Un inferno chiamato giustizia. Custodia cautelare, Italia tra i paesi peggiori d’Europa Giornale d’Italia, 22 aprile 2017 L’Italia ha il più alto numero di sentenze della Corte per i diritti dell’uomo non eseguite fra i paesi europei. E non si accontenta. Anzi, continua ad aggiornare quel primato, conquistato grazie all’apporto della malagiustizia, davvero disonorevole. È arrivata un’altra stangata, stavolta da parte del Comitato anti-tortura del Consiglio Ue (Strasburgo), che nel suo rapporto annuale ha evidenziato le maggiori criticità del nostro sistema giudiziario. Siamo tra gli Stati con la più alta percentuale di detenuti in attesa di giudizio e con i maggiori problemi di sovraffollamento delle carceri. I numeri della vergogna tornano a inchiodare il Guardasigilli, che lo scorso febbraio ha dichiarato cessata l’emergenza. Ma i dati sono incontrovertibili e sbugiardano le non verità del ministro Orlando. Altro che giustizia, quella italiana è una trincea. Eppure c’è chi ancora, come l’ex presidente dell’Anm Davigo, continua a sostenere che "il problema della responsabilità civile non esiste perché i magistrati sbagliano poco". Infatti, solo nel 2016, il conto pagato dallo Stato per casi d’ingiusta detenzione ed errori giudiziari è stato di 42.082.096,49 euro. Esattamente 1.001 i casi trattati lo scorso anno relativi, per lo più, all’abuso della carcerazione preventiva. Una vergogna tutta italiana (che spesso e volentieri dura anni prima che si arrivi al processo) utilizzata troppo spesso dai pubblici ministeri per ottenere confessioni o delazioni. Un’autentica tortura inflitta a presunti innocenti ancora in attesa di giudizio. Trattasi di un rimedio primitivo che produce una condizione personale e familiare orrenda. Con l’articolo 13 della Carta costituzionale, che proclama l’intangibilità della libertà personale vietando ogni forma di violenza nei confronti dei detenuti, figuriamoci di una persona fino a prova contraria innocente, completamente ignorato dai giustizialisti a priori. In base ai dati pubblicati lo scorso 31 marzo dal ministero della Giustizia, i reclusi in Italia sono in totale 56.289 per 50.211 posti disponibili. Di cui 9.749 in attesa di un primo giudizio e altri 9.641 condannati ma non in via definitiva. Un esercito di oltre 19.000 persone continua quindi a marcire ingiustamente in prigione. Siamo al limite della follia, con il Comitato per la prevenzione della tortura che continua a chiedere a tutti e 47 gli Stati membri del Consiglio Ue di ricorrere alla custodia cautelare solo in casi eccezionali. Con la carcerazione preventiva che in Italia è diventata la norma e non l’extrema ratio. Mentre giudici e Parlamento, anziché affrontare questo dramma non più rinviabile, continuano a litigare sull’indipendenza e le ferie dei magistrati. Per la serie, povera Italia. Carceri e sanità, intesa e collaborazione tra Polizia penitenziaria e Sindacato Medici di Marcella D’Addato canale189.it, 22 aprile 2017 Favorire il confronto tra Polizia Penitenziaria e medici per migliorare le condizioni di vivibilità di chi in carcere lavora e vi è ristretto. È l’intesa di una collaborazione sancita a Roma dai poliziotti aderenti al Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe ed i medici aderenti al Sindacato Medici Italiani Smi, rappresentati dai rispettivi Segretari Generali Donato Capece e Pina Onotri. "Si è trattato di un momento di confronto molto costruttivo ed importante, a sancire una prossima collaborazione sul delicato tema della sanità in carcere finalizzato a garantire adeguatamente il diritto alla salute per i detenuti e si tuteli chi opera in prima linea nei nostri istituti penitenziari: polizia, medici e personale sanitario", spiega Capece. "La "sorveglianza sanitaria", ovvero una visita di controllo finalizzata a verificare lo stato di salute dei dipendenti, viene effettuata solamente nei confronti di circa il 30% del personale dei quali il 70% sono videoterminalisti ed il restante 30% riguarda prevalentemente chi è esposto a rischi quali agenti chimici o rumore. È noto a tutti, infatti, che in materia di igiene e sicurezza sul lavoro, la Costituzione italiana (articoli 2, 32 e 41) prevede la tutela della persona umana nella sua integrità psico-fisica come principio assoluto ai fini della predisposizione di condizioni ambientali sicure e salubri. Partendo da questi imprescindibili principi costituzionali, abbiamo ritenuto importante incontrare i medici aderenti al Smi, nella persona di Pina Onotri, per creare una collaborazione sul tema sanità e carcere che coinvolga e migliori le condizioni di salute e di intervento sanitario per poliziotti, medici, personale sanitario e detenuti". Per il Sappe "l’auspicio è che questa preziosa e importante collaborazione si traduca in interventi e proposte concrete per migliorare le condizioni di salute di tutti coloro che in carcere lavorano e sono detenute". Capece evidenzia come "recenti studi di settore hanno messo in evidenza come Hiv (Aids), Hbv (epatite B) ed Hcv (epatite C) sono i virus più frequenti nelle carceri italiane, dove più di un terzo portatori dei tre patogeni: la metà dei quali ne è inconsapevole. Tra i detenuti le malattie infettive rappresentano la seconda emergenza più sentita, dopo quelle psichiatriche. Nel corso del 2015, all’interno dei 195 istituti penitenziari italiani, sono transitati quasi centomila detenuti. Sulla base di numerosi studi nazionali, si stima che cinquemila di essi fossero positivi al virus Hiv, 6500 portatori attivi del virus dell’epatite B e ben venticinquemila coloro che erano già venuti a contatto con l’agente che provoca l’epatite C. Questo dimostra concretamente come e perché è importante la collaborazione siglata a Roma dai poliziotti aderenti al Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe con i medici aderenti al Sindacato Medici Italiani Smi". Csm: più integrazione tra Rems e centri salute mentale, Legnini smentisce gli allarmismi di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 22 aprile 2017 Getta acqua sul fuoco il Vice presidente del Consiglio superiore della magistratura Giovanni Legnini. Una nota dell’Ansa di mercoledì sera, secondo cui "ammalati psichiatrici gravi responsabili di gravi delitti vagano nel territorio perché le Rems sarebbero piene" aveva rischiato, infatti, di creare allarmi ingiustificati nella popolazione. Con un comunicato Legnini ha smentito la circostanza ribadendo che la situazione è sotto controllo. Il malinteso era nato a seguito di una discussione al Consiglio superiore della magistratura sul superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari. Nella delibera della Sesta Commissione, che si era occupata della questione, era riportata anche una relazione del presidente del Tribunale di Sorveglianza di Catania il quale aveva rappresentato che l’unica Rems, a Caltagirone, "ha appena venti posti letto a disposizione, già da tempo occupati con ammalati psichiatrici provenienti in gran parte dalle vecchie strutture carcerarie abolite. Il risultato di questa situazione e che "vagano nel territorio ammalati psichiatrici gravi, violenti e socialmente pericolosi", per i quali è stato disposto il ricovero nelle Rems, "in attesa che si rendano disponibili posti’ presso queste strutture". Si tratta di affermazioni "rese dal Presidente del Tribunale di sorveglianza di Catania e semplicemente citate, come diverse altre di ben differente tenore, nel testo della delibera. In vari passaggi della delibera, si dava conto delle comunicazioni trasmesse alla Sesta commissione dai principali dirigenti degli Uffici giudiziari interessati", ha sottolineato invece Legnini. "Con la delibera della Sesta commissione sono stati invece evidenziati - ha proseguito Legnini - tutti i benefici derivanti dal superamento degli Opg e sono state proposte numerose soluzioni volte a rendere efficace la riforma del 2014. Riforma che, oltre alla definitiva abolizione degli Opg, ha stabilito concrete misure per garantire la tutela della salute mentale degli autori di reato non imputabili. Tra le proposte avanzate dal Csm c’è quella di una maggiore integrazione con i servizi di salute mentale sul territorio e la crescente collaborazione tra le Rems e i Tribunali di sorveglianza". Norme non tracciabili: l’opaco legiferare del Consiglio dei ministri di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 22 aprile 2017 Sono più tracciabili i latticini che le decisioni del Consiglio dei Ministri che dovrebbe essere il fulcro del governo. Tutti ora a guardare il dito, a cercare la "manina" della norma anti-Cantone, a interrogarsi se appartenga a chi voleva fare un favore a Renzi o dargli un dispiacere. E invece andrebbe guardata la luna nera, alla cui ombra le norme entrano ed escono misteriosamente dai Consigli dei Ministri. L’ormai ricca casistica spazia dal condono delle frodi fiscali sotto il 3% alla controversa interpretazione sulla licenziabilità dei dipendenti pubblici con il Jobs Act, per non parlare del balletto di tasse dentro-fuori ad ogni manovra finanziaria: la clausola "approvato salvo intese" fa da foglia di fico alla singolare pubblicazione dei testi solo dopo molti giorni dalla teorica approvazione. Già ci si era assuefatti allo svuotamento del Parlamento, ridotto per lo più a ratificare decreti legge del governo. Già da anni ci si era rassegnati all’abuso dei decreti legge, strumento sempre più sganciato dai requisiti di necessità e urgenza. Già non si contava quasi più l’imposizione del voto di fiducia sulla conversione in legge di quei decreti varati dal governo. Ed ecco che adesso l’ennesimo scaricabarile tra ministri, che a costo di figurare come passanti dicono di ignorare quello che in teoria avevano annunciato (e a volte vantato) di aver approvato, costringe a prendere atto che evidentemente neanche il fulcro del governo, il Consiglio dei Ministri, è la sede vera nella quale le decisioni vengono assunte, e che ad assumerle non sono (o non sono soltanto) i soggetti istituzionalmente prepostivi. Questa sì che è antipolitica allo stato puro. Così tossica che, contro l’opaco legiferare, sarebbe il caso di alzare il velo sui verbali dei Consigli dei Ministri, in modo da rendere pubblico quali ministri o burocrati o consulenti abbiano scritto o modificato un certo testo, con quali motivazioni a confronto, con quali posizioni finali. Perché, ora che da pochi giorni al supermercato vige per legge la tracciabilità dei latticini e si può sapere nel dettaglio quale strada abbia fatto una mozzarella, diventa insostenibile che difetti nei Consigli dei Ministri la tracciabilità di norme "desaparecide" o "orfane". Quelle 300 sconfitte quotidiane chiamate prescrizione di Claudia Fusani L’Unità, 22 aprile 2017 I motivi di sdegno sono continui. Almeno trecento al giorno. Trecento persone, trecento famiglie, a cui viene detto: "Scusate, lo Stato è arrivato tardi". La giustizia, sebbene sia un diritto, ad un certo punto scade. Non può più essere esercitata perché i reati hanno un arco di vita oltre il quale non possono più essere perseguiti. Scelta legittima, di civiltà. Quanto è incivile il contrario. Cosi in poche ore capita che godano della prescrizione un leader politico come Berlusconi (a Napoli, corruzione per la compravendita dei senatori nella legislatura 2006-2008) e qualche chilometro più in là (a Caltanissetta) un balordo come Scarantino che per dieci anni ha depistato, con l'aiuto di pezzi dello Stato, indagini delicatissime (quelle sulla strage Borsellino) spacciandosi per un boss di Cosa Nostra. Un paio di mesi fa tutti ci siamo sdegnati quando abbiamo saputo che uno stupratore ha goduto della prescrizione a vent’anni dai fatti. La sua vittima, oggi 27 anni, ne aveva sette quando quel tizio, all'epoca compagno della madre, abusava abitualmente di lei. Il male è noto. Il coro di sdegnosi ripete ogni anno nelle cerimonie degli anni giudiziari. Negli ultimi anni qualcosa si è mosso, qualche miglioramento s'è visto. Ma il senso di giustizia negata cresce con quello, altrettanto insopportabile, dell'incertezza delle pena. L'Europa condanna per questo l'Italia. Iniettati condannano, anche per questo, il nostro paese. Un tentativo di soluzione sembra a portata di mano. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando è a un passo dal fare approvare il testo di riforma del processo penale che si ispira a due principi fondamentali; processo penale più rapido (oggi servono circa sei anni per definire nei tre gradi un processo civile e cinque per un processo penale); prescrizione più lunga. Dopo tre anni di continue trattative, il 15 marzo il Senato badato il via libera ai 44 articoli che riformano l'iter del processo penale. Contrari Lega, Forza Italia e un pezzo degli alfaniani che in tema di giustizia non si sono mai staccati dal verbo che fu di Niccolò Ghedini e quindi del Cavaliere. Sulla prescrizioni alla fine è stato trovato il compromesso sul congelamento per 36 mesi dei tempi di prescrizione. Dopo il processo di primo grado le lancette della prescrizione si fermano per 18 mesi; altri 18 mesi dopo l'Appello. Per la corruzione e l'induzione, spesso scoperti a molti anni dai fatti, è stata prevista una prescrizione ad hoc: pari cioè al massimo della pena più la metà (anziché un quarto). Insieme al pacchetto prescrizione il disegno di legge prevede molti strumenti per rendere più veloce il processo: l'estinzione del reato se c'è il risarcimento (solo nei reati procedibili a querela); tempi più certi per le indagini visto che il pm avrà tre mesi di tempo (deroga di altri tre; 15 per i reati di mafia e terrorismo) per chiedere l'archiviazione può chiudere il giudizio; la riforma delle impugnazioni per cui i tempi morti tra un grado di giudizio e l'altro saranno molto ridotti. I magistrati non sono d'accordo. Eugenio Albamonte, dal primo di aprile presidente dell'Associazione nazionale magistrati, ricorda come ogni prescrizione sia "la mortificazione del processo" e la "delegittimazione del ruolo e della funzione stessa del magistrato". L'ottimo è nemico del bene. Ma per le toghe neppure il "bene" è contenuto in quel ddl. "S'interviene poco sulle cause legate sia alla procedura che alla cronica mancanza di risorse. E non si fa la cosa più pulita e i n linea con altri paesi europei: bloccare la prescrizione dopo la sentenza di primo grado". Il punto è che il disegno di legge, che aspetta solo il via libera finale della Camera in terza e ultima lettura, non viene messo in calendario. Si sta perdendo ancora una volta tempo. Rischiando, perché i tempi della legislatura tra legge elettorale e provvedimenti di bilancio non lasciano molte finestre disponibili. E quel ddl se non è l'ottimo e neppure il bene è una necessità. Una montagna di querele contro i giornalisti, solo l’8% porta a una condanna di Silvio Messinetti e Claudio Dionesalvi Il Manifesto, 22 aprile 2017 Il rapporto di Ossigeno per l’informazione sui procedimenti in Italia: la gran parte sono denunce "temerarie", presentate con lo scopo di intimidire. Il caso della rivista cosentina "Iacchitè". Alla fine del 2016, Ossigeno per l’informazione ha pubblicato il dossier Taci o ti querelo. Si tratta di un esaustivo rapporto sugli effetti delle leggi sulla diffamazione a mezzo stampa in Italia. Finalmente è possibile dire quanti sono, quanto durano, quanto costano, come si concludono, i procedimenti che si svolgono ogni anno per accertare la colpevolezza o l’innocenza di chi è accusato di diffamazione. Sono cifre ufficiali. Provengono dall’Ufficio statistiche del ministero della Giustizia. I dati fanno impressione. Ecco che cosa ha prodotto nel 2015 nel nostro Paese la legge che il Parlamento si ostina a non correggere: 103 anni di galera, 5.125 querele infondate (il 90% del totale), 911 citazioni per risarcimento, 45,6 milioni di richieste danni, 54 milioni di spese legali, 2 anni e mezzo per essere prosciolti, 6 anni per la sentenza di primo grado. Nel biennio 2014-2015 soltanto l’8 % dei procedimenti penali definiti ha concluso l’iter con la condanna dell’imputato mentre per l’87 % dei casi i giudici hanno prosciolto il giornalista imputato. Dunque, ogni anno vengono definite una montagna di querele (5.902) e questa montagna produce un topolino: 475 condanne, delle quali 320 al pagamento di multe e 155 a pene detentive. Il fatto che soltanto una percentuale esigua di denunce sia convalidata da una sentenza significa che molte querele contengono accuse infondate, esagerate. Significa che tante accuse sono pretestuose, formulate strumentalmente, presentate per ragioni che non hanno niente a che fare con la tutela della reputazione. Sono querele "temerarie" e, dunque, veri e propri abusi del diritto. Questi abusi fanno girare la macchina della giustizia a vuoto, la ingolfano, la trasformano in uno strumento di ricatto, in un bavaglio per giornali e giornalisti. Dietro i freddi numeri della statistica si celano storie vive di intimidazioni e censure, di cronisti, editori, opinionisti, operatori dell’informazione, che non dovrebbero esser indotti a tacere certe notizie per paura o timore di rappresaglie fisiche o giudiziarie. A Cosenza la storia del sito "Iacchitè" rende ancor più ingarbugliati i confini tra diritto di cronaca e tutela della persona. Mafiosi, politici, magistrati e imprenditori raccontati come nessuno aveva mai fatto prima. Personaggi pubblici esposti ogni giorno alla "gogna" internautica per le loro presunte malefatte. Iacchitè in cosentino è un’espressione di stupore dinanzi a una notizia. Da due anni è anche il nome di un quotidiano on line che ha costretto la polizia giudiziaria cosentina ad aprire un ufficio ad hoc per la notifica di querele e procedimenti. I politici hanno arruolato eserciti di avvocati e di hacker per fermare il sito. La procura ha già oscurato la testata una volta, arrivando a convocare in tribunale, in qualità di "persone informate sui fatti", gli utenti che su Facebook hanno assegnato un like ai loro articoli. Non c’è stato niente da fare. Iacchitè insiste e resiste nel web. Sebbene i suoi due animatori, Gabriele Carchidi e Michele Santagata, abbiano accumulato un numero di denunce da guinness dei primati e da un momento all’altro potrebbero finire in carcere per uscirne solo tra qualche anno, loro vanno avanti spavaldi. Ogni mattina nel garage in cui lavorano si assiste a un viavai di carabinieri e poliziotti che notificano atti giudiziari. In primo grado, qualche condanna è già arrivata. Numeri da brividi: in totale Carchidi e Santagata sono stati querelati 68 volte. Nel dettaglio, 17 da imprenditori, 6 dagli avvocati, 14 dai politici (sottosegretari e consiglieri regionali e anche il fondatore di Forza Nuova, Roberto Fiore), 7 tra poliziotti e carabinieri, 15 da magistrati, 5 sono dirigenti pubblici e 4 editori e giornalisti. In almeno un caso, la procura ha ipotizzato nei confronti dei due redattori il reato di stalking digitale. Di sicuro il click-baiting funziona. Per essere un magazine locale, Iacchitè è letto da una quantità impressionante di visitatori: in media 60 mila utenti unici giornalieri. Cosenza è spaccata in due. Da una parte molti sostenitori, tra la cosiddetta gente comune, che godono leggendo i cognomi di personaggi sinora mai aggettivati con tanta spregiudicatezza; dall’altra i tanti critici che accusano i cronisti di scarsa attendibilità, di uso vendicativo della scrittura. Santagata e Carchidi sbandierano orgogliosi i banner forniti dal loro unico finanziatore: il motore di ricerca Google. Indaffaratissimo l’avvocato dei due redattori, Nicola Mondelli, impegnato a rallentare il conto alla rovescia che precede l’ormai probabile arresto di Santagata e Carchidi. Qualora si concretizzasse un provvedimento coercitivo di tale entità, scoppierebbe un nuovo caso Sallusti? E ci sarebbe altrettanto clamore da indurre il Presidente della Repubblica a concedere la grazia? I problemi della tutela contro le notizie false di Sabino Cassese Corriere della Sera, 22 aprile 2017 . La libertà di espressione del pensiero è la regola prima della democrazia. Ma che fare quando se ne abusa? "Uno dei problemi più gravi del momento" - ha scritto il procuratore di Roma - è quello di un’informazione inadeguata e manipolatrice, alcune volte denigratoria e diffamatoria. Particolarmente grave quando corre sul "web", che consente una straordinaria circolazione delle informazioni, ma è una specie di giornale senza né direttore né redazione, quindi senza autocontrolli. Lì l’ottavo Comandamento, quello che proibisce la menzogna, viene violato ancor più facilmente e più di frequente, come la cronaca recente ha dimostrato, con notizie false, di cui è difficile capire la fonte, è complesso identificare l’autore, impossibile richiedere che vengano fornite le prove. Il nostro ordinamento è attrezzato per far fronte a questo problema? La Corte di Cassazione ha fatto molto bene il suo dovere, fissando, in una ricca giurisprudenza che risale alla sentenza-decalogo del 1984, i criteri ai quali debbono attenersi i tribunali. Essa ha stabilito che il "free speech" deve essere bilanciato con l’interesse alla reputazione e il diritto all’onore. Che vi è diritto di critica, purché i fatti siano veri e riferiti in modo completo, indicando la fonte e verificandone l’attendibilità. Che alla critica è richiesta "continenza espressiva" (non deve cioè contenere ingiurie e inutili offese) e obbligo di motivazione (cioè il dissenso deve essere spiegato). Infine, che vi è diritto di satira, e che questa può essere anche aspra e pungente, purché rispetti gli stessi limiti della critica. Questi principi che consentono di bilanciare libertà di stampa e reputazione di coloro che sono oggetto di critica, come sono stati applicati? Conosciamo i dati relativi al Tribunale di Roma, dove, dopo un decennio di severità, vi è stata una inversione di tendenza, con il rigetto di quasi tre quarti delle domande di risarcimento. Da ultimo, ha ripreso quota un atteggiamento più severo, simboleggiato da tre sentenze esemplari, pronunciate in sede civile, per il risarcimento dei danni subiti, da corti diverse. La Corte di appello di Milano, e poi la Corte di cassazione, hanno ritenuto che l’onore di Ilda Boccassini fosse stato leso da opinioni espresse su Panorama senza "continenza", senza controllare la veridicità dei fatti, a scopo denigratorio. Il Tribunale di Torino è giunto a conclusioni analoghe riguardo a Renato Schifani, nei confronti del quale erano stati pubblicamente espressi, alla Rai, giudizi ingiuriosi non motivati. Il Tribunale di Milano e poi, recentemente, quello di Roma hanno riconosciuto le ragioni di Giuliano Amato, affermando che notizie e giudizi contenuti in un libro e nel Fatto quotidiano, relativi all’acquisto dell’abitazione, al cumulo di stipendio e vitalizio, ai rapporti con il Monte dei paschi, erano frutto di manipolazioni, non rispettavano il criterio della "continenza", non erano attendibili. Se, dunque, il sistema giudiziario, fissati i criteri, ne ha fatto applicazione, possiamo ritenerci soddisfatti? Rimangono due problemi aperti. Il primo riguarda l’intensità e la frequenza della tutela giudiziaria. "Fake news", ingiurie, denigrazioni, campagne diffamatorie, "bufale", affermazioni ciarlatanesche, sono sempre più frequenti, ma i giudici faticano a star loro dietro. Dunque, sarebbe necessaria maggiore attenzione da parte dei giudici, attivati dall’iniziativa delle persone offese, moltiplicando i casi esemplari, come quelli citati. Il secondo problema riguarda quel terreno vastissimo e sconosciuto che è la rete. Si tratta di un terreno poco sorvegliato. Gli stessi interessati possono essere oggetto di offesa senza venirne a conoscenza. Non vi sono filtri interni, quali possono essere i giornalisti in una trasmissione televisiva o in un quotidiano o settimanale. I gestori delle reti o i fornitori di servizi "on line" dichiarano di non essere responsabili di quel vi viene immesso (basti pensare al caso della vendita di cimeli nazisti in Francia, sollevato dall’unione degli studenti ebrei, o al "diritto all’oblio", sollevato da uno spagnolo). Google e Facebook hanno avviato tentativi di controllo, ma finora senza successo. Non c’è neppure un’autorità pubblica globale. L’"Internet Corporation for Assigned Names and Numbers" (Icann) è un ente di governo della rete, ma regola alcuni problemi tecnici di vertice, e i vari "registries" e "registrars" territoriali fanno altrettanto a livello locale. Essi, tuttavia, non si interessano delle notizie immesse in Internet. Qui c’è una vera lacuna da colmare, alla quale si spera che le corti pongano rimedio (la Cassazione in sede penale, peraltro, ha già sanzionato messaggi sulla rete, a mezzo di blog o tramite Facebook), cercando su base nazionale una soluzione che possa essere accettata a livello globale (altrimenti, succederà quel che è accaduto nel caso della vendita di oggetti nazisti, proibita dal codice penale francese, che è continuata da un sito collocato in altra nazione). Gli abusi sui figli un’invenzione. Scagionato dopo 4 anni in cella di Nicola Pinna La Stampa, 22 aprile 2017 Oristano, un autotrasportatore fu accusato di stupro dai suoi bambini. Diventati adulti, hanno ritrattato: "Mamma ci aveva costretti a mentire". Il primo viaggio verso la sua seconda vita, Saverio De Sario l’ha fatto in treno: dal carcere di Terni fino a Roma, prima tappa del lento ritorno alla normalità interrotta da quasi quattro anni di carcere. Lo stop alla felicità di una famiglia qualunque era stato molto brusco. Era il 2000 e l’autotrasportatore sardo si era ritrovato a rispondere di un reato gravissimo: violenza sessuale nei confronti dei due figli, che allora avevano 12 e 9 anni. Ad accusarlo erano stati proprio loro, prima con strani disegni sul quaderno e poi con un racconto confuso, di fronte a un pool di poliziotti e psicologi. Nel corso di 15 anni interminabili, il caso ha superato i soliti tre gradi di giudizio e qualche mese fa è stato riaperto. Il primo colpo di scena, in realtà, risale al mese di settembre 2015. Michele e Gabriele, i due figli di Saverio, ritrattano le accuse, raccontano una verità molto diversa e convincono i giudici della Corte Costituzionale a ordinare la revisione del processo. Fino alla sentenza di ieri, pronunciata dalla Corte d’Appello di Perugia: "Assoluzione perché il fatto non sussiste e immediata scarcerazione". "Lo abbiamo resuscitato e noi ora siamo le persone più felici del mondo - grida Gabriele. Papà non meritava di passare altri giorni in carcere da innocente. Non ci ha mai sfiorato, era stata nostra madre a costringerci a raccontare quelle bugie. Quando siamo diventati grandi abbiamo capito la gravità della situazione e abbiamo deciso che fosse arrivato il momento di fare qualcosa. Ora ci riprendiamo la vita insieme". Sei ore dopo la sentenza Saverio De Sario lascia il carcere e già si preoccupa di ritrovare un lavoro. Intanto, cerca di rimettere insieme i fili spezzati della tela familiare. "Ero quasi certo che sarebbe finita così, le contraddizioni erano evidenti, era fin troppo chiaro che le accuse si basavano solo su invenzioni. Ma se sono tornato libero, e se non sono morto in cella, lo devo ai miei figli, che hanno avuto il coraggio di raccontare tutta la verità. In questo sono stato fortunato, tanti altri si ritrovano dietro le sbarre senza colpe e senza l’appoggio di qualcuno che abbia la forza di gridare per loro". Mettendo insieme il periodo della custodia cautelare e l’arresto scattato dopo la condanna a nove anni, Saverio De Sario ha trascorso in cella 46 mesi. Con tantissimi momenti di sconforto. "Chi si ritrova dietro le sbarre con quell’accusa si ritrova subito a essere trattato peggio degli altri detenuti, isolato da tutti, guardato con maggiore diffidenza. Io non sono mai stato maltrattato, ma la situazione è stata davvero molto difficile. La risonanza che i giornali e le tv hanno dato alla nostra storia mi ha aiutato tanto: gli altri reclusi e anche gli agenti avevano capito che stavo là dentro senza colpe. E per questo ho goduto fino a oggi del massimo rispetto da parte di tutti. Finché non è arrivata l’assoluzione, comunque, era soltanto una magra consolazione". Per raccontare ai giudici che la storia della violenza sessuale era frutto di una clamorosa invenzione, ancor prima di affidarsi a un avvocato, i due fratelli De Sario avevano anche scritto un lungo memoriale. Quarantadue pagine che smentivano interrogatori, accuse e sentenze. Quel dossier lo avevano affidato ai responsabilità della comunità in cui sono cresciuti, ma nulla è mai arrivato alla cancelleria della Procura di Oristano. "Purtroppo avevano già deciso che dovevo essere condannato e hanno tirato dritti - si sfoga Saverio. Un padre che viene accusato di questi reati non può essere mandato a casa assolto. Per la mia difesa non c’è mai stato spazio. Tutti gli atti e le testimonianze che potevano dimostrare la mia innocenza non hanno avuto peso durante il processo. Sentire quelle accuse e non potermi difendere non è stato semplice. Solo negli ultimi due anni ho capito che forse la battaglia di Gabriele e Michele sarebbe servita a qualcosa". In Sardegna, Saverio De Sario forse riprenderà il lavoro di autotrasportatore per conto di un ditta che commercializza prodotti alimentari a Olbia. "Questa è davvero la mia seconda vita, ma ora che posso ricominciare a correre vorrei mandare un messaggio alla mia ex moglie che ha convinto i bambini ad accusarmi pur di allontanarmi. Vorrei che riflettesse sul danno che ha fatto: per capirlo basterebbe che trascorresse un solo giorno dietro le sbarre". Ricorso di Martina Levato: "ridatemi mio figlio" di Manuela Messina La Stampa, 22 aprile 2017 L’ex studentessa bocconiana chiede alla Suprema Corte di riavere con sé il piccolo nato dalla relazione con il complice dei blitz con l’acido Alexander Boettcher. Martina Levato ci riprova. Non è disposta a darla vinta ai giudici milanesi che hanno confermato l’adottabilità del suo bambino. "A nessun figlio minore", nemmeno nel caso di Annamaria Franzoni - scrive l’ex studentessa bocconiana tramite il suo legale nel ricorso alla Suprema Corte per riavere con sé il piccolo nato dalla relazione con il complice dei blitz con l’acido Alexander Boettcher - "è stato riservato un trattamento simile, ovvero discriminatorio e privativo del diritto alla propria identità personale e familiare". Condannata a venti anni per le aggressioni, in carcere a San Vittore dal suo arresto del dicembre 2014, la ragazza chiede di potere crescere il figlio con sé in un Istituto per madri detenute. Oppure, che il bambino vada in affido a un’altra famiglia per un periodo che le consenta di scontare la pena. Nel ricorso alla Cassazione l’avvocato Cossar chiede quindi di considerare i "tanti casi in cui, a fronte dell’accertata condotta delinquenziale di uno o di entrambi i genitori, nessun tipo di censura alle capacità genitoriali sia stata mai mossa". Il riferimento a quei processi esposti allo stesso modo dal punto di vista mediatico, da "Franzoni, Parolisi, tutti i casi di associazione di stampo mafioso, in cui intere famiglie delinquono, con i figlioli al seguito". Lo scorso marzo, la Corte d’Appello di Milano aveva respinto il ricorso di Levato. Secondo i giudici, "lasciava allibiti" la sua volontà di essere madre. La giovane e l’ex compagno, scriveva la Corte, non sarebbero stati in grado di dare "adeguati riferimenti morali e materiali al bambino, in anni decisivi per la sua crescita fisica, scolastica e relazionale". Un giudizio, commenta ancora il legale della Levato nel ricorso contro questa sentenza presentato nei giorni scorsi, "assolutamente tranchant, pericolosamente moralistico e davvero sorprendente in quanto formulato da giuristi". Martina è "cambiata", scrive ancora il legale, e "solo chi non la conosce può pensare che sia la stessa donna del giorno dell’arresto". Oltre ad avere chiesto "più volte scusa" alle vittime e alle loro famiglie, che la donna sia oggi diversa "lo dicono i fatti". Ovvero, scrive il legale, "le sue condotte all’interno del carcere (ove lavora e ricopre un ruolo di massima responsabilità, ove scrive sul giornalino del carcere e ha vinto un premio letterario, ove ha ripreso gli studi universitari che prosegue con profitto e si dedica alla cura di sé stessa e degli altri), la sua rinnovata relazione con i genitori, il suo stesso psichiatra di riferimento". Puglia: inclusione sociale dei detenuti, la Regione punta sul lavoro di Marina Schirinzi lecceprima.it, 22 aprile 2017 La Regione Puglia ed il Provveditorato dell’amministrazione carceraria presentano un progetto volto al reinserimento, a partire dalle qualifiche professionali. Rompere l’isolamento della reclusione, la marginalità sociale e morale, per favorire il rapporto del detenuto con il sistema esterno: un obiettivo ambizioso ed importante che il governo regionale vuole raggiungere insieme a tutte le istituzioni penitenziarie e gli attori sociali coinvolti. Quindi le cooperative sociali, le associazioni di categoria ed i semplici cittadini. Al fine di agevolare il reinserimento di chi ha scontato una pena all’interno della società, la Regione Puglia ha costruito un bando, già pubblicato e prorogato fino al 18 maggio, denominato "iniziativa sperimentale di inclusione sociale per le persone in esecuzione penale". Una misura che rappresenta l’esito dei protocolli firmati dal governo di via Capruzzi e dal ministero di Giustizia relativi ai rischi di esclusione sociale dei soggetti sottoposti a misure restrittive della libertà personale, ed il risultato degli accordi presi tra Regione Puglia e Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria. Il carattere innovativo di questo progetto è stato messo in evidenza dall’assessore regionale al lavoro, Sebastiano Leo, che lo ha presentato alla stampa questa mattina, nel corso di una conferenza che si è tenuta presso la casa circondariale di Lecce, alla presenza del provveditore dell’amministrazione penitenziaria di Puglia e Basilicata, Carmelo Cantone, del prefetto Claudio Palomba e del direttore del carcere di Lecce, Rita Russo. Il bando, finanziato con 7 milioni e mezzo di euro di derivazione comunitaria, prevede percorsi formativi finalizzati al rilascio delle qualifiche professionali e percorsi individualizzati di inclusione sociale, con un ruolo attivo delle rispettive direzioni degli stessi Istituti di pena nell’ individuazione dei destinatari della misura. Si articola in due linee di azioni che coinvolgeranno complessivamente 530 persone dell’area penale. Il punto di partenza sono i bisogni e le necessità peculiari espresse proprio dagli istituti carcerari: non è un caso, quindi, che la qualifica più scelta sia stata quella dell’assistenza famigliare e, a seguire, i percorsi professionalizzanti per diventare falegname, agricoltore, elettricista e muratore. Sono queste, infatti, le figure più richieste anche all’interno dell’istituto di Borgo San Nicola e i detenuti potranno mettersi alle prova già all’interno del carcere, prima del grande salto che li attende nella comunità sociale. L’avviso prevede anche l’attivazione di percorsi integrati di "presa in carico globale" per l’inclusione socio-lavorativa delle persone. Il fine della misura, infatti, non è solo quello di garantire e rendere esigibili i diritti sociali delle persone sottoposte a procedimenti giudiziari o a vincoli penali, in misura uguale ai cittadini liberi, ma anche a dare un contributo all’incremento della sicurezza per i cittadini. Da non sottovalutare, poi, è il riflesso positivo sul potenziale di sviluppo economico della regione: più è alto il livello di sicurezza dei territori, infatti, maggiore sarà la loro capacità di attrarre investimenti finanziari. È pacifico, infatti, che i fenomeni di scarsa coesione sociale e di situazioni di marginalità si riflettono sul tasso di criminalità e sul senso di insicurezza della popolazione, determinando una situazione di scarsa attrattività per gli investimenti delle imprese. Proprio questo riflesso positivo è stato sottolineato dal prefetto Claudio Palomba: "La novità del bando risiede nel recupero sociale, a tutto tondo, del detenuto: le persone che provengono dalle famiglie della criminalità organizzata, laddove il recupero sia completo e la condivisione dei valori civili consolidata, possono rappresentare un forte esempio positivo per i giovani che rimangono colpiti da esperienze forti di questo tipo". "Per noi - ha aggiunto l’assessore Leo - l’inclusione sociale si realizza attraverso il lavoro e attraverso la concreta acquisizione di competenze professionali. Il lavoro è il fattore determinante per una reale inclusione sociale dei soggetti in esecuzione penale: lavoro come possibilità di tornare a essere un soggetto attivo grazie all’acquisizione di un reddito per una prestazione lavorativa stabile, che risponde a una reale esigenza del territorio e, in questo modo, restituisce dignità e ruolo sociale alla persona". "Il progetto che presentiamo oggi è sperimentale e può diventare un modello di riferimento anche per le altre regioni - ha sottolineato Cantone-. Non è un caso che la sede scelta sia il carcere di Lecce che conta un numero importante di detenuti e una presenza forte dei clan della criminalità organizzata. Il lavoro messo in piedi per responsabilizzare i soggetti svantaggiati e marginalizzati, grazie anche alla collaborazione con le associazioni del territorio che hanno proposto idee innovative, ritengo che sia un atto di grande civiltà e un’eccellenza per gli istituti penitenziari pugliesi". Roma: il Tribunale di Sorveglianza finalmente riavrà un capo di Valentina Stella Il Dubbio, 22 aprile 2017 Si tratta di Maria Antonietta Vertaldi, la nomina sarà ufficializzata dal plenum del csm. La sede era vacante da oltre un anno, creando, come denunciano molti avvocati, limitazioni all’esercizio della difesa e ai diritti del condannato Il nuovo magistrato a capo dell’Ufficio di Sorveglianza del Tribunale di Roma sarà la dottoressa Maria Antonia Vertaldi, attualmente alla direzione del Tribunale di Sorveglianza di Salerno. La V Commissione del Consiglio Superiore della Magistratura, incaricata per il conferimento degli incarichi direttivi e semi direttivi, l’ha scelta, infatti, con un voto unanime nella seduta dello scorso 20 aprile. Per la nomina ufficiale si attende solo il Plenum del Csm che si terrà il prossimo 3 maggio. Intanto esprime "soddisfazione per la nomina" la Camera Penale di Roma attraverso il suo vice presidente, l’avvocato Vincenzo Comi: "nell’attesa dell’ufficialità dell’incarico auguriamo un buon lavoro al nuovo Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Roma". Dall’ultima presidenza del dottor Bellet, la sede era rimasta vacante da oltre un anno, creando, come denunciano molti avvocati, limitazioni all’esercizio della difesa e ai diritti del condannato. "Eravamo in attesa di questa notizia da troppo tempo - prosegue Comi. Confidiamo comunque che il Presidente effettivo possa affrontare nel miglior modo possibile tutte le questioni che sono attualmente molto problematiche, dalle criticità organizzative - come la difficoltà ad accedere alle cancellerie dei singoli magistrati, o a interloquire con loro - alla visione carcero-centrica dell’esecuzione della pena, considerate anche le statistiche delle misure alternative particolarmente basse. Bisogna capire che le misure alternative non sono un beneficio ma una modalità esecutiva della pena, diversa dal carcere". Proprio come evidenziato dal presidente della Camera Penale di Roma, l’avvocato Cesare Placanica, in uno sciopero indetto lo scorso dicembre per denunciare le ‘ gravi disfunzioni degli uffici di sorveglianza, dopo due anni di inutili tentativi di interlocuzione con i magistrati’, nella Capitale il dato statistico dell’ammissione alle misure alternative raggiunge solo il 10%, a fronte di una media nazionale del 25%; inoltre, contro i provvedimenti della magistratura di sorveglianza romana, nel solo 2016, si sono contati 392 ricorsi in Cassazione. A questi numeri, lo ricordiamo, si è aggiunto pochi giorni fa il monito del Comi - per la prevenzione della tortura del Consiglio di Europa che ha invitato i 47 gli Stati membri a ricorrere alla custodia cautelare solo in casi eccezionali quando non è possibile utilizzare appunto misure alternative. Il Tribunale di Sorveglianza di Roma però soffre anche di altri mali: primo tra tutti, come più volte sottolineato dal Garante dei Detenuti del Lazio Stefano Anastasia, un rapporto quasi inesistente e difficile tra i detenuti e i magistrati di sorveglianza di cui lamentano l’assenza di visite e ispezioni, nonostante la legge ponga al giudice di sorveglianza l’obbligo di andare frequentemente in carcere e sentire tutti i detenuti che chiedono di parlargli. A ciò si aggiungono i rigetti, a detta dei reclusi "immotivati", dei permessi per uscire dal carcere in particolari occasioni. Come si legge in alcune lettere di ristretti del carcere romano di Rebibbia, inviate al Dubbio, ad alcuni di loro è stato negato di presenziare al matrimonio della figlia, alle esequie del padre, ma anche alla nascita del proprio figlio sulla base di una "laconica motivazione dai toni tenebrosi - ci scrive Giuseppe P.: la nascita di un figlio, pur trattandosi di evento importante, non desta preoccupazione" . Cosenza: detenuti privi di cure, il caso finisce in Parlamento quicosenza.it, 22 aprile 2017 Il servizio offerto dall’Asp di Cosenza è inadeguato. Aumenta il rischio suicidi e si aggrava dello stato di sofferenza dei detenuti bisognosi di cure. La Casa Circondariale di Cosenza "Sergio Cosmai" finisce in Parlamento per colpa della condotta omissiva tenuta dai vertici dell’Azienda Sanitaria Provinciale di Cosenza. Era stata una visita dei Radicali Italiani, guidati da Emilio Enzo Quintieri, a riscontrare la grave situazione esistente nell’Istituto Penitenziario. Nei giorni scorsi, il Governo Gentiloni, è stato ufficialmente investito della questione, grazie a due Interrogazioni a risposta scritta presentate alla Camera dei Deputati ed al Senato della Repubblica da parte degli Onorevoli Serenella Fucksia, Ivana Simeoni, Laura Bignami, Michela Rostan, Carlo Galli, Giovanna Martelli e Davide Zoggia. Entrambi sono stati rivolti ai Ministri della Giustizia e della Salute On. Andrea Orlando e On. Beatrice Lorenzin. I sette Parlamentari, dopo aver illustrato che nella Casa Circondariale di Cosenza, a fronte di una capienza regolamentare di 218 posti, sono ristretti 272 detenuti, 50 dei quali stranieri e 57 con patologie psichiatriche, hanno pesantemente stigmatizzato l’operato dell’Azienda Sanitaria Provinciale di Cosenza, per l’inadeguato servizio di assistenza sanitaria specialistica di tipo psichiatrico organizzato nell’Istituto e per la condotta omissiva mantenuta nonostante le reiterate sollecitazioni, tutte rimaste inevase, avanzate dal Direttore dell’Istituto Filiberto Benevento, dal Dirigente del Servizio Sanitario Penitenziario Francesco Strazzulli, dal Provveditore Regionale Reggente dell’Amministrazione Penitenziaria della Calabria Rosario Tortorella, dal Magistrato di Sorveglianza di Cosenza Paola Lucente, dal Segretario Provinciale del Sindacato Unitario dei Medici Ambulatoriali Italiani Francesco Lanzone e dal Responsabile Provinciale dell’ex Medicina Penitenziaria del medesimo Sindacato Francesco De Marco. A causa della cattiva organizzazione del servizio di psichiatria intramurario che ultimamente prevede solo 6 ore alla settimana, affidate anche a 5 specialisti diversi, vi è stato un crollo verticale di qualsiasi forma di prevenzione, l’inattuabilità di una effettiva presa in carico dei pazienti, la mancanza di continuità terapeutica, il mancato funzionamento dello staff multidisciplinare, nel cui ambito lo psichiatra è elemento decisivo, ed il potenziale innalzamento del livello di rischio suicidario e auto/etero aggressivo. Inoltre, tale problematica, oltre a comportare un aggravio dello stato di sofferenza dei detenuti bisognosi di cure, ha acuito maggiormente le loro problematiche tanto da creare uno stato di tensione che ha reso critico il mantenimento dell’ordine e della sicurezza intramuraria. Per questo motivo, il Comandante del Reparto di Polizia Penitenziaria, il Commissario Davide Pietro Romano, aveva finanche proposto lo sfollamento dell’Istituto per i detenuti con problematiche psichiatriche perché non erano gestibili appunto per carenza di psichiatra. La riduzione del servizio di psichiatria da 30 a 6 ore settimanali e la mancata nomina in pianta stabile di uno o al massimo due specialisti, ha provocato, nei casi più gravi, il ricorso alle strutture sanitarie esterne con tempi di attesa non compatibili con le necessità del disagio psichico nella detenzione, comportando anche gravi ripercussioni per la sicurezza dovute alle traduzioni che devono essere effettuate per l’accompagnamento dei detenuti con enorme dispendio di risorse umane e finanziarie. La Direzione Generale dell’Asp di Cosenza, in numerose occasioni e sistematicamente, è stata invitata a riassegnare all’Istituto 30 ore settimanali per la branca di psichiatria ed a nominare uno o al massimo due professionisti in modo da garantire la gestione dei casi nel rispetto delle esigenze di continuità dell’assistenza sanitaria, attesa la rilevanza che la cura della salute mentale assume negli Istituti Penitenziari, in relazione alla necessità di ridurre il rischio di suicidio e prevenire gesti auto ed etero aggressivi da parte dei detenuti con problematiche psichiatriche. Ma, nonostante gli impegni, anche formalmente assunti, non ha mai provveduto a risolvere la situazione assicurando sia l’integrazione delle ore di psichiatria e sia la nomina degli specialisti, come richiesto. Pertanto è stato chiesto ai Ministri della Giustizia e della Salute di sapere se siano a conoscenza dei fatti descritti e se questi corrispondano al vero, come ed entro quali tempi intendano adoperarsi, affinché alla popolazione ristretta nella Casa Circondariale di Cosenza venga finalmente reso effettivo il godimento del diritto fondamentale alla tutela della salute, al pari dei cittadini in stato di libertà, come previsto dalla normativa vigente in materia, e se non ritengano doveroso verificare, con urgenza le reali condizioni di salute delle persone detenute nella Casa Circondariale di Cosenza e se siano riscontrabili delle omissioni nella condotta tenuta dai dirigenti dell’Azienda Sanitaria Provinciale, ed eventualmente procedere nei confronti dei responsabili per quanto di competenza. Richieste, più o meno, simili quelle avanzate dai Deputati Rostan, Carlo Galli, Martelli e Zoggia che hanno chiesto al Ministro della Giustizia Orlando ed al Ministro della Salute Lorenzin, di conoscere di quali notizie dispongano in ordine ai fatti riferiti, quali iniziative intendano intraprendere affinché ai detenuti venga assicurato il godimento al diritto alla tutela della salute, al pari dei cittadini liberi, come prevede il Decreto Legislativo n. 230/1999 di riordino della Medicina Penitenziaria ed infine, se non ritengano doveroso verificare eventuali omissioni nella condotta tenuta dall’ASP di Cosenza e, in caso affermativo, se non ritengano opportuno procedere nei confronti dei responsabili. La risposta sarà fornita dal Ministro della Giustizia Andrea Orlando. Roma: "Fine pane mai", la prima panetteria che sfonda le mura del carcere di Patrizia Caiffa ancoraonline.it, 22 aprile 2017 È la prima volta in Italia (e forse in Europa) che un invalicabile muro di cinta di un carcere viene sfondato per aprire una panetteria dove lavorano i detenuti. Un punto vendita al pubblico che serve ad accorciare le distanze tra il quartiere e chi è dentro le mura. Perché anche il carcere diventi un "luogo piacevole" da frequentare per le cose buone che produce. Accade nella terza casa circondariale di Roma Rebibbia, dove ieri (20 aprile) è stata inaugurata, in via Bartolo Longo 82 (proprio tra le mura del carcere) "La Terza bottega: fine pane mai". Il gioco di parole con "fine pena mai", usato per indicare l’ergastolo, vuole essere proprio una provocazione positiva: il pane non deve finire mai, né per chi lo mangia, né per chi lo produce. In questo caso, chi mette letteralmente le mani in pasta nel forno interno a ridosso delle mura, sono 8 detenuti con regolare contratto di lavoro. Si spera di arrivare a 20 e di far lavorare come commesse anche le detenute della sezione femminile. L’iniziativa, del costo complessivo di oltre 2 milioni di euro, è stata finanziata con 800mila euro della Cassa delle ammende del Dipartimento amministrazione penitenziaria. Il resto grazie ad un cofinanziamento con Panifici Lariano e Farchioni Olii, che pagano gli stipendi, le materie prime ed hanno completamente allestito il punto vendita. Pane, formazione e lavoro per aprire un varco. Il progetto ha impiegato più di 2 anni e mezzo per realizzarsi: tante sono state, infatti, le difficoltà burocratiche e amministrative, proprio perché si trattava materialmente di aprire un varco sulle mura di Rebibbia e utilizzare la stanza a ridosso per il punto vendita. E mentre la gente del quartiere ieri approfittava della generosa porchetta, della pizza e dei panini distribuiti gratuitamente per l’inaugurazione, al di là del muro gli 8 detenuti lavoravano dalla notte precedente per sfornare il tutto. "Hanno frequentato per sei mesi un corso per panificatori e poi i successivi aggiornamenti", spiega al Sir suor Primetta Antolini, della Congregazione Francescane Alcantarine, che ha come carisma principale i giovani e i poveri. Umbra di Castiglion del Lago, suor Primetta ha scoperto vent’anni fa il mondo del carcere "e da allora non ne è più uscita", come le ricorda scherzando la superiora. Da tre anni fa volontariato alla terza casa circondariale maschile di Rebibbia, con 35 detenuti con pene attenuate o con lunga pena. Con la sua associazione "Mandorlo in fiore" ha fortemente creduto in questo progetto. "Gli ostacoli sono stati tanti, in certi momenti i ragazzi avevano perso le speranze - dice oggi felice ed emozionata. Invece grazie ai dirigenti del carcere e a un imprenditore illuminato ce l’abbiamo fatta. Aver inaugurato la panetteria la settimana di Pasqua per me significa abbattere il muro come durante la Resurrezione. Roma: dalle Br al buon pane per tutti, la rivoluzione di Piunti di Carlotta di Santo dire.it, 22 aprile 2017 "Ho dormito per 23 anni in carcere e ho avuto una condanna complessiva di 32 anni. Nel 2001 ho avuto la condizionale e nel 2005 ho finito di scontare completamente la pena. Sembra una follia il fatto che sia tornato in carcere a proporre un lavoro ai detenuti, eppure è stato così". A parlare con l’agenzia Dire è l’ex brigatista Claudio Piunti, responsabile della panetteria all’interno della Terza casa circondariale di Rebibbia a Roma, uno spazio su due livelli di 225 metri quadrati. "Tutto è cominciato anni fa con il progetto "Libera mensa e il pane dalla terza bottega" - dice Piunti - ma da allora di strada ne abbiamo fatta. E oggi siamo qui, in questa giornata di festa, ad aprire per la prima volta al pubblico ‘La terza bottega - Fine pane mai’". La bottega di cui parla l’ex Br è in realtà un vero e proprio esercizio commerciale nato tra le mura del carcere. D’ora in poi offrirà agli abitanti del quartiere la possibilità di accorciare la distanza tra la società civile e quella ristretta, ma soprattutto di degustare prodotti di qualità, tra pane e dolci, preparati dai detenuti. "Daremo un’immagine diversa del carcere, ma allo stesso tempo le persone che verranno ad acquistare prodotti da noi saranno comunque tranquillizzate dal muro di cinta che le separa dai detenuti. Anche se poi chi sono i buoni e i cattivi, questo è tutto da vedere!", scherza Piunti. Finanziata con i fondi della Cassa delle ammende del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), insieme ai Panifici Lariano e Farchioni Olii, la bottega è in Bartolo Longo 82, praticamente accanto alla porta carraia del penitenziario. "È il primo punto vendita di questo genere - racconta con una punta di soddisfazione Piunti all’agenzia Dire - nato nel più grande penitenziario d’Europa. Credo non si sia mai vista una cosa del genere. La bottega è in perfetto stile antico, con arredamento in legno, ed è stata costruita abbattendo una parte del muro di cinta del carcere". Ma come è nata l’idea del nome? "Terza bottega" deriva ovviamente da "Terza Casa" - risponde - quanto a bottega, ci siamo ispirati ad alcuni film di Totò dove spesso si sentiva dire: "Ma dove sta tuo padre?", "Sta a bottega!", intendendo con questa espressione il carcere". I fornai-detenuti che preparano il pane all’interno del carcere al momento sono 9 e hanno turni lavorativi da cinque ore ("io però ne lavoro anche dieci perché sono il responsabile", tiene a sottolineare con un sorriso Piunti), ma presto dovrebbe iniziare anche una turnazione notturna, mentre l’obiettivo è quello di impiegare almeno due lavoranti nella bottega all’esterno. "Io non ho soldi, ma idee - racconta l’ex Br, con indosso grembiule e cappello da fornaio- E la mia idea era di mettere a disposizione un lavoro per persone che vivono in carcere. E così è stato: siamo arrivati a produrre anche 10 quintali di pane al giorno, poi è nato questo secondo progetto, più ambizioso, di sviluppare il punto vendita all’esterno". Le materie prime utilizzate dai detenuti, che sono in possesso di una qualifica professionale rilasciata dalla Regione Lazio, provengono anche dall’agricoltura biologica, e nel laboratorio del carcere ci sono forni, impastatrici, taglierine e confezionatrici di ultima generazione, per ridurre l’impatto ambientale. "Siamo disposti a lavorare anche per catering esterni - prosegue Piunti - e ci piacerebbe che le persone apprezzassero quello che si fa in carcere. Ai ragazzi che sono dentro dico sempre: "Prima eravamo ricercati per cose opinabili, adesso facciamoci cercare per le cose buone che siamo in grado di fare". In carcere il tempo passa lentamente e per questo è ancora più importante essere impiegati in una qualche attività. "Dare opportunità di questo tipo ai detenuti - sottolinea l’ex brigatista - è importantissimo, perché una volta uscite dal carcere nel 90% dei casi queste persone sarebbero escluse dal circuito lavorativo della società. In molti, poi, il lavoro non lo conoscono proprio perché nella vita hanno fatto scelte diverse - sorride Piunti. Noi abbiamo due detenuti che conoscono il mestiere perché prima facevano i fornai; ma questo accadeva prima di delinquere, altrimenti non starebbero qua!". Claudio Piunti oggi guarda al futuro. Ma con cortesia, anche se brevemente, concede a chi glielo chiede di ritornare al passato. La domanda non è semplice, ma l’ex Br non si sottrae… Dopo tanti anni c’è ancora il sospetto che qualche membro delle Brigate Rosse avesse legami con gli Usa e l’Urss e fosse al soldo delle grandi potenze per destabilizzare il rapporto che stava maturando nel nostro Paese tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista. Si è parlato per esempio di Mario Moretti… Che ne pensa lei? "Credo che questa storia sia stata completamente chiarita e risolta da giudici, magistrati e giornalisti. Chi vuole trovare il pelo nell’uovo penso che perda solo tempo. Lei ha nominato Moretti, ma da quanto mi risulta è ancora in carcere, seppur esca di giorno e rientri di sera: come avrebbe fatto a "fare cose" se detenuto?". Aggiunge ancora l’ex brigatista: "Penso che questa storia sia ormai chiusa, ma purtroppo non conclusa perché purtroppo molte persone la stanno ancora pagando. Tuttora ci sono persone che continuano ad usare le stesse sigle, ma è tutta un’altra cosa. Oggi stiamo comunque parlando di pane, un altro giorno magari possiamo discutere di questa questione. Ma ripeto: penso non ci sia nulla da chiarire". Ma quindi lei esclude del tutto questo sospetto? "Sì, per quanto mi riguarda nemmeno ci perdo tempo", conclude Piunti. Sulmona (Aq): detenuti di via Lamaccio custodi della biodiversità agricola di Andrea D’Aurelio ondatv.tv, 22 aprile 2017 Grazie a protocollo d’intesa Carcere-Regione. Detenuti del carcere sulmonese di via Lamaccio alle prese con la conservazione della biodiversità agricola, mediante la moltiplicazione di varietà autoctone abruzzesi, con particolare riguardo all’aglio rosso di Sulmona. È quanto prevede il protocollo d’inteso siglato questa mattina nella struttura penitenziaria dall’assessore regionale alle politiche agricole Dino Pepe, il Presidente della terza commissione Lorenzo Berardinetti e il Direttore del Carcere di Sulmona Sergio Romice. Il protocollo d’intesa impegna le parti alla realizzazione e alla gestione di campi già presenti nella Casa di Reclusione di Sulmona, affinché quest’ultima diventi parte attiva nella costituenda rete degli agricoltori Custodi del germoplasma autoctono regionale. La casa di Reclusione di Sulmona ha di recente acquisito la qualifica di industria agricola. Di essa fanno parte oltre ai terreni di pertinenza, un frutteto (destinato alla produzione di melograni), un forno e 8 arnie per l’allevamento di api e la produzione di miele. "L’esperienza degli anni passati e gli impegni ora formalmente assunti con la Regione Abruzzo" - sottolinea Romice - "unitamente al lavoro dei detenuti, dei volontari, del personale dell’area trattamentale e contabile dell’istituto e, non ultimo, della Polizia Penitenziaria, fanno ben sperare per una presenza qualificata sul territorio abruzzese, di un’azienda agricola composta da detenuti qualificati ed esperti in produzioni biologiche e di qualità". Trento: "Galeorto", piace il marchio made in carcere di Daniele Colombo bimag.it, 22 aprile 2017 L’oro rosso viene dal carcere: tutto lecito, parliamo di zafferano di altissima qualità. Viene coltivato, bio, nella casa circondariale di Trento. Da quello nasce Zafferana, la prima birra del carcere aromatizzata con i preziosi pistilli. Tutti prodotti di eccellenza, riuniti sotto il marchio Galeorto. Un progetto di agricoltura sociale che mira al reinserimento dei detenuti. E che trova sviluppi imprenditoriali. Zafferana, la birra ad alta fermentazione prodotta con zafferano bio del carcere di Trento - Il carcere può essere un luogo di lavoro e produzione di prodotti di eccellenza. Lo dimostra la cooperativa sociale La Sfera che, a Spini di Gardolo, in provincia di Trento, dove ha sede la casa circondariale, gestisce un progetto d’inclusione sociale per i detenuti. La presenza di una superficie verde di circa novemila metri quadri all’interno dell’istituto penitenziario ha portato a organizzare un percorso di agricoltura sociale finalizzato all’inserimento lavorativo di un gruppo di detenuti impegnati nella coltivazione biologica di zafferano, cavolo cappuccio e varie erbe officinali. La coltivazione ha permesso di sviluppare partnership da cui sono nati prodotti di qualità. Come Zafferana, una Triple ad alta fermentazione, dal colore dorato carico, non pastorizzata né filtrata, prodotta in collaborazione con Argenteum, l’agri-birrificio che produce apprezzate birre aromatizzate con piante officinali e fiori. O i crauti bio Solidale Italiano, frutto di una collaborazione con l’Azienda Agricola biologica Debiasi. "Noi come mission abbiamo l’inserimento lavorativo di persone in difficoltà - spiega Elisa Pozza, responsabile marketing e sviluppo della cooperativa sociale La Sfera. E questo progetto si va a inserire all’interno di questo sistema di valori. Abbiamo creato Galeorto, un marchio ad hoc, per spingere il progetto e far partecipare un numero sempre maggiore di detenuti. La birra è un’autentica novità di questi giorni. Puntiamo a sviluppare altre partnership - fa sapere: ci stiamo muovendo con aziende del territorio su prodotti di panificazione e lattiero-caseari. I nostri prodotti si acquistano direttamente sul sito della cooperativa e in alcuni canali specializzati". Ascoli: i detenuti agli studenti del liceo: "ragazzi, non sprecate la libertà" Andrea D’Aurelio Corriere Adriatico, 22 aprile 2017 Gli alunni delle superiori in visita al carcere per "L’Altra chiave news". Due mondi a confronto, per ragionare, per capire come va la vita vera. Era l’appuntamento forse più atteso dai ragazzi quello organizzato dal tavolo della legalità, insieme con la direzione della casa di reclusione di Fermo, nell’ambito della settimana dedicata alla Costituzione. Un gruppo di ragazzi scelti tra gli studenti del Liceo scientifico Onesti, del Montani, dell’Itet Carducci Gailei e del liceo artistico Preziotti hanno passato due ore all’interno della redazione del periodico L’Altra chiave news, realizzato dai detenuti nel carcere fermano. Un incontro che voleva essere un momento di programmazione e di riflessione per la realizzazione di un numero speciale del giornale, anche con il contributo dei ragazzi. La direttrice Eleonora Consoli ha accolto i ragazzi, che sono entrati dall’ingresso principale, grazie anche all’impegno degli agenti della polizia penitenziaria, guidati dal comandante Gerardo D’Errico. Hanno avuto modo di vedere le celle più piccole e gli spazi comuni di un carcere nato come convento e oggi in grado di ospitare una sessantina di persone detenute. Tante le domande dei ragazzi, i detenuti presenti, guidati dagli operatori Nicola Arbusti, Paolo D’Amico e Lucia Tarquini, hanno raccomandato ai ragazzi di fare attenzione alla loro vita, di non sprecare il tempo della libertà. Con gli studenti i docenti Roberto Cifani e Firella Marcaccio dell’Itet Carducci Galilei, oltre a Sabrina Vallesi per il liceo artistico. Piacenza: fiaccolata organizzata dalla Caritas, per creare un ponte tra il carcere e la città piacenzasera.it, 22 aprile 2017 Chi ha sbagliato non per questo deve perdere i propri diritti fondamentali. Non per questo deve perdere la propria dignità. La seconda edizione della fiaccolata organizzata dalla Caritas di Piacenza per andare incontro al carcere delle Novate non ha avuto il riscontro dell’anno passato, comunque circa 300 persone si sono messe in marcia venerdì sera dietro la croce a passo lento e silenzioso: tra di loro tanti sacerdoti, il vescovo Gianni Ambrosio, gruppi parrocchiali, scout, persone normali. Dalla parrocchia di Santa Franca a piedi fino al carcere delle Novate, con due tappe: il convento delle suore Carmelitane e la sede della cooperativa sociale Geocart che opera con i carcerati. "Non ci si salva da soli, ma insieme": sono le parole del cappellano del carcere di Piacenza don Adamo Affri, che hanno dato il via alla riflessione prima del corteo sul sagrato di S. Franca. "L’uomo resta ad immagine di Dio anche quando cade" le parole delle suore, che per salutare i partecipanti alla marcia, sono uscite dalla loro clausura. "Sentiteci vicine vi accompagniamo con la preghiera" - l’appello rivolto ai detenuti. La seconda tappa alla sede della Cooperativa sociale Geocart e poi davanti all’ingresso delle Novate, dove gli alpini hanno allestito anche un piccolo ristoro con bevande calde e biscotti. E dove le fiaccole si sono fuse nel braciere acceso accanto al piccolo palco per ascoltare più voci. Come quella del direttore del carcere di Piacenza Caterina Zurlo: "Si coglie l’abbraccio della comunità verso il carcere e i detenuti sanno che voi siete qui. Sappiate che questa vostra disponibilità viene avvertita da tutti all’interno di questo muro di cinta e ci fa molto piacere ricevere da voi questo gesto". La Polizia Penitenziaria è stata rappresentata dalla commissaria Greco che ha letto la preghiera di San Basilide, patrono degli agenti. E poi alcuni momenti di musica con il violino di Lucia Tosi, la danza della scuola di Alseno, e il canto de "La Cura" di Franco Battiato dalla voce del cappellano don Adamo Affri. Non sono mancate le testimonianze di due carcerati, Sergio ed Eugen, affidati ad una comunità per scontare l’ultima parte di pena in alternativa al carcere. Due storie molto diverse, ma raccontate con emozione e sincerità, segnate da un dolore non dissimulato e dalla voglia di riscatto. E infine le parole del vescovo Gianni: "In questi giorni di Pasqua - ha detto - ho pregato perché vi sia gioia nel cuore di tutti, anche per le persone che vivono dietro le mura del carcere. Il secondo mio desiderio è quello della speranza che aiuta a guardare oltre anche le sbarre a guardare al futuro perché sia un futuro di libertà e di responsabilità per chi vive oggi detenuto. Ascoltando le testimonianze di stasera - ha concluso - mi sono ricordato che la conoscenza del carcere cambia anche noi, cambia il nostro sguardo e il nostro cuore". Benevento: "La giustizia capovolta", dibattito alla Casa circondariale di Sonia Caputo ilquaderno.it, 22 aprile 2017 "Quando Caino uccise Abele, Dio non lo abbandonò, ma lo avviò ad un cammino di rieducazione". Un nuovo modello di giustizia "riparativa" o "riconciliativa" si affaccia alla ribalta. "La giustizia capovolta" non è solo il titolo del volume presentato questa mattina presso la Casa Circondariale di Benevento, ma l’invito a ripensare l’attuale modello di giustizia retributiva, in cui la vittima si ritiene "risarcita" con la pena inflitta al reo. Pur nella garanzia della certezza della pena, ai sensi dell’art. 27 della Costituzione la nuova formula prospetta una ipotesi di catarsi dal reato, che prova a riconsiderare i punti di vista tanto della vittima quanto del reo, ai fini di un ristoro dell’anima bilaterale. La direttrice del carcere, Maria Luisa Palma, ha sottolineato come l’esperienza del carcere sia intesa nella nostra società come l’occasione per scontare una pena comminata in relazione al reato e quanto, invece, sia necessario riconsiderare la partita che si gioca tra il reo e lo Stato-istituzione. "Una partita che anche dal mondo civile è percepita come parziale", sottolinea la direttrice. "La tentazione securitaria non è la soluzione"- gli fa eco Ettore Rossi, direttore Ufficio per i Problemi Sociali e il Lavoro della Diocesi di Benevento. "I dati statistici ci danno la misura di come l’inasprimento della pena non diminuisca la criminalità". Il concetto è che alla condanna deve far seguito un percorso di riabilitazione interiore, che non mancherà di riverberare effetti benefici in ambito sociale. Rossi sottolinea come anche solo la lettura del libro da parte dei costretti della casa circondariale sia stata di per sé promotrice di cambiamento, in quanto ha offerto spunti di riflessione interiore che si sono tradotte in domande di senso per i relatori, nel corso della presentazione. La parola passa a Padre Francesco Occhetta, autore del libro. La copertina raffigura un albero capovolto. "Mostrando le radici ho voluto significare la necessità di curare le radici per la salute dell’albero". La metafora è chiara e i dati forniti dal gesuita confermano: abbiamo 195 carceri con 53.000 detenuti, con l’ingresso di circa 1000 persone al giorno. Di questi il 69% recidiva il reato. Lo Stato spende circa 200 euro al giorno ma solo 95 sono investiti nella rieducazione. "Se solo la recidiva calasse dell’1% lo Stato risparmierebbe 51.000 di euro circa". I casi di recidiva diminuiscono e si attestano al 19% tra i 29.747 detenuti che stanno usufruendo di misure alternative al carcere. "Il modello di giustizia rieducativa - dice - è previsto anche nella nostra Costituzione, anche se non ne sono chiare le modalità di attivazione. Occorre trasformare i luoghi di pena, che non esita a definire "discariche sociali", in luoghi di riabilitazione. Il modello riabilitativo o integrativo non prevede deroghe alle responsabilità del reo, eppure punta alla sua rieducazione attraverso la figura di un mediatore. Il climax di questa operazione catartica è raggiunto nel mettere in connessione la vittima col carnefice, in una esperienza costruttiva di superamento del dolore per entrambi. I fondamenti biblici, ma anche laici a supporto dell’esperienza rieducativa, secondo Padre Francesco, sono da ritrovarsi nel principio del non giudicare. "Quando Caino uccise Abele, Dio non lo abbandonò, ma lo avviò ad un cammino di rieducazione. La società ha la responsabilità morale e civile, anche egoisticamente nell’interesse della parte sana della società, di risanare la parte malata. Il nuovo modello ha precedenti nell’istituzione di "aree del silenzio" nel carcere di Nuova Delhi , istituite da Kiran Bedi ed è già stata applicata negli USA, nel regno Unito, dove è stata realizzata un’esperienza di approccio tra vittima e colpevole, in Germania, in Francia e in Olanda, dove è la stessa polizia che si occupa di restituzione alla società civile di criminali che si sono macchiati di violenza sessuale. Trovare una dimensione spirituale della giustizia è possibile: ci ha provato Bruno Vallefuoco, padre di una vittima innocente e coordinatore regionale del settore memoria di Libera. Suo figlio Alberto fu ucciso dalla camorra. Il Signor Vallefuoco racconta della giornata conclusiva del processo, quando ai colpevoli fu assicurato l’ergastolo e due anni di isolamento. La voce si incrina nel ricordare la vicenda giudiziaria ed umana :"Al momento della lettura della sentenza mia moglie ed io realizzammo che anche se giustizia era stata fatta, il dolore continuava a lacerarci e la ferita dell’anima sarebbe stata perennemente aperta. La società civile si solleva dalle sue responsabilità quando ammette che ci si può trovare nel posto sbagliato al momento sbagliato. La realtà è che è colpa di tutti se ci sono posti sbagliati". Il percorso di maturazione di Vallefuoco lo ha portato nel 2007 ad incontrare un gruppo di detenuti del carcere minorile di Nisida. "Guardarsi negli occhi e riconoscere gli uni il dolore degli altri è stata un’esperienza cruciale" racconta con commozione. Di quegli undici ragazzi otto hanno ritrovato la strada maestra, anche a costo di grandi sacrifici. Per molti infatti uscire dal carcere significa ripagare la malavita del supporto economico che nel periodo di detenzione essa offre alla famiglia del recluso e, dunque, uscire dal giro non è solo una questione di scelta personale. "Perdono è una grazia che riceve chi riesce a perdonare" conclude il papà di Alberto, tra gli applausi dei convenuti e dei costretti. Interviene per le conclusioni Mons. Felice Accrocca, che riconosce la necessità di passare da una legge separazionista ad una di tipo inclusivo, per il benessere sociale, che a sua volta passa per la serenità dei singoli. Per farlo però riconosce che è necessaria una disponibilità profonda al cambiamento. E il cambiamento va riconosciuto nella volontà di chi delinque, ma è disposto a rinnovarsi. Uno dei costretti presenti ha voluto leggere la lettera di un ergastolano, che si è rivolto al Presidente della Repubblica perché venga istituita la pena di morte. "Sono stanco di morire un po’ alla volta… Con me è stata condannata tutta la mia famiglia". Taranto: liberi tra le sbarre, sulle ali dell’arte di Marinilde Giannandrea Quotidiano di Puglia, 22 aprile 2017 Chiusure e aperture, processi di esclusione e di inclusione. Dal 6 maggio a Taranto, nella casa circondariale "Carmelo Magli", si svolgerà "L’altra città. Un percorso partecipativo e interattivo nella realtà carceraria italiana", a cura di Achille Bonito Oliva e di Giovanni Lamarca, comandante del reparto di polizia penitenziaria, ideatore e coordinatore del progetto che racconta come l’operazione vuole essere il tentativo "di coniugare l’arte con una situazione di coercizione, di aprire l’istituzione penitenziaria al mondo esterno". È un itinerario complesso, sostenuto dall’Amministrazione penitenziaria, frutto di un’attività corale a cui hanno partecipato i detenuti, il personale in servizio e in pensione (Anppe - Associazione Nazionale Polizia Penitenziaria), e un gruppo di esperti con lo scultore Giulio De Mitri, che si è occupato della direzione del laboratorio artistico e di scrittura creativa, il critico d’arte Roberto Lacarbonara, Anna Paola Lacatena sociologa e scrittrice e Giovanni Guarino attore e animatore. Le prime fasi sono state quelle laboratoriali e hanno coinvolto per alcuni mesi le detenute e alcuni agenti penitenziari, tra lezioni e dialoghi, teoria e pratica. Un processo di comunicazione e socializzazione, che ha trasformato progressivamente gli spazi carcerari in vere e proprie installazioni artistiche. La fase finale sarà quella dell’apertura al pubblico secondo un rigoroso regolamento che impone passaggi destinati a un solo spettatore alla volta condotto da un rappresentante della polizia penitenziaria. "Non più escluso, a debita distanza dall’opera come nelle mostre tradizionali - scrive Achille Bonito Oliva - ma letteralmente incluso. Lo spettatore è obbligato a sottoporsi a tutte le procedure di riconoscimento per entrare nel luogo fino a lui inaccessibile. La mostra si snoda nella progressione delle celle entro cui i reclusi hanno prodotto opere e installazioni. Mentre nelle mostre tradizionali la fruizione è collettiva e simultanea, qui invece è un’esperienza individuale che punta sull’isolamento e la riflessione". Del resto "L’altra città" è un progetto assolutamente innovativo perché non si limita a portare l’arte dentro gli spazi di reclusione ma trasforma il carcere in un’opera d’arte partecipata e relazionale, spingendo chi vive libero e all’esterno a compiere un percorso che attraversa tutte le fasi e le aree di accoglienza dei detenuti: la cella dei nuovi giunti con una fitta serie di iscrizioni sui muri, quella ordinaria, che indica la stabilità del vissuto ed è tappezzata dagli atti dei processi e dai documenti giudiziari, l’isolamento con l’oscurità della solitudine e l’area "dimittendi" (destinata a chi è alla fine della pena) connotata dall’azzurro della speranza. Lo spettatore vive "una condizione difficile, totalizzante, come deve essere quella dell’arte - rileva Roberto Lacarbonara, perché l’arte stessa, assolvendo alla funzione di supplenza della politica, agisce come camera di compensazione, luogo di prefigurazione di altri mondi possibili e strumento di integrazione sociale". Un processo che avviene attraverso la ricostruzione dell’ufficio matricole e i corridoi con le foto dei detenuti o il tappeto delle carte d’identità dei parenti, vittime aggiuntive e spesso ignorate in un rapporto inscindibile tra espressione artistica e vita, concentrato sulle possibilità d’intervento sia sugli autori sia sui fruitori, legati tra loro da un rapporto di reciproche influenze. È un’arte che si spera possa evolvere dentro e con il tessuto sociale, trasformandosi in un territorio di interrelazione, dialogo e confronto. La sfida globale dei diritti di Giorgio Napolitano La Stampa, 22 aprile 2017 Il risultato del referendum costituzionale in Turchia e il seguito che il presidente Erdogan ha annunciato di volervi dare, sanciscono la grave tensione e crisi cui sono esposte libertà e diritti fondamentali in quel Paese, come ci dice il caso Del Grande. Ne viene ancor più fortemente in luce un fenomeno che ormai contrassegna largamente il quadro mondiale, fino ai confini dell’Europa e con evidenti ricadute al suo interno. Ci stiamo in effetti rendendo conto pienamente della peculiarità e del valore delle conquiste di libertà e di democrazia, rinnovatesi e arricchitesi in Europa occidentale dopo la sconfitta del nazismo e la conclusione della Seconda guerra mondiale. Esse hanno formato la base comune dell’alleanza transatlantica, e soprattutto della vicinanza e solidarietà tra l’Europa e gli Stati Uniti d’America, nei quali avevano costituito il fondamento della stessa Costituzione del 1787. Possiamo cioè riferirci alla fisionomia dell’Occidente, al di là di qualche incertezza sui suoi confini o altra approssimazione. Ci accorgiamo forse come non mai di quanto diversa sia la realtà prevalente in altri continenti rispetto al patrimonio di diritti che abbiamo vissuto anche da italiani negli ultimi 70 anni. Ce ne rendiamo conto drammaticamente attraverso l’ondata delle migrazioni, che specialmente dall’Africa e dall’Asia ha raggiunto ed è destinata a raggiungere la nostra Europa. In essa si mescolano la spinta a sottrarsi a intollerabili privazioni di ogni diritto e a brutali forme di oppressione, da un lato, e, dall’altro, il disperato impulso alla ricerca di più decenti condizioni di vita. E purtroppo in diversi Paesi dell’Unione europea sono cresciute posizioni di misconoscimento del diritto all’asilo e di indisponibilità all’apertura di canali di immigrazione legale. Per altro verso, accade che tra quanti, di non recente immigrazione, risiedono nel nostro Paese, vengano contestati, sotto la pressione del fondamentalismo islamico, diritti elementari già acquisiti, specialmente per le donne. È con questo quadro complessivo che dobbiamo fare in conti, tra l’altro, e non da ultimo, con il deteriorarsi - in Paesi non europei, ma protagonisti importanti delle relazioni internazionali - delle libertà basilari, dei diritti della stessa Dichiarazione Universale del 1948, delle regole e delle garanzie dello Stato di diritto e delle istituzioni democratiche rappresentative. In Europa, e anche in Italia, si è al contrario prodotta, negli ultimi decenni, un’accelerazione verso la rivendicazione e lo sviluppo di "nuovi diritti" come riflesso di grandi trasformazioni sociali e culturali: in particolare, diritti individuali che riguardano desideri e bisogni, dilemmi e drammi intimi e profondi della persona. La massima comprensione e apertura verso le istanze di "nuovi diritti" non può tuttavia cedere a semplicistiche dilatazioni e unilateralità, specie se riguardanti materie complesse come le relazioni di coppia, la procreazione, le famiglie e altre fattispecie di unione, o la salute e le persone nella fase conclusiva della vita. Si tratta di complessità cui ci ha richiamato in modo davvero magistrale la Lezione della Giudice Costituzionale Marta Cartabia, su "Legge civile, diritti e valori morali" (2016). Una Lezione di grande ricchezza e apertura, che tuttavia - collocando nello sfondo il grande tema della dignità umana - solleva, alla luce della giurisprudenza costituzionale italiana, l’esigenza del bilanciamento tra diversi valori e diritti riconosciuti come degni di tutela, e non manca di toccare anche l’essenziale aspetto del "costo" dei diritti. Negli anni più recenti, l’Italia è stata partecipe di questo moto, e grazie al Parlamento si è impegnata a superare indubbi ritardi con la legge del 2016 sulle unioni civili, e con la proposta di legge in via di definizione sui problemi e i diritti del "fine vita" e sul "consenso informato". Lo ha fatto in ambedue le Camere, ricercando il necessario equilibrio e senso del limite. Dunque, l’Unione europea resta teatro di avanzamenti della causa dei diritti in un mondo sottoposto a tensioni in senso contrario. Possiamo parlare di un primato dell’Europa in questo campo, come testimoniato d’altronde dall’elaborazione nel 2000 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea. Ci si deve oggi peraltro porre, a me pare, dei problemi di priorità su un terreno così significativo. È ad esempio indiscutibile l’accento da mettere su concreti diritti delle donne, a partire da quello della tutela da una dilagante violenza retrograda. Vorrei soprattutto spezzare una lancia per un qualche spostamento del comune impegno politico e istituzionale italiano ed europeo sul terreno dei diritti sociali, messi in questione dall’acuirsi della competizione globale e dalle molteplici ricadute della crisi degli ultimi 10 anni. Non si tratta di procedere demagogicamente per successive "aggiunte" ad un pesante e squilibrato sistema di welfare, ma di lavorare a un suo organico e sostenibile rinnovamento. Come sconfiggere l’Isis? La lezione degli anni di piombo di Carlo Fusi Il Dubbio, 22 aprile 2017 Sono quelle persone - parigini e turisti mischiati tra loro - che sfilano terrorizzate a mani alzate per gli Champs Elysées, mentre le squadre speciali di poliziotti corrono dappertutto, l’immagine più stordente. Perché è un’istantanea che fotografa e rimanda al dato più inquietante, che ghiaccia l’anima e il pensiero: il terrorista della porta accanto, l’uomo che cammina vicino a te, vive nel tuo pianerottolo, è seduto accanto al bar o in pizzeria e all’improvviso tira fuori la pistola e spara a chiunque si muova. O, peggio, si fa saltare in aria seminando morte e distruzione. Inutile chiudere gli occhi e far finta di niente, rallegrarsi perché finora il delirio jihadista assassino ha risparmiato l’Italia, mettere la testa sotto la sabbia e spegnere la tv per non vedere le immagini di sangue. Inutile perchè i morti di Francia, Belgio e Germania, i tir impazziti che triturano asfalto e corpi umani ci consegnano una realtà chi ci riguarda, con la quale dobbiamo comprendere che saremo costretti a vivere per molto tempo ancora. Qui da noi i più anziani, quelli nati a metà degli anni 50 e an- che prima, sanno cosa significa. L’Italia è stata percorsa - per un periodo che ad un certo punto sembrava senza fine - dalla follia del terrorismo di marca ideologica; dell’uso dell’eliminazione fisica "dell’altro" come arma di lotta politica. Sono stati gli Anni di Piombo del decennio tra il 70 e l’ 80, quelli del furore dottrinario che si tramuta in agguato, scontro di piazza, sparatoria. Cifre che ingialliscono nelle statistiche ufficiali ma che basta rileggere per pochi istanti per comprenderne la portata distruttiva: 659 attentati solo nel 1979; 125 morti, di cui 85 nella strage della stazione di Bologna, nel 1980. Prima, l’eccidio di via Fani; dopo, l’omicidio di Roberto Ruffilli. Nel mezzo, dal 1969 al 1975, 4584 attentati di cui, secondo il Gip di Savona Fiorenza Giorgi, l’ 83 per cento "di chiara impronta della destra eversiva". Che significa tutto questo? È sensato il parallelismo tra il terrorismo politico- ideologico di ieri e quello islamista di oggi? Domande complicate. E la più complicata di tutte è quella dalla cui risposta (in quel caso positiva) è poi scaturita la capacità di sconfiggere quel mostro distruttivo: in questa guerra, perché di guerra si tratta, stiamo dal lato giusto della barricata? Allora, appunto, la stragrande maggioranza degli italiani, indipendentemente dalle convinzioni e appartenenze, si schierò contro i terroristi e i valori aberranti che volevano seminare. Oggi, da che parte e a quale bandiera bisogna arruolarsi? È impossibile negare che chi semina tanto orrore e dimostra così enorme sprezzo della vita delle sue vittime ci odia, odia l’Occidente, i suoi simboli, il suo stile di vita. Un pezzo del pianeta ha dichiarato guerra all’Europa, all’America e a tutto ciò che a loro è assimilabile. Il fondamentalismo religioso è il carburante che incessantemente alimenta la macchina dell’antagonismo tra due mondi apparentemente inconciliabili e irriducibili l’uno all’altro. Bisogna difendersi: qualunque altra opzione è evanescente. Il punto è: come? Basta la fermezza, il rifiuto seppur contraddistinto dalla voglia di dialogo oppure è necessario ricorrere alla risposta militare? E come: con i missili contro Idlib o i bombardamenti su Raqqua, la roccaforte dell’Isis? Chissà se guardandolo negli occhi nel corso della visita ufficiale alla Casa Bianca, Paolo Gentiloni ha scorto la risposta in quelli di Donald Trump. Magari servirà scrutare anche le iridi di Vladimir Putin o di chissà chi altro. Forse però non ce n’è bisogno. Forse la risposta sta nei testi di John Locke di quattro secoli fa, laddove spiegava che contro gli intolleranti la tolleranza non vale. Forse noi italiani quella risposta la conosciamo più di tanti altri Paesi proprio in virtù di ciò che il passato ci ha fatto subire. E capire. Forse bisogna serrare i ranghi, riandare alle ragioni e ai valori che contraddistinguono le nostre comunità; stringere i cordoni della sicurezza fuori dall’ipocrisia e dai buonismi, senza tuttavia cedere alle facili tentazioni delle demonizzazioni e del fanatismo. Il terrorista della porta accanto è, purtroppo, una tragica realtà che non ammette giochi di parole. Dunque niente retorica, niente bandierine fuori dai balconi ma anche niente oltranzismi. L’Europa e l’Occidente non sono esenti da colpe, tutt’altro. Ma trucidare vittime inermi non ha mai risolto alcunché. Piuttosto contribuito ad alimentare rancore e voglia di ritorsioni. Una risposta, quella sì, comunque sbagliata e perdente. Migranti. Il Grillo inquisitore attacca Ong e vede complotti di Giuliano Santoro Il Manifesto, 22 aprile 2017 Congetture del capo M5S sui salvataggi in mare. È scontro Cei-Avvenire dopo l’intervista. Nunzio Galantino (Cei): "Non si possono fare sconti a Grillo e dire che le nostre posizioni coincidono per tre quarti. Sui poveri siamo d’accordo? Poveri sono anche i rifugiati". Ieri il Campidoglio ha ospitato per la prima volta una messa per celebrare il Natale di Roma, con annesso incontro tra il cardinale Agostino Vallini, vicario di Roma, e la sindaca Virginia Raggi. Non era successo neanche quando amministrava la Democrazia cristiana. È uno dei segnali di questi giorni, ma è improprio parlare di idillio tra Movimento 5 Stelle e chiesa. Perché dopo l’intervista su Avvenire a Beppe Grillo e le parole di apertura rilasciate al Corriere della Sera dal direttore del giornale dei vescovi Marco Tarquinio, il tema continua a fare discutere e a dividere. Dapprima, a botta calda, Tarquinio ha incassato le critiche di tanti cattolici e del settimanale Famiglia Cristiana ed è stato costretto a precisare che la sua era solo un’ "opinione personale". Il giorno successivo, rispondendo ad alcuni lettori, ha spiegato che intendeva esprimersi "sull’emersione via via più chiara di una vicinanza concreta su alcuni grandi temi e sulla distanza su altri temi altrettanto grandi tra la sensibilità di diverse parti dei mondi cattolici italiani", anche se, dice ancora Tarquinio, "so che in ambito ecclesiale ci sono curiosità e attenzioni ma forse ancora più perplessità e preoccupazioni nei confronti del M5S". Ieri, sempre dalle pagine del Corriere della Sera, ha preso parola monsignor Nunzio Galantino, nelle vesti non proprio concilianti di editore di Tarquinio. Il segretario della Conferenza episcopale italiana in alcuni passaggi mette da parte i toni eufemistici della diplomazia vaticana e fa pesare tutta la sua carica. Si dice "irritato", "come cattolico e come lettore di Avvenire", "perché non sapevo nulla" dello spazio a Grillo e dell’uscita del direttore. "Non è che si possano fare sconti a Grillo, e sostenere che siamo su posizioni coincidenti per tre quarti - dice Galantino. E il quarto su cui non lo siamo? Sui poveri siamo così d’accordo? Poveri sono anche i rifugiati che arrivano in Italia". Scomuniche e battibecchi hanno riguardato anche il Movimento 5 Stelle. Perché proprio mentre si celebrava l’inedita funzione eucaristica al comune di Roma, i volontari che si occupano dei rifugiati del Baobab denunciavano l’ennesimo sgombero e lamentavano l’assenza della giunta pentastellata sul tema dell’accoglienza. Manco a farlo apposta, sempre nelle stesse ore sul blog di Grillo compariva un post sui migranti che esprime una posizione non esattamente in linea con quella di Papa Bergoglio. Il testo, a firma "Movimento 5 Stelle", denuncia l’aumento degli sbarchi, adombrando il ruolo "di alcune Ong private che soccorrono in mare sistemandosi al limite delle acque territoriali libiche". "Possiamo immaginare quanto sia alta la spesa di queste organizzazioni - prosegue il testo - in grado di armare navi da milioni di euro e persino di servirsi di droni. Da dove arrivano questi soldi? In base a quale accordo queste Ong se ne stanno a ridosso delle coste libiche per fare il pieno di migranti e portarli in Italia?". Il blog cita l’"inchiesta conoscitiva" aperta dalla procura di Catania sul tema. Nei fatti, il M5S rilancia una congettura che circola da settimane in rete. È opera del think tank olandese Gefira e riprende alcune accuse fatte dall’agenzia europea Frontex alle operazioni di salvataggio dei migranti. In Italia, ha assunto il tono cospirazionista: si è sparsa con un filmato virale del blogger Luca Donadel che allude ad un complotto non governativo a favore dell’invasione migrante. La storia è stata diffusa acriticamente in televisione da Striscia la Notizia e infine smontata su Il Manifesto da Alessandro Dal Lago. A proposito di temi controversi nel rapporto coi cattolici: ieri il deputato Manlio Di Stefano è tornato a parlare Donald Trump. L’uomo che in tanti nel M5S vorrebbero ministro degli esteri in un ipotetico governo a 5 Stelle assieme a molti suoi colleghi aveva esultato all’indomani dell’elezione del presidente Usa, annunciando una fase di maggiore equilibrio nei rapporti di forza planetari. Adesso, dopo le bombe e le tensioni internazionali, evita ancora di criticare l’interventismo dell’inquilino della Casa Bianca: "È troppo presto per giudicarlo - dice - Ci sono troppi scenari aperti". Migranti. A Ventimiglia per la solidarietà, contro l’intolleranza di Luigi Ciotti Il Manifesto, 22 aprile 2017 "Anche se compiono azione contraria alla legge, sappiano almeno compierla obbedendo a una legge del cuore". Nel 1948 il sindaco di Bardonecchia Mauro Amprino aveva fatto affiggere manifesti nelle vie per invitare chi si offriva di accompagnare gli immigrati oltre confine a una maggiore umanità: c’era chi si faceva pagare e poi abbandonava i migranti a metà strada. Molti furono trovati morti, i corpi conservati dal gelo. È un episodio, certo, ma basta a misurare la differenza tra una politica che agisce secondo coscienza e responsabilità e una politica che si nasconde invece dietro una legalità astratta e di convenienza, di cui lei stessa è ispiratrice. L’ordinanza emanata l’11 agosto 2016 a Ventimiglia, in base alla quale sono stati incriminati alcuni volontari francesi, "colpevoli" di avere distribuito del cibo a migranti bisognosi, scaturisce da questa perdita di umanità e di intelligenza. Già perché non si tratta solo del tradimento di un principio elementare di umanità, di quell’etica del riconoscimento che ci consente di vederci negli altri, di metterci nei loro panni e che dalla notte dei tempi ispira le azioni più belle e i più fecondi percorsi di liberazione. Ma anche di una ristrettezza mentale e culturale, di una rimozione e manipolazione di due fatti evidenti. Il primo è che il fenomeno migratorio è in massima parte effetto di un sistema economico che genera disuguaglianze e che perciò papa Francesco non esita a definire "ingiusto alla radice". La seconda è che l’Occidente ha il dovere di governarne le conseguenze, da un lato con politiche di accoglienza e inclusione, dall’altro ripristinando condizioni di vita dignitose nei Paesi sfruttati e impoveriti, affinché le persone non siano costrette a partire o fuggire. L’immigrazione deve essere una libera scelta e nessuno può essere condannato a vita dal proprio luogo di nascita. Questa sarebbe davvero una politica che costruisce sicurezza. Impegnata a investire nella pace e non nella guerra. E fedele alle Carte scritte nel dopoguerra per scongiurare il ritorno della barbarie in qualunque forma: la Dichiarazione universale dei diritti umani, la Convenzione di Ginevra sui rifugiati, la nostra Costituzione. Tra pochi giorni ricordiamo la Liberazione. Ma è una liberazione incompiuta quella che permette che ancora tante persone siano private della loro libertà e della loro dignità. Ci si libera insieme, e lo saremo davvero scacciando la corruzione, l’indifferenza, l’ignoranza, tre grandi tiranni del nostro tempo. Anche questo segnala la manifestazione di domenica 30 aprile a Ventimiglia per la solidarietà e contro l’intolleranza. Ma che America è, l’America che uccide i prigionieri? di Piero Sansonetti Il Dubbio, 22 aprile 2017 In Arkansas il boia torna in attività. Il governatore ha vinto la battaglia contro le case farmaceutiche che non volevano concedere l’anestetico. Ma questa è la patria del diritto e della libertà? Gli hanno chiesto quali fossero le sue ultime parole. Lui ha scosso la testa, non ha voluto pronunciarle. Gli hanno chiesto d’ordinare l’ultimo pasto. Lui ha risposto: "l’ostia santa, la comunione". Non ha voluto mangiare nient’altro. Allora tre guardie, con l’aria seria, l’hanno accompagnato lungo tutti i corridoi della prigione di Little Rock, fino alla saletta col lettino che era stato preparato dai medici. Lo hanno fatto stendere e poi lo hanno legato stretto. Erano le 11 e 20 della sera, mancava poco a mezzanotte. Era passato appena un quarto d’ora dal momento esatto nel quale l’Alta Corte dell’Arkansas aveva respinto definitivamente il ricorso delle case farmaceutiche. Le Case farmaceutiche chiedevano che la medicina che producono non fosse usata per addormentare un condannato a morte. Gli avvocati hanno spiegato che la medicina è stata prodotta per alleviare il dolore e non per provocare la morte, e che non si può accettare questo rovesciamento etico dei fini. L’alta corte ha detto che invece si può accettare, perché la legge è legge, e in Arkansas c’è una legge che prevede l’uccisione di chi sia stato condannato per omicidio. Ledell è morto a 51 anni. Ne aveva 27 quando in una casetta di Jacksonville (un sobborgo di Little Rock, la città di Bill Clinton) una ragazza di 26 anni che si chiamava Debra Reese fu trovata morta nel suo letto, strangolata. Ci fu un’inchiesta, furono interrogati i vicini. Molti di loro dissero di avere visto Ledell Lee, che era un amico di Debra, aggirarsi vicino a casa sua proprio nelle ore nelle quali fu commesso l’omicidio. Ledell si è sempre dichiarato innocente, però lo hanno messo in prigione. E due anni dopo condannato a morte. Ha fatto in tempo quasi ad invecchiare, poi la Corte ha deciso che era giunto il momento di mandarlo all’altro mondo. E il suo avvocato non è riuscito a far più niente per far rinviare l’esecuzione. L’ultimo ostacolo son state le case farmaceutiche, ma hanno perso. Il portavoce del governo è apparso il Tv, in piena notte, ha spiegato che si poteva procedere e che il governatore aveva rifiutato la grazia. Il governatore si chiama Asa Hutchinson, è un repubblicano, è lui che ha deciso di cambiare la politica criminale del suo stato. In Arkansas da più di dieci anni non era stato ucciso nessun condannato. Hutchinson ha deciso che è giunto il momento di farla finita con il perdonismo. Mano dura, mano dura. Ha dato il via libera per otto esecuzioni. Il primo a pagare il conto è stato Ledell, ora, in dieci giorni, toccherà agli altri. Bisogna fare in fretta perché le case farmaceutiche non riforniscono più il governo. E i medicinali dei quali dispone la prigione scadono il 30 aprile. Dal primo maggio non sarà più legale usarli e le esecuzioni dovranno essere sospese per forza. Gli Stati Uniti d’America sono il paese più libero e moderno del mondo. Uno può dire quello che gli pare, ma è così. Certo, sono un paese che ama la guerra, spesso sono un paese arrogante e aggressivo, hanno annientato un popolo intero, quello dei pellerossa, prima di costruire la propria civiltà, hanno fatto fortuna sulla schiavitù. Tutto vero. Però sono anche il paese che più di ogni altro sa emendarsi, il paese che odia la dittatura, il paese dei diritti civili, della rivolta giovanile, di Bob Dylan e degli Hippy, sono il paese di Kennedy, sono il paese e il popolo che ha pagato il contributo più grande, anche di vite umane, di dolore, nella lotta per la libertà. Hanno sconfitto il fascismo, il nazismo, hanno salvato l’Europa. Come può spiegarsi l’orrore della pena di morte? Come può giustificarsi la scena straziante di Ledell, alto, grosso, nero, con gli occhi tristi e scintillanti e l’aria rassegnata che si avvia verso la sala della morte, anche se forse è innocente, anche se sono passati 25 anni, anche se uccidere un uomo, da parte dello Stato, appare un delitto esattamente come è un delitto uccidere una donna o un uomo da parte di un privato cittadino? Si spiega con la necessità di conquistare il consenso. Da noi spesso si parla di populismo. E lo vediamo esplodere e dilagare, a sinistra e a destra, quando si discute di lotta al crimine, o di immigrazione, o di corruzione politica. Se in Europa non esiste la pena di morte è perché è stata abolita in un’epoca nella quale il giustizialismo era ancora minoritario, e c’era una intellettualità forte e liberale, e c’erano partiti politici solidi e capaci di orientare il popolo. Oggi, se si facesse un referendum, anche da noi vincerebbe la forca. Sicuro. Una trentina di anni fa a un candidato alla presidenza degli Stati Uniti, un certo Miky Dukakis, che nei sondaggi era in vantaggio sul suo antagonista (il vecchio Bush) fu chiesto: "Se qualcuno stupra e uccide tua moglie, tu sei favorevole o no a metterlo sulla sedia elettrica?". Dukakis rispose, freddo: "No". E crollò di 20 punti nei sondaggi. Oggi nessuno sa chi sia stato Dukakis. Per questo negli Usa c’è la pena di morte E finché resterà questa macchia sarà molto, molto difficile ammirare - come invece si potrebbe - lo Stato di diritto americano. C’è una bellissima poesia di Langstone Huges, un artista nero del Missouri, trasferito a New York e che veniva chiamato il bardo di Harlem. Una strofa - patriottica e ribelle - diceva così: O, yes, I say it plain, America never was America to me, And yet I swear this oath: America will be! Si traduce così: "Oh, sì. Io lo dico chiaramente: l’America non è mai stata America per me. E io ora giuro questo giuramento: l’America lo sarà". Francia. Kepel: "le carceri, il nostro fallimento" Di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 22 aprile 2017 Secondo il politologo Gilles Kepel, la grande falla dell’antiterrorismo francese non è a livello investigativo, ma nel sistema delle carceri: "Sono le accademie dell’Isis". "Non credo proprio che questo attentato sortirà effetti rilevanti sul risultato elettorale in Francia. Forse condizionerà un’infima minoranza di indecisi. Ma la verità è che la nostra polizia mostra di avere imparato la lezione e riesce bene a prevenire le mosse dei terroristi. Lo vedo in presa diretta, lo posso testimoniare anche solo ascoltando le comunicazioni della mia scorta". Gilles Kepel ci parla per telefono viaggiando per Parigi a bordo dell’auto della polizia che lo accompagna dall’estate scorsa, quando il suo nome apparve tra le liste delle vittime designate da Isis. "Pensavo potesse essere un peso questo della scorta. In effetti ci sono inconvenienti. Però sto anche imparando un mucchio di cose". Per esempio? Com’è possibile che il responsabile dell’attacco sia un ex carcerato? Non le sembra un fallimento dei sistemi di sicurezza? "Posso testimoniare che la polizia francese assieme ai servizi segreti sono riusciti a sventare decine di attentati negli ultimi tempi. Ci sono state perquisizioni a tappeto, con centinaia di arresti, azioni quasi del tutto sconosciute dal grande pubblico. E il risultato si vede. È da nove mesi, dall’attacco contro una chiesa in Normandia il 26 luglio scorso, quando venne sgozzato un sacerdote, che i jihadisti non riescono nei loro intenti. Il tre febbraio l’aggressore alle porte del Louvre è stato subito colpito dai nostri soldati. I jihadisti potrebbero cambiare le cose solo con un grave attentato in un luogo pubblico che coinvolgesse decine di civili. Ci provano, ma non riescono. Ovvio che sono dispiaciuto per la morte del poliziotto e il ferimento di altri nel cuore di Parigi, ma davvero l’attacco delle ultime ore prova solo il successo delle nostre forze di sicurezza. Due o tre anni fa erano impreparate, non si era compresa la forza del terrorismo jihadista, il suo radicamento capillare in Francia e in Europa. Non è più così". Entrano per reati comuni ed escono a uccidere in nome di Allah. Dove sta il fallimento, visto che l’attentatore era noto? "Sta nel sistema giudiziario e soprattutto nelle carceri. Questo discorso vale per la Francia, ma anche per l’Italia e larga parte dell’Europa. Va capito che le nostre carceri sono diventate vere accademie per Isis e i suoi affiliati. Capita sempre più spesso che criminali comuni, anche solo dietro le sbarre per reati minori, entrino in contatto con le reti del terrorismo islamico, i loro ideologi, i loro apparati militari proprio durante la detenzione. Così ne escono ben peggio di prima, mine vaganti Sulla vetrina Il foro di un proiettile su una vetrina vicino ai grandi magazzini Marks & Spencer sugli Champs Elysées pronte a colpire. E questo pare sia il caso dell’ultimo attentatore". Pare fosse ben organizzato. Isis ha subito rivendicato. "Vero. Ma è strano. Quasi sempre in questi casi i comunicati di Isis sono generici, inneggiano alla guerra santa contro i crociati, non menzionano l’identità del loro militante martire. In questo caso invece hanno fornito il nome di un belga, che forse è anche sbagliato. Dobbiamo stare attenti e valutare bene. Magari si è trattato di un comunicato diffuso subito, è un fatto, ma da qualcuno che non aveva alcun rapporto con il terrorista e ha voluto solo strumentalizzare l’effetto propaganda". Come evitare che le carceri divengano accademie della jihad? "Occorre sensibilizzare i magistrati e l’intero sistema giudiziario. Il nuovo governo dovrà investire forti risorse economiche. Non è possibile che una persona stia dodici anni in carcere per reati comuni e ne esca per uccidere in nome di Allah. Credo che in Italia abbiate un problema simile". Il Califfato è in crisi, sta perdendo la sua dimensione territoriale in Medio Oriente e le due capitali di Mosul e Raqqa. È ancora in grado di guidare le colonne europee? "Non più. Certo non come un anno fa. Isis oggi sta combattendo una guerra di sopravvivenza in Medio Oriente, non ha più energie e mezzi per tenere contatti effettivi con i suoi simpatizzanti in Europa e nel mondo. Si limita forse e fornire direttive di massima". A cosa mirano quelli che operano in Francia? "Cercano di creare una profonda frattura nella società francese. Così sperano nella vittoria della Le Pen e della destra xenofoba per separare la comunità islamica dal resto dei cittadini e fomentare la guerra civile. Ma il loro progetto è ormai ben noto, ecco il motivo per cui non credo riuscirà. Votare Le Pen significa fare il gioco dei radicali islamici. Mi sembra che Macron stia guadagnando punti e il Fronte nazionale sia in stallo". Crede che l’Italia e l’Europa debbano fermare i migranti in arrivo dalla Libia? "È una necessità vitale per le nostre democrazie. La mancanza di controllo sui flussi migratori illegali destabilizza le nostre società e alimenta i razzismi". Turchia. Del Grande vede il console ma per ora resta detenuto di Carlo Lania Il Manifesto, 22 aprile 2017 Le autorità turche vietano al difensore di vedere il fascicolo relativo al blogger toscano. Un primo passo è stato fatto. Dopo dodici giorni di detenzione, nove dei quali trascorsi in isolamento, ieri Gabriele Del Grande ha potuto finalmente vedere il console italiano a Smirne Luigi Iannuzzi e il suo difensore, l’avvocato turco Taner Kilic. L’incontro è avvenuto nel centro di detenzione di Mugla, dove è rinchiuso il 35enne giornalista toscano fermato il 9 aprile scorso vicino al confine con la Siria. Nelle due ore trascorse insieme, Del Grande ha potuto parlare in maniera riservata sia con il console che con il legale. "Gabriele sta bene, fisicamente e psicologicamente", ha detto Iannuzzi una volta fuori dal centro. Il giornalista è in sciopero della fame e per questo è costantemente monitorato da un medico. Beve succhi di frutta e gli sarebbe stato fatto anche un esame della glicemia il cui risultato sarebbe rassicurante. Un altro segnale positivo, e che lascia ben sperare, è infine arrivato nel pomeriggio quando l’ambasciatore turco in Italia, Murat Salim Esenli, ha reso noto di aver invitato a Roma il papà di Gabriele, Massimo Del Grande. L’incontro si terrà probabilmente la prossima settimana. Almeno per ora, però, le buone notizie finiscono qui. Nessuna novità è infatti emersa per quanto riguarda una possibile data per la liberazione di Del Grande e tantomeno a proposito di eventuali reati che potrebbero essergli contestati. Lunedì prossimo scadono i 14 giorni superati i quali, stando a quanto previsto dalla legislazione turca, Del Grande dovrebbe essere espulso oppure gli devono essere comunicati gli eventuali capi d’accusa. Ieri, durante la visita nel centro di Mugla, al legale non è stato permesso di vedere il fascicolo riguardante il blogger toscano. Resta quindi ancora impossibile capire quale sarebbe la sua posizione per le autorità turche. Su un punto, comunque l’avvocato Kilic non sembra avere alcun dubbio: "La sua detenzione è del tutto illegale - ha detto all’agenzia Ansa. Non c’è nessun impedimento giuridico al rimpatrio, è un provvedimento punitivo". Quando è stato fermato nelle regione di Hatay, lungo il confine turco-siriano, Del Grande era alla ricerca di testimonianze di profughi siriani che avrebbe utilizzato per un libro sulla guerra in Siria. La sera prima aveva inviato una mail alla sua compagna, Alexandra D’Onofrio, rassicurandola su fatto che tutto stava procedendo bene e che incontrava le persone che giudicava interessanti per il suo lavoro in luoghi pubblici. Per giustificare il fermo del giornalista le autorità turche hanno fatto riferimento a presunti "profili di sicurezza". Una volta nel centro di identificazione di Hatay, Del Grande avrebbe provato a intervistare i suoi compagni di detenzione e per questo è stato trasferito a Mugla, nella costa meridionale del paese. Interviste che adesso gli verrebbero contestate insieme al rifiuto di rispondere - durante gli interrogatori ai quali viene sottoposto quotidianamente - a domande sulle persone con le quali ha parlato e sui contenuti dei colloqui. Per il senatore Luigi Manconi, presidente della Commissione Diritti umani del Senato che segue la vicenda, le autorità turche sospetterebbero che Del Grande possa aver parlato con dei sospetti terroristi. "Ma è mai possibile che dei terroristi si trovino in un centro di identificazione e non in carcere?", chiede Manconi. "L’incontro avuto oggi (ieri, ndr) da Del Grande con il console italiano e l’avvocato è certamente positivo, ma non può essere taciuto il ritardo clamoroso con cui è stato concesso. E anche il fatto che non sia stata data alcuna informazione ufficiale su eventuali capi di imputazione crea un grave problema di certezza del diritto"", ha proseguito il senatore dem. Chi si mostra ottimista circa un esito positivo della vicenda è il ministero degli Esteri Angelino Alfano: "Sono in costante contatto con le autorità turche per ottenere il rilascio di Del Grande nei tempi più rapidi possibili", ha ribadito il titolare della Farnesina. E ieri si è perfino diffusa la voce di una possibile liberazione del giornalista entro domenica. Prudenza viene invocata invece dai parlamentari del Mdp che da martedì si trovano in Turchia. "Dopo la visita di oggi del console e dell’avvocato di Del Grande a Mugla, diciamo ad Alfano: non stiamo sereni", ha detto il deputato Arturo Scotto. "Crediamo che dopo quasi due settimane si debba alzare il livello nella gestione politica di questa vicenda. E chiediamo che le autorità turche la smettano di giocare a nascondino e rilascino al più presto Gabriele Del Grande. Abbiamo molti dubbi sul fatto che siano garantiti i suoi diritti minimi di difesa. Una detenzione così lunga di un cittadino straniero non si giustifica neanche con lo stato d’emergenza". Mauritania: "mio figlio Cristian dimenticato in cella", mamma in marcia verso Roma tgcom24.it, 22 aprile 2017 Il 43 anni di Cornaredo (Milano) è trattenuto nel Paese africano da agosto 2015 perché ritenuto coinvolto in una truffa informatica internazionale. La protesta di Doina Coman. Sono 20 mesi che Cristian Provvisionato è rinchiuso in un carcere della Mauritania. Per chiedere giustizia la madre Doina Coman ha deciso di attraversare l’Italia a piedi fino a Roma, partendo da Siena. Provvisionato, bodyguard 43enne di Cornaredo (Milano), è bloccato in Africa da agosto 2015, con l’accusa, mai espressa in atti ufficiali, di truffa informatica ai danni dello Stato. "Non mi fermerò finché non sarà tornato a casa. L’Italia non si può lavare le mani di questo caso. Non lo accetto", dice a Il Giorno la mamma. Questo viaggio in solitaria lungo 250 chilometri è raccontato sulla pagina Facebook "Libertà per Cristian Provvisionato". "Mio figlio è prigioniero in Mauritania da 20 mesi, il ministero degli Esteri deve fare qualcosa per riportarlo in Italia. Ha perso trenta chili e dal 1° Maggio inizierà lo sciopero della fame. Lo Stato si muova per evitare un altro caso Regeni, un’ulteriore salma da riportare in patria", è la richiesta che mamma Doina affida a Il Giorno prima di mettersi in cammino da Siena verso Roma, a piedi, da sola, attraverso i boschi, lungo la via Francigena. Da quasi due anni Cristian Provvisionato, che soffre di diabete e ha bisogno di cure, è trattenuto in Mauritania dal governo locale come "garanzia" per una presunta truffa informatica da un milione e mezzo di euro subita da alcune società estere con cui collaborava anche una lombarda, la stessa che ha mandato il 43enne in Africa, pur se di informatica, come assicurano i familiari, non sapesse nulla. Numerose le petizioni online per chiederne la liberazione e il rientro in Italia. Mamma Doina si gioca quest’ultima carta e su Facebook tiene il diario di questi giorni di cammino. Egitto. Esecuzioni a sangue freddo nel Sinai di al-Sisi e Trump di Chiara Cruciati Il Manifesto, 22 aprile 2017 Con il capo del Pentagono Mattis al Cairo che promette altro sostegno, un video mostra soldati egiziani giustiziare tre persone disarmate. Il regime non controlla la Penisola ma usa l’Isis per avere sostegno esterno. Tra stato di emergenza e assenza dei media, lo Stato è presente soltanto con le truppe. Sono disarmati e bendati. Vengono condotti in una piccola radura e giustiziati. All’ultimo vengono poste domande da un soldato che lo tira per la maglia: "Sei della famiglia Abu Sanana?". Il prigioniero risponde: "No, lo giuro su Dio, sono di al-Awabadah". Viene spinto a terra, la benda gli viene tolta e parte il fuoco. Due soldati lo uccidono, un terzo grida di colpirlo "non solo alla testa". Il video dell’esecuzione di tre persone sarebbe stato girato il 6 dicembre nella Penisola del Sinai. La conferma la danno indirettamente le forze armate che, quello stesso giorno, pubblicarono sui social le foto delle tre vittime con fucili ben in vista accanto ai corpi senza vita. Per l’esercito egiziano, terroristi morti in uno scontro a fuoco. La realtà è un’altra: chiunque fossero quei prigionieri (come mostra il video reso pubblico da Mekameleen tv, emittente vicina ai Fratelli Musulmani e basata in Turchia) sono stati giustiziati a sangue freddo senza che rappresentassero alcuna minaccia. Senza processo né accuse. E con le armi messe in bella vista accanto ai cadaveri (una scena che ricorda i cinque egiziani massacrati nel marzo 2016 e poi incolpati, senza successo, della morte di Giulio Regeni). Al video, che racconta un crimine di guerra, risponde il sito pro-governativo Youm7: è una fabbricazione della Fratellanza, i soldati non hanno l’accento egiziano. Di certo apre un piccolo squarcio sul buco nero che è la Penisola del Sinai. Un luogo dove i giornalisti non possono entrare, dove è in corso una campagna militare contro gruppi islamisti radicali, legati in alcuni casi all’Isis. Un luogo dove lo Stato è presente con le truppe, ma non con investimenti economici e servizi e dove le tribù più potenti gestiscono traffici di esseri umani, armi, rapimenti. Il luogo in cui, con un monitoraggio reso difficoltoso dalle scarse informazioni, le associazioni per i diritti umani calcolano decine di quei quasi 3mila omicidi extragiudiziali compiuti dal 2013 a metà 2016. Ma Il Cairo non ha il controllo del territorio, sebbene ci costruisca la falsa narrativa del governo che garantisce la sicurezza. La guerra al terrorismo islamista procede a stento, nonostante al-Sisi ne faccia bandiera per ottenere sostegno dall’Occidente e coprire la repressione, quella vera e radicata contro la società civile. Mentre il video girava su agenzie e social, al Cairo il generale golpista incontrava il segretario alla Difesa Usa Mattis. La discussione si è incentrata sulla guerra all’Isis, punto comune ribadito due settimane fa alla Casa bianca nell’incontro tra al-Sisi e Trump. Mattis aveva il compito di proseguire nel rafforzamento dell’alleanza con l’Egitto, lievemente raffreddatasi sotto Obama ma non così tanto da interrompere davvero gli aiuti militari. Al-Sisi ha suggellato l’amicizia con Trump con un regalo: la liberazione, dopo 33 mesi di carcere in Egitto, dell’americana Aya Hijazi, rilascio che ad Obama era stato negato. Il capo del Pentagono ha promesso supporto materiale. Soprattutto in Sinai, che vive in stato di emergenza dall’ottobre 2014, costantemente rinnovato ogni tre mesi: l’ultima richiesta di rinnovo è stata inviata al parlamento dal primo ministro Ismail mercoledì. Un luogo che è un buco nero, lontano dalle cronache se non quando vengono forniti asettici dati su arresti o uccisioni di islamisti (l’ultima giovedì, un leader di Ansar Beit el-Maqdis) o sugli attacchi jihadisti. C’è chi ci prova: piccole agenzie locali come Newsinai24 pubblicano i nomi dei morti nella guerra senza quartiere all’Isis che troppo spesso colpisce i civili. Eppure è qui che le forze armate godono di un’impunità ancora maggiore di quella che li tutela nelle grandi città:morti innocenti e sfollamenti, confische e abusi che non fanno altro che ampliare il divario tra la popolazione e il governo. Quell’impunità si allarga ai civili che collaborano e che sono diventati, sotto al-Sisi, delle squadre paramilitari a fianco delle truppe. Come raccontava lo scorso anno l’agenzia indipendente Mada Masr, all’esercito servono collaboratori sul posto, persone che conoscano luoghi e famiglie, individui e tribù. Sono apparsi a Sheikh Zuwayed e Rafah nel 2016, 4-5 individui armati per gruppo e in contatto con l’esercito, che fornisce loro munizioni, carte d’identità e protezione. In cambio chiede informazioni, sorveglianza e partecipazione a operazioni di basso profilo. La loro presenza è ulteriore elemento di tensione: se alcuni residenti si sentono più sicuri, altri denunciano abusi dei collaboratori che approfittano dell’impunità per far soldi: mazzette dalle famiglie per liberare detenuti e dai contrabbandieri per non vedere. Orfani tunisini nelle carceri libiche: la storia del piccolo Tamim Jaboudi euronews.com, 22 aprile 2017 Tamim Jaboudi è tunisino, ha due anni ed è in carcere a Tripoli, in Libia. Il padre, combattente dell’Isis, potrebbe essere morto dopo un raid areo statunitense a Sabratha nel 2016. Della madre non si hanno notizie, il nonno materno - sostenuto dall’associazione Ratta (Rescue Association for Tunisians Trapped Abroad) che si occupa delle famiglie dei foreign fighters - chiede che Tamim Jaboudi venga liberato: "La prima volta che ci siamo incontrati in prigione non si è voluto avvicinare a me, ha abbracciato lo sceicco che conosce molto bene. Tutti lo amano e soffrono per lui perché è un orfano". Il piccolo si trova in una prigione di Mitiga, vicino Tripoli. Non si hanno notizie precise sul suo stato di salute. Non è l’unico orfano in Libia, sono 22 i bambini tunisini che si trovano nelle prigioni del Paese. Ad occuparsi di Tamim Jaboudi sono donne che hanno aderito allo Stato Islamico. "Lo Stato Islamico lavora su tre livelli: a breve, medio e lungo termine. Nel breve termine lavora per reclutare giovani che lasciano i propri Paesi per andare in Libia, Siria e Iraq. Il passo successivo è far partire l’intera famiglia", dice Mohammed Iqbel a capo dell’associazione Ratta (Rescue Association for Tunisians Trapped Abroad) che si occupa anche della reintegrazione dei combattenti dell’Isis che decidono di tornare. Secondo questa associazione il carcere non è la soluzione per questi bambini che devono tornare in Tunisia.