Per i detenuti prelievo del Dna, oltre a impronte e foto segnaletiche di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 aprile 2017 A breve sarà operativa la Banca Dati Nazionale e saranno accreditati 15 laboratori di riferimento. i profili genetici dei condannati e degli arrestati saranno custoditi per 30 anni, 40 per gli autori di reati gravi. cancellazione immediata per gli assolti. Entro il 2017 sarà operativa la Banca Dati Nazionale del Dna con il completamento delle procedure per l’accreditamento dei 15 laboratori di riferimento. Per fare ciò, tutti i laboratori dovranno rispondere a una checklist che prevede una serie di domande su metodologia e organizzazione del lavoro al fine di rendere più omogenee le procedure di lavoro. Andrea Lenzi, presidente del Comitato Nazionale per la Biosicurezza, le Biotecnologie e le Scienze della Vita, incaricato di rilasciare i nulla osta ai laboratori, di garantire che osservino le norme tecniche, nonché di fare verifiche e ispezioni, ha spiegato che entro maggio è previsto l’inizio delle visite ai laboratori da parte del collegio dei cinque genetisti che hanno parte del Comitato e che è presieduto dallo stesso Lenzi e da Giuseppe Novelli, dell’università di Roma Tor Vergata. Di volta in volta i genetisti si organizzeranno in gruppi di tre per visitare i laboratori e dare le autorizzazioni, che poi saranno rilasciate in via definitiva dal Comitato Nazionale per la Biosicurezza. Ad oggi è stato prelevato il Dna di 38mila persone. Tutti fermati e arrestati dopo convalida da parte del giudice. Circa 25mila prelievi sono stati effettuati dalla Polizia penitenziaria da soggetti che stavano uscendo dal carcere, mentre gli altri 13.000 sono stati effettuati da soggetti che si trovano tutt’ora in carcere. Il via libera al regolamento della nuova banca dati del dna, con la raccolta dei profili genetici delle persone detenute, è stato dato esattamente un anno fa. In realtà è un’attuazione della legge emanata nel 2009. Con notevole ritardo, la norma individua 5 categorie di persone il cui dna verrà custodito nella nuova banca dati presso il ministero dell’Interno: chi si trova in custodia cautelare in carcere o agli arresti domiciliari; chi viene arrestato in flagranza di reato o sottoposto a fermo di indiziato di delitto; i detenuti e gli internati per sentenza irrevocabile per un delitto non colposo; coloro ai quali è applicata una misura alternativa al carcere sempre per sentenza irrevocabile per un delitto non colposo; quelli che scontano una misura di sicurezza detentiva in via provvisoria o definitiva. I dati saranno a disposizione degli investigatori in Italia, ma potranno all’occorrenza anche essere scambiati con polizie di altre nazioni. Il controllo sulla banca dati nazionale del dna è esercitato dal Garante per la protezione dei dati personali, nei modi previsti dalla legge e dai regolamenti vigenti. Il Comitato nazionale per la biosicurezza, le biotecnologie e le scienze della vita (Cnbbsv) garantisce l’osservanza dei criteri e delle norme tecniche per il funzionamento del laboratorio centrale per la banca dati nazionale del dna ed esegue - dopo aver consultato il Garante per la protezione dei dati personali - verifiche presso il medesimo laboratorio centrale e i laboratori che lo alimentano, formulando suggerimenti circa i compiti svolti, le procedure adottate. Una volta a regime il sistema, i profili genetici accompagneranno le foto segnaletiche e le impronte digitali dei condannati. Il regolamento disciplina anche i tempi della conservazione del Dna. Trent’anni per il Dna degli arrestati e dei condannati. Per gli autori di reati gravi, come quelli di mafia e terrorismo, gli anni di conservazione salgono a 40. Stesso tempo anche per chi commette più volte lo stesso crimine, cioè i recidivi. Per chi invece viene assolto da un’accusa la cancellazione del Dna schedato è immediata. Il prelievo si applica sia ai maggiorenni che ai minorenni. Tutti, quindi, saranno schedati tranne chi ha commesso reati fallimentari, tributari, relativi a intermediazione finanziaria, per bancarotta fraudolenta e delitti colposi. Poi c’è il discorso sulla prova del dna utilizzata per condannare o scagionare un sospetto. In sede processuale, infatti, una simile informazione non rappresenta una prova, ma solo un indizio. La prova del Dna non è infallibile. Non è solo teoria: nel periodo 2001-2006, nel Regno Unito, le ricerche effettuate nelle banche dati di profili del dna davano, da dati ufficiali, un risultato ambiguo nel 27,6 per cento di casi e non erano mancati i casi di persone arrestate per sbaglio. Nemmeno la scienza è in grado di dare le risposte certe al cento per cento. Anziani in cella. Il ladro di biciclette muore nel carcere più affollato d’Italia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 aprile 2017 La memoria va al film di Vittorio De Sica, ma questa storia è, purtroppo, molto diversa da quella che ha avuto come protagonista un signore di 80 anni, morto domenica nel carcere romano di Regina Coeli. Nel film di De Sica il protagonista, derubato della sua bici, diventa per necessità ladro, ma viene subito beccato e si salva da un linciaggio grazie al pianto del figlio. Il detenuto morto a Regina Coeli era soprannominato il "ladro di biciclette", perché nel corso della sua vita ne aveva rubate migliaia. Ma sembra che non lo facesse per necessità: era affetto da cleptomania. Agiva soprattutto nel quartiere Prati e sembrerebbe che negli ultimi anni ne abbia rubate tantissime. Al punto da essere spesso detenuto a Regina Coeli. Malgrado il suo problema e la sua avanzata età, era recluso per scontare un residuo di pena di un anno. Sabato pomeriggio, mentre era nel reparto di medicina del carcere, accidentalmente è caduto, riportando delle gravi ferite. Trasportato in ospedale, le sue condizioni sono peggiorate e domenica mattina è morto. A darne notizia è stato il segretario generale aggiunto Cisl Fns, Massimo Costantino, che denuncia da tempo le condizioni di sovraffollamento del carcere romano dove sono reclusi 909 detenuti, ben 287 in più rispetto ai 622 previsti. Per il sindacalista "occorrono misure diverse per detenuti che hanno una certa età che, compatibilmente alla gravità del reato, dovrebbero espletare la loro pena in altre strutture e certo non penitenziarie". Il sindacalista, infine, aggiunge: "Occorre segnalare che persiste il sovraffollamento anche a livello regionale con 973 detenuti in più, considerato che 6.208 risultano essere i detenuti nei 14 Istituti del Lazio al 31 marzo 2017, rispetto a una capienza regolamentare di 5.235. Pur apprezzando le nuove normative in tema di esecuzione penale, istituendo il nuovo Dipartimento Giustizia Minorile e di Comunità, i risultati concreti tardano ad arrivare". La notizia della morte del detenuto ottantenne smentisce un luogo comune secondo il quale dopo una certa età non si vada più in carcere. Dai dati, messi a disposizione dal Dap, risulta che alla fine del 2016 i detenuti dai 60 anni in su sono pari a 4000. Di cui ben 715 hanno superato i settant’anni d’età. Sempre più anziani si danno al crimine, perché la necessità di superare le ristrettezze economiche può spingere a commettere reati. Secondo i dati recenti dell’Istat, la maggioranza degli anziani che vengono arrestati, sono coloro che hanno commesso reati minori come la detenzione degli stupefacenti o piccoli furti. Si arriva così a casi drammatici, al limiti del grottesco, come quello del pensionato genovese che, per arrotondare, si era ridotto a custodire un chilo di cocaina per conto di una gang di spacciatori albanesi. Oppure, l’anno scorso, il caso di un ottantaduenne arrestato per il furto di un film in dvd da 8 euro, commesso nel lontano 2008. Fu emessa una condanna per "rapina aggravata" perché aveva contestualmente strattonato una commessa, arrecandole lesioni guaribili in quattro giorni. Avrebbe potuto chiedere la sospensione della pena, ma se ne era dimenticato di farlo tramite l’avvocato. Altri sono i casi con protagonisti degli ottantenni incarcerati a distanza di anni per reati non gravi. L’ 81enne Emanuele Rubino di Genova, in dialisi e già vittima di un infarto, nel 2011 era stato condannato a 34 giorni di libertà vigilata per aver "insultato un vigile urbano" che lo aveva multato. Ma Rubino avrebbe violato la misura ed è stato perciò portato in carcere a febbraio scorso, dove però - grazie al tam tam via web dove è diventato simbolo di una ingiustizia - non ha trascorso tutti i 17 giorni mancanti e ai primi di marzo, per fortuna, è stato liberato. Altro caso, del quale Il Dubbio ne era più volte occupato, riguarda Stefanina Malu, una anziana di 83 anni che era reclusa nel carcere sardo di Uta per detenzione di droga. Aveva problemi fisici, non riusciva a deambulare e più volte era stata portata all’ospedale. Dopo anni, finalmente, le era stata data la detenzione domiciliare. Aveva fatto appena in tempo ad essere accudita dalla figlia, che si sentì male tanto da essere condotta, d’urgenza, con un’ambulanza in ospedale. Nonostante l’impegno del personale sanitario, l’anziana donna non ce l’ha fatta ed è morta. Spataro striglia l’Anm. "Toghe e politica oscurano i problemi veri" di Liana Milella La Repubblica, 25 aprile 2017 Toghe in politica? "Una questione trita e ritrita". Dice così il procuratore di Torino Armando Spataro, alle spalle una carriera in cui non manca affatto l’impegno nel Csm e nell’Anm. Ma stavolta Spataro ce l’ha proprio con il sindacato dei giudici. Quello presieduto ora da Eugenio Albamonte, "che per giunta è di Area", la stessa corrente di Spataro. Che succede tra Spataro e l’Anm? Accade che domenica, su molti quotidiani, Spataro legge la notizia che l’Anm discute di nuovo di toghe e politica. Nemmeno una citazione, invece, per una questione che sta particolarmente a cuore a lui, e a tutti i capi degli uffici - da Greco a Pignatone, da Creazzo a Lo Voi, solo per citare i procuratori più noti - quella dei magistrati onorari, oltre 5mila persone tra Got (giudici onorari di tribunale), Vpo (vice procuratori onorari) e giudici di pace che, per Spataro, garantiscono "un irrinunciabile e imprescindibile apporto alla giustizia". Senza di loro "saremmo costretti a chiudere la baracca". Che fa invece Albamonte? "Si dilunga con dichiarazioni rese un giorno sì e l’altro pure, in piena continuità di metodo, che personalmente non condivido, con il predecessore Davigo, sulla questione trita e ritrita dei magistrati in politica". Spataro scrive un lungo messaggio nelle mailing list delle toghe. Chiede a un collega di spedirlo perché lui ormai si è "cancellato da tutto", non potendone più di dibattiti inutili. La lettera è un’accorata difesa del lavoro dei giudici onorari e un attacco pesante all’Anm che invece, in un documento sul tema che peraltro non ha avuto alcuna risonanza mediatica, di fatto scarica le toghe onorarie perché "è escluso che possano essere stabilizzate" e ipotizza "un concorso pubblico per tutti" in cui l’unico vantaggio per chi già svolge questo lavoro - precario, pagato a prestazione, senza pensione, senza assistenza medica - potrebbe essere "un possibile punteggio aggiuntivo". La lettera di Spataro è una requisitoria contro l’Anm, a partire dalla "profonda delusione e amarezza" per le parole sulle toghe onorarie, "specie pensando al fatto che è presieduta ora da un collega di Area". Anm "capace di ignorare del tutto le richieste della quasi totalità dei procuratori italiani ad Orlando e Legnini", da loro condivise, nell’incontro del 15 febbraio. Anm "capace di trascurare i principi giuridici su cui la magistratura onoraria fonda la sua rivendicazione". Per chiudere un consiglio: "L’Anm onori quanti lavorano al nostro fianco da così tanto tempo e si batta per i diritti da loro acquisiti". In chiusura una nota amara: "Sarà difficile, forse impossibile, somatizzare questa delusione per le scelte dell’Anm". L’Anm "contro" la stabilizzazione dei giudici onorari di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 25 aprile 2017 Giudici onorari ai ferri corti con l’Anm. Quest’ultima, sabato nella riunione del comitato direttivo, ha approvato un parere, peraltro sollecitato dal ministro della Giustizia Andrea Orlando, che chiude le porte a qualsiasi ipotesi di stabilizzazione dei magistrati onorari ora in servizio. Adesso e in futuro, a legislazione vigente, naturalmente. Perché, si legge nel documento dell’Associazione nazionale magistrati, "è ostativo al reclutamento dei magistrati onorari in servizio l’assenza di un pubblico concorso, che è elemento qualificante della struttura dell’ordine giudiziario, a garanzia dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura togata, come disegnata dalla Costituzione (articoli 101, 104 e 106 Costituzione) e rigidamente interpretata dalla Corte costituzionale". Di più. Per l’Anm, anche allargando l’orizzonte a quanto stabilito, anche di recente in sede europea, le conclusioni sono le stesse. Infatti, osserva il parere, la giurisprudenza della Corte di giustizia europea è concorde nel ritenere che, anche se quando è riscontrato un abuso nell’utilizzo dei contratti a termine nel pubblico impiego (e potrebbe essere il caso dei magistrati onorari, il cui incarico, di proroga in proroga, è arrivato sino al 2017), la violazione non dà luogo a una conversione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato; piuttosto, semmai, può legittimare una richiesta di risarcimento del danno. Si tratta, chiosa Anm, di una ricaduta del vincolo costituzionale del concorso pubblico, per effetto del quale è introdotta una distinzione tra rapporto di lavoro pubblico e privato. In questo senso, ancora, ricorda Anm, milita poi la decisione del Comitato europeo dei diritti sociali presso il Consiglio d’Europa del 16 novembre scorso, che punta semmai il dito contro la discriminazione rispetto ai magistrati di ruolo sul versante delle tutele previdenziali e assistenziali, comprendendo in quest’area, ovviamente, il diritto alla pensione, alle ferie, e una ragionevole retribuzione in caso malattia e maternità. Argomentazioni soprattutto conclusioni che hanno fatto andare su tutte le furie le organizzazioni rappresentative dei magistrati onorari che, in una nota congiunta, dopo avare sottolineato che Anm accetta le iscrizioni dei magistrati onorari senza dare loro diritto di voto, contesta l’abbondanza di argomentazioni utilizzata e l’assenza invece di una riflessione sul recente parere del Consiglio di Stato (che pure ha dato conto dell’impossibilità di utilizzare i decreti delegati della riforma in discussione) che si è richiamato al precedente della legge 217 del 1974 come esempio utilizzabile dal legislatore per pensare a qualche forma di stabilizzazione. Quanto all’asserita assenza di un concorso pubblico, la nota della magistratura onorari mette invece in evidenza come un concorso pubblico in realtà è stato superato al momento dell’accesso e poi, in occasione dei diversi rinnovi dei mandati tutte le figure di toghe onorarie sono comunque soggette a una valutazione di professionalità e produttività. E poi, se Anm ha ricordato alcune pronunce o prese di posizione di organismi europei, la nota avverte che a breve potrebbe essere aperta una procedura di infrazione con conclusioni vincolanti per tutti gli organi giurisdizionali italiani. La palla sembra così tornare nel campo del ministero della Giustizia. Orlando, pochi giorni fa, rispondendo in Aula alla Camera a un question time, ha fatto presente che la volontà del Governo è quella comunque di procedere all’esercizio della delega sulla riforma, unica prospettiva di intervento complessivo, tenendo presente certo la "via stretta" segnalata dal Consiglio di Stato. Uffici giudiziari: al via mille assunzioni di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 25 aprile 2017 Ministero della Giustizia - Decreto 20 aprile 2017. Via libera del ministro della Giustizia Andrea Orlando all’assunzione di 1000 unità nel comparto amministrativo non dirigenziale per l’amministrazione giudiziaria. Il Guardasigilli ha firmato ieri il decreto che fissa criteri e priorità per il reclutamento previsto dalla legge di stabilità per il 2017. Le nuove assunzioni si aggiungono ad altre 1.000 già autorizzate e per le quali è stato avviato il concorso per 800 posti di assistenti giudiziari e alle assunzioni per scorrimento di graduatorie in corso di validità da altre amministrazioni per 200 posti: 115 assistenti giudiziari, 55 funzionari informatici e 30 funzionari contabili. Il decreto, firmato da Orlando e trasmesso al ministro Madia per il concerto, prevede per tutte le nuove assunzioni, comprese quelle del ministero della Giustizia, lo scorrimento delle graduatorie valide delle pubbliche amministrazioni. In particolare saranno assunti 600 assistenti giudiziari reclutati dalla graduatoria del concorso bandito il 22 novembre 2016. Sarà così possibile ampliare i posti per i nuovi assunti nella qualifica di assistente giudiziario del concorso di 1.400 unità entro fine anno. Le rimanenti assunzioni, riguardano 200 posti per funzionario giudiziario, 30 per funzionario informatico, 50 per funzionario contabile e ulteriori 120 sempre per assistente giudiziario. Il decreto indica anche i tempi del "reclutamento": entro il 31 maggio sono avviati gli scorrimenti per i 120 posti di assistenti giudiziari delle graduatorie individuate con i provvedimenti del 7 e 14 dicembre 2016; entro il 30 giugno al via gli scorrimenti per i funzionari informatici e contabili; entro 30 giorni dall’approvazione della graduatoria che si formerà dopo il concorso per 800 posti di assistente giudiziario, è previsto l’avvio dello scorrimento della medesima graduatoria (Gazzetta ufficiale del 22 novembre 2016 - 4° serie speciale, n. 92.). Andrea Orlando ha sottolineato in una nota come con questo decreto, al pari del precedente, si investa in maniera forte sull’ingresso di giovani professionalità e competenze tecniche con qualifiche fondamentali per il supporto organizzativo degli uffici. "Le assunzioni che si realizzeranno a seguito del decreto firmato ieri - ricorda inoltre Orlando - costituiscono anche un ulteriore impulso alle procedure di riqualificazione che stiamo definendo in questi mesi: l’assunzione di 200 funzionari giudiziari consentirà, infatti, di attingere immediatamente ad altri 200 posti destinati ai cancellieri risultati idonei in tale graduatoria, realizzando così subito la riqualificazione per circa 2 mila unità complessive in luogo delle 1.770 previste dai bandi del 19 settembre scorso". Le risorse finanziarie dal 2014 al 2019 per i reclutamenti di nuovo personale amministrativo sono utili per circa 5.100 unità. Rischia la violenza privata chi parcheggia sul posto dei disabili di Domenico Carola Il Sole 24 Ore, 25 aprile 2017 Corte di Cassazione - Sezione V - Sentenza 7 aprile 2017 n. 17794. La Corte di Cassazione con la sentenza n. 17794 del 7 aprile 2017 ha stabilito che lasciare l'auto in sosta su un parcheggio riservato ai disabili oltre che essere un gesto incivile e imperdonabile costituisce violazione di cui all'articolo 610 del codice penale "delitto di violenza privata". Il fatto - L'imputato aveva parcheggiato la propria autovettura in uno spazio riservato dal Comune appositamente a persona diversamente abile, impedendole così di utilizzarlo fino alla rimozione del mezzo. La norma violata, solitamente, è l'articolo 158 del Codice della strada ("divieto di fermata e sosta dei veicoli"), in particolare il comma secondo, che fra i molti luoghi in cui è vietata "la sosta di un veicolo" elenca anche gli "spazi riservati alla fermata o alla sosta dei veicoli per persone invalide di cui all'art. 188". La Corte di appello di Palermo confermava la sentenza del locale Tribunale che aveva ritenuto l'imputato colpevole del delitto di cui all'articolo 610 del codice penale, per avere parcheggiato la propria autovettura in uno spazio riservato ad una utente affetta da gravi patologie, così impedendole di utilizzarlo fino alla rimozione della sua autovettura. Il compendio probatorio si fonda sulle dichiarazioni dell'utente che aveva riferito di non avere potuto parcheggiare la propria autovettura nello spazio appositamente riservatole dal Comune perché occupata da un'altra vettura. Avverso la sentenza della Corte Territoriale veniva proposto ricorso per cassazione. La decisione della Corte - Gli Ermellini giudicano il ricorso infondato e lo rigettano. Dopo aver ricordato che l'articolo 158 del codice della strada, punisce con sanzione amministrativa, chi parcheggi il proprio veicolo negli spazi riservati alla fermata o alla sosta dei veicoli di persone invalide, ritengono che se quello spazio è riservato espressamente ad una determinata persona, per ragioni attinenti allo stato di salute, alla violazione del codice stradale si aggiunge l'impedimento al singolo cittadino a cui è riservato lo stallo. Sussiste pertanto l'elemento oggettivo del delitto di "violenza privata", di cui all'articolo 610 del codice penale. Fondamentale, per la Corte, anche l'elemento soggettivo, la consapevolezza dell'imputato, che pur avendo visto la segnaletica verticale e orizzontale che indicava come il posto fosse riservato a un singolo utente disabile, ha lasciato la sua auto in sosta per diverse ore. Continuano i giudici che quando lo spazio è espressamente riservato ad una determinata persona, per ragioni attinenti al suo stato di salute (come non si contesta essere avvenuto nel presente caso specifico), alla generica violazione della norma sulla circolazione stradale, secondo comma dell'articolo 158, si aggiunge l'impedimento al singolo cittadino a cui è riservato lo stallo di parcheggiare lì dove solo a lui è consentito lasciare il mezzo. Non punibile il tentativo di estorsione mediante minaccia ai danni del genitore di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 25 aprile 2017 Corte d'appello di Cagliari - Sezione II penale - Sentenza 9 febbraio 2017 n. 45. Il tentativo di estorsione commesso con minaccia in danno del genitore non è punibile in base all'articolo 649 comma 3 del codice penale. Ai sensi di tale disposizione, infatti, le ipotesi criminose che rimangono escluse dall'operatività della causa di non punibilità sono le fattispecie consumate di rapina, estorsione e sequestro e tutti gli altri delitti contro il patrimonio, anche se tentati, che siano commessi con violenza. Di conseguenza, la causa di non punibilità opera in riferimento a tutti i delitti tentati contro il patrimonio commessi con minaccia. A tale conclusione giunge la Corte d'appello di Cagliari con la sentenza 45/2017. La vicenda - Il caso sottoposto all'attenzione dei giudici sardi prende le mosse da una querela presentata da una anziana signora con la quale venivano denunciati alcuni comportamenti tenuti dal figlio nei suoi confronti, consistenti in minacce, sopraffazioni e continue richieste di denaro per soddisfare le più disparate esigenze. A seguito delle indagini, l'uomo veniva tratto a giudizio per rispondere dei reati di maltrattamento in famiglia e di tentata estorsione, venendo condannato in primo grado per entrambi i reati col vincolo della continuazione. Le motivazioni - La questione arriva così in appello dove la difesa dell'uomo fa leva sull'applicabilità dell'articolo 649 comma 3 c.p., che esclude la punibilità per qualsiasi delitto contro il patrimonio commesso con violenza sulle persone, da intendersi come sola violenza fisica, non anche quella psichica. E la Corte condivide l'assunto ritenendo non punibile nella fattispecie il reato di tentata estorsione perché commesso in danno di un congiunto con minaccia e non con violenza. Per i giudici, va richiamata la consolidata giurisprudenza secondo cui "il tentativo di estorsione commesso con minaccia in danno del genitore non è punibile ex art. 649, comma 3, c.p., in quanto le ipotesi criminose che rimangono escluse dall'operatività della disposizione concernono solamente, da un lato, i delitti consumati previsti dagli artt. 628, 629 e 630 c.p., e, dall'altro, tutti gli altri delitti contro il patrimonio, anche se tentati, che siano commessi con violenza; ne consegue che la causa di non punibilità opera con riguardo a tutti i delitti tentati contro il patrimonio commessi con minaccia". A ciò va altresì aggiunto che vanno ricondotte al novero delle minacce tutte quelle le attività di violenza psichica, come quelle del caso di specie, che si estrinsecano cioè in atti idonei a coartare la volontà della vittima. Attestato energetico fasullo: il venditore truffa l’acquirente di Giulio Benedetti Il Sole 24 Ore, 25 aprile 2017 Corte di cassazione - Sentenza n 16644-2017. La classificazione energetica degli edifici è ormai un elemento assai importante per determinare il valore degli immobili, al pari della posizione, della veduta, dello stato di manutenzione. Il prezzo degli immobili risente profondamente della normativa ambientale e il mancato adeguamento, che interessa anche il condominio, ne costituisce evidentemente un notevole disvalore. La questione non è soltanto di natura civilistica ma può integrare la astratta fattispecie del reato di truffa (articolo 640 del Codice penale) secondo quanto affermato dalla Cassazione penale con la sentenza n. 16644/2017. Il caso trattato riguardava l’assoluzione del venditore dall’accusa del reato di truffa per avere venduto un immobile con caratteristiche diverse da quelle dichiarate in relazione alla definizione della certificazione energetica. La Corte d’appello riteneva che il venditore fosse in buona fede poiché aveva riposto affidamento alle valutazione dei tecnici che attestavano la conformità delle opere al progetto approvato. Del tutto diversa è stata la valutazione della Corte di cassazione, che ha annullato la sentenza impugnata con rinvio al giudice civile competente in grado di appello. Nella sentenza si sostiene che la difformità tra i lavori eseguiti e la conseguente vendita dell’immobile con una classe energetica effettiva non corrispondente a quella dichiarata non poteva sfuggire al costruttore, dato che le opere effettuate risultano meno costose di quelle che avrebbero dovuto essere eseguite per rispettare i parametri energetici contenuti nel progetto. Quindi, afferma la Cassazione, poiché il risparmio di spesa conseguente alla esecuzione di opere non conformi a quelle progettate e che avrebbe garantito il rispetto della classe energetica era noto al venditore, è illogica la parte della sentenza che esclude l’elemento soggettivo della truffa esclusivamente sulla base dell’affidamento che l’imputato avrebbe fatto nella certificazione di conformità dei tecnici che avevano eseguito il collaudo. E deve essere massima la diligenza del venditore nella indicazione della classe energetica dell’immobile offerto in vendita, poiché tale qualità assume caratteristica essenziale per la sottoscrizione del contratto di acquisto. Il mero denunciante non è automaticamente anche persona offesa Il Sole 24 Ore, 25 aprile 2017 Indagini preliminari - Chiusura delle indagini - Richiesta di archiviazione - Mero denunciante non persona offesa dal reato - Inammissibilità - Assenza di legittimazione. Il soggetto che riveste la qualifica di "mero denunciante" del reato - senza esserne allo stesso tempo persona offesa - non è legittimato ad avanzare né la richiesta processuale di archiviazione delle indagini preliminari né tanto meno a proporre ricorso per Cassazione, dato che il mero denunciante non è titolare né contitolare dell'interesse giuridicamente tutelato dalla norma incriminatrice violata. Peraltro, non sussistendo in capo al soggetto denunciante lo status di persona offesa dal reato, si deve necessariamente concludere, in ultima istanza, che lo stesso non può aver subito alcun pregiudizio personale e concreto dalla fattispecie denunciata. • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 19 aprile 2017 n. 18905. Indagini preliminari - Chiusura delle indagini - Archiviazione - Richiesta del PM - Opposizione della persona offesa/mero denunciante - Falsa testimonianza - Persona offesa dal reato - Denunciante - Esclusione - Ragioni. Non è legittimato a proporre opposizione alla richiesta di archiviazione colui che ha presentato denunzia - querela per il delitto di falsa testimonianza, non essendo titolare o contitolare dell'interesse tutelato dalla norma incriminatrice. • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 10 novembre 2015 n. 45137. Archiviazione - Falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico - Reato a natura plurioffensiva - Assenza della qualità di P.O. da parte del ricorrente - Configurabilità in capo al ricorrente della qualifica di mero portatore di un interesse mediato privo di adeguata concretezza - Rigetto. I delitti contro la fede pubblica, per la loro natura pluri-offensiva tutelano direttamente, non solo l'interesse pubblico alla genuinità materiale e alla veridicità ideologica di determinati atti, ma anche quello del soggetto privato sulla cui sfera giuridica l'atto sia destinato a incidere concretamente, con la conseguenza che egli, in tal caso, riveste la qualità di persona offesa dal reato e, in quanto tale, è legittimato a proporre opposizione alla richiesta di archiviazione. Ciò posto, quando la condotta di "falso" presentata dal denunciante non si ritiene possa produrre un effetto immediato, diretto e concreto nella sua sfera giuridica (tanto da farlo assumere al rango di persona offesa dal reato) configurandosi piuttosto un mero interesse mediato, privo di adeguata concretezza nei suoi confronti, egli non può essere considerato persona offesa e dunque non può essere destinatario dell'avviso relativo alla richiesta di archiviazione del procedimento, sebbene richiesto. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 16 maggio 2016 n. 20111. Indagini preliminari - Chiusura delle indagini - Archiviazione - Richiesta del PM - Opposizione della persona offesa/mero denunciante - Falsa testimonianza - Persona offesa dal reato - Denunciante - Esclusione - Ragioni. Non è legittimato a proporre opposizione alla richiesta di archiviazione colui che ha presentato denunzia-querela per il delitto di falsa testimonianza, non essendo titolare o contitolare dell'interesse tutelato dalla norma incriminatrice. • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 10 novembre 2015 n. 45137. Reati contro la fede pubblica - Plurioffensività - Conseguenze - Richiesta di archiviazione - Opposizione della persona offesa - Legittimazione. In tema di oggettività giuridica nei delitti contro la fede pubblica deve riconoscersi, oltre a un'offesa alla fiducia collettiva in determinati atti, simboli o documenti - bene oggetto di primaria tutela - anche un'ulteriore attitudine offensiva degli atti stessi in riguardo alla concreta incidenza che esercita nella sfera giuridica del singolo privato, con la conseguenza che il soggetto denunciante-danneggiato è legittimato a proporre l'opposizione contro la richiesta di archiviazione del Pm, spettandogli i diritti e le facoltà previsti per la parte offesa. • Corte di cassazione, sezioni Unite, sentenza 18 dicembre 2007 n. 46982. La dolce Italia del 1948 la feroce Italia di oggi di Piero Sansonetti Il Dubbio, 25 aprile 2017 Piercamillo Davigo (classe 1950), Sebastiano Ardita (1966) e Marco Travaglio (1964) non erano ancora nati quando Vittorio De Sica mandò nella sale cinematografiche il suo capolavoro assoluto: Ladri di biciclette. La scena finale di quel film, secondo me, è la scena più bella tra le più belle scene di tutti i film del mondo. L’attacchino quarantenne, senza un soldo in tasca, che ruba una bici e scappa via, la folla che lo insegue, lo raggiunge, lo circonda, lo schiaffeggia, lo umilia, e il figlioletto di dieci che piange, grida papà, cerca di prenderlo per mano. Alla fine la vittima del furto guarda negli occhi il ladro, capisce, sussurra con un filo di voce: "lasciatelo andare, dai! Non voglio impicci". Il linciaggio si smonta, la sete di giustizia del popolo si acquieta, si disperde nelle stradine vicine a Ponte Milvio. Era il 1948, la guerra era finita da tre anni, l’Italia era poverissima. Ho detto di Davigo, Ardita e Travaglio perché l’altra sera ho dato un occhiata al loro libro, intitolato (senza molta ironia) "Giustizialisti". È un libro costruito su un unico lamento: in Italia non si riesce a mandare in galera nessuno, non perché i giudici non lavorino, non perché la polizia non funzioni, ma perché i politici - destra e sinistra uguali - fanno leggi lassiste, si inventano scappatoie, permessi, eccezioni, codicilli, e alla fine la fanno franca loro e con loro tutti i ladri. Francesco Cameriere non l’ha fatta franca. Nonostante le leggi, i codicilli. Nel 1948 lui era già nato e aveva 11 anni, proprio l’età di quel bambino che nel film di De Sica piangeva e tirava per la giacca il papà: Francesco era del 38, ottant’anni compiuti da poco. Sabato scorso ha perso l’equilibrio, nella sua cella del vecchio carcere di Roma, Regina Coeli, a via della Lungara, ed è caduto a terra. Ha battuto la testa. Lo hanno portato di corsa al San Camillo ma è morto. Il suo nome si aggiunge alla lista lunga dei detenuti morti in carcere. Francesco di mestiere faceva il ladro di biciclette. Era in carcere perché ladro di biciclette. E se negli anni di grande povertà che seguirono la fine della guerra, rubare una bicicletta - nel "senso comune" - era un reato che si poteva perdonare, oggi, anche se siamo molto più ricchi, la parola perdono è stata abolita. Nel 1948 il ladro di biciclette se la cavava, oggi va in cella. E sebbene esista una norma che prevede la non detenzione in carcere per i condannati per reati lievi che abbiano compiuto i 70 anni, nel caso di Cameriere non c’è stato niente da fare. Travaglio- Davigo-Ardita sostengono che la norma è automatica, che il giudice è obbligato ad applicarla (e per questo si scandalizzano, e invocano rigore e cultura asburgica), ma non dicono la verità: la norma prevede che sia il magistrato di sorveglianza a decidere se tenere in carcere o applicare le misure alternative, e prevede che il magistrato possa decidere in piena libertà. Francesco non è stato fortunato: gli è toccato un magistrato di sorveglianza poco incline a misure liberali, che lo ha sbattuto dentro. Volete sapere chi era Francesco Cameriere? Dicono che fosse un cleptomane. Cioè che quella di rubare, per lui, fosse una malattia. Non so se è vero. E non mi pare che questa circostanza possa cambiare molto le cose. Un cleptomane va tenuto in cella? Però risulta anche che Francesco viveva con una pensione che gli veniva pagata dall’Inps nella misura di 280 euro ogni mese. Magari esagero, però ho l’impressione che se hai 80 anni e disponi solo di una pensione di 280 auro al mese, è più facile che diventi cleptomane. I dati forniti dal Dap, e cioè il Dipartimento del ministero che si occupa di detenzione, (dati che probabilmente non sono stati forniti a Travaglio-Davigo-Ardita) dicono che nelle prigioni italiane esiste un numero di detenuti anziani (oltre i 60 anni) pari a 4.000, che vuol dire quasi il dieci per cento dell’intera popolazione carceraria. E di questi 4000, ben 715 hanno più di settant’anni, e dunque a rigor di legge non dovrebbero stare in cella. Non si sa nulla, invece degli ultraottantenni, perché forse i sociologi chiamati a realizzare la statistica non immaginavano la possibilità che qualche ultraottantenne fosse recluso. Ora lo sanno anche loro. Comunque, tranquilli: da domenica ce n’è uno in meno. Le Resistenze dentro e la profondità del mondo di Angelo Ferracuti Il Manifesto, 25 aprile 2017 Ho sempre pensato che di partigiani e di Resistenze ce ne sono stati molti nelle tante geografie e ambienti, contadini e urbani, così come sono stato sempre dell’idea che quando la Storia accelera, lo spazio individuale delle scelte si riduce. Quello del destino stringe a un feroce faccia a faccia con se stessi. C’è stata la Resistenza eroica e ufficiale, quella politica, militare e organizzata, ma anche una minore fatta dai molti, non meno necessaria, di chi si è dato per generosità un coraggio che forse anche un minuto prima non sapeva di possedere, e quel coraggio l’ha pagato con la propria vita o salvandone un’altra. Pensando oggi 25 Aprile a quella generazione di cittadini combattenti sembra irrepetibile, come quell’epica lontanissima e lirica dei libri di Beppe Fenoglio che ha raccontato la lotta partigiana in alcuni romanzi formidabili come "Una questione privata", dove storia individuale e Storia collettiva diventano una cosa. Ecco, insieme con quella pubblica, eroica (e retorica), è esistita ed esiste anche una Resistenza privata. Questo si ripete sempre a ogni scontro epocale tra civiltà e barbarie, che è quotidiana, nel Nord e nel Sud del mondo, in un autobus affollato o in un treno per un insulto razzista, in una fabbrica quando le leggi del profitto mettono i lavoratori uno contro l’altro e si diventa piccoli kapò pronti a tutto pur di mantenere un privilegio consumistico; nelle scuole votate al marketing, negli ospedali indirizzati al business etico, laddove si diventa complici del pensiero unico. Questo conflitto lo stiamo vivendo anche adesso, diverso e in parte sommerso, ma con le stesse lacerazioni umane, prima che sociali e politiche. Lo stiamo vivendo con distanza di valori da allora, una frattura dolorosa tra una forte esperienza del mondo e un sogno di trasformazione e il reality show dell’eterno presente dove "sembra scomparsa la profondità del mondo", per dirla con le parole di Paolo Volponi. La nostra Resistenza civile è forse minoritaria, ma c’è. Tacere, non fare quella scelta, significa ancora abdicare al proprio dovere di esseri umani, permettere una violenza, un’ingiustizia, diventare indifferenti di fronte a una sopraffazione tra forti e deboli, soprattutto rispetto ai popoli migranti, due volte vittime di un capitalismo selvaggio che sottomette globalmente e respinge localmente. Come allora, anche oggi una parte maggioritaria del nostro paese, minacciata dalla crisi, anestetizzata dal pensiero debole, orfana della politica, sta cedendo alle lusinghe di un’indifferenza che è diventata ideologia forte, poetica del social solo, narcisismo di massa e preludio a una nuova barbarie, se ci pensiamo bene già in corso da tempo. La Resistenza privata, prima ancora di quella collettiva, non ha bisogno di grandi esibizioni, basta essere fino in fondo cittadini, ci sono persone civili che la esercitano quasi senza rendersene conto, altri devono fare uno sforzo maggiore perché disabituati a prendere la parola. Sì, perché la Resistenza è fatta anche di nuove parole, la lotta avviene anche e soprattutto nel lessico, nel rimettere in circolo certi vocaboli civili, e anche nel fare con passione un racconto diverso, onesto della realtà, e praticare un pensiero sovversivo cercando di riportare in luce ciò che l’informazione asservita alle logiche dell’inserzionista, e la cattiva cinematografia, trasformano in accattivante, anestetizzante e odiosa fiction. Questo dobbiamo e possiamo fare ogni giorno e per tutti i giorni dell’anno. Milano: il Garante dei detenuti incontra a Opera il boss malato di tumore di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 aprile 2017 Vincenzo Stranieri ha un tumore alla laringe, viene nutrito con un sondino collegato allo stomaco. Dovrebbe scontare due anni in una Colonia penale agricola, ma è considerato pericoloso. Mauro Palma ha visitato anche il carcere di San Vittore. Mauro Palma, il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute, ha visitato le sezioni 41 bis del carcere milanese di Opera e ha incontrato, nella sezione sanitaria, Vincenzo Stranieri per verificare le sue precarie condizioni di salute e completo isolamento denunciato da tempo dalla figlia. Il risultato della visita sarà oggetto di un rapporto che il garante invierà al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Stranieri ha un tumore alla laringe e i 24 anni di 41 bis gli hanno causato gravi problemi di tipo psichiatrico. La sua pena teoricamente sarebbe dovuta finire il 16 maggio del 2016, ma gli restano ancora da espiare due anni di misura di sicurezza in una colonia penale agricola. Secondo la Direzione nazionale antimafia, però, è ancora pericoloso. Quindi il ministero della Giustizia, seguendo le indicazioni della dna, gli ha prorogato di fatto il 41 bis trasformando la colonia penale in "casa lavoro" nella sezione del regime duro del carcere de L’Aquila. Nell’Istituto abruzzese però il lavoro non c’è per gli internati, come denunciato anche dalla radicale Rita Bernardini che a luglio scorso si rivolse al capo del Dap Santi Consolo proprio per porre rimedio alla situazione. Aggravatesi le condizioni di salute Stranieri viene dunque trasferito nella struttura protetta di Milano "Santi Paolo e Carlo" per ricevere le cure adeguate e dove ha subìto un secondo intervento chirurgico. Ora si trova nel carcere di Opera in completo isolamento con un sondino direttamente collegato allo stomaco per farlo nutrire. Aveva 24 anni quando fu arrestato nel lontano giugno del 1984 per aver fatto parte del sequestro di Annamaria Fusco, la giovane maestra figlia dell’imprenditore del vino Antonio Fusco rimasta per sei mesi nelle mani della sacra corona unita, prima di essere liberata dopo un lauto riscatto. Stranieri infatti era stato il numero due della Sacra corona unita, la cosiddetta quarta mafia. "Me lo hanno tenuto lontano per 32 anni - dice Anna Stranieri, la figlia che non ha mai smesso di lottare per i suoi diritti - ed ora che ha pagato i suoi errori lo Stato si accanisce e non si ferma neanche davanti al tumore; ormai è chiaro che gli vogliono far fare la fine di Provenzano". Roma: inchiesta sulla morte in carcere dell’ottantenne "ladro di biciclette" di Giulio De Santis Corriere della Sera, 25 aprile 2017 La procura ipotizza il reato di omicidio colposo: Francesco Cameriere stava camminando in un corridoio quando è stato colto da malore sbattendo la testa per terra. Doveva essere sorvegliato da vicino per le sue condizioni di salute. Sulla scomparsa tragica del "ladro di biciclette", morto in carcere dopo un colpo in testa in seguito a una caduta, la procura ha aperto un’inchiesta con l’ipotesi di omicidio colposo. Francesco Cameriere, 80 anni, una vita passata a rubare due ruote e detenuto a Regina Coeli dal 2015 per un cumulo di pene, stava camminando lungo i corridoi del carcere quando è stato colto da un malore improvviso e scivolando in terra ha sbattuto la fronte. Un impatto mortale che, dalle relazioni della penitenziaria, sarebbe stato causato dall’età che aveva indebolito le gambe. Tuttavia il pm Alessandro Di Taranto ha disposto l’autopsia per verificare se il trattamento sanitario cui era sottoposto il ladro di biciclette negli ultimi mesi fosse adeguato. Al vaglio degli inquirenti c’è anche la sorveglianza con cui doveva essere seguito passo dopo passo Cameriere, il cui fisico era da tempo debilitato. Tra gli accertamenti decisi dal pm anche una verifica dei passaggi processuali che avevano imposto la detenzione in carcere dell’indagato, un signore di 80anni in condizioni di salute debilitate. In passato Cameriere era stato seguito dall’avvocato Simona Tranquilli che aveva fatto più volte istanza per la scarcerazione, ma senza ottenere risultati. A febbraio - secondo quanto risulta al pm - Cameriere aveva tentato di scrivere un’istanza scarcerazione al tribunale di sorveglianza ma la richiesta, però, sarebbe rimasta inevasa perché non c’era un domicilio idoneo ad accoglierlo. La gravità dell’incidente, avvenuto sabato pomeriggio, è apparsa subito chiara ai secondini. Le guardie hanno chiamato un ambulanza per il trasferimento dell’uomo presso l’ospedale San Camillo, dopo un breve passaggio al Santo Spirito dove però non c’era posto. Sondrio: una comunità nell’ex carcere di Tirano di Aldo Bonomi Vita, 25 aprile 2017 La parabola emblematica dell’Associazione "Il Gabbiano", raccontata da uno dei suoi sostenitori storici. Così a Tirano, in Valtellina, in 30 anni recupero di tossicodipendenti e ora accoglienza nello Sprar sono diventati fattori condivisi e integrati nel contesto. Ci sono numeri che rimbombano nell’orecchio sociale sensibile ai rumori che fanno paura: la povertà in aumento e il susseguirsi di sbarchi dei profughi. Rimandano e alimentano il timore di precipitare in povertà e la sindrome da invasione. Numeri che lascio sullo sfondo, a costo di dar ragione a chi vede nei miei microcosmi un insistere speranzoso, da "strano ma vero" sulla capacità delle società locali di metabolizzare le metamorfosi socioeconomiche. Mi pare emblematica a proposito di paure una storia locale dove un ex carcere dismesso è diventato una comunità terapeutica per persone con problemi di tossicodipendenza ed una casa alloggio ad alta intensità sanitaria per donne e uomini malati di Aids, e un piccolo tribunale di provincia dismesso è oggi uno Sprar per i profughi. Strano ma vero, due luoghi emblematici della statualità, il primo del "sorvegliare e punire" che diventa "curare per includere" e il secondo del giudicare che si fa luogo per accogliere. È stato un processo lungo di confronto tra comunità di cura e comunità locale ciò che appare strano ma vero. Tirano, borgo alpino di confine tra Valtellina ed Engadina noto perché da lì parte il trenino rosso del Bernina verso Sankt Moritz meta di ben altri flussi. Qui nel 1994, in piazza della Basilica, luogo di culto mariano lì sul confine con l’Europa della riforma protestante, l’ordine religioso dei Servi di Maria affidò una parte del convento in comodato d’uso gratuito alla comunità di recupero Il Gabbiano. Che portò nella piazza del borgo figure interroganti della "società dello scarto" per dirla con Bauman in sociologhese, tema spesso richiamato da Papa Francesco. Non senza problemi con la comunità locale che con petizioni e raccolte di firme tendeva a rinserrarsi, a farsi "comunità del rancore" che ci prende quando abbiamo paura di essere contaminati e scatta il meccanismo communitas-immunitas come titola un libro del filosofo Roberto Esposito. Mai come in questi casi occorre mettersi in mezzo. O per dirla tecnicamente, un mediatore culturale tra la comunità di cura e la comunità impaurita. Funzione esercitata dal convento e dalla figura storica di Camillo De Piaz, tiranese e fondatore a Milano con Davide Maria Turoldo della Corsia dei Servi. Per dirla con il Cardinale Martini egli si mise in mezzo con un "cristianesimo di minoranza" tant’è che oggi Camillo, Davide e il Cardinale Martini sono rappresentati in una targa posta nel piazzale della Comunità. Che per decisione del Comune sarà spostata nella piazza della Basilica. Annuncio fatto dal Sindaco nella giornata in cui quindici giorni fa si è inaugurato con un convegno pubblico il trasferimento della Comunità di recupero dal Convento all’ex carcere ristrutturato. Quasi a sancire l’essere in comune, in Comune, che è il luogo istituzionale ove si rappresenta la comunità locale, e il giornale locale ha titolato, "Il Gabbiano ora è parte di Tirano" quasi a sancire l’incontro delle due comunità. Il microcosmo potrebbe finire qui, un racconto che ci fa dire che in questi tempi di crisi, paure, ed incertezze il fare comunità di cura nel riconoscere e riconoscersi aiuta a fare città e a fare società. Altre due parole chiave hanno caratterizzato la giornata welfare ed inclusione. I tempi di crisi del welfare, nazionale e locale, fanno del Comune e del Sindaco attori a scarsità di risorse a cui rimane in mano il cerino del disagio sociale. Ai Sindaci il Ministero dell’Interno chiede di mobilitarsi per l’accoglienza dei profughi. L’alleanza tra Comunità e Sindaco ha reso possibile far diventare l’ex Tribunale uno Sprar. La ristrutturazione dell’ex carcere non sarebbe stata possibile senza l’intervento della Fondazione Cariplo, il che induce a riflettere a fronte della scarsità delle risorse pubbliche, del rapporto necessario per realizzare un welfare di comunità, tra la comunità di cura e la comunità operosa. Così definisco il rapporto tra volontariato, associazionismo, impresa sociale e la dimensione economica necessaria per operare. Il che apre non pochi problemi nel mondo della cura sul rapporto con il mercato e le esternalizzazioni delle risorse scarse del welfare. Questi interventi non rimandano ad una filantropia caritatevole, ma ad un’azione da comunità operosa sostanziata nel caso della Fondazione Cariplo da una strategia voluta dal suo Presidente Guzzetti di costituire territorialmente Fondazioni di Comunità, che avendo radici e sensori sul territorio sono, con il mondo istituzionale e la comunità di cura, gli artefici di un welfare community sempre più necessario a fronte della scarsità delle risorse pubbliche e dell’urgenza drammatica di un sociale sempre più sotto stress. La finalità di questa alleanza tra cura ed operosità serve non solo a ristrutturare luoghi e spazi ma anche a ricordare a tutti che la cura del disagio sociale, così come l’accoglienza dei profughi, deve avere come scopo ultimo l’inclusione e porsi il problema del re-immettere nel ciclo del lavoro e dell’operosità coloro che temporaneamente vanno riconosciuti come soggetti "da curare o accogliere per includere". Questa piccola storia locale ci insegna in primo luogo che occorre tempo per sciogliere il grumo communitas-immunitas che alimenta le paure delle comunità locali sensibili ai rumori che fanno paura prima citati. Che il rancore, si scioglie solo con la mobilitazione di una pluralità di attori sociali, dal mediatore culturale Padre Camillo sino al Sindaco che accompagna l’evoluzione della comunità e ultimo ma non ultimo, le risorse necessarie per ridisegnare un welfare di comunità. A fronte della crisi del welfare la parola magica sembra essere sussidiarietà. Occorre capire sussidiarietà dall’alto verso il basso o sussidiarietà orizzontale? Dallo Stato ai Comuni alla Caritas alle imprese sociali o sussidiarietà orizzontale che prevede una dimensione del tempo lunga per rendere visibile gli invisibili, una mediazione culturale che si mette in mezzo, un Sindaco che accompagna società locale ed istituzioni operose, ed infine un rapporto con la comunità operosa ed economica che agisce localmente. Il microcosmo di Tirano questo insegna. Migranti. Quando essere umani è un reato di Luigi Manconi Il Manifesto, 25 aprile 2017 Estate 2016. Ventimiglia, estremo occidente della costa ligure: centinaia di migranti sostano al confine tra Italia e Francia. Cercano di varcarlo, per continuare il loro viaggio, ma l’Europa ha chiuso loro quella porta. Il campo della Croce rossa italiana non riesce più ad accogliere tutti, prendono forma campi di fortuna, allestiti da organizzazioni umanitarie, dove volontari prestano aiuto e assistenza. Félix Croft, europeo di cittadinanza francese, è uno di questi. Di fronte a una simile mobilitazione il sindaco, per motivi di "igiene e decoro", emette un’ordinanza (di recente provvidenzialmente revocata) che vieta la distribuzione di cibo e bevande ai migranti. Ora, mentre una nuova estate di sbarchi si avvicina, Félix Croft aspetta di sapere del suo futuro. Il 27 aprile sapremo se sarà condannato: la procura del Tribunale di Imperia ha chiesto per lui una pena di 3 anni e 4 mesi di reclusione per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, oltre a una multa di 50 mila euro. Questo il suo racconto: "Il 22 luglio, parlando con alcuni profughi e volontari del campo, sono venuto a conoscenza della storia particolarmente dolorosa di una famiglia sudanese con due bimbi di 2 e 5 anni, proveniente dal Darfur; insieme ad un’amica psicologa sono andato a trovarli nella chiesa dove avevano trovato un alloggio provvisorio, per verificare i loro bisogni e le necessità più urgenti. Mi sono trovato di fronte a una situazione che mi ha colpito nel profondo: la donna, incinta di 6 mesi, era duramente provata, uno dei bambini aveva ancora su un fianco gli esiti di una profonda ustione, per non parlare del racconto tragico del loro viaggio e della distruzione del loro villaggio, dato alle fiamme. Si trovavano lì bloccati, senza vie d’uscita. Impossibile per loro camminare lungo l’autostrada, rischiando la morte con i bambini, o peggio prendere un treno, viste le continue perquisizioni sui convogli che passavano la frontiera; non avevano denaro per pagarsi un passeur per tentare di raggiungere la Germania dove avevano dei parenti. Più volte la giovane madre mi ha chiesto aiuto, quasi implorandomi di portarli via con me. Pensavo di ospitarli da me, a Nizza, di farli riposare, per poi affidarli a un’associazione umanitaria che si sarebbe occupata di aiutarli concretamente, di trovargli una sistemazione. Siamo stati fermati al casello autostradale di Ventimiglia, io sono stato arrestato - anche se i carabinieri hanno verificato che non avevo denaro addosso - la famiglia presa in carico dalla Caritas. Dopo tre giorni in prigione, mi è stata concessa la libertà provvisoria, in attesa di essere giudicato per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina". Laura Martinelli, Ersilia Ferrante e Gianluca Vitale - gli avvocati che difendono Félix Croft - hanno obiettato all’impianto accusatorio chiedendo l’applicazione della clausola che consente l’eccezione alla fattispecie di reato di favoreggiamento quando esso sia stato prestato per motivi umanitari. Ne hanno chiesto pertanto l’assoluzione, essendo stato - quello dell’accusato - un gesto di solidarietà e umanità. D’altro canto, proprio in Francia simili casi giudiziari hanno esito diverso. Cédric Herrou, agricoltore della Val Roja, è stato condannato dal Tribunale di Nizza a una multa di 3000 euro con il beneficio della condizionale (la procura nel suo caso aveva chiesto 8 mesi di carcere, sempre con la condizionale) per aver favorito l’ingresso in Francia di 200 migranti privi di documenti. E il 19 maggio conosceremo la sentenza nel caso della giovane attivista italiana Francesca Peirotti, a processo il 4 aprile sempre a Nizza. Il procuratore ha chiesto per lei una condanna a 8 mesi con la condizionale e 2 anni di interdizione dal territorio francese per "aver favorito l’ingresso irregolare di otto migranti". Questi fatti, che sembrano rispondere a un’unica logica, vanno seguiti con la massima attenzione: rivelano la tendenza a ritornare a una fase pre-moderna del diritto, quando si perseguivano le "colpe d’autore" e diventava materia di sanzione penale la condizione esistenziale. E, con i vagabondi e i sovversivi e gli esuli, veniva processato chi dava loro soccorso. Perché difendo le Ong che salvano i migranti di Roberto Saviano La Repubblica, 25 aprile 2017 Dalle leggi travisate alla parola taxi citata a sproposito: solo bugie sulle navi, così la solidarietà diventa un reato. Per capire bisogna prendersi del tempo. Per capire bisogna leggere le fonti e verificarle. La tristissima vicenda che riguarda la polemica del Movimento 5 Stelle sulle Ong che nel Mediterraneo si occupano di soccorrere i migranti mostra come, a partire da Beppe Grillo per finire con il vicepresidente della Camera Luigi Di Maio, i 5Stelle parlino su questo argomento per sentito dire, riportando affermazioni senza verificarle, dandole per vere e proponendo interrogazioni parlamentari che hanno il sapore di strumento di propaganda fine a se stessa. Luigi Di Maio dichiara: "Definire taxi le imbarcazioni delle Ong non è un mio copyright. Prima di me, e a ragione, lo ha detto l'agenzia dell'Ue Frontex nel suo rapporto Risk analysis 2017". Basterebbe leggerlo davvero il rapporto (leggi in pdf) per verificare che non paragona mai, in nessun punto, le imbarcazioni delle Ong che si occupano di search and rescue nel Mediterraneo a taxi, e non lo fa perché sarebbe scorretto, e non lo fa perché "taxi" significa lusso, significa comodità. E comodità e lusso sono parole che con le storie di chi attraversa il Mediterraneo per raggiungere l’Europa non c’entrano nulla. E allora, se la parola taxi non si trova nel rapporto Frontex - anche se Di Maio dice di aver letto il rapporto ed è convinto che vi sia la parola "taxi" - chi l’ha pronunciata per primo? Nemmeno il Procuratore della Repubblica di Catania, Carmelo Zuccaro, che Di Maio indica come altra sua fonte. Ma vale la pena analizzarle le parole di Zuccaro, perché sono comunque la fonte primaria della comunicazione che sull’argomento hanno fatto il Movimento5Stelle e Luigi Di Maio. La procura di Catania viene infatti citata in un articolo pubblicato sul blog di Grillo e trattato come fosse un documento dirimente sull’argomento, quasi pietra miliare. Carmelo Zuccaro in un’intervista dice testualmente: "Tra il settembre e l’ottobre 2015 nascono numerose Ong. Cinque tedesche, una spagnola e una maltese, che quindi nascono dal nulla e che dimostrano di avere subito disponibilità di denari per il noleggio delle navi, per l’acquisto di droni ad alta tecnologia e per la gestione delle missioni, che sembra molto strano che possano aver acquisito senza avere un ritorno economico". Quindi la domanda che la procura di Catania si pone è: chi paga le missioni? Il Procuratore apre un fascicolo conoscitivo, senza indagati né capi di accusa, su sette Ong che, con tredici navi, salvano migranti nel Mediterraneo. Le Ong rivendicano la trasparenza dei loro bilanci che si basano su finanziamenti privati e infatti Zuccaro non ha alcuna certezza che le missioni umanitarie nel Mediterraneo siano in realtà dei "taxi per migranti" e parla di "sospetto" e ribadisce di "un mero sospetto", se non fosse ancora abbastanza chiaro. Un mero sospetto che nelle dichiarazioni del Movimento 5 Stelle e di Di Maio diventa una quasi certezza, lanciata come sempre in pasto ai social, dove si sa, l’approfondimento non è di casa. Dove ci si affida al pensiero di terzi perché il proprio vi si adegui. Ma quello che mi ha colpito delle dichiarazioni di Zuccaro è la riflessione sul pericolo che corre l’Italia ad accogliere migranti in maniera incontrollata. Ed è proprio qui che si collega l’articolo pubblicato sul blog di Beppe Grillo dal titolo: "Più di 8mila sbarchi in 3 giorni: l’oscuro ruolo delle Ong private". Dove si fermano le ipotesi della procura di Catania, arrivano le certezze dei Cinque Stelle, dove la procura di Catania non si inoltra per mancanza di prove, lo fanno Grillo e Di Maio: le Ong, prima di qualsiasi indagine o processo, sarebbero "colpevoli" di portare migranti in Italia. Ma perché in Italia? Perché non nei porti fisicamente più vicini? Semplice: perché l’Italia è il porto più sicuro, perché chi fugge dalla Libia o dalla Tunisia non può tornare in Libia o in Tunisia. Intanto perché la Libia non ha ratificato la Convenzione di Ginevra sui Rifugiati e poi "nei soccorsi in mare", come riporta Annalisa Camilli in un fondamentale articolo sul tema, "viene applicata la convenzione di Amburgo del 1979". "Porto sicuro" non è infatti semplicemente un luogo che sia terraferma, ma sicuro anche e soprattutto per la garanzia dei diritti delle persone che si trovano in mare. Perché se è illegale favorire l’immigrazione clandestina è altrettanto illegale non prestare soccorso in mare. Spesso poi si fa riferimento alla distanza tra le imbarcazioni delle Ong che effettuano salvataggi in mare e la costa, come a insinuare questo dubbio: "Perché quelle navi si trovavano così vicino alle coste? Perché a 12 miglia?". Si omette però di dire che è lecito avvicinarsi fino a 12 miglia nautiche se serve per salvare vite umane. Medici Senza Frontiere, per esempio, nel 2016 in cinque occasioni ha prestato soccorso a circa 11.5 miglia dalla costa dopo aver avuto l’ok delle autorità libiche. Le Ong agiscono dove altri non arrivano e mai senza il via libera delle autorità competenti. Ma veniamo all’articolo che è stato la base teorica per i post di Di Maio. Se è vero, come è vero, che le prime righe di un testo contengono il messaggio che si vuole veicolare, ecco il messaggio che il blog di Beppe Grillo vuol farci arrivare: "Negli ultimi giorni l'Italia ha registrato un record di sbarchi senza precedenti. In poco più di 72 ore circa 8mila migranti sono approdati in Sicilia dopo una lunga traversata in mare". Ergo: il problema sono gli arrivi. E poi, dato che come è noto, nessuno di noi ha tempo da perdere per leggere ed approfondire, l’articolo ci rende la vita facile e mette alcune frasi chiave in evidenza cosicché quello che ci troviamo davanti è un articoletto di poche righe, che facilmente ci resteranno impresse. Eccole: "Con l'aumento degli sbarchi aumenta ovviamente anche la spesa interna dell'Italia." "È la solita solfa, con un'Europa che ci è totalmente estranea e indifferente". "Ma c'è un nuovo capitolo che sta emergendo in queste ore e che merita attenzione". Qui vale la pena riportare l’intero paragrafo perché aggiunge liberamente informazioni alle dichiarazioni ipotetiche della Procura di Catania: "Parliamo di circa una dozzina di Ong tedesche, francesi, spagnole, olandesi, e molte di queste battono bandiere panamensi o altre bandiere ombra". Zuccaro parlava di sette Ong e tredici imbarcazioni attenzionate dalla Procura di Catania, ma nell’articolo sul blog di Grillo il loro numero lievita. In un’altra intervista sullo stesso argomento, Zuccaro precisa che non tutte le ong che recuperano migranti sono uguali: "Ci sono quelle buone e quelle cattive". Nel dubbio, però, Grillo e Di Maio hanno pensato di gettare fango su tutte: prima che ci sia un processo e che si possa accertare cosa accade, meglio disincentivare le donazioni alle Ong che salvano vite e che portano migranti in Italia. Ora, terminato il fact checking alle dichiarazioni di Grillo e Di Maio, ci tengo a fornire una serie di strumenti utili a capire qual è la situazione. Se le navi delle Ong Proactiva open arms, Medici senza frontiere, Sos Méditerranée, Moas, Save the Children, Jugend Rettet, Sea watch, Sea eye e Life boat si trovano anche vicino alle coste libiche è perché è lì che serve la loro presenza allo scopo di salvare vite. Le Ong non si sono messe a fare un "servizio taxi" per i migranti di punto in bianco, ma riempiono un vuoto umanitario lasciato dalle istituzioni europee. Ma Di Maio afferma ancora: "La verità è che in Italia in questi ultimi 20 anni ci sono stati due generi di sfruttamento dell'immigrazione. Il primo è quello della Lega, che ha lucrato elettoralmente sul problema, senza mai risolverlo. L'altro invece è quello del centrosinistra, che ha anche preso soldi dalle cooperative che sfruttavano il business dei migranti. Non a caso Salvatore Buzzi finanziò una cena elettorale di Matteo Renzi. Destra e sinistra hanno già fallito". Bene, se è così, allora il M5S ha capito che vale sicuramente la pena, in questo momento, aderire alla prima strada, ovvero a quelli che la questione migranti la sfruttano per motivi elettorali. E sono i numeri a parlare: nel 2016 su 178.415 migranti salvati nel Mediterraneo, le Ong ne hanno salvati 46.796, a fronte dei 35.875 salvati dalla Guardia Costiera, dei 36.084 salvati dalla Marina Italiana, dei 13.616 salvati da Frontex (dati della Guardia Costiera Italiana). Se le Ong fossero spazzate via da diffidenza e sospetti, se si interrompesse il sostegno economico privato, calcolate quanti migranti in meno arriverebbero in Italia, e non perché ne partirebbero di meno, ma perché morirebbero in mare, seppelliti dalle acque, e noi saremmo circondati da un cimitero più cimitero di quanto non lo sia già. E in tutto questo, come ha reagito il Partito democratico alla polemica sulle Ong? Parole vuote e di circostanza. Dichiarazioni smentite dai fatti, con il Decreto Minniti che sta progressivamente criminalizzando la solidarietà. Invece di eliminare, come sarebbe ovvio, giusto e conveniente, il reato di immigrazione clandestina si sta subdolamente introducendo il reato di solidarietà. Migranti. Prima vittoria contro l’intolleranza di Livio Pepino e Marco Revelli Il Manifesto, 25 aprile 2017 L’ordinanza del sindaco di Ventimiglia che vietava di "somministrare cibo ai migranti" è stata revocata! È un primo risultato (anche) del nostro appello alla mobilitazione nella città del ponente ligure il 30 aprile. Ed è una buona ragione per moltiplicare l’impegno e la pressione. Ventimiglia non è il luogo di maggior pressione migratoria né quello in cui si sono verificati i più gravi episodi di intolleranza. Ed è luogo in cui parte significativa dell’associazionismo laico e cattolico si sta impegnando al meglio per l’accoglienza. Ma è un simbolo di assoluta centralità. Per due motivi fondamentali. Primo. Ventimiglia è un luogo di confine. Lì, come in altri confini d’Italia e d’Europa, emergono in modo più evidente gli egoismi e le contraddizioni del nostro sistema. I confini tornano ad essere muri. Elementi di divisione. Presìdi contro altre donne e altri uomini. E riemergono intolleranza, violenza, brutalità, rifiuto da parte delle istituzioni. Eppure sui confini si sono mossi, negli ultimi anni, migliaia di cittadini - pensiamo all’Austria, alla Germania, alla Svizzera… - che hanno sfidato le autorità e accompagnato i migranti in un transito che si voleva impedire. Proprio sui confini, dunque, si gioca la credibilità di chi sostiene di volere un’altra Europa, senza precisare quale. Oggi il discrimine è proprio sul tema dell’accoglienza. Senza demagogie. Sapendo che i problemi ci sono. Ma sapendo anche - e dicendolo forte - che essi vanno affrontati con umanità e lungimiranza, non esorcizzati e rimossi. Secondo. Ventimiglia è un simbolo anche sotto un altro profilo. Perché lì c’è stata una delle più esplicite tra le ordinanze sindacali che vietano la solidarietà e prescrivono il rifiuto. Oggi quella ordinanza è stata revocata ma la cultura che l’ha ispirata resta pericolosamente viva, come si vede, per esempio, con la vergognosa criminalizzazione delle organizzazioni umanitarie che cercano di salvare i naufraghi nel Mediterraneo. Con il decreto Minniti, poi, quella cultura diventa regola. Per difendere il "decoro" urbano e tutelare la "tranquillità" dei cittadini ogni prevaricazione diventa lecita. Fino a trasformare l’antico principio che impone di dar da mangiare a chi ha fame e di dare un tetto a chi non ce l’ha nel suo contrario. Così l’intolleranza e il rifiuto non sono più solo situazioni di fatto. Diventano regole di diritto e si scrive una nuova pagina di un crescente "diritto del nemico". Con gli sviluppi che la storia insegna e che possiamo facilmente immaginare. C’è quanto basta per essere in molti, ancora di più, a Ventimiglia il 30 aprile e per dare alla manifestazione un ulteriore significato. Migranti. La Cei scomunica Di Maio: "Le sue accuse alle Ong sono vergognose" di Luca Fazio Il Manifesto, 25 aprile 2017 Il vice presidente della Camera (M5S) travolto dalle critiche dopo l'ennesima dichiarazione avventata su un tema legato alle migrazioni. Questa volta, rilanciando un'accusa infondata che circola da mesi, ha puntato il dito contro le Organizzazioni non governative che salvano i migranti nel mar Mediterraneo perché sarebbero in combutta con i trafficanti. Medici Senza Frontiere e Save the Children Italia parlano di polemica vergognosa e strumentale mentre monsignor Giancarlo Perego denuncia la "visione ipocrita e vergognosa" di chi non vuole salvare le persone in mare. Sul blog di Grillo i penta-stellati cercano di smorzare i toni ma annunciano un'interrogazione alla Commissione europea. L’esistenza stessa delle organizzazioni umanitarie che con le navi salvano i migranti nel Mediterraneo è la dimostrazione del fallimento dell’Europa e delle politiche migratorie criminali. Per questo sono sotto attacco. L’accusa più infamante - lanciata a dicembre dal Financial Times sulla base di un report di Frontex, la stessa che regge l’inchiesta poco chiara aperta dalla procura di Catania - riguarda il fatto che alcune Ong sarebbero in combutta con i "trafficanti di esseri umani" per intercettare le barche e lucrare sui migranti. Di più squallido, forse, c’è la superficialità con cui alcune forze politiche, destra, Lega e da buon ultimo anche il solito Luigi Di Maio del M5S che ha rilanciato l’accusa, ne approfittano per guadagnare qualche punto di esibita cattiveria razzista. E anche l’ipocrisia con cui gli avversari, cioè le forze di governo - le stesse che emanano leggi discriminatorie per i migranti e fanno accordi con la Libia per respingerli e internarli nel deserto - prendono le distanze dal delfino di Beppe Grillo. Tanto fango, frullato dai grandi giornali non solo della destra, ieri ha spinto le Ong al contrattacco. L’associazione Medici Senza Frontiere si dice indignata ed è evidente il riferimento al vice presidente della Camera. "Le accuse contro le Ong - accusa il presidente Loris De Filippi - sono vergognose, ed è ancora più vergognoso che siano esponenti della politica a portarli avanti, attraverso dichiarazioni false che alimentano l’odio e discreditano Ong che hanno come unico obiettivo quello di salvare vite". Per De Filippi la polemica è strumentale serve a nascondere le responsabilità di istituzioni e politiche, "che hanno creato questa crisi umanitaria lasciando il mare come unica alternativa e hanno fallito nell’affrontarla e nel fermare il massacro". Perché, se ci fossero canali legali e sicuri per raggiungere l’Europa, "le persone in fuga non prenderebbero il mare e si ridurrebbe drasticamente il business dei trafficanti". Valerio Neri, direttore di Save the Children Italia, difende la sua associazione "al di sopra di ogni sospetto" e la sua missione, "quella di salvare i bambini e non possiamo rimanere a guardare mentre affogano nel tentativo di scappare dalla violenza, dalle persecuzioni e dalla povertà". Sulla polemica interviene anche il direttore della Fondazione Migrantes della Cei, monsignor Giancarlo Perego. Senza mezze parole: "Fermo restando che queste accuse debbano trovare dei riscontri che non ci sono stati, credo che queste accuse abbiano dietro una visione ipocrita e vergognosa di chi non vuole salvare in mare persone in fuga e di chi non vuole fare canali umanitari attraverso i quali le persone potrebbero arrivare in sicurezza combattendo così ciò che va combattuto realmente: il traffico di esseri umani che finanzia il terrorismo". Anche il vice ministro degli Esteri, Mario Giro, non sembra avere dubbi sulle accuse rivolte alle Ong: "È un problema che non esiste, le navi di Frontex si sono ritirate a nord di Malta quindi in mare sono rimaste solo le navi delle Ong, chi dice che sono un polo di attrazione per i migranti non conosce la situazione. Quando nei paesi europei si avvicinano le elezioni il tema dell’immigrazione viene trattato con questi argomenti, l’Europa dovrebbe avere il coraggio di guardarsi negli occhi e dire le cose come stanno". Come sempre quando Di Maio scivola sui temi dell’immigrazione, dal M5S il giorno dopo si levano voci che cercano di aggiustare il tiro. Così l’eurodeputata M5S Laura Ferrara, con un articolo rilanciato dal blog di Grillo, ieri ha smorzato i toni annunciando comunque un’interrogazione alla Commissione europea: "Vogliamo tutta la verità sul ruolo delle Ong nelle operazioni di salvataggio dei migranti nel mar Mediterraneo. Non vogliamo fare di tutt’erba un fascio, vogliamo chiarezza e trasparenza, anche a tutela del lavoro di quelle Ong che da anni contribuiscono con sacrificio e dedizione a salvare vite umane". In chiusura, anche un pensiero che ancora non sappiamo se sia condiviso o meno da Luigi Di Maio: "L’Europa è un fantasma. Se vi fossero vie legali d’accesso all’Ue, così come il M5S ha sempre chiesto, questi dubbi e queste problematiche non si porrebbero neppure". I cittadini italiani imprigionati all'estero e dimenticati dallo Stato di Lara Tomasetta tpi.it, 25 aprile 2017 Sono 3.288 gli italiani detenuti all’estero, di cui 2.576 in attesa di giudizio e non sempre si hanno informazioni sul trattamento che ricevono in prigione. "A prescindere dallo status di colpevolezza o innocenza, esistono dei diritti fondamentali della persona che non possono essere violati. Scendiamo in piazza per lo stato delle carceri italiane e non ci preoccupiamo della situazione degli italiani prigioneri all’estero". Lo dice a TPI Katia Anedda, fondatrice dell’associazione "Prigionieri del Silenzio" che si batte da oltre otto anni per i diritti dei detenuti in terra straniera. Il caso del blogger e documentarista Gabriele del Grande trattenuto in Turchia ha riacceso l’attenzione su quegli italiani che, per i motivi più svariati, vengono privati della libertà e rinchiusi nelle carceri di paesi che hanno politiche carcerarie molto diverse da quella italiana. Il problema principale è che attualmente esistono 3.288 italiani detenuti all’estero, di cui 2.576 in attesa di giudizio. Non sempre si riesce ad avere rassicurazioni circa le loro condizioni e il trattamento che viene riservato loro. Secondo l’ultimo censimento (giugno 2016 con riferimento al dicembre 2015) del Dipartimento del Ministero degli Affari esteri (Dgit) che si occupa degli italiani all’estero, i nostri connazionali attualmente rinchiusi in prigioni straniere è ripartito tra 687 condannati, 2.576 in attesa di giudizio o con procedimenti di appelli in atto, 34 in attesa di estradizione. Katia Anedda ha iniziato nel 2008 a battersi per i diritti dei detenuti all’estero fondando l’Associazione Prigionieri del Silenzio, dopo che il suo ex convivente, Carlo Parlanti, era stato accusato di stupro e in seguito condannato a 9 anni di reclusione negli Stati Uniti. "L’associazione è nata dopo che il mio compagno era stato arrestato in Germania per una richiesta degli Stati Uniti. Mi sono ritrovata all’inferno" - racconta Katia - "nemmeno sapevo cosa fosse un consolato e ho avuto moltissime difficoltà a mettermi in contatto con gli avvocati e a ottenere giustizia. Nonostante gli sforzi ci sono voluti più di otto anni che Carlo ha scontato nonostante la sua innocenza". La battaglia di Katia ha lo scopo di rendere più agevole il percorso di assistenza legale a queste persone che spesso si trovano in condizione di grande difficoltà. "Il problema reale delle persone che vengono incarcerate all’estero è la distanza, la lingua spesso complessa da capire e da parlare, l’impossibilità di essere seguiti da un legale di fiducia o di poter comunicare con i propri parenti, i quali, a loro volta, sono costretti a ingenti spese di viaggi e traduttori per non far sentire abbandonati i propri cari", spiega Anedda. Non si discute quindi dell’innocenza o della colpevolezza dei detenuti, ovviamente, ma si accende una luce sul modo in cui si guarda a queste persone: "Molto spesso vengono dimenticate perché si pensa con leggerezza che se sono in carcere se lo sono meritato. Non è sempre così, però, e questo non giustifica mortificazioni, eventuali violenze o privazioni della dignità personale", ripete la presidente. "Anche quando è stato commesso un reato, la prigione deve togliere la libertà di reiterare l’illecito, ma non deve togliere la dignità o, peggio, infondere la paura di non uscirne vivo: sensazioni che i detenuti provano soprattutto nelle prigioni del Sudamerica, dell’Africa, della California", precisa Anedda. Fin quando si ha un parente che è detenuto in una prigione in Europa, la situazione è più semplice da gestire, ma quando la persona si trova nel Sudamerica, negli Stati Uniti, in Africa, inizia ad essere pesante sia dal punto di vista economico che della lingua. Inoltre, diverse ambasciate italiane nel mondo risultano chiuse. "Non c’è la giusta forza economica da parte del governo e forse nemmeno la capacità di seguire queste persone, non c’è molto interesse", racconta Anedda, "sembrano troppo spesso lasciati al loro destino perché colpevoli di essere finite in carcere". "La famiglia ha difficoltà a interagire con gli avvocati e, d’altro canto, l’ambasciata non è stimolata dalla famiglia ad essere proattiva: se devi capire al meglio la situazione occorrono molti soldi. Io per farlo mi sono fatta un sacco di debiti", precisa la fondatrice della onlus. Ma le difficoltà non riguardano solo i familiari, anche gli avvocati che seguono le cause spesso non sanno come affrontare le situazioni giuridiche più controverse, in paesi dove il diritto non è applicato come in Italia: i gradi di giudizio sono diversi ed è difficile controllare l’operato degli avvocati locali a distanza. I consolati non hanno nemmeno la forza economica di essere presenti nelle prigioni, spesso situate lontane dai consolati", spiega Anedda. Il numero dei cittadini italiani che attualmente stanno scontando una pena in un carcere straniero è molto alto se si considera anche il numero delle persone, amici o familiari, che gravitano intorno al detenuto e che devono seguirne le vicende. Di questi, alcuni casi sono più noti alle cronache dei giornali, altri restano nel buio, spesso per volontà dei familiari che non vogliono esporre alla pubblica gogna i propri cari o che intendono tutelarsi da eventuali ritorsioni. Enrico Forti, condannato nel 2000 negli Stati Uniti per omicidio, si è sempre proclamato innocente. Angelo Falcone e Simone Nobili, due ragazzi che sono stati in carcere tre anni in India con l'accusa di traffico di stupefacenti, sono stati assolti nel 2009. Avevano firmato un documento di autoaccusa in lingua hindi. Roberto Berardi, imprenditore di Latina, incarcerato in Guinea equatoriale, è stato liberato il 9 luglio del 2015. Dal carcere aveva inviato le foto delle torture subite in prigione. Carmine Sciaudone in Indonesia. Filippo e Fabio Galassi in Guinea equatoriale. Cristian Provvisionato è stato bloccato in Mauritania dall'agosto 2015 per una presunta truffa informatica subita dal governo locale da alcune società che vendono software-spia. La madre Doina Coman, il 22 aprile ha iniziato una marcia di 250 chilometri da Siena verso Roma sulla via Francigena per richiamare l'attenzione sul caso del ragazzo trattenuto. "Mio figlio è prigioniero in Mauritania da 20 mesi, il ministero degli Esteri deve fare qualcosa per riportarlo in Italia. Ha perso trenta chili e dal primo maggio scatta lo sciopero della fame. Lo stato si muova per evitare un altro caso Regeni. Un’ulteriore salma da riportare in patria", ha raccontato ai microfoni della stampa prima di lasciare Siena. Voto in Francia, se il terrorismo (amplificato) non cambia il voto di Massimo Nava Corriere della Sera, 25 aprile 2017 La fiducia a Macron fa propendere per una risposta calma e matura, ma Marine Le Pen ha fatto il pieno di voti. "Sangue sulle elezioni". Terrore e morte a Parigi, Londra, Bruxelles, Berlino. I media portano con rituale continuità nelle nostre case le gesta di un nemico che condiziona la politica, i rapporti fra religioni e categorie sociali, la nostra vita. E cresce la preoccupazione che gli attentati possano influenzare i processi elettorali. In Francia, la risposta è stata ambivalente. La fiducia a Macron farebbe propendere per una risposta calma e matura, ma Marine Le Pen ha fatto il pieno di voti. L’offensiva della paura si può analizzare secondo due categorie. In primis, l’azione di tipo militare e organizzata, genere Bataclan, più prevedibile con un’efficace attività di prevenzione a largo raggio. In secondo luogo, l’azione dei cosiddetti "lupi solitari", spesso compiuta con mezzi anomali (camion e auto contro la folla), improvvisata dentro un percorso personale complesso, talvolta di criminalità comune. Questo tipo di azione è meno prevedibile e la eco mediatica che suscita amplifica la sensazione di essere esposti ad ogni tipo di rischio, in ogni momento e praticamente in ogni luogo. Ed è appunto sulla eco mediatica che andrebbe fatta qualche riflessione.La prima è sul corto circuito della memoria, soprattutto in Italia. Le generazioni precedenti hanno vissuto una stagione più terribile di assassinii politici, attentati, bombe sui treni, attacchi alle istituzioni ed episodi clamorosi come il sequestro Moro e l’attentato al Papa, senza contare la continua scia di sangue degli omicidi e delle vendette mafiose. Migliaia di giovani scelsero la lotta armata, molti provenivano dalla borghesia, dall’impegno sociale e politico, qualcuno anche dalla criminalità comune. La rivoluzione proletaria era una bandiera, analogamente a ciò che rappresenta oggi l’impulso di morte in nome di Allah. Ma le istituzioni, la democrazia, la convivenza civile non sono crollate e la vita democratica non è stata sconvolta. Perché dovrebbe accadere a causa del terrorismo islamico? Il terrorismo rosso e nero (e il terrorismo indipendentista) hanno ferito, ma non hanno cambiato la vita e la storia dei Paesi colpiti. La eco mediatica favorisce invece la strumentalizzazione e la propaganda su cause presunte e non confortate da dati di fatto, quali il legame fra terrorismo e immigrazione, il rapporto fra terroristi e confini, l’ostilità e il pregiudizio nei confronti di comunità religiose. La seconda riflessione riguarda la responsabilità dei media e del mondo politico nella narrazione dell’episodio terroristico. C’è da chiedersi se le descrizioni, e soprattutto la ripetitività delle immagini (quante volte abbiamo rivisto la sparatoria a Charlie Hebdo), complici cellulari e social network, non siano sproporzionate rispetto alla quasi indifferenza o ignoranza di eventi di altro tipo, altrettanto tragici, benché siano diverse la matrice e le motivazioni dei responsabili. L’attentato a Parigi di giovedì sera provoca grande emozione per il poliziotto ucciso e per il luogo in cui è avvenuto, ma ci fa dimenticare le decine di poliziotti vittime ogni anno di azioni criminose, non solo in Francia. Il killer che oggi uccide in nome di Allah e odia i poliziotti è così diverso - in termini di percezione del pericolo - dei banditi che non esitano ad uccidere poliziotti, guardie giurate e innocenti disarmati? Potremmo spingerci a considerare anche la differenza fra essere investiti da un furgone guidato da un terrorista, o da un pazzo criminale o da un tossicomane ubriaco? Perché la "follia" omicida è considerata sempre fra le cause di tanti comportamenti violenti (dal maschio che uccide per gelosia al serial killer) e quasi mai negli indizi per decifrare il passaggio dalla marginalità sociale e malavitosa all’estremismo religioso? Non è moralmente corretto mettere sullo stesso piano episodi di violenza ordinari e attacchi terroristici, benché sia la stessa la misura del dolore di chi sopravvive. Dovremmo tuttavia trovare una misura alle nostre reazioni, al modo di raccontarle, alla percezione della minaccia. Non è l’amplificazione del gesto l’arma in più e l’obiettivo del terrorismo? Turchia. L’accusa di Del Grande: "Mia detenzione illegale" di David Marceddu Il Fatto Quotidiano, 25 aprile 2017 Il documentarista, liberato dalla Turchia, è tornato ieri a casa, accolto da Alfano. Si è presentato ieri mattina agli arrivi dell'aeroporto di Bologna sorridente ed è apparso in buone condizioni fisiche Gabriele Del Grande, il giornalista rinchiuso per due settimane in un centro di detenzione amministrativa in Turchia; il documentarista era stato fermato dalle autorità di Ankara mentre lavorava al confine con la Siria. "Ora vado a mangiare, dopo sette giorni di sciopero della fame ho bisogno di riprendere qualche chilo", ha scherzato Del Grande, che è stato accolto dalla moglie e dai genitori. "Non ho ancora capito perché sono stato fermato, non mi hanno notificato nessun provvedimento". Gabriele ha incrociato due suoi amici nella calca di giornalisti, telecamere e flash, e li ha abbracciati. Poi assieme al ministro degli Esteri Angelino Alfano si è prestato alle domande. "MISSIONE compiuta", ha esordito il capo della Farnesina. Colpisce la diversità dei toni. Diplomatici e concilianti quelli di Alfano: "Ringrazio il collega della Turchia e il governo turco, perché anche nei momenti di massima tensione non abbiamo mai perso il contatto", ha spiegato il ministro. "Loro ci hanno fatto presente che dovevano fare degli accertamenti. Noi abbiamo un grande vincolo con la Turchia nella lotta al terrorismo internazionale, che li vede molto spesso aggrediti. Dunque li ringrazio di tutto". Toni differenti quelli del documentarista: "Sto bene - ha detto Del Grande - la più grande difficoltà è stata la privazione della libertà, anche se nessuno ha usato le maniere forti nei miei confronti. È stata una violenza istituzionale quella di cui sono stato vittima". Alfano, diplomaticamente, sembra lasciare intendere che per il governo italiano il caso è chiuso, senza alcuna recriminazione nei confronti di Ankara: "È andato tutto secondo le loro procedure - ha ribadito il ministro - ringrazio la rete consolare e diplomatica per il lavoro fatto e mi sia permesso di ringraziare il collega ministro degli esteri turco con cui non ho perso neanche per un istante il contatto; abbiamo scambiato tante telefonate, pur nel silenzio della mia comunicazione pubblica, perché non potevo riferire tutto quello che si stava facendo". Del Grande ha ringraziato tutte le istituzioni italiane e la mobilitazione della società civile; anche lui ha poi rivolto un grazie a chi in Turchia (compreso il ministero degli Esteri di Ankara) ha lavorato per la sua liberazione. Ma ha promesso battaglia, anche legale, sulla sua vicenda: "Considero illegale quello che mi è successo. I miei avvocati sia in Italia che in Turchia si mobiliteranno per questo. Un giornalista viene privato della propria libertà mentre sta facendo il suo lavoro in un Paese amico". Del Grande, autore fra le altre cose del documentario Io sto con la sposa, ha ribadito più volte che "nessuno gli ha torto un capello" durante questi 14 giorni e che dopo essere stato fermato da agenti in borghese è stato interrogato sul suo lavoro. Poi ha concluso l’incontro all’aeroporto con un pensiero per tutti i suoi colleghi detenuti: "Mando un pensiero caro a tutti i giornalisti che sono ancora in carcere, che sono in condizioni molto peggiori della mia, in Turchia e in altri Paesi del mondo". A chi gli ha chiesto cosa avesse visto al confine con la Siria ha replicato: "Lo leggerete nel mio libro". Stati Uniti. In Arkansas raffica di esecuzioni: iniezione letale per due detenuti Corriere della Sera, 25 aprile 2017 Per un prigioniero c’era stato un rinvio: "È obeso, potrebbe soffrire". L’Arkansas ha eseguito le due condanne a morte programmate per martedì sera; un giudice federale in un primo tempo aveva sospeso la seconda esecuzione: l’avvocato del detenuto aveva infatti presentato un ricorso sostenendo che il primo prigioniero aveva sofferto in seguito all’iniezione letale. Sofferenze che, a suo avviso, avrebbe potuto patire anche il suo assistito, per via dell’obesità. Un giudice aveva concesso il rinvio ma alla fine non c’è stato nulla da fare. Il primo condannato, Jack Jones, 52 anni, è stato dichiarato morto nelle prigione di Cummins, a circa 120 km dalla capitale Little Rock. Qualche ora dopo è stato messo a morte anche il detenuto Marcel Williams, 34 anni. L’Arkansas è così diventato il primo stato americano a portare a termine una doppia pena capitale dal 2000. Il governatore dello Stato, Asa Hutchinson, ha messo in programma quattro doppie esecuzioni nell’arco di undici giorni, prima che a fine aprile scadano le scorte del sedativo midazolam, uno dei veleni usati nell’iniezione letale. I detenuti condannati - Il prigioniero Jack Jones era stato condannato per aver stuprato e ucciso nel 1995 Mary Philipps, 34 anni, e per aver tentato di uccidere sua figlia di 11 anni, a cui ha porto oggi le sue scuse prima che il boia entrasse in azione. Era stato condannato anche per uno stupro e un omicidio in Florida. Il secondo detenuto Marcel Williams, 46 anni, era stato condannato per aver rapito, stuprato e ucciso nel 1997 Stacy Errickson, 22 anni. I condannati, entrambi rei confessi, avevano affidato le loro ultime speranze a un ricorso basato sulle cattive condizioni di salute, sostenendo che i loro problemi medici potevano provocare loro dolori orribili durante la procedura della "morte di Stato". La Giordania abolisce il "matrimonio riparatore" per gli stupratori di Giordano Stabile La Stampa, 25 aprile 2017 Il governo della Giordania ha approvato un disegno di legge per abolire il famigerato "Articolo 308", che prevede il perdono degli stupratori nel caso sposino la propria vittima. La decisione arriva dopo una lunga campagna delle associazioni per i diritti umani e delle donne. Il ruolo della principessa Basma - Il provvedimento dovrà però essere ratificato dal Parlamento prima di diventare effettivo. Fra i promotori dell’iniziativa c’è anche l’influenza principessa Basma, la sorella dell’ex re Hussein, zia dell’attuale re Abdullah: "I media devo essere uniti - ha detto - per condurre questa battaglia nell’opinione pubblica". Elementi conservatori - Anche se la modernizzazione condotta dalla dinastia Hashemita ha avuto successo nelle città, restano vasti strati della popolazione molto conservatori, soprattutto fra le tribù beduine del deserto, dove è diffuso "il matrimonio riparatore". Fra il 2010 e il 2013, 159 stupratori hanno evitato il carcere in questo modo. Nel mondo arabo - Lo stesso dibattito è aperto in Libano, dove lo scorso dicembre il Parlamento ha abrogato l’articolo 522, analogo a quello della Giordania. La totale cancellazione però deve ancora arrivare. Manifestazione per arrivare all’abrogazione definitive si tengono quasi ogni settimana sulla Corniche di Beirut.