Matti da slegare di Ignazio Marino L’Espresso, 23 aprile 2017 Febbraio 2017: l’ultimo Ospedale Psichiatrico Giudiziario chiude. Dopo una lotta durata decenni. Ma questo atto di civiltà ora rischia un nuovo stop. Dopo quasi un secolo chiudono gli Opg, gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, è un momento storico per l’Italia, un’orribile vergogna finisce. O forse no. Certamente un traguardo è stato raggiunto, grazie a un lungo percorso che porta l’Italia fuori dall’orrore dei manicomi criminali, ristabilendo la dignità umana per tanti ex-internati e il principio del recupero sociale, che è alla base del nostro diritto. È finito il ricorso agli Opg per i matti delinquenti, per decenni rinchiusi in luoghi chiamati impropriamente "ospedali" ma in realtà veri e propri tuguri senza assistenza medica. I folli rei venivano chiusi e dimenticati, esclusi dai percorsi di cura e molto spesso condannati a un "ergastolo bianco", ovvero detenuti per periodi ben più lunghi di quelli previsti per il crimine commesso, in alcuni casi sino alla morte e senza un motivo chiaro. Folli rei li definisce il diritto, ma pur sempre esseri umani, la cui dignità è stata rinnegata, sottoposti a violenze fisiche come la contenzione e reclusi in spazi così deteriorati da risultare disumani. "Luoghi di estremo orrore, inconcepibile in qualsiasi Paese appena, appena civile", così li aveva definiti nel 2011 l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Psichiatri, attivisti dei diritti umani, associazioni si sono battuti negli ultimi trent’anni per il superamento degli Opg, vedendo finalmente rendersi concreto il loro impegno lo scorso febbraio, quando anche l’ultimo paziente rinchiuso ha lasciato l’ultimo Opg, in Sicilia. Un percorso a tappe che ha permesso alla maggior parte degli internati, quelli non pericolosi, di lasciare le strutture detentive già da qualche anno, per tornare a casa ed essere curati come pazienti con disturbi mentali. Gli altri sono stati trasferiti nelle Rems (Residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza sanitaria), strutture regionali di piccole dimensioni organizzate come un presidio sanitario e non come prigioni, anche se in alcuni casi le sbarre e le misure restrittive esistono ancora. A regime le Rems saranno trenta, con circa 600 posti letto complessivi e, secondo quanto prevede la nuova legge, devono rappresentare l’eccezione e non la regola, destinate esclusivamente alle situazioni cliniche più complesse. La parola d’ordine nelle Rems dovrebbe essere curare e si spera che con un po’ di rodaggio possano davvero rappresentare una svolta rispetto al passato. Gli interrogativi sono d’obbligo perché non tutte le strutture sono ancora ben organizzate, con personale qualificato e formato per garantire percorsi terapeutici e al contempo la sicurezza. Le premesse però sono incoraggianti e la legge prevede anche fondi più che sufficienti per il loro buon funzionamento. Tutto bene allora? Niente affatto. Perché solo pochi giorni dopo la chiusura degli Opg, il Senato ha approvato, con voto di fiducia al Governo Gentiloni, un decreto legge sulla giustizia che rischia di vanificare il lavoro fatto in decenni. Scelta consapevole o errore di distrazione del Parlamento e del Governo? Nel decreto, infatti, è stata introdotta una norma che riporta tutto al punto di partenza. Nelle nuove Rems non andranno solo coloro ai quali è stata accertata l’infermità mentale al momento del reato, ma anche tutti coloro per i quali l’infermità di mente sia sopravvenuta in carcere, e anche i detenuti per i quali occorra accertare le condizioni psichiche, qualora il carcere non sia idoneo a garantire i trattamenti terapeutico-riabilitativi. Esattamente ciò che si voleva evitare. Speravamo in una storia a lieto fine, in cui l’Italia, pur con mille lentezze e nell’indifferenza dei Parlamenti che si sono susseguiti, era riuscita a fare un passo di civiltà, a vincere la sfida del rispetto degli esseri umani e di un approccio alla salute mentale diverso dal passato. Ma con questo decreto legge si ritorna di fatto alla vecchia logica in cui tutti i rei con problemi di disturbi mentali finiranno nelle Rems, che diventeranno rapidamente sovraffollate e ingestibili. Ovvero si ritornerà ai vecchi Opg. Ora l’auspicio è che alla Camera dei Deputati se ne rendano conto e in un sussulto di responsabilità modifichino quanto fatto al Senato. Vale la pena ricordare che cosa erano gli Opg, come li ho visti con i miei occhi durante i blitz effettuati dalla Commissione d’inchiesta sul Servizio Sanitario Nazionale. Nel 2011 gli internati erano circa 1500, tutti rinchiusi in maniera indistinta indipendentemente dalla patologia psichiatrica, tutti sottoposti ai medesimi trattamenti, e cioè nella maggior parte dei casi non curati affatto, trattati da detenuti e non da ammalati. Durante i sopralluoghi abbiamo visto persone legate nude per molti giorni a letti di ferro, senza materasso, con un buco in mezzo per la caduta delle feci e delle urine in un pozzetto sottostante. Celle roventi per il caldo estivo senza un frigorifero, dove gli internati utilizzavano il buco della latrina di un bagno alla turca per rinfrescare le loro bottiglie d’acqua. Spesso persone rinchiuse sebbene senza alcuna pericolosità sociale: mi viene in mente un uomo che era stato internato nel 1985 perché si vestiva da donna. E non è mai più uscito. O un altro che era stato rinchiuso perché aveva tentato una rapina simulando una pistola con il dito sotto la giacca ed era sepolto a Barcellona Pozzo di Gotto da venti anni. Dal punto di vista strutturale, parliamo di edifici fatiscenti, dagli odori nauseanti, a volte senza i vetri alle finestre, sovraffollati. Difficile definirli ospedali, di fatto erano luoghi di tortura, come erano stati definiti nel 2008 anche dai rappresentanti del Consiglio d’Europa. Condizioni che valevano anche per gli agenti di polizia penitenziaria che, lavorando dentro gli Opg, condividevano gli stessi spazi e spesso dovevano anche supplire alle carenze del personale sanitario. Nel 2012 le immagini che riprendemmo finirono in prima serata sulla Rai, nella trasmissione di Riccardo Iacona, e poi in un film del regista Francesco Cordio "Lo Stato della follia". Di fronte a una vergogna svelata, in cui i protagonisti testimoniavano di vivere in condizioni peggiori degli animali, peggio che in un manicomio, peggio che in galera, tutta l’Italia rimase senza parole. Eppure ci sono voluti altri sei lunghi anni, una nuova legge e un Commissario del governo per farla applicare. La legge del 2014 ha introdotto tre principi per il superamento degli Opg: l’internamento deve essere l’estrema ratio, l’eccezione quando lo psichiatra certifica che non si può percorrere nessun’altra strada; le misure di sicurezza non possono eccedere la pena massima prevista per il reato compiuto, dunque basta con gli ergastoli bianchi; nelle strutture non sono ammesse pratiche coercitive come la contenzione. Per completare il percorso servirebbe la revisione del codice penale, che risente ancora dell’impostazione secondo cui un criminale matto deve essere internato e tenuto ben lontano dal resto della società. Impresa tutt’altro che facile perché non è solo il codice penale che deve cambiare. Dovrebbe cambiare il modo di pensare, superando pregiudizi molto radicati nei confronti dei pazienti con disturbi mentali. Perché in Italia la follia è ancora considerata un tabù, qualcosa da nascondere, e allora tanto meglio se i matti sono allontanati, rinchiusi lontano dalla nostra vista, dai nostri pensieri. In fondo sono matti. Certo, la questione è delicata. Perché in alcuni casi queste persone, benché malate, hanno commesso dei crimini efferati, hanno ucciso degli innocenti, hanno generato tanta sofferenza. Personalmente, sostengo pienamente il principio sancito dalla legge secondo cui tutti coloro che hanno commesso reati ma non rappresentano un pericolo per sé stessi o per gli altri non devono essere rinchiusi ma curati per la loro patologia. Se però parliamo di situazioni molto gravi, come qualcuno che ha ammazzato delle donne, le ha tagliate a pezzi e nascoste nel bagagliaio della macchina, per citare un caso realmente accaduto, non penso si possano evitare le misure restrittive, pur nell’attenzione alla cura della malattia mentale. Infine, penso sia giusto condannare un folle reo e curarlo durante il periodo di restrizione della sua libertà. Ma curare veramente, senza legare ai letti di contenzione per punire, senza farmaci per stordire o altre misure per umiliare. Perché se la libertà di un essere umano può essere limitata, il rispetto della sua dignità no. Fuga dalla galera di Giovanni Tizian L’Espresso, 23 aprile 2017 Viaggio tra i malati che ora, dopo anni di maltrattamenti, sono solo pazienti da curare. Gianluigi è un sopravvissuto. Un reduce degli Ospedali psichiatrici giudiziari. E ora che queste carceri nate per rinchiudere la follia sono state bandite per sempre, lui come tanti altri vivono nelle Residenze per le misure di sicurezza, le Rems. Il passato, però, non si può cancellare con una legge. Così Gianluigi continua a definirsi prigioniero e preferisce starsene rintanato nella sua nuova camera di Ceccano in provincia di Frosinone. Vive in isolamento, un’abitudine inculcata con la violenza durante la lunga sosta nell’Opg di Aversa. Tra quelle mura era solo un reietto e un assassino, senza storia ne identità. Un prigioniero, appunto, da rieducare, da legare a un letto sudicio per giorni se necessario. "Nella Rems si sta meglio, ma non sopporto la confusione, almeno nell’Opg chi non rispettava le regole veniva punito in maniera esemplare. Io più volte sono finito legato a letto e ho preso diverse manganellate". A Ceccano non funziona così, ma Gianluigi deve ancora prendere confidenza con la libertà. Sembra invece essersi ambientato molto bene Luigino "Settebellezze", un omone alto e sorridente che indossa la polo blu e gialla del Frosinone calcio. I pazienti in cura in questo comune del frusinate arrivano in gran parte da Aversa. Ora hanno un campetto da calcio, l’orto da coltivare, il karaoke, laboratori, libri, la possibilità di uscire e la certezza che prima o poi da questo luogo se ne andranno. Certo, non sempre tutto va per il verso giusto. Proprio da Ceccano era fuggito due volte il ragazzo di 22 anni poi suicidatesi a Regina Coeli poche settimane fa. In realtà, ci spiega il garante dei detenuti del Lazio Stefano Anastasia, "l’amministrazione penitenziaria una volta diventata definitiva la sentenza dell’infermità mentale del giovane non voleva più rimandarlo a Ceccano perché da qui era già fuggito". Un limbo rivelatosi fatale. L’ultimo Opg a chiudere con due anni di ritardo è stato quello di Barcellona Pozzo di Gotto, in Sicilia. Istituto noto per aver ospitato anche i finti pazzi di ogni mafia italiana. I sopravvissuti a quell’inferno ora vivono nelle residenze gestite dalle Asl locali. L’approccio è interamente sanitario, "non siamo poliziotti, ma medici, il nostro obiettivo è fare di questo luogo una comunità", ci accoglie così il direttore della Rems di Ceccano, Luciano Pozzuoli. All’interno vivono in 17, "finora ne abbiamo dimessi 18, un numero molto alto, impensabile ai tempi degli Opg". Al momento gli ospiti totali delle Rems superano di poco le 570 unità. I posti totali disponibili divisi tra le varie regioni ammontano a 604. Non tutte le strutture sono uguali. Ce ne sono alcune più permissive di altre, dove le porte delle stanze restano aperte anche di notte. E dalle quali i pazienti, che non sono più etichettati come internati, possono uscire una volta al giorno accompagnati dall’equipe di psicologi ed educatori. La Rems di Barete, a L’Aquila, rappresenta l’avanguardia di tale approccio. Ospita 13 ex internati diventati pazienti. Finora sono usciti per "fine cura" in 10. Missione compiuta. La direttrice è una giovanissima psichiatra, Ilaria Santilli, e il gruppo di medici, tutte donne, lavora con un approccio rivoluzionario: tra queste mura non si bada al reato commesso, si cura la malattia psichica. Il resto è stigma, etichetta. Superfluo ai fini del reinserimento nella società. E veniamo appunto al secondo grande tema: le strutture sanitarie che hanno preso in carico gli ex internati puntano alla dimissioni dei pazienti, non sono più, dunque, discariche sociali da cui riemergere era pratica mente uno sforzo vano. "Le basi concettuali e pratiche di un modello come le Rems, affinché evitino il rischio di diventare nuovi, pur se piccoli, Opg, sono invece la territorialità e il numero chiuso, il rifiuto della coercizione, in particolare la contenzione, e la consapevolezza che la permanenza nella struttura deve avere un tempo definito", ha scritto Franco Corleone nella sua ultima relazione da commissario governativo per il superamento definitivo degli ospedali psichiatrici. All’Espresso, Corleone, spiega inoltre che "è necessario mettere in discussione la logica manicomiale a fondamento degli Opg. Di tale approccio è intrisa la nostra società, che tende a rinchiudere il diverso, il cattivo, il matto, figure cioè di disturbo sociale". C’è però un altro ostacolo che si frappone tra il nuovo equilibrio incarnato dalle Rems e il passato nero delle vecchie istituzioni totali. Al Senato è stato approvato il Ddl penale, che prevede l’entrata nelle nuove strutture residenziali anche dei detenuti comuni con un sopraggiunto disagio psichico. Ecco perché in molti hanno espresso il proprio dissenso, in primis l’associazione Antigone e Stop Opg, a cui va il merito di aver portato avanti una battaglia di certo non popolarissima in un’epoca di becero giustizialismo. E persino i direttori delle Rems hanno chiesto di rivedere la norma, in quanto esiste il rischio concreto di replicare il modello Opg. Anche per questo il comitato Stop Opg guidato da Stefano Cecconi per aprile promette battaglia. Altro punto critico è la diversità tra Rems e Rems. Ci sono le più progressiste e quelle che mantengono ancora dei vincoli più coercitivi. Ne esistono alcune persino senza sbarre ai piani alti, altre in cui massimo alle undici di sera serrano le porte e hanno i letti saldati al pavimento. A Nogara, per esempio, nella bassa veronese, non ci sono sbarre ne guardie ma vetri antisfondamento, finestre che si aprono pochi centimetri, porte allarmate. Misure di sicurezza passiva, tipiche dei reparti psichiatrici e applicate a questa Rems. Quaranta posti in totale, tre stanze destinate alle donne, la seconda d’Italia per capienza, realizzata in un’ala del vecchio ospedale Stellini, oggi centro sanitario polifunzionale. I primi sedici posti letto sono stati allestiti in fretta e furia alla fine del 2015, rispondendo così alla diffida del Governo che lamentava ritardi. Altri ventiquattro posti sono stati aggiunti nei dodici mesi successivi e lo Stato ha stanziato undici milioni e mezzo per una struttura nuova di zecca. Gli spazi non sono ampi, tuttavia le stanze sono luminose e colorate con un sistema di videosorveglianza in ogni locale. Le porte delle camere sono aperte e i pazienti possono entrare e uscire a loro piacimento. Poi ci sono gli spazi comuni, la mensa, i laboratori e un giardino attrezzato per fare un po’ di movimento all’aperto e qualche partita di calcetto. Insomma, le giornate scorrono tra momenti di cura, laboratori d’arte, i percorsi beauty per le donne, i film e il karaoke. "La ristrutturazione è costata ter milioni e mezzo di euro", spiega l’architetto Antonio Canini responsabile dell’edilizia ospedaliera del Veneto, "non ci sono tubi, rubinetti, interruttori, lampade, tutti oggetti potenzialmente pericolosi". Per chi è uscito dall’Opg è un cambiamento radicale, non solo perché ora vive in una struttura accogliente e dignitosa, ma soprattutto perché viene curato. Il personale in ser vizio conta su cinquanta persone tra infermieri, educatori, assistenti sociali, operatori socio-sanitari, psicologi e psichiatri. Ai sanitari si aggiungono due addetti alla vigilanza, non armati ma pur sempre con la divisa a fare da deterrente. Sebbene il passo in avanti rispetto al passato sia evidente, ancora molte cose restano da fare. "Penso al rapporto con la magistratura", riflette il garante dei detenuti del Lazio, "ho seguito il caso di un ragazzo afgano bloccato nella Rems di Palombara perché i giudici che dovevano concedere l’autorizzazione si dichiaravano tutti incompetenti". Anastasia, poi, segnala un’altra anomalia: "Nelle carceri non esiste un supporto per chi durante la detenzione si ammala di patologie psichiche, perciò viene chiesto per loro l’inserimento nelle Rems, dove però dovrebbero stare solo coloro che hanno un’infermità totale certificata in maniera definitiva. Il rischio è il sovraffollamento e l’inserimento di delinquenti comuni tra chi ha veramente bisogno". Insomma, l’ombra inquietante di un ritorno al passato. La tariffa giornaliera a Nogara è di 290 euro a paziente, a Ceccano si arriva a 400, mentre Barate spende 300 euro al giorno per ogni ospite. Nelle altre, dalla Puglia al Piemonte, le quote giornaliere variano dai 170 ai 500. Cifre che includono anche le spese per i farmaci ed esami clinici. Il tutto grava sulle casse delle aziende sanitarie di residenza. Le strutture dovrebbero essere tutte pubbliche, così prevede la Legge. Tuttavia, la Rems provvisoria di Bra, in provincia di Cuneo, è una casa di cura privata e può accogliere 18 persone. Un’eccezione che costa allo Stato quasi 2 milioni di euro, spesa su per giù pari a quella delle comunità interamente pubbliche. La Rems più all’avanguardia è, dicevamo, Barète. Qui i colori pastello delle pareti sono funzionali a stimolare le emozioni. L’ambiente è decisamente curato e pulito. All’interno non ci sono telecamere. Anche le camere rappresentano una novità assoluta: sono dei mini appartamenti, con cucina e bagno. Vivono in due per stanza e non c’è momento in cui siano imprigionati là dentro. La libertà e l’autonomia è la base di questo metodo di cura. C’è persino la possibilità di riunirsi in una trattoria vicina, con l’equipe al seguito. È un modo per riassaporare la normalità, dopo il buio pesto degli anni trascorsi negli ospedali psichiatrici. "Contesto chi tra i miei colleghi vorrebbe Rems più contenitive", si scalda il direttore del dipartimento di salute mentale dell’Aquila Vittorio Sconci, che spiega: "Crediamo fortemente nei trattamenti psichiatrici, se questo è efficace la pericolosità scemerà di conseguenza. Non siamo carcerieri, ma medici e lavoriamo con gli strumenti a noi più consoni". Stretta tra la strada che porta ad Amatrice e un costone della montagna, la residenza di Barete è l’edificio più distante dall’idea di Opg. Verde, accogliente e soprattutto resistente. Qui hanno vissuto in pieno le recenti scosse del terremoto, l’edificio ha retto. Neppure una crepa. E, dicono i medici presenti, i pazienti sono rimasti calmissimi. Non solo, ma vista la neve alta sono rimasti a dormire tutti nella Rems. Medici e pazienti, come una grande famiglia. Tra queste mura vivono persone che hanno commesso anche omicidi, per i quali c’è già una sentenza definitiva di vizio totale di mente, quindi non imputabili, e perciò destinati a rimanere in strutture di questo tipo. Tuttavia ci sono pure ragazzi con reati minori e per i quali il giudice deve ancora stabilire se sono imputabili o meno. Tra loro c’è Paolo, per esempio. Napoletano, di famiglia borghese, ex studente di liceo scientifico. La sua vita a un certo punto prende il crinale della disperazione. Inizia a vivere per strada e dopo aver aggredito un medico finisce in manicomio. Soffre, Paolo, per una situazione che non accetta. "Voglio uscire di qui, lo può scrivere questo la prego", ripete in continuazione. Il suo desiderio è tornare m società. Ma ammette che Barete è un paradiso. "Sono tutti molto affettuosi e professionali, prima ho passato mesi di inferno in un manicomio, stavano tutti nudi, urlavano, e non si poteva uscire mai, un posto pericoloso. Come lo era l’Opg di Aversa, dove ho passato quattro mesi". Alessio è un altro paziente, ha vissuto qualche mese in carcere. "Mi è bastato, ora a Barète sono sereno, anche se i problemi in famiglia che mi hanno condotto fin qui restano. Ma adesso ho un’idea chiara di cosa vorrei dalla mia vita. Uscito di qui mi piacerebbe avere un mio appartamento e iniziare a lavorare". Alessio è appassionato di cucina. Quando entriamo nel suo mini appartamento ci accoglie un profumo di salsa di pomodoro. "Adoro cucinare e poi organizzare pranzi e cene con gli amici con cui ho legato". Scene di vita quotidiana. Istantanee di uomini e donne che cercano di riprendersi a tutti i costi la normalità con gesti semplici, per noi banali. Una ricetta, un tiro al pallone, un corso di cucina, un po’ di palestra, un libro da leggere. Eresie per quell’epoca da poco tramontata degli Opg. Intervista a Peppe dell’Acqua: "basta ergastoli bianchi" di Gianpaolo Sarti L’Espresso, 23 aprile 2017 Fino a ieri accadeva di essere rinchiusi tutta la vita per una condanna a pochi mesi. Parla un pioniere della lotta contro gli Opg colloquio con Peppe Dell’Acqua. Ne ha trascorse di ore e giorni interi in quei corridoi e stanze luride. Ha visto la miseria di cessi e cucine. Tra le mani si è girato e rigirato cartelle cliniche, a decine. Le ha lette, studiate, e sempre si domandava perché. "Ricordo i rumori delle chiavi, le porte blindate". Incrociava sguardi persi, anime senza identità. "Mi domandavo perché". Nel 2014 la legge ha detto basta. La legge ha chiuso gli Opg, gli ospedali psichiatrici giudiziari che Peppe Dell’Acqua un anno prima aveva visitato in tutto il Paese con "Marco Cavallo", la scultura di cartapesta e legno simbolo di quel messaggio di libertà partito da Trieste negli anni Settanta, l’epoca che aveva sancito la fine dell’isolamento dei malati mentali. Oggi il passaggio dagli Opg alle Rems, le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, segna una nuova rivoluzione culturale di dignità e diritti. "E di umanità", aggiunge Dell’Acqua. Psichiatra, una lunga carriera nel solco di Basaglia, ha lavorato a Trieste per 45 anni, di cui 18 da direttore del Dipartimento di salute mentale. Possiamo considerare la chiusura degli Opg e la nascita delle Rems un passaggio epocale? "Sì. Siamo l’unico Paese al mondo che ha messo mano alle forme più arcaiche dell’internamento. È proprio di questi giorni l’uscita dall’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina, degli ultimi quattro internati. Ora abbiamo le Rems, una trentina, nate in tutte le regioni e non senza fatica. Luoghi di accoglienza in cui la misura di sicurezza si potrà svolgere in altro modo". Cos’era prima? "I manicomi criminali nascono nel 1876 come luogo di scarico delle carceri. Aversa è il primo. Vengono rinchiusi i "rei folli" chi in carcere disturba e manifesta malattia mentale. Alla fine del se colo nascono gli altri sei manicomi criminali che interneranno tutte quelle persone che commettono un reato e che da una perizia psichiatrica vengono ritenute incapaci di intendere e di volere e socialmente pericolose. La misura di sicurezza dura per due, cinque, dieci anni. Il giudice determina gli anni di internamento condizionato dall’allarme sociale e dall’efferatezza del crimine. La legge che è uguale per tutti non lo è per i "matti", perché l’internamento è subordinato alla pericolosità. Non saranno quindi due anni, ma tre. Non tre ma cinque o dieci. C’è chi rimane in quei luoghi per tutta la vita avendo commesso un reato punibile con sei mesi. È l’ergastolo bianco". Lei i manicomi criminali li ha visitati. Cosa le è rimasto? "Li ho visitati negli anni Settanta. E poi, tutti e sei, uno dietro l’altro, con Marco Cavallo nel 2013. Tra il 2010 e il 2011, inoltre, il tribunale di Firenze mi aveva incaricato per una perizia su 21 morti sospette all’Opg di Montelupo Fiorentino. In quell’occasione mi sono passate per le mani decine di cartelle. Ho passato giorni interi in corridoi e stanze per rendermi conto fino in fondo della realtà. Ricordo i rumori delle chiavi, le porte blindate, gli spioncini. La miseria dei cessi e delle cucine. Alla fine ti resta l’insensatezza dei luoghi. Non c’era un senso che potesse spiegare il perché della negazione, dell’assenza dell’umano, della violenza. Non sto parlando della violenza fisica e della costrizione, che pure c’è. Bensì dell’assenza: le persone non ci sono più. E della cancellazione totale del diritto. Non sono detenuti che possono domandare "quando esco?" o dire "voglio l’avvocato". L’internato si identifica nella pericolosità. Non può che chiudersi m se stesso, quasi a proteggere, a coltivare la malattia che resta l’unica difesa che ha per mantenere un brandello della sua originaria identità". Ora siamo a una svolta, possiamo dirlo con fermezza? "Gli Opg non ci sono più dal punto di vista strutturale e nemmeno sotto il profilo di una buona parte delle procedure che rendevano questi luoghi così insensati. La legge 81 del 2014 ha preso atto che il modello culturale e scientifico, su cui si basava il manicomio criminale, è un paradigma residuo della psichiatria positivista: l’infermità mentale è una malattia del cervello. Punto. Oggi parliamo di disturbo mentale, passibile di cambiamenti e guarigione se curato. Dove la cura non è star chiusi e assume re un farmaco, bensì è qualche cosa che può anche significare restare in un luogo, ma all’interno di un progetto personalizzato. Un contesto relazionale. Con la legge viene stabilito che una persona non può restare nella Rems più del tempo previsto dal massimo della pena che il codice prescrive per quel reato". Le Rems sono in grado di assicurare programmi personalizzati? "Il governo ha stabilito che tutte le regioni possano accedere a delle risorse aggiuntive per aggiustare strutture e riorganizzare i dipartimenti di salute mentale, oltre alle risorse per garantire il funzionamento del progetto. Cioè fondi per il personale e progetti terapeutici. Sta accadendo: ci sono oggi circa 550 persone nelle trenta Rems previste. Ricordiamo che, quando la commissione Marino aveva iniziato le ispezioni, ce n’erano 1.500. Gli incentivi investiti e il dibattito aperto, hanno fatto sì che molte persone siano state incluse in progetti o non siano neppure entrate nelle residenze. Prendiamo l’esempio del Friuli Venezia Giulia: avrebbe dovuto fare una Rems con dieci posti letto, ma ci siamo battuti e con il governo regionale siamo riusciti a creare tre punti tra Trieste-Gorizia, Udine e Pordenone che in totale offrono una disponibilità di non più di sei posti. Oggi, dopo un anno di funzionamento, possiamo dire che quei posti per più della metà restano vuoti. Questo accade quando i Dipartimenti di salute mentale sono in grado di farsi carico dei programmi cuciti su misura". Come tutti i passaggi epocali ci si apre a nuovi problemi. "Ci sono le Rems e finalmente progetti di cura. Rimane il codice Rocco, il concetto di pericolosità, di incapacità, di non imputabilità. Il "folle reo" tuttavia resta cittadino e può accedere al diritto costituzionale della cura. Come dice Papa Francesco, cerchiamo di superare la cultura dello scarto". Il Csm e gli Opg: l’Ansa cavalca l’allarmismo strumentale di Franco Corleone L’Espresso, 23 aprile 2017 La cattiva informazione prospera e miete vittime. L’ultimo caso è del 20 aprile. Il Consiglio Superiore della Magistratura ha approvato una delibera di trenta pagine sulle questioni interpretative e i problemi applicativi della legge 81 sul superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) e l’istituzione delle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) in cui alla luce delle audizioni fatte, fra cui quella al Commissario unico per la chiusura degli Opg propone profonde riforme legislative e del Codice penale e indica alla magistratura di cognizione e alla magistratura di Sorveglianza precise indicazioni per rispettare la legge e per valorizzare la riforma. Di tutto questo l’agenzia giornalistica Ansa nel suo lancio delle 19.33 non dà conto. Non solo. Riporta invece alcuni segnalazioni di allarme di vari giudici pervenute al CSM sulla problematica delle liste d’attesa di misure di sicurezza non eseguite per mancanza di posti nelle Rems. È un brutto vizio quello di cavalcare la tigre della non completezza dell’informazione. Poi ci si stupisce della retorica, della propaganda e del populismo! Molte di queste denunce sono superate dalla realtà come quelle del Veneto o dell’Emilia Romagna, altre sono dovute alla disapplicazione della legge proprio da parte dei magistrati di alcune regioni, in particolare della Sicilia. È chiaro il tentativo di diffamare una riforma di civiltà e di umanità che pone l’Italia all’avanguardia in Europa e nel mondo avendo scelto dopo la chiusura del manicomio civile con la legge Basaglia, anche la chiusura del manicomio criminale. Purtroppo alcuni giornali sono caduti nella trappola nonostante la dura smentita del vice presidente del CSM, Giovanni Legnini delle 19.33 sulla falsificazione del parere approvato dal plenum. Certamente la riforma ha evidenziato molte criticità e quindi occorrono interventi seri per esaltare il lavoro eccezionale del personale che lavora nelle Rems consapevole di partecipare alla costruzione di una straordinaria avventura. Il 18 e 19 maggio a Bologna si svolerà una riunione del Coordinamento delle Rems e quella sarà la sede per mettere a punto una strategia per rafforzare la svolta. Se l’Ansa vorrà seguire i lavori farà bene a inviare un giornalista capace e non fazioso. Anm: toghe in politica, linea dura sul rientro di Liana Milella La Repubblica, 23 aprile 2017 Svolta dei magistrati: le porte dei tribunali restino chiuse per chi è stato eletto, meglio un posto nella Pa. Il presidente Albamonte: contrari alla possibilità di chiedere il trasferimento in Cassazione, sarebbe un premio. Sì a chi entra in politica, a patto che non sfrutti inchieste eclatanti. È un diritto costituzionale, e non si può azzerare. Ma per chi si lascia alle spalle la politica, soprattutto dopo molti anni, le porte dei tribunali restino chiuse. Meglio un posto - perché anche il diritto al lavoro è garantito dalla Carta all’articolo 51 - come Avvocato dello Stato o nella pubblica amministrazione. Decisamente no invece a uno scranno in Cassazione. L’Anm si sveglia sulle toghe in politica. Due anni dopo il Csm, che nel 2015 aveva già chiesto al Parlamento paletti più rigidi sia in entrata che in uscita, adesso anche il sindacato delle toghe, con la nuova presidenza di Eugenio Albamonte, decide di uscire allo scoperto su un tema reso di particolare attualità dalla candidatura, a segretario del Pd, del governatore della Puglia Michele Emiliano. Che tuttora resta magistrato, pur se in aspettativa dal 2004, ed è stato anche segretario e presidente del Pd pugliese, tanto da ritrovarsi sotto processo disciplinare. Alla Camera è stato appena approvato e rimandato al Senato, che lo aveva votato tre anni prima, il ddl che impone regole più stringenti, ma le toghe dell’Anm, nella consueta riunione mensile del sabato a piazza Cavour, vanno oltre. Dice il presidente Albamonte: "Sì alle candidature per ragioni costituzionali, a patto che non si sfruttino processi celebri, ma ci deve essere una stretta in uscita, non più nell’ordine giudiziario, ma in altri ruoli nella pubblica amministrazione o nell’Avvocatura". Dal presidente dell’Anm un no netto all’ipotesi, contenuta proprio nel ddl votato a Montecitorio, che un magistrato, da deputato o senatore, possa rientrare in Cassazione, o in un collegio o alla procura generale. Su questo le correnti dell’Anm sono state molto nette e unanimi. Ecco il segretario dell’Anm, Edoardo Cilenti di Mi: "C’è il rischio di una corsia preferenziale a fronte di colleghi che nutrono legittime aspettative facendo sempre il magistrato". Luca Poniz di Area: "Mi sembra una follia pensare a un ricollocamento in ruoli apicali in Cassazione o al Consiglio di Stato". E Giovanni Tedesco, anche lui di Area: "In Cassazione si va per concorso, per titoli, lo valuta il Csm, non va punito, ma non va neppure premiato, chi fa politica". Singolarmente, stavolta i magistrati non sono in sintonia con il Pd, ma con Forza Italia, i centristi di Alfano, ma anche M5S e i bersaniani, che alla Camera hanno duramente criticato la scelta di poter tornare in Cassazione, che nella versione del Senato - il ddl porta la firma dei fornisti Nitto Palma, Zanettin, Caliendo - non era prevista. L’Anm approverà a breve un suo documento, ma dai toni del dibattito è già chiaro quale sarà l’indirizzo, assai simile alla risoluzione del Csm dell’autunno 2015. Paletti rigidi in entrata, e ancora più rigidi in uscita. Dice Alfonso Scermino di Unicost: "O si fa una modifica costituzionale, o si limita in rientro alle funzioni civili". Giuseppe Marra di Autonomia e Indipendenza, la corrente di Davigo: "Il magistrato che fa politica non può tornare a esercitare funzioni giudiziarie". Fino a Tommasina Cotroneo di Unicost: "I colleghi che fanno politica arrecano un grandissimo danno all’immagine di terzietà della magistratura". Scure anche per chi, come i capi di gabinetto, entra nei ranghi governativi: non potrebbero assumere incarichi direttivi per due anni. Era così pure al Csm, ma adesso il tempo è stato ridotto a un anno. Migliucci (Ucpi): "la riforma della prescrizione violerà i diritti della difesa" di Gigi Di Fiore Il Mattino, 23 aprile 2017 L’avvocato Beniamino Migliucci è il presidente dell’Unione delle Camere penali. Spiega l’astensione nazionale dei penalisti dalle udienze, fissata dal 2 al 5 maggio, con contemporanea raccolta di firme per presentare un disegno di legge popolare sulla separazione delle carriere in magistratura. Avvocato Migliucci, perché quattro giorni di astensione dalle udienze? "Un’iniziativa decisa nell’imminenza del dibattito alla Camera sulla riforma del processo penale. Speriamo che non si decida, come è accaduto al Senato, ricorrendo al voto di fiducia al governo". Cosa criticate della riforma approvata al Senato? "Due innovazioni soprattutto. In primo luogo, la previsione della partecipazione a distanza nei processi anche per imputati detenuti per reati minori. Sarebbe un allargamento dell’ipotesi attualmente in vigore per i soli imputati al 41-bis". Perché vi opponete questa innovazione? "La riteniamo una violazione del diritto della difesa e del giusto processo. L’imputato ha diritto a presenziare di persona al suo processo, accanto al difensore. La videoconferenza rende tutto più difficile. È un’innovazione introdotta per risparmiare sui trasferimenti dei detenuti, ma non si può ragionare in termini economici quando ci sono in mezzo il riconoscimento di diritti". Lo avete illustrato alle commissioni parlamentari? "Sì, siamo stati sentiti, abbiamo portato le nostre proposte e le nostre idee. Sull’economicità, ad esempio. Poche aule giudiziarie sono dotate degli strumenti di videoconferenza che occorrerebbero per celebrare così tanti processi a distanza, oltre a quelli con imputati al 41-bis. Adeguare tutte le aule costerebbe non poco. Ma è sui diritti violati che abbiamo espresso la nostra maggiore contrarietà". Di che violazioni, in particolare, vi siete lamentati? "Nel generale diritto della difesa rientra anche la scelta affidata ai giudici del processo, che in modo discrezionale possono decidere se far trasferire l’imputato detenuto in aula o celebrare l’udienza a distanza. Si viola la norma dell’uguaglianza dinanzi alla legge, su cui è stata fatta eccezione, riconosciuta legittima nel 1999 dalla Corte costituzionale, solo per chi è detenuto al 41-bis". Anche sulla riforma dei termini di prescrizione non siete d’accordo? "Sì, l’allungamento di quei termini renderà infinita la durata del processo, quando c’è tutto l’interesse, per gli indagati, le parti civili, la società, che si arrivi presto ad una sentenza. La prescrizione è un incentivo ad arrivare a conclusione in tempi ragionevoli e risponde a principi costituzionali. Il 60 per cento delle prescrizioni arriva nella fase delle indagini. Allungare i termini significa non dare mai la possibilità di poter programmare la propria vita, con la spada di Damocle di una sentenza destinata ad arrivare dopo tanti anni". Siete convinti che le indagini durino troppo? "Sì, le continue proroghe hanno violato lo spirito della riforma del codice di procedura del 1989. Tutta l’attenzione e l’importanza è nella fase delle indagini, poco margine esiste nel dibattimento e si svilisce il ruolo difensivo. Se poi si allontana troppo la condanna dal momento della commissione presunta del reato, viene meno anche il valore sociale del processo. Risolvere in questo modo problemi organizzativi legati al processo non ci sembra una buona strada". Cosa chiedete, quindi? "Che si rivedano questi due aspetti della riforma, lasciando spazio al dibattito alla Camera senza chiuderlo, come è avvenuto al Senato, con un voto di fiducia". Nel giorno di avvio dell’astensione dalle udienze, partirà anche la vostra raccolta di firme sulla proposta di legge per la separazione delle carriere dei magistrati? "Sì, abbiamo depositato il testo in Cassazione. Dobbiamo raccogliere 50mila firme. Siamo convinti che il giudice debba essere terzo, con carriera diversa dal pm. Tutto questo, mantenendo l’autonomia della magistratura requirente. È una garanzia di terzietà reale del giudicante". A chi spetta la lotta alla corruzione di Giovanni Verde Il Mattino, 23 aprile 2017 L’ostilità verso l’immigrato o verso il corruttore o verso chi gode di rendite di posizione fa emergere il peggio di noi. È proprio in questo momento che l’opinione pubblica dovrebbe essere guidata con saggezza. Chiunque ha qualche responsabilità nel formarla dovrebbe usare prudenza e moderazione ed è pericoloso (oserei dire, delittuoso) cavalcare la tigre della paura e della protesta. Il risultato è quello di rinchiuderci nella gabbia delle nostre sicurezze a prezzo della rinuncia alle nostre libertà; di più, alla nostra civiltà. Il caso della polemica sui poteri dell’Anac è esemplare. È bene che tutti leggano il comma 2 dell’art. 211 del codice degli appalti: "Qualora l’Anac ritenga sussistere un vizio di legittimità in uno degli atti della procedura di gara invita la stazione appaltante ad agire in autotutela e a rimuovere gli eventuali effetti degli atti illegittimi. Il mancato adeguamento della stazione appaltante è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria posta a carico del dirigente responsabile. La raccomandazione è impugnabile innanzi ai competenti organi di giustizia amministrativa". Non occorre la laurea in giurisprudenza per comprendere che, in questo modo, all’Anac sono stati attribuiti poteri equivalenti a quelli del giudice. Infatti, all’Anac è dato un potere di accertare responsabilità, di comminare sanzioni e, alla fine, di intimorire il funzionario responsabile, che preferirà obbedire (lasciando al concorrente alla gara di appalto l’onere di ricorrere al giudice). Si dirà che spesso l’Amministrazione ha poteri analoghi. In questo caso, tuttavia, c’è una differenza. Il potere sanzionatorio è legato ad una valutazione sulla legittimità dell’atto amministrativo che nel nostro sistema è affidata al giudice anche a tutela di chi, estraneo all’Amministrazione, dal provvedimento si può sentire danneggiato. Di conseguenza, si finisce col dare all’Anac il potere di sovrapporsi alla valutazione giudiziale, anticipandone gli effetti. Il Consiglio di Stato, nel rendere il parere richiesto al fine di valutare l’opportunità di introdurre correttivi o emendamenti al codice degli appalti, aveva segnalato l’opportunità di modificare la disposizione, ritenendo che quest’ultima riconosceva all’Anac un potere che non era previsto nella legge di delega (alla quale il legislatore delegato, come si sa, deve attenersi). Ed il suggerimento, come ha chiarito il presidente del Consiglio di Stato, era nel senso che l’Anac possa e debba diffidare l’Amministrazione affinché annulli in autotutela gli atti illegittimi e ne rimuova gli effetti e, in caso di rifiuto o di inerzia dell’ente appaltante, perché faccia ricorso al giudice amministrativo per chiedere gli opportuni provvedimenti urgenti, così salvando il principio (costituzionale) secondo cui la tutela dei diritti e degli interessi spetta al giudice ed evitando dubbi su di un eventuale eccesso di delega. Qualcuno - non si sa chi e non voglio dare ascolto alle voci di corridoio - ha ritenuto che, in sede di correzione del decreto, la soluzione migliore sarebbe stata quella di eliminare la disposizione. Apriti cielo! Siamo pieni di giustizialisti della domenica, che subito hanno gridato all’attentato alle nostre pubbliche e private virtù. "Si vogliono aprire le parte (per vero già molto cedevoli) alla corruzione!", si è gridato. E subito si è fatto il vuoto. Chi è l’amico occulto dei corruttori. Non è il caso che qualche Procura apra un fascicolo di inchiesta. Il mondo politico è entrato in fibrillazione. A quanto si legge, Renzi ha telefonato a Gentiloni, al quale avrà detto che per questa faccenda si correva il rischio di perdere qualche milione di voti. E Gentiloni, forse neppure capendo bene la faccenda, dal Canada si è affrettato a smentire e ad assicurare. Perfino, il presidente del Consiglio di Stato, uomo di raffinata cultura giuridica e di non meno acuta intelligenza, è apparso sulla difensiva e ha preso le distanze. "Non abbiamo proposto di sopprimere il comma, ha detto in un’intervista. "Anzi, abbiamo suggerito di rafforzare i poteri dell’Anac", ha soggiunto. E Cantone ha finito col credere di essere vittima di una oscura macchinazione volta a limitare i suoi poteri. Che tristezza! Provo con il lettore a comprendere che cosa sarebbe successo senza quel comma scellerato. Ci sarebbe stata qualche disposizione che avrebbe impedito all’Anac di chiedere all’Amministrazione appaltante di adoperare i poteri di annullamento in autotutela. Di più. Non sarebbe stata tale richiesta del tutto conforme alla funzione assegnata all’Anac. E non sarebbe stata quest’ultima, di fronte al rifiuto o all’inerzia della stazione appaltante, legittimata ad agire dinanzi al giudice amministrativo per provocare l’annullamento dell’atto? Chi le avrebbe potuto mai negare una sufficiente posizione differenziata idonea a supportare un suo interesse alla richiesta di intervento del giudice, all’annullamento dell’atto e, prima ancora, a provvedimenti di cautela? In realtà la soppressione del comma non avrebbe condotto a risultati diversi rispetto a quelli che il Consiglio di Stato aveva suggerito, proponendone una riscrittura. Ed in questo modo si sarebbe evitata una sovraesposizione dell’Anac, che - non dimentichiamolo - è un organismo amministrativo di nomina politica e, quindi, non gode delle garanzie che spettano ai giudici, che - non dimentichiamo anche questo - non sono un orpello, ma la precondizione della loro imparzialità e neutralità. Che cosa resta di questa vicenda? Il clamore, un’ulteriore picconata alla credibilità delle nostre istituzioni, la sensazione di una loro sempre maggiore e preoccupante debolezza. E resta un comma o meglio potrebbe restare un comma, qualora il Governo desse ascolto alla protesta, senza che nessuno abbia osato chiedersi se lo stesso sia compatibile con un sistema di autentica democrazia. 20 anni, profugo e psicotico: finisce in carcere di Maria Cristina Carratù La Repubblica, 23 aprile 2017 Per i migranti con patologie psichiche il rischio di finire in carcere è alto. Il caso il ragazzo marocchino ha delle patologie che si sono aggravate dopo lo sradicamento: aveva rubato un portafoglio. Qualcuno li ha chiamati "diversamente forestieri", e sono il volto (se possibile) ancora più drammatico dell’immigrazione. Sono i tantissimi stranieri (in crescita esponenziale, dicono gli operatori) con patologie psichiatriche più o meno gravi, ma che dopo le odissee dei barconi, dei naufragi, dello sradicamento dalla terra di origine, diventano spesso gravissime. Trascurate nel caos degli sbarchi, nessuno se ne accorge finché non succede qualcosa di grave, e il "matto" dalla pelle scura non finisce in carcere. Solo che il carcere non dovrebbe essere la sua destinazione, come non dovrebbe esserlo di nessun altro (salvo i casi di legge), dopo la definitiva chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari. Ma il condizionale è d’obbligo, in Italia, sia per gli italiani che per gli stranieri, come mostra l’ultimo caso capitato a Sollicciano, quello di A.L., ragazzo marocchino di vent’anni, l’aria da bambino e gli occhi sperduti, che nei giorni scorsi si è ritrovato dietro le sbarre senza sapere perché. Agli operatori sanitari del Reparto assistiti del carcere appare subito chiara la sua condizione di psicotico acuto, A. guarda fuori dalla grata e pensa che i palazzi di Casellina siano quelli di Casablanca, "casa mia, casa mia!" grida. Ma appunto: che ci fa lì, insieme a dei detenuti comuni? Semplice: le Rems, le residenze di esecuzione delle misure di sicurezza dove il giudice lo aveva mandato, sono sature. Ma quella di A., in realtà, è un’odissea dalle molte tappe. Sbarcato chissà dove, passato indenne dai check up dei centri di accoglienza, un bel giorno al Dea dell’ospedale di Torregalli ruba un telefonino a un paziente. O meglio, ci prova, lo fa davanti a tutti, è evidente che il suo è un gesto assurdo, ma intanto viene arrestato, imputato di tentata rapina, giudicato dai periti totalmente infermo di mente, ma anche socialmente pericoloso. Non tanto, però, da dover finire in una Rems, e dunque il giudice lo destina ad un Spdc (Servizio psichiatrico di diagnosi e cura), quello di Torregalli, dove, però, in quel momento non c’è posto. Il giudice allora dispone per la Rems di Volterra, ma anche la Rems è piena, e così non resta che il carcere. In barba a ogni principio giuridico nonché sanitario. Adesso A. è all’Spdc di Torregalli, dove intanto si è liberato un posto, ma non è detto che l’extrema ratio delle sbarre prima o poi non si ripresenti. "Invece di creare più Rems e una filiera riabilitativa sul territorio che includa gli Spdc, secondo lo spirito della 180, si stanno ricreando dei nuovi Opg nelle carceri", dice la psichiatra Gemma Brandi, responsabile della salute in carcere della Usl centro Toscana. Così "oggi si rischia di finire dietro le sbarre anche per un reato- bagattella come quello del povero ragazzo marocchino, senza i necessari percorsi preventivi". Un rischio "gravissimo, una manipolazione della risposta di salute mentale. E nessuno si meravigli se poi il carcere diventa teatro di disgrazie, dove i suicidi sono all’ordine del giorno". Tanto più per gli stranieri, "a Sollicciano il 68% circa del totale, fra i quali gli psicotici gravi sono in continuo aumento". E che in mancanza di diagnosi tempestive, di reti di relazioni sul territorio, "rischiano di diventare mine vaganti, colpevoli di eventi tragici solo apparentemente non prevedibili". Calabria: i Radicali proseguono il digiuno per il Garante dei detenuti ildispaccio.it, 23 aprile 2017 I radicali Giuseppe Candido e Rocco Ruffa proseguono lotta non violenta attraverso la forma del digiuno a staffetta per dialogare con il Presidente del Consiglio Regionale Nicola Irto e chiedere di mettere subito in discussione il progetto di legge regionale per l’istituzione del Garante regionale delle persone private della libertà. Lo si apprende da una nota di Giuseppe Candido, militante del Partito Radicale che ricorda che, "anche questa settimana", farà "un giorno di digiuno (sabato), di sciopero della sete e di contemporanea autoriduzione insulina, in sostegno al digiuno di 4 giorni alla settimana fatto da Rocco Ruffa (che un giorno dei quattro lo fa anche di sciopero della sete) per chiedere al presidente del Consiglio Regionale Nicola Irto e al consiglio regionale tutto, di discutere subito (e approvare) in progetto di legge regionale n. 10/34 per l’istituzione del garante regionale delle persone privata della libertà personale". La lotta non violenta portata avanti dai due esponenti del partito di Marco Pannella è sostenuta dalle condizioni di vita nelle dodici carceri calabresi (sovraffollamento di alcuni istituti, carenze croniche di agenti ed educatori, carenze di lavoro e di accesso alle cure, all’istruzione e ad altre attività rieducative) rilevata da Candido e Ruffa nelle diverse visite effettuate in tutte e dodici le carceri calabresi e i cui report sono stati pubblicati, di volta in volta, sul sito dell’associazione "non mollare", almcalabria.org. Nel comunicato stampa i Radicali sottolineano che, quello di cui chiedono urgentemente la discussione in Consiglio Regionale con il loro digiuno a staffetta "è un progetto di legge presentato e definito urgente dallo stesso presidente Irto quasi due anni fa - il 13 maggio 2015 - quando ancora non era stato eletto presidente e che si è arenato in prima commissione dal 30 giugno dello stesso anno". Per questo, prosegue il comunicato, "anche dopo la marcia di Pasqua organizzata dal Partito Radicale per l’amnistia tenutasi a Roma la scorsa domenica di Pasqua, in Calabria, non mollano la lotta nonviolenta per il Garante dei detenuti perché è la forza e l’amore per la verità che ci anima". Bollate (Mi): in carcere porte aperte al recupero di Paolo Foschini Corriere della Sera, 23 aprile 2017 E ancora. Le tantissime attività di quelli di Bollate con un ristorante che un mese fa si è beccato anche i complimenti di Cracco, la Prima della Scala in diretta da anni dentro San Vittore col sovrintendente che da anni va a spiegarla, il coro dei detenuti che in dicembre era uscito a cantare in casa Manzoni, e i cento che hanno lavorato all’Expo (con uno di loro il quale sventò anche un furto), e poi quelli che durante l’inverno hanno ripulito le rive dell’Idroscalo. E per la prima settimana di maggio è già cantiere una iniziativa dell’Università Bicocca, aperta alla cittadinanza, che gli istituti carcerari milanesi li dovrebbe coinvolgere tutti e tre. Per non dire di papa Francesco che proprio ai detenuti di San Vittore ha dedicato la tappa più privata e lunga della sua visita a Milano. Ora: va riconosciuto che non è un lavoro semplice. Che oltre all’indirizzo - diciamo così - che un provveditore come Pagano può magari imprimere non c’è nessuna di queste cose (visita del Papa a parte, perché lì ubi major eccetera) che potrebbe andare in porto se non fosse per l’impegno dei rispettivi direttori Manzelli, Parisi e Siciliano, della polizia penitenziaria, degli educatori e operatori interni e non, oltre naturalmente a un atteggiamento costruttivo da parte della magistratura - specie quella di sorveglianza - al cui insieme va dato atto della capacità di fare quando si vuole una cosa oggi piuttosto rara. Assumersi cioè la responsabilità, come si diceva all’inizio, di prendere decisioni con la testa in un campo su cui la pancia del sentire comune calerebbe volentieri la mannaia di tutt’altra strategia, in verità assai più semplice: buttare la chiave. Sapendo ogni volta di esporsi al rischio di essere fischiati se qualcosa va storto, magari anche solo in un caso su duecento e passa (è così), perché sui giornali finirà quello e non gli altri centonovantanove. E correrlo lo stesso, vagliando caso per caso, dicendo che ne vale la pena. Sarà impopolare anche dirlo: ma averne. Il carcere che toglie le barriere La regola sarebbe tanto antica quanto saggia: decidere con la testa e poi fare con la pancia. Scegliere col cervello, fare con passione. Quando ci si riesce i risultati sono quasi sempre buoni, salvo che poi li ignoriamo. Per esempio quando si parla di prigioni: un tema che torna di attualità, per dire, a ogni attentato. "Il fanatismo è un germe che attecchisce nelle carceri", hanno detto gli esperti anche l’altro ieri dopo Parigi. "Allora facciamole con ancora più sbarre e più muri", è la risposta di molti. Peccato non ricordarsi, in quelle circostanze, la pura constatazione matematica che forse di per sé basterebbe a chiudere il discorso: la recidiva (cioè il ritorno a delinquere) per chi sconta la sua pena tutta in galera sfiora il 70 per cento, mentre per chi paga il suo conto con misure alternative è inferiore al 20. Cioè dovrebbe bastare la matematica per dire che le prigioni, al netto degli ovvi filtri legati al mantenimento della sicurezza, se vogliono contribuire a tradurre davvero in pratica l’articolo 27 della Costituzione ("Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato": non è un regalo a lui, bensì alla società che riacquista un cittadino al posto di un criminale) non hanno bisogno di muri più alti ma di porte più aperte. Una cosa che in verità il provveditore delle carceri lombarde Luigi Pagano predica da sempre. E che ultimamente sta facendo diventare Milano un modello anche su questo. Andiamo a ritroso citando solo a memoria: il concerto dei ragazzi dell’orchestra Pepita l’altro ieri a San Vittore, gli spettacoli teatrali dei detenuti di Opera. Milano: un anno detenuto all’Ipm Beccaria, ma è innocente "ora lo Stato paghi" di Andrea Gianni Il Giorno, 23 aprile 2017 "È come se fossi rimasto per un anno in coma: prima di finire in carcere avevo dei sogni, volevo diventare un grafico, adesso non mi è rimasto più niente". Lo spartiacque nella vita di Maroine Er Rabhi risale al 29 gennaio 2013 quando, a 17 anni, fu arrestato con l’accusa di cessione di sostanze stupefacenti, estorsione e lesioni nell’ambito di un’indagine su un giro di spaccio di droga a minorenni. Nonostante fosse incensurato ha trascorso cinque mesi (per l’esattezza 146 giorni) nel carcere minorile Beccaria di Milano. Nel giugno 2013 ha ottenuto la misura meno afflittiva della collocazione in una comunità a Garlasco, nel Pavese. E, nel gennaio 2014, un anno dopo l’arresto, è stato rimesso in libertà per scadenza dei termini di custodia cautelare. Il colpo di scena è arrivato nel corso del processo davanti al Tribunale per i minorenni di Milano. Il 25 maggio del 2015 i giudici hanno assolto Maroine, che si è sempre proclamato innocente, "per non aver commesso il fatto". Lo stesso pm aveva chiesto l’assoluzione per il reato di estorsione, proponendo invece la condanna per spaccio. In sostanza l’impianto accusatorio - basato in particolare sui racconti di ragazzi che avrebbero acquistato la droga e avrebbero subito violenze per ottenere il pagamento di debiti - non ha retto nel processo. I giudici, nelle motivazioni della sentenza, hanno definito "contrastanti" le dichiarazioni dei testimoni. E hanno sottolineato inoltre che "la pubblica accusa non ha fornito nessun altro elemento di prova a conforto della sostenuta attività di spaccio". Per la giustizia Maroine, quindi, è innocente. Ora, assistito dall’avvocato Edoardo Mastice, chiede un maxi-risarcimento allo Stato italiano: 158.200 euro per ingiusta detenzione. "La somma - scrivono gli avvocati nell’istanza sulla quale i giudici devono ancora esprimersi - è calcolata in 500 euro per ogni giorno trascorso in carcere e 400 euro per ogni giorno passato in comunità". Dopo la liberazione il giovane - nato in Marocco e residente in Italia dall’età di un anno - è tornato a vivere a Rovellasca, nel Comasco, assieme alla madre e ai fratelli. Lavora come cameriere, cercando di lasciarsi il passato alle spalle. "Dopo l’arresto mi hanno portato immediatamente al Beccaria - racconta. Alle 8 sono entrato in carcere, e alle 8.30 ero già con gli altri ragazzi. Quando dicevo di essere innocente nessuno mi credeva e, alla fine, ho smesso di parlare dei miei guai". L’esperienza al Beccaria è stata segnata anche dal tentativo di suicidio del suo compagno di cella, e dal tempestivo intervento per salvargli la vita. "Ricordo che stavo guardando Harry Potter in televisione e mi sono addormentato - racconta - all’improvviso ho sentito dei rumori, mi sono svegliato e ho visto il mio compagno di cella appeso al soffitto. Ho iniziato a urlare per richiamare l’attenzione, sono riuscito a tirarlo giù e a togliere il cappio. Per questo ho ricevuto anche un encomio da parte dell’amministrazione del carcere. Ho festeggiato i miei 18 anni da detenuto - prosegue - invece di essere assieme ai miei amici". Poi è arrivato il trasferimento in comunità e, infine, l’assoluzione. "In tutto questo tempo mi sono sentito piccolo come una formica - prosegue - un oggetto che poteva essere spostato a piacimento. Quando sono stato assolto il giudice si è avvicinato e mi ha chiesto scusa. Non so cosa farmene delle scuse. Non mi interessano neanche i soldi - conclude - preferirei avere un lavoro stabile e dimenticare tutto". Milano: il concerto dei ragazzi a San Vittore, una Pepita oltre la soglia del carcere di Rossella Verga Corriere della Sera, 23 aprile 2017 L’orchestra sociale di 47 giovanissimi musicisti, dai 9 ai 20 anni, guidata dal maestro De Lorenzi, ha incantato San Vittore. Standing ovation di un centinaio di detenuti. Non ci sono sbarre per la musica, soprattutto se a suonarla sono ragazzi dai 9 ai 20 anni. Venerdì il portone di San Vittore si è spalancato davanti a 47 giovani musicisti dell’orchestra Pepita, nata sul modello ideato in Venezuela da José Antonio Abreu per "trasformare le diversità in speranza". Nella "Rotonda", il cuore del carcere, i bambini e i ragazzi guidati dal maestro Paolo De Lorenzi si sono esibiti per oltre un’ora davanti a cento detenuti e hanno toccato il loro cuore. Shostakovich e Khachaturian, Strauss ma anche Ennio Morricone con "C’era una volta il west" che ha trascinato il pubblico oltre ogni aspettativa. Ma a travolgere è stata soprattutto la passione dei musicisti e del loro direttore artistico, al quale a un certo punto è persino sfuggita di mano la bacchetta. Non poteva mancare la standing ovation, venerdì a San Vittore. Ma anche un saluto affettuoso per più piccoli che alla fine del concerto sono saliti nel palco improvvisato della "Rotonda", intimiditi davanti a uomini e donne di tutti i settori del carcere. Eccoli i piccini al centro degli applausi: Giovanni, Zeno, Joel e Giulia con il suo violoncello quasi più alto di lei. "Non sono professionisti ma lo diventeranno", dice sicuro un detenuto. "Grazie, grazie di cuore". La Pepita milanese, cresciuta in nove anni numericamente e qualitativamente, ha offerto un repertorio classico ma anche un esempio. "Abbiamo accolto la proposta con entusiasmo - sottolinea la responsabile dell’area educativa, Silvana Di Mauro - La musica vuol dire rigore, metodo, disciplina ed è importante che entri qui. E poi è un linguaggio universale e a San Vittore ci sono tantissime etnie". "È un’emozione avere i bambini nella Rotonda - assicura la direttrice, Gloria Manzelli. La vostra presenza è una bella pagina per il carcere". Ed è la presidente di Children in Crisis Italy onlus, Barbara Bianchi Bonomi, a ricordare il motore di Pepita. "La musica come aggregazione e contro il disagio - spiega - ma non è solo quello vissuto nelle periferie: può essere anche timidezza, solitudine, difficoltà a mettersi in gioco. L’Orchestra è un progetto sociale che parte dai ragazzi ma si allarga a tutti. Ecco perché i nostri concerti si tengono nei teatri famosi, ma anche nei centri di accoglienza e nelle case di riposo". "Questi giovani trasmettono la gioia", aggiunge Gianluigi Pezzera, il direttore didattico che ha visto nascere la Pepita e ha contribuito a farla brillare. In 9 anni sono stati più di 250 i ragazzi italiani e stranieri che hanno preso parte al progetto (gratuito), collegato a "El Sistema" fondato da Abreu e avviato in Italia da Claudio Abbado. Per trasformare "i sogni in realtà", sempre sull’impronta di Abreu, accanto a Children in Crisis ci sono l’associazione Song Onlus e la Fondazione Isacchi Samaja (in collaborazione della quale è stato organizzato il concerto in carcere), c’è Andrea Pereira che ha gettato le prime basi dell’orchestra e ci sono le donazioni di chi crede che la musica sia un regalo che tutti meritano. Tso. Presentata alla Camera dei Deputati la proposta di legge "Mastrogiovanni" infocilento.it, 23 aprile 2017 Tra le misure: tutela legale, tetto a rinnovi, no contenzione e relazione Garante detenuti. "È battaglia culturale". Una "legge Mastrogiovanni" per riformare l’istituto del Trattamento sanitario obbligatorio che "a 39 anni dalla legge Basaglia nella sua applicazione concreta ha perpetuato una concezione manicomiale del trattamento psichiatrico". A lanciarla oggi Radicali Italiani in una conferenza stampa alla Camera dei deputati, insieme ai familiari di cittadini morti proprio nell’ambito di una procedura di Tso. Tra questi, Grazia Serra, nipote di Franco Mastrogiovanni il maestro elementare morto nel 2009 nel reparto psichiatria dell’ospedale di Vallo della Lucania, al quale i radicali hanno intitolato simbolicamente l’iniziativa, Osvaldo Esposito e Adele Malzone, rispettivamente padre di Marcello e sorella di Massimiliano, entrambi deceduti nell’ambito di una procedura di Tso. Al centro della proposta di riforma avanzata da Radicali Italiani: l’introduzione di una difesa tecnica e quindi di diritto di informazione e ricorso a beneficio di chi è sottoposto a Tso, lo stop alla contenzione meccanica, la garanzia del diritto di visita all’interno dei reparti psichiatrici di poter comunicare con l’esterno, il limite al numero di rinnovi, oggi non previsto dalla legge, e la segnalazione di ogni rinnovo al Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. "Siamo di fronte a ‘un’emergenza culturalè. Psichiatri e giuristi tra i più illuminati segnalano come il ricorso al Tso sia spesso disposto con superficialità e sottovalutando la privazione della libertà che esso determina. Per questo vogliamo rafforzare il sistema di garanzie, introducendo per chi è sottoposto a Tso le stesse tutele previste per le persone in stato di arresto", spiega Michele Capano, tesoriere di Radicali Italiani e avvocato della famiglia Mastrogiovanni. C’è "una straordinaria dissociazione culturale della normativa: chi si presuppone abbia commesso reato è tutelato dalle garanzie previste dall’art. 13 della Costituzione, per chi è vittima di eventuali patologie invece questo articolo si spegne e si assiste a una reificazione del corpo del malato mentale", osserva il segretario dell’Unione camere penali Francesco Petrelli che ha preso parte alla conferenza. Sulla stessa linea l’avvocato Gioacchino Di Palma, riferimento dell’associazione Telefono Viola: "Le persone sono trattate pregiudizialmente come malati, è una battaglia culturale". Una battaglia che il dottor Giorgio Antonucci, classe 1933, ha ingaggiato circa mezzo secolo fa al fianco di Franco Basaglia all’allora manicomio di Gorizia e che ancora oggi combatte nella convinzione che la "libertà è terapeutica", come ha ribadito intervenendo telefonicamente a sostegno della "legge Mastrogiovanni". A portare un saluto anche Gilda Losito dell’ufficio del Garante nazionale dei detenuti, che ha elencato le 4 condizioni da rispettare: "il tso deve rispondere a sintomi ben precisi, essere proporzionato alle condizioni di salute e definito un progetto terapeutico scritto e monitorato, e deve concludersi nel più breve tempo possibile". Lo stesso Garante nella sua relazione aveva denunciato la mancanza di statistiche specifiche sull’applicazione del Tso. Gli unici dati disponibili sono quelli relativi alle dimissioni, che descrivono un fenomeno enorme: quasi 11mila solo nel 2015. "si tratta di 30 al giorno", sottolinea il segretario di Radicali Italiani Riccardo Magi, "bisogna sottrarre questo tema allo scontro tra avvocati e psichiatri: le maggiori garanzie previste da questa riforma non pregiudicano l’efficacia della cura, a comprometterla sono invece gli automatismi burocratici e spersonalizzanti che ledono anche il lavoro dei medici. L’obiettivo fondamentale è aprire il dibattito nel paese su una questione trascurata da politica e media e la strada potrebbe essere una legge d’iniziativa popolare. Lo stiamo valutando", conclude Magi. Non solo: "Da quando abbiamo sollevato la questione abbiamo ricevuto diverse richieste di sostegno da parte di cittadini sottoposti a Tso, per questo stiamo anche pensando a un progetto di "soccorso civile" per aiutare la verifica della legalità delle procedure", annuncia Michele Capano. Migranti. Il Papa: "I campi profughi sono campi di concentramento" di Salvatore Cernuzio La Stampa, 23 aprile 2017 Forte denuncia di Francesco alla veglia per i "Nuovi Martiri" a San Bartolomeo: "Gli accordi internazionali più importanti dei diritti umani". Il ricordo di una cristiana sgozzata davanti al marito musulmano. Appello per i migranti: "Quanta crudeltà verso di loro. La generosità del Sud contagi il Nord". "Molte sono le prove dei giusti, ma da tutte le salva il Signore; egli custodisce tutte le loro ossa, neppure uno sarà spezzato". Il coro intona le strofe dell’"Inno dei martiri" mentre Bergoglio fa il suo ingresso nella Basilica di San Bartolomeo all’Isola Tiberina, dove presiede nel pomeriggio la veglia di preghiera promossa dalla Comunità di Sant’Egidio per i "Nuovi Martiri" del XX e XXI secolo. In questo luogo scelto da Giovanni Paolo II dopo il Giubileo del 2000 come sacrario dei martiri di oggi e di ieri, dove la testimonianza dei cristiani uccisi in odio alla fede nei secoli scorsi si intreccia con quella dei seguaci di Cristo perseguitati dalle ideologie del ‘900 o dalle più recenti follie estremiste, Papa Francesco entra come pellegrino e prega per tutti costoro che hanno "hanno avuto la grazia di confessare Gesù fino alla fine, fino alla morte". "Alcuni sono stati nostri amici, o anche commensali" dice Andrea Riccardi, fondatore di Sant’Egidio, nel suo saluto iniziale, ricordando alcuni di loro: don Andrea Santoro, assassinato in Turchia; Shabbaz Bhatti, ucciso in Pakistan; Christian de Chergé, massacrato in Algeria; padre Jaques Hamel, sgozzato in Normandia; il vescovo Enrique Angelelli, finito dai militari in Argentina. Di questi e di altri testimoni è conservato nelle cappelle laterali nella Basilica un oggetto personale: la stola, la patena, il breviario, il pastorale, il calice, la bibbia. "Siamo stati loro amici ma non ci siamo liberati dalla volontà tenace di salvare noi stessi", dice Riccardi, mentre loro "non hanno salvato sé stessi". Anzi, attraverso la testimonianza usque ad sanguinis effusionem, ci ricordano che "come cristiani non siamo vincenti per potere, armi, denaro consenso, ma abitati dalla forza umile della fede e dell’amore". Cristiani che, al contrario del resto del mondo - di questo mondo sconvolto dalla "guerra madre di dolori e povertà" - "non rubano la vita ma la donano". "Il ricordo di questi eroici testimoni antichi e recenti ci conferma nella consapevolezza che la Chiesa è Chiesa se è Chiesa di martiri", esordisce Papa Francesco nella sua omelia. E con un filo di voce aggiunge "un’icona di più in questa Chiesa": "Una donna, non so il nome ma lei ci guarda dal cielo - dice a braccio -. Ero a Lesbo, salutavo i rifugiati e ho trovato un uomo trentenne, tre bambini, mi ha guardato e mi ha detto: "Padre, io sono musulmano, mia moglie era cristiana e nel nostro Paese sono venuti i terroristi, ci hanno guardato e ci hanno chiesto la religione e hanno visto lei col crocifisso e hanno chiesto di buttarlo giù. Lei non lo ha fatto: l’hanno sgozzata davanti a me. Ci amavamo tanto". Questa è l’icona che porto oggi come regalo qui - afferma Francesco. Non so se quell’uomo è ancora a Lesbo o è riuscito ad andare altrove. Non so se è stato capace di uscire da quel campo di concentramento, perché i campi di rifugiati sono di concentramento per la folla di gente, sono lasciati lì e i popoli generosi che li accolgono devono portare avanti questo peso, perché gli accordi internazionali sembrano che siano più importanti dei diritti umani. Quest’uomo non aveva rancore, anche lui musulmano aveva questa croce del dolore portata senza rancore, si rifugiava nell’amore della moglie graziata dal martirio". Il martire è infatti "un graziato", afferma Bergoglio. "Quante volte in momenti difficili della storia, si è sentito dire: "Oggi la patria ha bisogno di eroi". E il martire può essere pensato come un eroe, ma la (caratteristica) fondamentale del martire è che è stato un graziato. La grazia di Dio, non il coraggio quello che ci fa martiri". I martiri "soffrono, danno la vita, e noi riceviamo la benedizione di Dio per la loro testimonianza", prosegue il Pontefice citando i passaggi dell’Apocalisse letti nella liturgia. E ricorda anche i "tanti martiri nascosti" di oggi, quegli uomini e quelle donne "fedeli alla forza mite dell’amore, alla voce dello Spirito Santo, che nella vita di ogni giorno cercano di aiutare i fratelli e di amare Dio senza riserve". Papa Bergoglio inquadra la "causa" delle loro persecuzioni: "L’odio del principe di questo mondo verso quanti sono stati salvati e redenti da Gesù con la sua morte e con la sua risurrezione. L’origine dell’odio è questa: poiché noi siamo salvati da Gesù, e il principe del mondo questo non lo vuole, egli ci odia e suscita la persecuzione, che dai tempi di Gesù e della Chiesa nascente continua fino ai nostri giorni. Quante comunità cristiane oggi sono oggetto di persecuzione! Perché? A causa dell’odio dello spirito del mondo". La Chiesa però ha bisogno oggi, come allora, "di martiri, di testimoni, cioè dei santi di tutti i giorni, perché la Chiesa la portano avanti i Santi! Senza di loro la Chiesa non può andare avanti - afferma il Papa -. La Chiesa ha bisogno di Santi della vita ordinaria, portata avanti con coerenza; ma anche di coloro che hanno il coraggio di accettare la grazia di essere testimoni fino alla fine". Fino alla morte. Tutti costoro sono "il sangue vivo della Chiesa", i testimoni "che attestano che Gesù è risorto, che Gesù è vivo" e che "ci insegnano che, con la forza dell’amore, con la mitezza, si può lottare contro la prepotenza, la violenza, la guerra e si può realizzare con pazienza la pace". Prima dell’omelia del Pontefice, momento toccante della celebrazione è stato quello delle tre testimonianze: per prima quella del figlio di Paul Schneider, pastore della Chiesa riformata, ucciso nel campo di sterminio di Buchenwald nel 1939: "Mio padre è stato scelto per testimoniare il Vangelo e questo mi consola", ha detto. È seguito l’intervento di Roselyne Hamel, sorella di padre Jacques, il parroco di Rouen sgozzato da due fondamentalisti nel luglio scorso durante la messa. Mio fratello "non ha mai voluto essere al centro, ma ha consegnato una testimonianza al mondo intero la cui larghezza non la possiamo ancora misurare. Con la sua morte è divenuto un fratello universale", ha affermato la donna. Infine, un amico di William Quijano, ucciso dalle Maras, le terribili bande armate in Salvador, che cercava di "spezzare la catena della violenza" attraverso l’educazione e la formazione dei bambini, nella certezza che "un Paese senza scuole e maestri è un paese senza futuro". I loro nomi e quelli di tutti i cristiani martirizzati negli ultimi secoli - dalle vittime del genocidio armeno e ruandese, ai copti egiziani morti nelle stragi della Domenica delle Palme - sono stati ricordati nelle preghiere dei fedeli al termine della celebrazione. Ad ogni nome o nazione ricordata, è stata accesa una candela. Una candela l’ha accesa pure il Papa nelle cappelle laterali che ha visitato una dopo l’altra, prima di recarsi nei locali attigui alla Basilica e incontrare un gruppo di rifugiati giunti in Italia grazie ai corridoi umanitari realizzati da Sant’Egidio con la Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia e la Tavola Valdese. Di migranti il Papa ha continuato a parlare anche fuori dalla Basilica, prendendo il microfono sul piazzale dell’Isola Tiberina dove ad attenderlo c’era una vasta folla: "Siamo una civiltà che non fa figli ma anche chiudiamo la porta ai migranti. Questo si chiama suicidio", ha ammonito, condannando anche la "crudeltà che si accanisce, allo sfruttamento della gente che arriva in barconi e poi restano lì nei Paesi generosi come l’Italia e la Grecia, ma poi i trattati internazionali non lasciano". "Se in Italia si accogliessero due migranti per municipio, ci sarebbe posto per tutti", ha detto a braccio Bergoglio. E ha concluso auspicando che "la generosità, nel Sud, in Sicilia, a Lampedusa, a Lesbo, salga un po’ su" e "possa contagiare anche il Nord". Migranti. Il pm di Catania "abbiamo prove dei contatti tra scafisti e alcuni soccorritori" di Fabio Albanese La Stampa, 23 aprile 2017 Il procuratore di Catania: "Ci sono telefonate con chi organizza gli sbarchi e gruppi finanziati da personaggi discutibili. Ma deve intervenire la politica". Nel mare agitato dei disperati che attraversano il Canale di Sicilia, non tutte le ong che recuperano migranti sono uguali: "Ci sono quelle buone e quelle cattive", dice il procuratore della Repubblica di Catania, Carmelo Zuccaro. La sua è la procura più esposta nell’affaire migranti, per necessità prima ancora che per scelta. Altre, come Palermo, Cagliari e ora pure Reggio Calabria, stanno indagando su naufragi, salvataggi, sbarchi e ruolo delle Ong. Ma Catania lo fa da più tempo, dal tragico affondamento di un barcone davanti Lampedusa il 3 ottobre 2013 con 368 morti. Inoltre ha competenza su quella parte di Sicilia, la zona orientale, dove affacciano i porti di Pozzallo, Augusta, Catania e Messina che da soli assorbono il maggior numero di arrivi di migranti; qui dove questa enorme massa di persone "sta creando problemi di ordine pubblico e crisi di carattere criminale - spiega Zuccaro - che potrebbero influire sul tessuto sociale delle popolazioni. Catania a proposito dei reati di tratta, e di tratta minorile in particolare, ha più procedimenti di Roma, anzi ha il dato più alto in Italia; e poi ci sono i problemi del caporalato, quelli della gestione del denaro per l’accoglienza e l’ospitalità, che lasciano intravvedere fatti gravi". E dunque, siccome l’anno scorso di migranti ne sono arrivati 181 mila, e quest’anno si prevede che saranno almeno 250 mila, il fenomeno va osservato sotto tutti i punti di vista e quello giudiziario ha un peso enorme. Come un peso enorme, da poco più di un anno, hanno le Ong - le organizzazioni non governative - che stanno con le loro navi, qualcuna anche con droni e aerei, a pattugliare il tratto di Mediterraneo davanti alla Libia. Perché sono lì, come si finanziano, hanno contatti diretti con i trafficanti? A queste domande sta cercando di dare risposte il pool di cinque pm catanesi, alcuni della Dda altri della "ordinaria", che con Squadra mobile e Guardia di finanza indagano ormai da tempo: "Su Ong come Medici senza frontiere e Save the Children davvero c’è poco da dire - dice Zuccaro - discorso diverso per altre, come la maltese Moas o come le tedesche, che sono la maggior parte" (cinque delle nove Ong schierate in mare, c’è poi la spagnola Proactiva Open Arms). Le buone e le cattive, dunque: "Abbiamo evidenze che tra alcune Ong e i trafficanti di uomini che stanno in Libia ci sono contatti diretti - dice Zuccaro - non sappiamo ancora se e come utilizzare processualmente queste informazioni ma siamo abbastanza certi di ciò che diciamo; telefonate che partono dalla Libia verso alcune Ong, fari che illuminano la rotta verso le navi di queste organizzazioni, navi che all’improvviso staccano i trasponder sono fatti accertati". Come abbia queste informazioni, il procuratore non lo dice; ma che l’agenzia dell’Ue Frontex nel suo rapporto "Risk analysis 2017" abbia definito "taxi" alcune Ong e che i servizi segreti italiani in Libia abbiano notizie dettagliate e di prima mano non è un mistero. Ed è probabilmente per questo che Zuccaro parla di prove che non è possibile utilizzare in un processo. Tutte le nove Ong sono, comunque, sotto la lente della procura etnea: "Per quelle sospette dobbiamo capire cosa fanno, per quelle buone occorre invece chiedersi se è giusto e normale che i governi europei lascino loro il compito di decidere come e dove intervenire nel Mediterraneo". La procura di Catania sa che i trafficanti, alcuni dei quali già identificati, hanno due fonti principali di finanziamento: il contrabbando di petrolio e i migranti. Sa pure che negli ultimi tempi i gommoni - di scarsa qualità e in grado di galleggiare solo per poco, giusto il tempo di un salvataggio dentro le venti miglia - partono quasi tutti da Zuara, in Tripolitania, zona non controllata dal governo Serraj; ora sta cercando di capire se dietro qualcuno dei finanziatori di Ong ci siano gli stessi trafficanti, e segnali in questo senso sono stati raccolti. D’altronde, di cose che meritano di essere chiarite ce ne sono: ci si chiede, ad esempio, che ci fa uno come Robert Pelton, che produce coltelli da guerra, o l’ex ufficiale maltese Ian Ruggier, noto per non essere mai stato tenero con i migranti sbarcati sulla sua isola, tra le persone vicine ai ricchi coniugi maltesi Cristopher e Regina Catambrone che nel 2014 si sono "inventati" l’Ong Moas; o perché tra i finanziatori di alcune Ong ci sia il miliardario George Soros. "L’inchiesta richiede tempi che l’Europa non si può permettere - avverte il procuratore Zuccaro - e d’altronde la risposta giudiziaria non è sufficiente, nonostante la notevole collaborazione che riceviamo da tutti. Il problema resta essenzialmente politico e i governi europei, non solo quello italiano, devono intervenire subito; l’ho detto il mese scorso al comitato Schengen del Senato, l’altro giorno alla Commissione libertà civili del Parlamento europeo venuta in Sicilia, e lo ripeterò la prossima settimana alla Commissione difesa del Senato. Per me, quei 250 mila in arrivo quest’anno sono una stima per difetto". Migranti. Ora nelle connection house in Libia si paga per mangiare di Alessandra Ziniti La Repubblica, 23 aprile 2017 La drammatica testimonianza degli ultimi arrivati a Pozzallo: "Due di noi morti di fame e di sete e abbandonati in strada dagli scafisti". Arrestato un gambiano di 19 anni. Adesso nelle connection house in Libia dove i migranti vengono tenuti reclusi prima di imbarcarsi sui gommoni, per mangiare si deve pagare il cibo. Chi non ha soldi da dare ai carcerieri anche per una misera porzione di cibo o un tozzo di pane resta letteralmente digiuno. Sarebbero morti cosi, poco prima della partenza e abbandonati a terra, due giovani ragazzi del centro Africa che avevano sborsato, come tutti gli altri, piu di cinquemila dollari per il viaggio ai trafficanti di uomini. Sono sempre più drammatiche le testimonianze raccolte dagli operatori della polizia di Stato agli sbarchi dei migranti che arrivano sulle coste siciliane. A riferire i nuovi agghiaccianti particolari sulle violenze e sulle condizioni disumane della prigionia in Libia sono stati molti dei 143 sbarcati ieri a Pozzallo dove gli uomini della squadra mobile di Ragusa hanno individuato ed arrestato lo scafista riconosciuto e indicato dai migranti, un gambiano di 19 anni al quale i trafficanti hanno affidato la guida di un gommone malandato con i 143 passeggeri poi soccorsi nel Canale di Sicilia dalla nave Vos Prudence di Medici senza frontiere. Sabha, il lager dei migranti nel deserto - Ascoltati dai poliziotti, gli extracomunitari, molti dei quali arrivati stremati da fame e sete, hanno raccontato che dentro la connection house i trafficanti non davano da mangiare a chi non pagava e tenevano tutti sotto la minaccia costante delle armi per evitare che qualcuno potesse sottrarre il cibo a chi, con gli ultimi soldi, aveva pagato per averlo. Terrorismo. Il dramma dei bambini dell’Isis che adesso nessuno vuole di Francesca Mannocchi L’Espresso, 23 aprile 2017 Decine di migliaia di ragazzini sono stati indottrinati e arruolati dal Califfo, rimanendo spesso orfani. Oggi, a Mosul, le autorità non vogliono occuparsi di loro e i certificati di nascita rilasciati da Daesh non valgono. Ali, trent’anni, è un dottore. Da due mesi, dopo che il suo quartiere è stato liberato, l’ospedale per cui lavora a Mosul est è stato riaperto. Durante l’offensiva per riconquistare la parte orientale della città, a novembre, la struttura era stata attaccata da un’autobomba che aveva ucciso una dozzina di soldati iracheni. I segni di quel giorno sono su ogni muro: Ali cammina tra i corridoi semidistrutti, tra i vetri delle finestre rotti dai combattimenti, si guarda intorno come se fosse costantemente controllato. Quando sono arrivate le parate di bandiere nere dell’Isis nel 2014, Ali non è riuscito a scappare da Mosul e ha continuato a fare il medico anche sotto le minacce dei miliziani di Al Baghdadi. "Non avevamo medicine, vietavano a chiunque di lasciare la città, anche ai malati più gravi, per questo restare qui per molti ha rappresentato una condanna a morte. Sono nati migliaia di bambini a Mosul in questi due anni e mezzo, nessuno di loro è stato vaccinato e chi era malato era destinato a morire. Quando bussavo alle porte dei loro uffici e chiedevo medicine, ricevevo farmaci scaduti: se provavo a protestare, rischiavo punizioni corporali". Ali ora ha deciso di restare a Mosul e non andare a vivere nei campi profughi: "Lo faccio per aiutare la mia gente: due settimane fa nel mio quartiere è arrivato un razzo e sono sicuro ci fossero componenti chimici. I bambini hanno tossito per giorni, ne ho curati decine qui in clinica. L’Isis è ancora tra noi, non siamo al sicuro, sappiamo chi li nasconde, sappiamo quali sono le famiglie che li ospitano". Ali teme che la calma di Mosul est sia solo apparente, ha paura di attentati e sa di essere un obiettivo sensibile, non solo perché sta aiutando i civili, ma anche perché ha visto molto. Troppo. Ha visto bambini soldati controllare la sua clinica e minacciare i medici armati di kalashnikov, ha visto piccoli trascinati via da un orfanotrofio: "Erano centinaia, lì dentro, sono stati certamente reclutati. Poche settimane dopo l’inizio della guerra l’Isis ha costretto tutti i bambini e le bambine a lasciare l’edificio, hanno tenuto le ragazze come schiave e costretto i maschi a combattere. Questa generazione di bambini vissuti ed educati sotto l’Isis rischia di diventare una generazione perduta. Una generazione pericolosa e l’Iraq oggi non ha i mezzi e forse neppure la volontà per guarire i loro traumi". La seconda fase della guerra per riconquistare Mosul è più feroce e distruttiva della prima. I miliziani dello Stato islamico sanno di essere accerchiati e la loro follia suicida aumenta di giorno in giorno: gli strumenti di morte sono le autobombe e i mortai, quotidiani e inaspettati. Gli strumenti di punizione - per i civili in fuga e per i soldati in battaglia - sono le mine e le trappole esplosive nascoste ovunque prima di lasciare quartieri e villaggi. Liberare Mosul, per l’esercito iracheno, significa combattere casa per casa, liberare i civili sotto assedio nascosti al buio, negli scantinati, senza cibo e senza acqua. Significa distinguere i miliziani nascosti tra le decine di migliaia di profughi in fuga, accertarsi che tra loro non ci siano attentatori suicidi. Significa recuperare i cadaveri - decine - di civili uccisi dall’Isis o dai bombardamenti della coalizione, come quello nel quartiere di Jadida che avrebbe ucciso più di 150 persone. L’Espresso ha ottenuto un raro accesso al fronte con i soldati della Golden Division, le unità speciali dell’esercito iracheno. Abbiamo percorso con i soldati di Baghdad centinaia di metri lungo la prima linea del fronte di Mosul ovest, attraversando decine e decine di buchi scavati nelle pareti dai miliziani dell’Isis per camminare indisturbati, nascondendosi dal nemico. A pochi metri da noi, al centro di una piazza c’erano ancora issate le bandiere nere del Califfato: toglierle era troppo pericoloso perché ogni spazio aperto ci rendeva bersaglio per i cecchini. Tra le macerie delle case, i resti di granate, i fili elettrici per gli ordigni esplosivi, i cadaveri dei miliziani uccisi poche ore prima. Il colpo di un cecchino ci ha sfiorato, all’improvviso, e costretto a nasconderci in una casa in attesa che calasse la sera, insieme a decine di civili. "Non mangiamo da giorni, hanno usato i nostri figli come scudi umani", dice Mahmoud dopo aver abbracciato un soldato che ha portato ai suoi familiari un po’ di pane. "Sono entrati in casa e ci hanno costretto a seguirli per evitare i bombardamenti. Mio figlio parla a stento, è traumatizzato dalle minacce dell’Isis, dal rumore delle bombe e dei mortai". Makhmoud lo stringe a ogni rumore di proiettile, lo stringe ogni volta che arriva un mortaio, sempre più vicino, sempre più assordante. Il bambino spalanca gli occhi e ripete: "Isis è grande, Isis è grande". "Mi vergogno che dica queste parole", dice Makhmoud, "per due anni e mezzo hanno riempito la sua testa di menzogne, di violenza. Sono disperato e preoccupato di non riuscire a spiegargli che deve dimenticare". Una sola cosa consola Makhmoud, cioè che suo figlio non sia stato reclutato, non sia stato costretto a uccidere. E che non sia stato usato per attentati suicidi. I soldati iracheni raccontano di aver visto combattere bambini, anche di dieci anni, addestrati e accecati dall’odio. "La prima volta che mi sono trovato di fronte dei bambini armati è stato un colpo", dice Hasan, un soldato quarantenne che ha combattuto anche a Falluja e a Tikrit. "Non è la stessa cosa puntare e uccidere un adulto e puntare e uccidere un ragazzo, un bambino. Ma abbiamo dovuto farlo, avevano tutti le cinture esplosive, un attimo in più di esitazione avrebbe significato condannare a morte molti di noi". I soldati iracheni raccontano che nelle ultime settimane molti ragazzini sono stati usati come attentatori suicidi. "È una crudeltà che non ha fine", continua Hasan, fumando nervosamente. "È questo che rende più sporca questa guerra: questo dolore violento, sapere di combattere contro bambini che non hanno colpe ma pagano con la vita per essere stati indottrinati in nome di una religione malata". Dopo ore, un messaggio via radio informa che le postazioni dei cecchini sono state identificate e l’edificio di fronte al nostro sta per essere bombardato. Lo schianto fa tremare le pareti e distrugge i vetri. Dopo, solo un lungo silenzio. Nei volti dei civili la preoccupazione lascia spazio al sollievo di poter andare finalmente via dalle proprie case distrutte. La fuga è un cammino di chilometri tra i cadaveri dei miliziani dell’Isis, sotto la pioggia incessante da giorni, senza un riparo, con i piedi nel fango. "Non ci importa se Mushak è morto" - Migliaia di bambini nati sotto il Califfato non hanno certificati di nascita ufficiali. Quelli rilasciati dall’Isis non hanno valore e molti civili in questi anni hanno deciso di non tracciare né le nascite né i decessi dei propri familiari, per non essere scambiati per collaborazionisti, una volta liberata la città. Secondo la Quilliam Foundation, organizzazione che monitora il terrorismo internazionale, sarebbero almeno 30 mila i bambini nati a Mosul sotto lo Stato islamico nell’ultimo anno e mezzo. Per loro ottenere un documento valido di identità in Iraq sarà un percorso lungo e complesso. Molte amministrazioni locali stanno rifiutando di concedere documenti ai bambini nati sotto l’Isis per timore che siano figli dei miliziani. Oggi questi 30 mila bambini sono di fatto apolidi. Bambini senza stato, senza nazionalità, senza diritti. Bambini che non hanno accesso a nessun servizio: né le cure mediche, né l’istruzione. Per tutti gli altri, per i bambini che erano già in età scolare durante l’occupazione di Mosul, la scelta era tra le scuole del Califfo o la mancanza totale di istruzione. Marwa oggi ha sedici anni, è tornata a scuola a Mosul est, ha perso il padre ucciso da un colpo di mortaio a dicembre. "Mio padre era un giudice", racconta con voce da adulta, "per due anni ha ripetuto a me e mio fratello che dovevamo essere forti, resistere senza esitazione. Parlavamo molto, esercitavamo quotidianamente la nostra memoria, avevamo nascosto dei libri per non perdere l’abitudine di studiare, di leggere e scrivere". Marwa ha visto i miliziani dello Stato islamico, tra di loro anche bambini, gettare dall’ultimo piano dei palazzi dei ragazzi accusati di essere sessualmente attivi. È stata arrestata tre volte dalla polizia islamica femminile perché non indossava i guanti, perché la sua pelle non era interamente velata di nero. "Mio fratello aveva solo otto anni quando sono arrivati i miliziani dell’Isis. Un giorno è tornato a casa dicendo che i nuovi insegnanti avevano portato un nuovo libro di matematica. Insegnavano le addizioni sommando le bombe e i proiettili. Il giorno dopo il figlio di un miliziano iracheno dell’Isis è entrato in classe con un coltello per insegnare agli altri bambini come sgozzare un "infedele". Dal giorno dopo né io né mio fratello abbiamo più messo piede in una scuola". Il figlio di Amir, invece, a scuola non c’era mai andato. La loro è una famiglia poverissima di Hamam al Alil, cittadina a sud di Mosul, fortino di jihadisti. Hamam al Alil è stata liberata lo scorso novembre, Amir ha vissuto per un po’ in un campo profughi e quando ha deciso di tornare a casa sua l’ha trovata distrutta. Non dai combattimenti e dai colpi di mortaio, ma dalla violenza cieca suoi vicini, che l’hanno saccheggiata. Perché il figlio di Amir, Mushak, aveva giurato fedeltà al Califfo quando aveva undici anni. "Era un ragazzo povero, pieno di rabbia, non sapeva leggere né scrivere, sapeva solo lavorare. E loro gli hanno insegnato l’odio per gli infedeli. E gli hanno insegnato a uccidere", dice Amir, il viso segnato dalla fatica e dal dolore. Mushak è stato reclutato in pochi mesi per diventare un soldato, un combattente. I miliziani di Al Baghdadi non lo hanno portato nelle scuole islamiche, non gli hanno insegnato a leggere e scrivere, né a sommare proiettili e pistole, gli hanno insegnato solo a odiare ed uccidere. "In ogni quartiere e villaggio c’era qualcuno di loro che era addetto a reclutare i bambini", continua Amir. "Mio figlio è stato addestrato per combattere e in due anni e mezzo è diventato un soldato della polizia islamica. A meno di quattordici anni. Ho provato a impedirgli di giurare fedeltà al Califfo, lui mi ha detto: "Stai zitto o ti tagliamo la testa". Il giorno dopo è entrato in casa con la pistola e mi ha minacciato. Ha rotto un braccio a sua madre che lo implorava di salvarsi e abbandonare quel gruppo di fanatici assassini". Amir sostiene che più della metà dei bambini di Hamam al Alil è stata reclutata e da quando è iniziata la guerra di molti di loro non si hanno notizie. Qualcuno gli ha detto che suo figlio potrebbe essere morto durante un bombardamento della coalizione, ma Amir abbassa lo sguardo, respira profondamente e dice: "Non sono spaventato all’idea che sia morto. Davvero, non mi interessa che sia morto, non lo sappiamo e non vogliamo saperlo. Mushak è la vergogna della nostra famiglia. Ora qui tutti ci odiano, siamo disperati, non possiamo nemmeno andare a fare la spesa, viviamo chiusi in casa per paura di essere linciati in mezzo alla strada. Abbiamo perso tutto: un figlio, la casa, la dignità, qualsiasi cosa". Il destino della famiglia di Amir è il triste prologo del futuro prossimo dell’Iraq. Un futuro in cui la parola pacificazione sembra essere un miraggio. Un futuro in cui la guerra per riconquistare Mosul non avrà veri vincitori, perché la vera battaglia, quella per sradicare i fondamentalismi che hanno riempito i vuoti di potere, è lungi dall’essere vinta. Nel presente, intanto, mentre il mondo ha puntato gli occhi sulla riconquista della capitale irachena del Califfano, i giovani reclutati dall’Isis si stanno riorganizzando in altre zone del paese, approfittando dell’instabilità politica e della povertà. Nei pochi caffè riaperti di Mosul est, dove gli uomini si riuniscono per commentare le notizie dell’offensiva, la spirale di odio ha già preso la forma della vendetta. Di fronte agli schermi televisivi con la notizia di un bambino fuggito da Mosul e ritrovato con una cintura esplosiva, un uomo commenta: "Non possiamo rieducarli, tanto vale ammazzarli tutti, questi bambini". Raccogliendo il consenso dei presenti. Francia. Ecco perché l’Europa perde, anche se Le Pen non vince di Maurizio Ricci La Repubblica, 23 aprile 2017 Elezioni transalpine, due verità e un mistero in attesa di misurare il fenomeno Front National. La maggioranza è contraria al processo d’integrazione europeo, il sistema tradizionale dei partiti è imploso. E tutti (tranne Macron) guardano Putin con occhi benevoli. Tutta la suspense è sul risultato che Marine Le Pen otterrà fra il primo turno di domenica e il secondo del 7 maggio. Un (possibile, se l’affluenza la premierà) ingresso della leader del Front National all’Eliseo coronerebbe con un nuovo terremoto l’anno della Brexit e di Trump e darebbe la svolta decisiva ad un raddrizzamento di 180 gradi delle prospettive politiche dell’Occidente. Tuttavia, le elezioni francesi, anche ad urne ancora chiuse, offrono già indicazioni nuove, in qualche caso inedite e, su un punto, specifico, anche misteriose. Il primo dato riguarda l’Europa. Una presidente Le Pen punterebbe a far saltare l’euro e, comunque, a spingere verso una ritirata nazionalistica la costruzione europea. Ma è difficile sostenere che il Fn si muova controcorrente. A stare ai sondaggi, sommando alle preferenze per la Le Pen quelle per il candidato di estrema sinistra Jean-Luc Mélenchon, contrario anch’egli al processo di integrazione europea, si vede che oltre il 40 per cento dei potenziali elettori è pronto ad azzoppare la Ue. Ma il malcontento è ben più diffuso. In un recentissimo sondaggio Pew, non il 40, ma il 60 per cento dei francesi dichiara di avere una opinione sfavorevole della Ue. Un bacino di impopolarità che potrebbe regalare sorprese inaspettate nelle urne. Il secondo dato è l’implosione del sistema dei partiti. Fino alle ultime elezioni, i partiti tradizionali raccoglievano il 50-60 per cento dei voti. Oggi, nei sondaggi, il candidato socialista (Hamon) e quello ex gollista (Fillon) arrivano appena, insieme, al 26-27 per cento dei voti potenziali. È l’effetto, dicono i politologi, della personalizzazione leaderistica della politica, sbarcata, alla fine, anche in Francia, come anche del rimescolamento delle tradizionali identità delle classi sociali. In realtà, solo le elezioni parlamentari di giugno ci diranno l’effettivo stato di salute di socialisti ed ex gollisti. Ma la politica francese non sarà più la stessa. Il terzo dato - quello misterioso - riguarda un leader straniero. Anche in Francia, negli scorsi decenni, i politici si sono spesso divisi fra filoamericani e antiamericani. Ma, qui, gli americani non c’entrano. La questione riguarda Mosca. A sorpresa, Vladimir Putin è il destinatario di tributi ammirati, abbracci metaforici, sguardi d’intesa. Tre dei quattro candidati in testa nei sondaggi sono lì con la mano tesa verso il Cremlino. Non è facile spiegarlo. Nessuno dei leader in questione sembra affascinato dal manuale per la creazione di un regime illiberale e autoritario che si desume dall’esperienza politica di Putin. Contemporaneamente, con Trump alla Casa Bianca non è il classico riflesso antiamericano. Forse lo è per un ex alfiere della sinistra socialista come Mélenchon, ma nell’atteggiamento benevolo dello stesso Mélenchon, di Marine Le Pen e di François Fillon verso il leader russo non si intravedono motivi ideologici. E neanche un’adesione politica (Mélenchon dichiara che, fosse russo, non voterebbe Putin). Ma tutt’e tre sono assai comprensivi verso le ragioni del Cremlino in materia di Crimea, di arroganza Ue nel caso ucraino, di rifiuto delle sanzioni. Se Mélenchon e Le Pen possono addurre una vicinanza alla rivendicazione di "legittime esigenze nazionali" russe da parte di Putin, la stessa cosa non si può dire per Fillon. Tutti i sospetti sono possibili, ma niente è provato. Di sicuro, come si è visto negli Usa, Putin non rifugge dalla tentazione di mettere le mani nella politica degli altri paesi. A rivendicare il rispetto delle sanzioni, fra i candidati in lizza, è rimasto solo Macron. Italia ed Europa: non lasciamo soli i gay in Cecenia di Patrizio Gonnella L’Espresso, 23 aprile 2017 Il silenzio istituzionale, europeo ed italiano, sulle persecuzioni e le violenze nei confronti dei gay in Cecenia purtroppo non ci sorprende. Il filosofo tedesco Walter Benjamin, agli inizi del secolo scorso, nelle sue Tesi di filosofia della storia, così come ha scritto Eligio Resta, ci ha avvertito che chi "sostiene il divieto dello stupore nei confronti della violenza; chi la considera come un caso che verrà spazzato via dal "progresso" fa solo l’interesse del fascismo." Dunque mai far finta di sorprendersi della violenza. Gli anni venti, trenta e quaranta del secolo scorso non hanno insegnato nulla alle democrazie costituzionali europee e occidentali. Si stanno ripetendo le stesse terribili circostanze e si stanno consolidando gli stessi cicli di violenza razziale. È tornata la logica concentrazionaria. Questa volta ai confini orientali dell’Europa e non in Germania. Si parte dai gay, dai ‘diversi’. Il quadro geo-politico è sicuramente diverso rispetto al novecento, i rischi invece sono del tutto paragonabili. Il campo semantico entro cui si muove la persecuzione cecena e russa ai gay è quello della guerra e della supremazia razziale. La razza bianca ‘sessualmente normalè è la razza considerata suprema. Non ci si può aspettare una reazione da Trump, ma dalle democrazie liberali la pretendiamo. Per non ripetere gli errori e i silenzi del secolo scorso che portarono alla persecuzione dei gay, dei dissidenti, dei testimoni di Geova e all’annientamento degli ebrei. Siamo vicini al 25 aprile, giornata dedicata alla liberazione dal nazifascismo. Usiamola per ricordare ma anche per elevare forte un grido di monito contro i nuovi fascismi in giro per il mondo. Stare oggi affianco alla comunità Lgbt cecena, russa significa stare contro i nuovi fascismi che stanno prendendo piede nel pianeta fino a dentro il cuore dell’Europa. Turchia. Del Grande, ansia per la sorte del giornalista italiano imprigionato di Carlo Lania Il Manifesto, 23 aprile 2017 Domani possibile decisione delle autorità turche. Chiesto l’intervento di Mattarella. Quello di domani potrebbe essere un giorno decisivo per Gabriele Del Grande. Escludendo infatti che possano esserci prima sorprese di qualche tipo, lunedì le autorità turche dovrebbero comunicare al blogger di Lucca, fermato il 9 aprile mentre intervistava alcuni profughi siriani vicino al confine con la Siria, se gli vengono contestate delle accuse oppure, come tutti sperano, se verrà liberato, permettendogli così di raggiungere finalmente la sua famiglia. Almeno stando a quanto finora Ankara ha lasciato intendere. Che però le cose possano cambiare, prolungando ancora la condizione di estrema incertezza in cui si trova Del Grande, è infatti più di una semplice possibilità. Al di là di quanto prevede la legge turca per le persone in stato di fermo (al massimo dopo 14 giorni la formulazione di un’accusa o la libertà), Del Grande è richiuso in un centro di espulsione, struttura all’interno della quale - come ricorda il presidente della commissione Diritti umani del Senato, Luigi Manconi - una persona può essere trattenuta fino a un massimo di sei mesi. Circostanza che lascia aperti tutti gli scenari, da quelli peggiori a quelli più positivi, come appunto la possibilità che il giornalista possa fare presto rientro a casa. Nel centro di Mugla intanto Del Grande è ormai arrivato al quarto giorno di sciopero della fame che prevede anche il rifiuto di assumere vitamine e integratori sostenendosi solo con dei succhi di frutta. Venerdì ha potuto finalmente incontrare il console italiano a Smirne, Luigi Iannuzzi, e l’avvocato Taner Kilic, presidente di Amnesty International - Turchia e suo amico. Al legale è stato però impedito di leggere il fascicolo riguardante il giornalista e di farsi così un’idea di eventuali contestazioni. Al di là delle ipotesi le ragioni per le quali Del Grande è stato fermato restano così ancora un mistero, anche se sono passate ormai quasi due settimane. Come ha ricordato ieri anche il legale italiano del blogger, Alessandra Ballerini. "Gabriele chiede di essere liberato e tornare a casa. A oggi non sono ancora noti i motivi del ritardo del suo rimpatrio verso l’Italia". L’unica cosa certa è che il giornalista viene sottoposto a interrogatori quotidiani durante i quali gli vengono poste domande relative al suo lavoro. Facendo circolare allo stesso tempo l’ipotesi che durante il suo soggiorno in Turchia possa essere entrato in contatto con persone sospettate di essere dei terroristi. Senza sperò specificare dove e quando questi incontri sarebbe avvenuti. "Auspichiamo che qualsiasi errore di valutazione sulla sua persona e sul suo lavoro possa essere immediatamente chiarito", ha aggiunto l’avvocato Ballerini. Un auspicio condiviso ieri anche dalla presidente della Camera Laura Boldrini, che si augurata che la posizione del giornalista "venga chiarita e lui venga liberato, non stava facendo niente di illegale" Proseguono intanto le mobilitazioni per una rapida e positiva soluzione della vicenda. Per chiedere il rilascio di Gabriele Del Grande cittadini, associazioni per i diritti umani, giornalisti, esponenti politici e delle istituzioni hanno manifestato ieri davanti al Quirinale e sollecitato un intervento del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. "Gabriele è stato fermato mentre svolgeva la sua attività di giornalista e documentarista rivolta all’emergenza dei profughi", è spiegato in una nota. "Ci rivolgiamo al presidente della Repubblica sapendo che da sempre ha a cuore la tutela dei diritti umani e della libertà di stampa, diritti calpestai tutti i giorni in Turchia. In questo momento - è scritto ancora nella nota - sotto il regime di Erdogan ci sono migliaia di oppositori politici in carcere". Gabriele Del Grande e la battaglia per la verità nella Turchia diventata regime di Federica Bianchi L’Espresso, 23 aprile 2017 Il giornalista e attivista per i diritti umani è detenuto dal 9 aprile nel paese governato da Erdogan, in cui la libertà di stampa è ormai un miraggio. E ora tutta Italia, nelle piazze e sui social, si mobilita per chiedere che venga rilasciato. La forza del paradosso. Nel momento in cui il sultano Recep Tayyip Erdogan dice che no, lui non è un dittatore, all’indomani di un referendum macchiato dai brogli tramite cui ha assunto poteri assoluti sulla Turchia, di fatto esautorando il parlamento e obliterando la posizione di primo ministro, il giornalista e attivista per i diritti umani Gabriele Del Grande annuncia che farà lo sciopero della fame per protestare contro la sua ingiusta detenzione. Era stato arrestato il 9 aprile nella regione di Hatay, al confine con la Siria, senza nessuna accusa specifica. Per giorni non gli è stato permesso di avere contatti con nessuno, nemmeno con la nostra Ambasciata, nonostante il ministro degli Esteri Alfano avesse inviato Il vice console italiano ad Ankara nel carcere dov’è detenuto, come previsto dalla Convenzione di Vienna del 1963. Ieri Del grande ha potuto parlare brevemente con il padre. E ha chiesto di fare campagna in suo nome. Il tam-tam per la sua scarcerazione è immediatamente partito. A Roma si è tenuta la mobilitazione del sindacato nazionale dei giornalisti. Nel pomeriggio di mercoledì invece il presidente della regione Toscana Enrico Rossi ha indetto una manifestazione in piazza San Michele a Lucca per ribadire la richiesta dell’immediato rilascio del giornalista trentacinquenne. Il padre di Gabriele ha spiegato che il figlio si era recato in loco per raccogliere materiale per un libro sulla nascita dell’Isis. Intanto su Twitter l’hashtag #iostocongabriele sta avendo migliaia di adesioni. Due anni fa, insieme al collega Erdem Gul fu incarcerato con l’accusa di spionaggio per aver raccontato che i servizi segreti turchi avevano fornito armi agli estremisti islamici in Siria. Ora vive in esilio in Germania e da lì dice: "La società civile ha paura ad esporsi. Scattano subito le manette, anche per un tweet" Del Grande, che ha fondato un osservatorio sulle vittime delle migrazioni "Fortress europe", da anni si occupa delle crisi del Mediterraneo. Nel 2014, insieme ad Antonio Augugliaro e Khaled Soliman Al Nassiry, ha girato il documentario "Io sto con la sposa" che racconta l’odissea di alcuni profughi palestinesi sbarcati a Lampedusa siano arrivati in Svezia inscenando un finto matrimonio. Come giornalista ha collaborato con L’Unità, Redattore Sociale, Peace Reporter e Internazionale. "Un’umiliazione così non sarebbe stata inferta a un giornalista americano o francese o Israeliano", c’è chi si arrabbia sui social. Ma sbaglia. Del Grande non è il primo giornalista straniero arrestato in Turchia. Dal 14 febbraio di quest’anno Deniz Yucel, il corrispondente per Die Welt, doppia nazionalità tedesca e turca, è in carcere in attesa di processo dopo che aveva investigato il lavoro di hacker di sinistra e ottenuto i numeri di conto corrente del ministro dell’Energia turco e del nipote di Erdogan. Nel 2015 altri due giornalisti, il corrispondente britannico Jake Hanrahan e il suo cameraman Philip Pendlebury di Vice News, sono stati fermati nella regione curda di Diyarbakir e poi brevemente arrestati con l’accusa di aiutare un’organizzazione terroristica. In realtà stavano filmando gli scontri tra la polizia e giovani membri del partito PKK. Si tratta di chiare azioni intimidatorie nei confronti della stampa internazionale che cerca di far luce là dove a quella nazionale è da tempo impedito. La libertà di stampa in Turchia è sempre più un miraggio che una realtà. Dalla scorsa estate poi, con la scusa del colpo di stato fallito, Erdogan ha fatto arrestare oltre 150 giornalisti, chiuso quasi 200 media tra giornali, radio e televisioni, e licenziato oltre 100mila persone dai lavori pubblici (avvocati, medici, professori, giudici, poliziotti, funzionari..) perché ritenuti non a lui fedeli. Un clima che ha assunto chiari parallelismi con quello egiziano e cinese. E che a noi tutti rimanda all’Egitto in cui ha perso la vita Giulio Regeni. Un altro italiano partito per cercare e rivelare le storture dei regimi senza libertà. Afghanistan. La "bomba" di Trump: morti, case distrutte e raccolti devastati di Emanuele Giordana Il Manifesto, 23 aprile 2017 Primi video sui veri effetti del super-ordigno "Moab". Scuse in tv dei militari Usa per le "vittime civili". Assalto talebano, strage a Mazar: I turbanti neri attaccano una base militare, almeno 130 i soldati uccisi. Soltanto venerdì l’esercito afghano è potuto entrare nell’area dove giovedì scorso la bomba da 11 tonnellate di esplosivo è stata sganciata dagli americani nel distretto di Achin, provincia orientale di Nangarhar. Ma video girati nei dintorni a due giorni dallo scoppio e i primi che ora cominciano a girare dopo che gli americani hanno tolto i sigilli dall’area del bombardamento, mostrano le prime distruzioni e gli effetti di un ordigno considerato secondo solo alla bomba atomica: il più potente ordigno non nucleare i cui effetti sono ancora segreti e probabilmente tali rimarranno. Conditi da dichiarazioni, dati e simil certezze - tra cui le "scuse" di un alto comandante americano per possibili vittime civili - che conviene continuare a prendere con le molle. Ma mentre i primi soldati afghani ricevevano il permesso di visitare l’aera, 500 km più a nord, nella provincia di Balkh, i talebani mettevano a segno il più sanguinoso attacco contro un obiettivo militare nazionale. Lasciando sul terreno oltre cento soldati morti. La dinamica dell’attacco di venerdì alla base militare dove si trova il 209 Shaheen Corps nella provincia di Balkh, città circondata da una cintura della guerriglia in turbante ormai da diversi anni, è ancora oggetto di ricostruzione. Quel che è certo è che la guerriglia, che ha rivendicato l’attacco con kamikaze e un commando armato (una decina tra loro sono stati uccisi), ha atteso che i militari fossero alla preghiera del venerdì, e dunque in un momento di riposo, alla una e mezza mentre altri commilitoni erano in pausa pranzo. Sono riusciti a passare i check point, probabilmente aiutati da spie interne, e hanno fatto strage a colpi di kalashnikov sparati da mezzi militari che hanno forse indotto in errore i controlli all’ingresso. I morti ufficialmente sarebbero un centinaio ma diverse fonti fissano il bilancio tra 130 e 140 e almeno una sessantina di feriti. Nelle prime ore le cifre erano molto più basse: una decina si era detto, forse stimando che nascondere la verità avrebbe ridotto l’effetto dell’azione. Le mezze bugie, quando non le aperte falsità, sono una costante della propaganda di guerra e l’Afghanistan non fa eccezione. E eccezione non fa la vicenda della GBU-43/B Massive Ordnance Air Blast (Moab), la madre di tutte le bombe. Il refrain, in attesa di un rapporto ufficiale definitivo sugli effetti, è stato fin dall’inizio che l’ordigno non ha causato vittime civili, dato certificato anche dal Ministero della Sanità. Ma alcuni video girati fuori dall’area recintata dagli americani e immediatamente vicini alla zona della deflagrazione, mostrano cadaveri con segni evidenti di ustioni, case distrutte e un terreno violentato dal calore e da uno spostamento d’aria che - dicono le cronache di quella bomba - può uccidere anche a grande distanza. Venerdì scorso però, a poche ore dall’esplosione, gli americani hanno sentito il bisogno di un’excusatio anticipata nel caso di "possibili vittime civili". Lo racconta Luca Lo Presti, presidente della Onlus Pangea, una delle poche organizzazioni italiane (con Emergency) rimaste ad operare in Afghanistan e che, a Kabul, ha progetti di microcredito e protezione di bambini e donne. "La notizia della bomba l’ho avuta dall’Italia la sera di giovedì - dice Lo Presti - nonostante fossi a Kabul dove quella sera ho dormito da una famiglia afghana. Sentivo una pena incredibile a vedere i fragili corpi di quei bambini riposare ignari nei loro letti. Poi, il giorno dopo, vedo in televisione un alto grado dell’esercito americano chiedere scusa nel caso la bomba avesse prodotto effetti collaterali sui civili". Ma di civili morti non si parla e dall’area blindata escono notizie col contagocce mentre l’ex presidente Karzai - l’unico ad alzare la voce - accusa il governo (che ora dice addirittura che la bomba è stata sganciata sotto la sua supervisione) di aver rinunciato alla sua sovranità territoriale per consentire a Trump di testare ordigni. Ma quel che più appare comico, se non del tutto tragico, è che le autorità hanno fatto nomi, cognomi, origine etnica e ruolo nelle organizzazioni eversive (tra cui i talebani pachistani) di alcuni tra i 90 cadaveri di appartenenti allo Stato Islamico rimasti sotto la bomba sganciata sul villaggio fantasma di Assadkhil, nell’area di Mohmand Dara. Come abbiano ritrovato corpi o anche solo ossa, e dunque Dna, delle vittime è un mistero che gli effetti della bomba, da quel poco che si vede nei video, rendono ancora più che tragicomico. E mentre la guerra infuria viene da chiedersi come mai nessuno abbia ancora invocato una commissione di indagine indipendente in questa terra martoriata da quello che appare, più che una bomba giustiziera, un crimine contro l’umanità e il pianeta.