano Sarto, che lo stava rincorrendo nelle campagne. Il brigadiere aveva rincorso Mauro, in calzini e mutande, per i campi sbandierando un Tso: Mauro era fuggito perché non voleva essere ricoverato. Quando il brigadiere lo aveva afferrato, aveva cominciato a colpirlo per divincolarsi: e a quel punto Pegoraro era intervenuto, aveva mirato Guerra e aveva sparato. Dopo 19 mesi di indagine, e anche sembra grazie ad alcuni video realizzati con un cellulare, Pegoraro è indagato per omicidio volontario. "Io, ludopatico: perdere denaro è la vera febbre da gioco d’azzardo" di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 26 aprile 2017 Massimo, 42 anni, è in cura per ludopatia. "Bisogna liberarsi dal gioco, ma soprattutto dalla vergogna". "Liberiamoci dal gioco, ma soprattutto dalla vergogna". Massimo Pisani, in un giorno non casuale - il 25 Aprile - sceglie di non nascondersi più e parlare apertamente del suo problema. "Una vera e propria malattia" che gli ha distrutto l’equilibrio e gli ha fatto perdere il lavoro, "a volte anche la dignità". Con la moglie che in tutto questo gli è sempre rimasta accanto, assieme alla loro bambina di nove anni. "È iniziato tutto nel 2010, con le slot - racconta Massimo. Avevo trentacinque anni e un lavoro di responsabilità come capo reparto in un ipermercato, mia moglie faceva la consulente. Eravamo contenti, stavamo bene. Anche se forse, a guardarmi indietro, una voragine mi mangiava già dentro, c’era qualche debolezza che non vedeva nessuno, nemmeno io. Altrimenti non me lo spiego, come ci sono cascato". La prima volta, casuale: in un bar tabacchi. Vince. Da lì il piano inclinato, la discesa. Ma il pozzo nero l’ha inghiottito dopo: "Quando hanno iniziato ad aprire le sale gioco, fatte apposta per farti sentire al riparo da occhi altrui, con i vetri oscurati e le luci fioche - racconta. È la perdita, non la vincita, che dà la scossa di emozione più forte. Una specie di gara col destino, una sfida, l’ebbrezza del vuoto e del pieno. Le monetine vengono risucchiate e tu ne vuoi di più, ancora di più". Neanche le notti erano libere da quel pensiero: "Il giocatore non dorme mai. Avevo perso il sonno, le risate, la capacità di prestare attenzione alle persone care". I soldi non bastavano "per procurarteli finisci per commettere anche piccoli illeciti". Per questa situazione lui ha lasciato pure il lavoro. "Mi vergognavo moltissimo. Se hai un tumore lo dici, se sei ludopatico no. C’è un forte stigma sociale. L’idea che se finisci nel gioco, hai una parte di colpa. E invece quando perdi il controllo, entri nel campo della malattia". Secondo il dipartimento Dipendenze di Milano e l’esperto Riccardo Gatti, i numeri legati all’azzardo crescono, e alle cure arriva, peraltro in ritardo rispetto ai sintomi, solo una parte di malati: esplode il fenomeno tra i pensionati (un giocatore su tre ha superato i 55 anni) e l’altra fascia a rischio è quella dei giovani (13%). Un’altra analisi, condotta su 1.600 studenti di Milano e hinterland dal Centro studi Semi di melo con università Bicocca e Regione Lombardia, dice che il 16 per cento degli studenti milanesi delle superiori almeno una volta alla settimana spende denaro nel gioco. Il 2% può essere definito giocatore compulsivo, e il 25 per cento dichiara di avere in famiglia qualcuno che ha consuetudine con l’azzardo. Massimo ha detto basta il 17 febbraio dell’anno scorso, entrando nella comunità coordinata dallo psicologo Simone Feder, La Casa del giovane di Pavia, che ancora lo ospita. Quarantadue anni, sette rovinati dal gioco, adesso molta voglia di ricominciare. "Ho fatto un colloquio di lavoro l’altro giorno - dice abbassando gli occhi. Ero incerto se raccontare o no il mio percorso. Ora mi levo definitivamente la vergogna di una malattia che distrugge chi gioca e mette a rischio tutta la sua famiglia". Per lui ieri è stato un giorno speciale: "Sono, in questo 25 aprile, libero come mai mi sono sentito, negli ultimi sette anni". Migranti. Salvarli conta più dei sospetti di Attilio Bolzoni La Repubblica, 26 aprile 2017 Salviamoli. Più delle urla e del calcolo politico tutti dovremmo avere un obiettivo: salvarli. Il resto è solo propaganda, cinica e rozza diffusione di informazioni incomplete e anche un po’ taroccate che non raccontano cosa accade davvero in mezzo al mare. Sarebbe più giusto e interessante occuparsi di cosa accade sulla terra. Anche in Italia. Gli imbrogli, le "trattative" e le connection nel Mediterraneo di cui parla il vicepresidente della Camera Di Maio riguardano organizzazioni non ancora ben individuate. Organizzazioni nate da poco e senza una storia, senza tracciabilità dei bilanci sui loro siti, con flotte che battono bandiera ombra o di lontani paradisi fiscali. Pirati. E non investono certo quelle rispettabili Ong come Medici senza Frontiere e Save The Children, Emergency o Amnesty International. Di Maio ha sparato nel mucchio. Gli affari veri con i migranti non si fanno in mare, si fanno su una sponda e sull’altra del Mediterraneo, in Libia, in Siria, in Grecia e in Turchia, a Malta. E in ogni nostra regione, dove il business dell’accoglienza ha fruttato e frutta ancora tanto denaro a organizzazioni di avventurieri e a clan di "imprenditori dell’immigrazione" fin troppo protetti o tollerati. E mentre l’Europa sta a guardare da anni e anni questa carneficina che si consuma nel Canale di Sicilia, mentre delega - e questo sì, con ipocrisia e cinismo - ogni carico e responsabilità all’Italia, tutti ci stiamo macchiando di quello che lo scrittore Hermann Broch ha chiamato agli albori del nazismo il peggiore dei crimini: il crimine di indifferenza. Le parole di Luigi Di Maio sono fuori posto e alimentano confusione, indicano bersagli sbagliati citando fonti di Frontex che, è bene ricordarlo, non è la Bibbia ma una struttura più volte nel mirino delle stesse organizzazioni umanitarie che vengono oggi messe sotto accusa, un’agenzia europea che fino a qualche anno fa aveva il suo quartier generale a Varsavia: gran parte del suo bilancio milionario era destinato a mantenere il personale a qualche migliaio di chilometri da Lampedusa e da Al Zwuara. L’Europa continua a far finta di niente. Frontex - che ha compiti di guardia costiera e di frontiera - non riesce a tamponare nemmeno in piccola parte le emergenze delle traversate. Negli ultimi mesi ha anche arretrato il suo raggio d’azione, le sue motovedette non si spingono più a ridosso della costa libica e non oltrepassano le acque territoriali maltesi. È Frontex la "sorgente" principale delle notizie rilanciate da Luigi Di Maio in modo così approssimativo e intempestivo. E al suo facile "atto di accusa" sono seguiti gli imbarazzi del governo (che nel gennaio ha fatto l’ennesimo accordo costato milioni e milioni di euro - dopo quello del 2008 e dopo quello del 2012 con la Libia per fermare gli scafisti in partenza dalle coste africane) e i silenzi profondi del Pd se si esclude un intervento del ministro della Giustizia Andrea Orlando contro "chi specula sulla vita e sulla morte per qualche voto in più". Troppo poco. Troppo ambiguo e ingannevole stare zitti su una tragedia di queste dimensioni. La questione dell’immigrazione resta nella sua drammaticità dentro e fuori i nostri confini. E anche se l’inchiesta non sfiora le grandi Ong italiane e straniere, su un punto però Luigi Di Maio può avere ragione. Già con Mafia Capitale abbiamo scoperto il business dell’accoglienza. In Italia ci sono 21 procure della Repubblica che indagano sempre sugli stessi nomi e sugli stessi meccanismi di truffa. Storie che rischiano di oscurare una tragedia infinita e l’impegno di tanti. L’Organizzazione delle Migrazioni: "definire meglio i ruoli delle Ong" La Stampa, 26 aprile 2017 Il direttore Ambrosi: "Non ci sono casi comprovati di collusione tra trafficanti ed enti". Frontex: "Trafficanti sfruttano l’obbligo di soccorso". L’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim) non è a conoscenza di "casi comprovati di collusione" tra trafficanti e ong che operano per il salvataggio in mare di migranti e rifugiati. Lo ha affermato Eugenio Ambrosi, direttore generale dell’Oim per l’Europa. In una nota diffusa oggi a Ginevra dall’Oim, Ambrosi afferma di credere che non sia di aiuto il fatto di "alimentare percezioni che mettono sullo stesso piano o confondono interessi criminali a scopo di lucro di chi mette in pericolo vite umane ed entità senza scopo di lucro che lavorano per salvare vite in mare". Ma "non possiamo essere ingenui. Il fatto che navi di soccorso di Ong operino così vicino alle acque libiche può essere sfruttato dai trafficanti. Questo - ha aggiunto Ambrosi - non costituisce una collusione deliberata, ma richiama l’attenzione sulla necessità di definire meglio il ruolo e le regole delle Ong e le risorse dell’Ue per l’obiettivo principale di garantire che nessuno muoia in mare". "Le navi delle Ong non sono un fattore di attrazione" - Per l’Oim, inoltre "la presenza di navi nel Mediterraneo non costituisce un fattore di attrazione (pull factor) che incita la migrazione. Tale critica - afferma Federico Soda, capo dell’Ufficio di coordinamento per il Mediterraneo dell’Oim nella nota - ricorda le osservazioni fatte contro l’Operazione Mare Nostrum", ma nei fatti quando l’Operazione è stata portata a termine, senza essere sostituita da altre missioni di salvataggio, fu "registrato un aumento delle partenze dei migranti dalla Libia e, purtroppo, anche un aumento delle morti in mare". Il lavoro degli operatori di soccorso e gli sforzi combinati delle Ong nel Mediterraneo centrale "è stato essenziale per salvare migliaia di vite". Il portavoce dell’Ufficio di coordinamento per il Mediterraneo, Flavio Di Giacomo, ha riferito nel solo 2016 un totale di 181.436 migranti sono stati soccorsi e portati in sicurezza in Italia, di cui 49.796 da Ong. Frontex: "I trafficanti sfruttano l’obbligo di salvare vite in mare" - "Salvare vite è un obbligo internazionale per chi opera in mare. È chiaro che i trafficanti in Libia se ne approfittano". Così la portavoce di Frontex Izabella Cooper a chi chiede dell’indagine aperta in Italia sull’attività delle navi delle Ong. Cooper ricorda che da inizio anno "sono 36mila i migranti arrivati in Italia, soprattutto dalla Libia, facendo segnare un incremento del 43% rispetto allo stesso periodo del 2016". Frontex ha osservato importanti cambiamenti nel modus operandi dei trafficanti. Barche più affollate, ridotti carburante e cibo - L’area di ricerca e soccorso è mutata: "nel 2011 le barche dei migranti arrivavano fino a Lampedusa, mentre nel 2016-2017 è al limite delle acque territoriali libiche". Le barche sono più affollate: "dalle 90 persone di media per 10 metri del 2014, alle attuali 170". Anche il materiale delle imbarcazioni ha visto un "drastico peggioramento" ed il carburante è quello necessario per superare le acque territoriali libiche. Ridotti anche cibo e acqua potabile. In aggiunta, spiega "di recente si nota che i trafficanti tolgono i motori alle barche quando i soccorsi sono nelle vicinanze". La Corte dei Conti Ue: sette migranti su dieci in Italia sbarcati fuori dagli hotspot di Emanuele Bonini La Stampa, 26 aprile 2017 Rapporto della Corte dei Conti europea: è andata così almeno fino a tutta metà 2016. Sette migranti su dieci in Italia sono sbarcati fuori dagli hotspot almeno fino a tutta metà 2016, nonostante gli sforzi per la realizzazione e l’attivazione degli speciali centri concepiti per una migliore gestione del flusso dei migranti. Una criticità che ha pesato sulla registrazione delle persone in arrivo su suolo nazionale e che ha contribuito a far perdere le tracce di tanti individui. È quanto emerge dal rapporto della Corte dei Conti europea sugli hotspot in Italia e in Grecia. Il documento contiene la valutazione delle azioni intraprese dai Paesi Ue in prima linea nella crisi migratoria, e aggiornata fino all’estate scorsa. Possibile che nel frattempo le cose siano migliorate, ma per tutto il periodo considerato l’Italia appare in ritardo e non in grado di far fronte al problema. Italia in ritardo - Innanzitutto l’Italia si è mossa a rilento. Entro fine 2015 dovevano essere operativi sei strutture per l’identificazione dei migranti, per quella data ne erano aperte solo due (Lampedusa e Pozzallo). Altre due hotspot (Trapani e Taranto) sono divenuti operativi nei primi mesi del 2016 ma al momento delle verifiche della Corte dei Conti (luglio 2016), la capienza totale dei quattro hotspot operativi era di 1.600 posti, "chiaramente non sufficienti a far fronte ai picchi periodici di 2 000 o più arrivi al giorno". Inoltre, secondo i dati forniti dalle autorità italiane, nei primi sette mesi del 2016 circa il 70 % dei migranti sbarcava ancora al di fuori dei siti hotspot esistenti, facendo crescere il rischio di una incompleta registrazione dei migranti in arrivo. "Ci sono tante persone che non hanno fatto domanda di asilo e che quindi dovrebbero essere rimandati indietro, ma i ritorni non sono semplici" da fare, ha ricordato Hans Gustaf Wessberg, membro della Corte dei Conti, durante la presentazione del documento. "Non abbiamo idea di quante persone si tratti, ma se guardiamo la dimensione dei numeri è facile immaginare che ci siano delle persone che si disperdano". Troppi minori non accompagnati, nessuna struttura - Sempre per l’Italia "un grande problema" è il crescente numero di minori non accompagnati arrivati solo nel 2016: se ne contano più di 20mila, per cui non esistono - sempre sulla base di dati aggiornati a qualche mese fa - misure di ricezione adeguate. I minori "permangono troppo a lungo presso gli hotspot, che non sono adatti ai loro bisogni specifici". Non a caso la Corte dei Conti ha accompagnato il rapporto con cinque raccomandazioni, una delle quali prevede addetti per minori in ogni struttura di identificazione e spazi specifici per questa categoria di migranti. Italia dipendente dai soldi stranieri - Sull’Italia pesa anche la questione delle risorse. Sebbene lo studio della Corte dei conti non intenda analizzare come e quanto i governi usino i fondi, nel caso dell’Italia si rileva comunque che il sostegno dalle Agenzie dell’Ue è stato notevole, ma dipende ancora fortemente dalla messa a disposizione di sufficienti risorse da parte degli Stati membri. Le operazioni di Frontex (l’agenzia per il controllo delle frontiere esterne, ora guardia costiera dell’Ue) sono state finanziate al 65% dei costi dagli Stati membri, mentre le attività dell’Easo (L’ufficio europeo per l’asilo) sono state coperte per il 57% delle spese sostenute. Il resto ricade sul’Italia. Hotspot problema strutturale - "Gli hotspot serviranno per lungo tempo, perché non riesco a vedere una fine a questa situazione" di crisi migratoria, ha ammesso Hans Gustaf Wessberg. Se non si migliorano le capacità di ricezione e la gestione dei migranti, si rischia di avere tra le mani una bomba umanitaria. In Italia come in Grecia gli hotspot sono stati trasformati in punti di accoglienza di lungo periodo, e "questo ha creato problemi". Originariamente gli hotpost non era concepito per questo, erano pensati per velocizzare le registrazioni e poi smistare i migranti. Cosa che non è avvenuta. Gli hotspot sono destinati dunque a diventare centri operativi permanenti in Italia e in Grecia, e se non si interviene rischiano di tramutarsi in problemi strutturali. Fin qui gli hotspot hanno comunque migliorato la gestione dell’immigrazione, ma va fatto di più: la conclusione della conclusione della Corte dei conti è questa, e non poteva essere diversamente. Turchia. La guerra totale di Ankara: raid su Siria e Iraq di Chiara Cruciati Il Manifesto, 26 aprile 2017 Il più feroce attacco turco da anni: 24 morti tra Rojava e Sinjar. Erdogan punta ad un corridoio di territori al confine da trasformare in una buffer zone "ripulita" dei kurdi. E sfida Washington, alleata delle Ypg. Una strage tira l’altra e il Kurdistan è in fiamme. In poche ore tra Siria e Iraq aerei statunitensi e turchi hanno portato morte e distruzione, svelando le infinite contraddizioni delle variegate reti di alleanze in Medio Oriente. A morire sotto i raid Usa sono stati ieri 11 civili (7 bambini). Le bombe hanno centrato l’auto con cui fuggivano da Taqba, strategica località alle porte di Raqqa, terreno di scontro tra Isis e Sdf (Forze Democratiche Siriane, federazione di kurdi, assiri, arabi, turkmeni e circassi sostenuta da Washington). Un altro massacro di civili, che segue alla più recente strage tra i combattenti Sdf - 18 uccisi per errore dagli Stati uniti a metà aprile - e alle 7.697 vittime civili tra Siria e Iraq da agosto 2014 (dati Airwars). Anche ieri, come spesso accaduto, si trattava di persone in fuga. E sono tante, ancora oggi, ammassate al confine, con le frontiere settentrionali con la Turchia serrate: secondo l’Onu nelle ultime settimane si contano almeno 39mila nuovi sfollati interni nella provincia di Raqqa, l’80% dei quali non ha trovato alcun rifugio. Nelle stesse ore la Turchia compiva il più feroce attacco aereo tra Siria e Iraq degli ultimi anni: con 26 raid l’aviazione di Ankara ha colpito Rojava, nord della Siria, e Sinjar, nord-ovest dell’Iraq. Si parla di 24 morti. Tra le vittime anche cinque peshmerga di stanza a Sinjar, area yazida contesa tra Pkk e Kdp (il partito kurdo iracheno del presidente Barzani). Ovvero forze che la Turchia sostiene apertamente. In Siria nel mirino sono finite le Ypg kurde, spina dorsale delle Sdf e alleati degli Usa. Tanto che ieri funzionari statunitensi hanno visitato le zone colpite a Rojava per portare solidarietà e valutare i danni. Un cortocircuito esplosivo con alleati di lungo corso che si bombardano a vicenda, per poi tornare serenamente a sedere allo stesso tavolo. Ma l’aggressività della Turchia - che, come ci si attendeva, vive un’escalation figlia dei super poteri che il presidente Erdogan si è attribuito con la riforma costituzionale - non frena di fronte agli interessi dell’amico statunitense. L’obiettivo è chiudere il capitolo kurdo, in casa come alla frontiera. La violenza su Rojava e Sinjar ne è la prova immediata. In Siria sono state colpite le postazioni Ypg a Derik, a al-Malikiyah e sul monte Qaraqox nella provincia di Hasakah, estremo oriente siriano, ma anche zone residenziali, la radio Denge Rojava e un media center. Tra i morti ci sono combattenti, civili e giornalisti. In Iraq sono state centrate le basi delle Ybs, affiliate al Pkk, ma anche (per errore) quelle degli alleati peshmerga e gli uffici di Cira Radio. La risposta kurda è stata immediata: a Diyarbakir i partiti turchi di opposizione Hdp e Dbp hanno fatto appello alla gente perché protesti, mentre migliaia di persone da Qamishlo, Derik e Hasakah raggiungevano Qaraqox per manifestare contro i raid. La leadership militare ha accusato il Kdp di Barzani di aver fornito a Ankara le coordinate dei bersagli nemici. Una parziale conferma, almeno politica, arriva dal Ministero dei Peshmerga di Erbil che in un comunicato definisce "doloroso e inaccettabile" il raid ma ne dà la colpa al Pkk, chiedendogli di ritirarsi da Sinjar, territorio strategico tra Mosul e il confine siriano. Il corridoio di intervento turco è definito e ormai collegato: Ankara ha cominciato a ovest, due anni fa, l’operazione contro le montagne irachene di Qandil, dove il Pkk si ritirò durante il processo di pace; ha proseguito l’anno scorso ad est contro Rojava, nord della Siria; ora prende di mira Sinjar, alla frontiera tra i due paesi. Difficile non vedere nella sequela di bombardamenti e interventi di terra (prima in Iraq, nel novembre 2015, inviando truppe a Bashiqa e poi in Siria con l’operazione Scudo dell’Eufrate ad agosto 2016) il chiaro obiettivo di creare una zona cuscinetto al confine, "ripulita" della presenza kurda o quantomeno dell’attività politica e militare delle formazioni legate al Pkk e alla sua ideologia. Non si può dire che Erdogan non abbia avvisato: un mese fa aveva finto di chiudere Scudo dell’Eufrate e annunciato il lancio di Scudo del Tigri. Turchia. Del Grande: "Mi interrogavano in turco e le domande arrivavano da Ankara" di Carlo Lania Il Manifesto, 26 aprile 2017 Potrebbero essere proprio le conversazioni scambiate nel centro di espulsione di Hatay il motivo del prolungarsi della detenzione di Daniele Del Grande in Turchia. In mezzo a profughi di origine siriana e irachena nel centro situato vicino al confine siriano si trovavano infatti anche persone fermate in occasione di un comizio tenuto nella regione dal presidente Recep Tayyip Erdogan. Sono i giorni immediatamente prima del voto sul referendum costituzionale che il 16 aprile assegna poteri pressoché illimitati al presidente turco ed è facile immaginare come l’attenzione dei servizi sia massima. Nel centro sono così richiuse anche persone che probabilmente non sono neanche oppositori di Erdogan, come un professore universitario siriano con cui Del Grande parla. Si tratta solo di un’ipotesi, perché di certo nei 14 giorni trascorsi dal giornalista lucchese in due centri di espulsione turchi non c’è ancora proprio niente. Fatto sta che dopo i pochi giorni passati ad Hatay, Del Grande viene trasferito nel centro di Mugla e le cose per lui cambiano in peggio. È lo stesso Del Grande a raccontarlo in una conferenza stampa convocata insieme alla compagna Alexandra D’Onofrio, al presidente della commissione Diritti umani del Senato Luigi Manconi e all’avvocato Alessandra Ballerini. "È stata una situazione di sospensione del diritto", spiega. "Né io né i miei avvocati abbiamo avuto fino a oggi accesso al mio fascicolo e quindi non so dirvi il perché del mio fermo". Tutto comincia lo scorso 9 aprile. Del Grande è in Turchia da appena 24 ore e sta parlando in un ristorante di Reyhanli con una persona che pensa possa essergli utile per il suo lavoro, un libro sulla guerra in Siria e la nascita dell’Isis. "Improvvisamente entrano otto uomini, sono i borghese e ci mostrano il tesserino della polizia. Ci dicono di seguirli", racconta Del Grande. "Veniamo fatti salire su due macchine senza nessuna insegna". Del Grande e la sua fonte vengono portati nel centro di espulsione di Hatay. Si tratta di una ex scuola riadattata a punto di raccolta di profughi che attraversano il confine siriano. Quando il giornalista ci arriva ci sono almeno 150 persone, intere famiglie siriane ma anche irachene. "All’inizio non sembrava si trattasse di una cosa grave, erano gli stessi agenti che cercavano di sdrammatizzare", prosegue il racconto. Nei primi interrogatori gli viene chiesto conto del suo lavoro, dei contatti siriani e dell’eventuale intenzione di entrare in Siria. Tutte domande alle quali il giornalista si rifiuta di rispondere senza la presenza di un avvocato. "Ho solo smentito di voler entrare in Siria, perché non era nei miei programmi", dice. Le cose cambiano il mercoledì successivo, quando Del Grande viene trasferito dal centro di Hatay a quello di Mugla. Un viaggio durato dieci ore e compiuto in macchina e di notte. "Lì ho capito che qualcosa era cambiato, le parole rassicuranti erano finite", spiega. Mugla è un’ex prigione trasformata anch’essa in centro di espulsione dei profughi. Le celle non sono più aperte, come ad Hatay, e Del Grande viene messo in isolamento. Il giorno dopo "dò in escandescenze e finalmente il direttore mi permette di telefonare ad Alexandra". Solo a quel punto la situazione in cui trova diventa finalmente pubblica. "Per cinque giorni le autorità italiane sono state tenute all’oscuro di tutti i particolari relativi a Del Grande: sia la località nella quale era trattenuto, sia gli interrogatori ai quali veniva sottoposto", interviene il senatore Manconi. Interrogatori che si svolgono in parte in turco in parte in arabo, lingua quest’ultima che Del Grande parla. "Mi dicevano che le domande arrivavano da Ankara, ma non so da chi", prosegue il giornalista. Il resto è noto. Lo sciopero della fame poi la visita del console italiano a Smirne, Luigi Iannuzzi e del legale turco fino a domenica, quando a Del Grande viene detto che sarà liberato. "Non trattatemi con un eroe", chiede il giornalista. "A me è andata bene ma in Turchia ci sono 174 giornalisti in prigione. Io sono stato il numero 175. Faccio un appello ad Ankara perché liberi anche tutti gli altri". Detenuto in Venezuela, Luigi Federici spera di tornare in Italia a settembre di Roberto Damiani Il Resto del Carlino, 26 aprile 2017 "In carcere faccio il giardiniere, mangio perché la mia famiglia paga qualcuno per portarmi cibo" Il pesarese è stato arrestato nel 2015 per commercio clandestino di volatili, e condannato a sei anni. Due squilli, al terzo risponde una voce decisa: "Pronto, chi parla?". Sembra l’addetto di un centralino. Invece è Luigi Federici, 68 anni, pesarese, libero di rispondere al telefono dalla caserma militare di Maiquetia, a 20 chilometri da Caracas, Venezuela. Dove Federici è recluso dal 10 settembre 2015 per commercio clandestino di volatili. Ha già avuto la condanna a sei anni di reclusione dopo esser stato sorpreso in aeroporto a Caracas con 57 specie di uccellini amazzonici di razza non protetta comprati da un commerciante senza licenza. Luigi è stato arrestato seduta stante, attaccato con una catena ad un termosifone dell’aeroporto dove vi è rimasto due giorni. Poi la carcerazione in un caserma e il processo con una condanna a sei anni, pena che in Italia viene inflitta a rapinatori seriali, spacciatori internazionali e per tentati omicidi. "Adesso sono diventato ortolano e giardiniere - dice Federici - sto seminando una specie di fagiolo che si chiama Quinchocho, che viene alto almeno un metro e mezzo. Ma sono contento perché ho potuto darmi da fare ripulendo tutto il giardino e il terreno del perimetro della caserma. Fino al mio arrivo era colma di rifiuti di ogni tipo. Quando mi hanno detto di darmi da fare non mi sono tirato indietro. Ho ricavato l’orto che sta già cominciando a dare i frutti. Questa è una terra fertile. Un generale mi ha portato anche 4 semi di spinaci e 6 di bietole". Per Luigi il problema non è come occupare il tempo ma come affrontare i suoi problemi di salute: "Ho un’ernia inguinale che devo operare. E una gastrite che non mi dà tregua. Sono stato visitato da medici militari i quali mi hanno detto che l’ernia va operata. Io non so come affrontare questa situazione. Ho perso 16 chilogrammi, mangiamo ovviamente poco e per fortuna mi faccio portare tutti i giorni un pranzo da un residente del paese che riceve soldi dalla mia famiglia per comprare il cibo. Mi cucina pasta italiana e questo mi fa stare meglio. Ma a questo punto, dopo oltre un anno e mezzo di carcere, pur trattato bene, ma carcere, chiedo che i miei amici di Pesaro, i politici della mia città o i parlamentari si rivolgano direttamente al presidente Maduro chiedendo la mia scarcerazione per motivi di salute. Io temo che la mia situazione sanitaria qui dentro possa precipitare da un giorno all’altro. Non mi abbatto perché nel frattempo si sta muovendo qualcosa. Non voglio dirlo forte ma credo che a settembre prossimo mi possano dare il beneficio del lavoro comunitario. Cioè poter scontare in Italia il resto della pena lavorando magari due ore al giorno per la Caritas. Ne è convinto anche il Consolato". Ma per Federici la situazione del paese sudamericano dove si trova ora è sempre più difficile: "Ogni mattina alle 3 partono dalla mia caserma tante camionette piene di soldati per andare a presidiare le piazze e le strade di Caracas. Quello che mi colpisce è che qui la gente muore tutti i giorni per le manifestazioni. Ma i giornali e la tv ne parlano una volta, al massimo due, e poi non più. In Italia sarebbe l’argomento principale per mesi. Invece qui c’è come una rassegnazione. Muoiono le persone ma sembra non interessare a nessuno". Tamim, 3 anni, orfano dell’Isis, detenuto in un carcere della Libia di Francesco Battistini Corriere della Sera, 26 aprile 2017 "Salvare lui, e un’intera generazione". Tunisino, è stato portato da sua mamma e suo papà in un campo di addestramento dello Stato Islamico. Ora è in cella, "adottato" da un’altra miliziana del "Califfo". Il nonno - che aveva tentato di frenare la deriva estremista della figlia, madre del bimbo - vorrebbe riportarlo in libertà: "Non ha colpe, come crescerà in una cella?" Che compleanno sarà? Come tutti gli altri giorni: domenica prossima Tamim uscirà qualche minuto nel sole di Tripoli, andrà a giocare un po’ con un gruppo di bambini che abitano dietro la pista di Mitiga, poi le guardie lo riprenderanno per mano e lo rimetteranno dentro. In cella. Il 30 aprile, Tamim Jaboudi compirà tre anni: da più di uno, è detenuto nel carcere dell’aeroporto tripolino e nessuno sa quando, e se, verrà mai rilasciato. Tamim è un orfano dell’Isis. Mamma e papà, tunisini, sono morti nel febbraio dell’anno scorso quando gli americani hanno bombardato i campi d’addestramento dello Stato islamico a Sabratha, sul confine libico. Da allora il bambino è stato adottato dalla moglie di Noureddine Chouchan, uno dei terroristi dell’assalto al museo del Bardo di Tunisi, e poi è stato portato in galera con una ventina di donne del Califfato. Ancora oggi sta lì con loro, in Libia. E nessuno sa bene che farne. A Mitiga comandano le milizie e il debole governo di Fayez Al Serraj, sostenuto dall’Onu, fatica a controllare quella zona di Tripoli. Può fare poco. In un talk show alla tv tunisina, è stato lanciato un appello per la liberazione del bimbo. Il nonno materno, Faouzi Trabelsi , sta provando a riportarlo in patria ma non ha i documenti che servono, non riesce a fargli avere un passaporto, non trova mai chi possa mettere il timbro giusto e chi dia l’ok definitivo: "Ho potuto incontrare Tamim solo due volte in dodici mesi e gli ho portato un giaccone per la stagione fredda - racconta. È pulito e in buona forma, lo trattano bene. La cella è grande. Ma ha solo tre anni. Dovrebbe essere un bambino libero, non vivere in mezzo alle mogli dei terroristi. Se cresce in una prigione, che educazione riceverà? Come potrà comportarsi bene quando tornerà a casa?". Senza sorriso - Ci sono delle foto, un video. Tamim non sorride mai. Il nonno dice che la prima volta l’ha aspettato alla guardiola del carcere, ma il bambino non si voleva avvicinare. "Piano piano abbiamo fatto amicizia. Ho potuto portarlo per qualche ora fuori dalla prigione e farlo sedere un po’ con me, sulla macchina. Per quanto possa capire, almeno adesso sa che ha qualcuno". Non gli ha potuto mostrare neanche le immagini dei genitori: "Mia figlia Samah ha conosciuto e sposato in poche settimane un giovane che abitava vicino a casa nostra. S’è velata completamente ed è partita subito con lui per la Turchia. Portandosi dietro tutti i documenti e le foto di famiglia. Quando la sentivo al telefono, non mi diceva mai nulla di dove fosse, né di che cosa facesse. Il marito le aveva ordinato di non dare dettagli…". Tamim è nato forse in Siria, a Mosul; forse in Iraq, a Raqqa. "I suoi genitori sono tornati in Tunisia solo per qualche settimana, poi sono partiti per la Libia. E ci sono rimasti". Lo scaricabarile - È un imbuto diplomatico-burocratico a bloccare Tamim. I miliziani libici hanno spiegato a Trabelsi che loro rilascerebbero volentieri il bambino, ma prima devono ricevere un ordine del procuratore capo di Tripoli. E il procuratore deve avere una richiesta formale di Tunisi. E Tunisi deve ancora vincere le resistenze politiche, fortissime, di chi teme di riaprire le porte del Paese ai jihadisti e alle loro famiglie, bambini compresi. Dopo il caso Amri, l’autore della strage di Berlino che la Germania aveva inutilmente cercato di rispedire a casa, è esplosa la polemica sul ritorno di chi era andato a fare la guerra santa: molte le manifestazioni sull’avenue Burghiba, grande la paura che la Tunisia sia destabilizzata dal rimpatrio di migliaia di terroristi. La settimana scorsa una delegazione del governo tunisino s’è presentata a Mitiga per incontrare i detenuti disposti al ravvedimento, ma all’ultimo minuto l’appuntamento è stato cancellato. "Non è una colpa essere nati nel Califfato - promette Shafik Hajji, diplomatico incaricato del dossier -, una volta che la cittadinanza di queste persone sarà provata, potremo dare il via libera". I neonati (europei) dell’Isis - Tamim ha lo stesso destino di tanti suoi fratelli. Ci sono state almeno trentamila gravidanze nello Stato islamico, l’Isis ha fatto circolare anche video propagandistici del reparto neonatale dell’ospedale di Raqqa. Molti sono i figli dei foreign fighter: secondo i governi europei, si sa d’almeno 80 bambini con cittadinanza britannica, 450 con passaporto francese, 80 fra piccoli belgi e olandesi. A Misurata, sono 120 le donne e i bimbi detenuti. Ma queste sono cifre probabilmente per difetto. Nei giorni scorsi, dopo aver ripetuto per mesi che i suoi connazionali partiti per il jihad erano al massimo tremila, il ministro dell’Interno tunisino ha ammesso in Parlamento che alle frontiere sono stati bloccati 27.371 aspiranti martiri, proprio mentre stavano partendo: il 60 per cento in Siria e in Iraq, il 30 per cento in Libia, gli altri per l’Europa e "altri Paesi" (definizione, quest’ultima, che stando a un rapporto Usa comprende un po’ di tutto: perfino le Maldive, il secondo Paese al mondo per numero di foreign fighter, o la Giordania, il Libano, il Kosovo, la Bosnia…). L’Isis incentiva la formazione di famiglie pronte a tutto, com’è accaduto coi genitori di Tamim: per Al Baghdadi, a nove anni un figlio di combattenti è già pronto per essere addestrato alle missioni suicide. "È in arrivo una nuova generazione di figli dell’Isis - avverte Mohammed Iqbel, dell’associazione tunisina che si occupa dei jihadisti detenuti all’estero. Se non la salviamo in tempo, sarà una nuova generazione di terroristi". Salvare Tamim sarebbe già un primo passo: come sarà il suo quarto compleanno? Stati Uniti. Esecuzioni in Arkansas. Amnesty: "rischio catena della morte" Radio Vaticana, 26 aprile 2017 L’Arkansas, negli Stati Uniti, ha eseguito nelle ultime 24 ore due condanne a morte. Uccisi Marcel Williams e Jack Jones, entrambi, detenuti nella prigione di Cummins Unit. I due erano stati condannati a morte negli anni ‘90 per stupro e omicidio, anche se in circostanze differenti. Giovedì scorso c’era stata un’altra esecuzione, la prima delle otto programmate dallo Stato tra la metà e la fine di aprile, per evitare la scadenza dei farmaci necessari per l’iniezione letale. I vescovi statunitensi e la Santa Sede hanno più volte ribadito che "non si fa giustizia uccidendo". Massimiliano Menichetti ha intervistato Riccardo Noury portavoce di Amnesty International Italia. R. - È la conferma che l’Arkansas ha un’ostinazione feroce nel mantenere l’impegno che aveva preso, di mettere a morte il maggior numero di persone possibile prima che scadano i farmaci utilizzati per l’iniezione di veleno. E il rischio è che si prosegua questo nastro trasportatore della morte. D. - Per quanto riguarda il panorama degli Stati Uniti, le esecuzioni diminuiscono… R. - Sì, diminuiscono, anche se ci sono tanti ricorsi in attesa di essere giudicati riguardo proprio ai farmaci utilizzati nell’iniezione di veleno, all’origine delle forniture. C’è anche il rischio che si facciano dei veri e propri esperimenti su esseri umani. Potrebbe accadere anche che questo sia l’anno in cui segneremo un’inversione di tendenza per la pena capitale negli Usa. D. - Questo anche se sempre più Stati non applicano la pena di morte? R. - Negli Stati Uniti le esecuzioni vanno avanti e si restringe sempre di più il numero degli Stati che applicano la pena di morte: ormai è un fenomeno molto circoscritto a Texas, Georgia, Arkansas appunto... Però il numero delle esecuzioni nel 2016 è diminuito proprio perché molte erano state sospese per via di questi ricorsi sui farmaci utilizzati, sui protocolli e su altre questioni scientifiche, anche se il termine è un po’ improprio. E basta che un giudice dia il via libera, per la logica del precedente potrebbe essere ripristinata tutta una serie di esecuzioni sospese. D. - Che cosa si sta facendo e cosa bisognerebbe fare per bloccare ulteriormente questa piaga? R. - Appelli su appelli su appelli alle autorità dei Paesi in cui sono in corso esecuzioni: dobbiamo impedirle, e per questo sono necessari gli appelli alle autorità che hanno il potere di sospendere e annullare le esecuzioni. D. - Qual è oggi la situazione nel mondo per quanto riguarda la pena di morte? R. - Si potrebbe dire che è la pena di morte ad avere i minuti contati, anche se questa è una visione fin troppo ottimista, basata sul basso numero di Paesi - una ventina - che la applicano ancora. Il problema però è che ci sono migliaia di esecuzioni ogni anno: dalla Cina all’Iran al Pakistan; e quindi gli sforzi per fermare le esecuzioni vanno avanti ogni giorno. Romania. Corte di Strasburgo: 6 mesi di tempo per presentare riforma delle carceri liberties.eu, 26 aprile 2017 La Corte Europea dei Diritti Umani ha dato alla Romania 6 mesi di tempo per presentare un piano per risolvere le pessime condizioni e il sovraffollamento delle sue carceri. La Corte EDU ha anche multato la Romania per 17.850 euro con la sentenza Rezvimes et al. vs. Romania, per violazione dell’art. 3 della Cedu, che vieta i trattamenti inumani e degradanti. Il ricorso era stato presentato da 4 cittadini rumeni che denunciavano, tra le altre cose, il sovraffollamento, l’inadeguatezza delle strutture sanitarie, la scarsa qualità del cibo e la presenza di topi e insetti nelle celle. Stati Uniti. El Chapo denuncia le condizioni di detenzione nel carcere di New York Ansa, 26 aprile 2017 Niente ora d’aria all’aperto o contatti con altri detenuti. Il boss della droga El Chapo Guzman si lamenta della prigione di massima sicurezza dove è detenuto, nel cuore di Manhattan, a New York, denunciando le condizioni terribili del carcere. Come spiega il New York Times, le condizioni del 10 South sono molto dure: le celle vengono monitorate perennemente dalle telecamere e i prigionieri non possono mai uscire all’aperto per l’ora d’aria, che trascorrono in una piccola sala ricreativa con un tapis roulant, una cyclette, una televisione e una finestra con vista su Lower Manhattan. Molti non sono neppure autorizzati a parlare l’uno con l’altro, e raramente si trovano faccia a faccia. Da gennaio, quando è stato rinchiuso nel carcere, El Chapo protesta per le sue condizioni detentive. Inoltre, i suoi avvocati si sono lamentati in una serie di documenti presentati in tribunale che è bloccato nella sua cella per 23 ore al giorno, ad eccezione delle visite dei legali, e gli è stato negato qualsiasi contatto con la famiglia e con i media.