Cattivi per sempre? di Toni Castellano gruppoabele.org, 21 aprile 2017 Vent’anni in carcere. Alcuni dei quali passati anche nei circuiti di Alta Sicurezza, quelli in cui stanno "i mafiosi", "i cattivi per sempre". Vent’anni in carcere, senza condanna. Ornella Favero, da vent’anni impegnata, con Ristretti Orizzonti, nell’informazione, nella formazione e negli interventi sulle pene e sul carcere: ha compiuto un lungo viaggio nella detenzione italiana, da giornalista. L’esperienza, rielaborata senza buonismi, ha deciso di riassumerla in un libro recentemente pubblicato dalle Edizioni Gruppo Abele, "Cattivi per sempre? Voci dalle carceri: viaggio nei circuiti di Alta Sicurezza". L’abbiamo intervistata chiedendole cosa la società che sta "fuori" proprio non si immagina degli uomini che stanno "dentro". Qual è la differenza tra "pena rabbiosa" e "pena riflessiva"? Quando una persona entra in carcere e viene trattata, nella migliore delle ipotesi, come un bambino, privata della possibilità di decidere qualsiasi cosa della sua vita, anche l’ora in cui farsi la doccia, o quando, ancora peggio, viene spogliata della sua dignità, il carcere non fa altro che indurre in questa persona la sensazione di essere una vittima del sistema, la fa vivere a "pane e rabbia", la punisce con una aggiunta di pena che va ben oltre quella che dovrebbe essere davvero la condanna, cioè la privazione della libertà. La società dovrebbe capire che la pena scontata così, in modo rabbioso, fa uscire solo persone incattivite. Quando si parla di sicurezza nelle nostre città, si usa spesso, rispetto agli autori di reato, l’espressione "che stiano a marcire in galera fino all’ultimo giorno": in realtà, chi sta a marcire in galera sconta, appunto, una pena rabbiosa, e alla fine quando esce ha solo una voglia di rivalsa nei confronti della società. È proprio la pena mite che invece mette le persone di fronte alla loro responsabilità, le costringe a misurarsi con le loro scelte sbagliate: mi viene in mente Raffaele, un giovane detenuto che ha girato tante carceri, sempre trasferito perché insofferente delle regole, aggressivo, ma anche perché si trovava davanti un’istituzione che sapeva solo reprimerlo e punirlo, poi è arrivato in un carcere più umano, si è sentito considerato come una persona, ha iniziato un percorso di confronto con le scuole che lo ha portato a rivedere tutto il suo passato. E qualche giorno fa in un incontro con gli studenti ha esordito dicendo "Grazie perché mi fate sentire colpevole". È come se, in qualche modo, si fosse pacificato con se stesso, se avesse sgombrato il campo dalla rabbia e avesse smesso di cercare alibi per i suoi disastri, e avesse finalmente accettato di fare i conti con la sua responsabilità. "Oggi in carcere alla pena della privazione della libertà si aggiungono quella del sovraffollamento, dell’inattività, della mancanza di percorsi di reinserimento, della privazione continua della dignità, e se uno si fa una carcerazione così, e magari per la rabbia accumula altre condanne stando in carcere o perde anni di liberazione anticipata, perché dovrebbe poi sentirsi in debito verso la società?". In questo capitolo del libro lei sostiene che nulla è più distruttivo di un carcere che ti fa sentire in credito verso la società, nonostante il danno che le hai arrecato. Tuttavia anche la società libera formula un credito verso coloro che ne infrangono le leggi. Se detenuti e uomini liberi si sentono in credito gli uni verso gli altri, a cosa porta la somma dei crediti? Ho sentito tante volte persone detenute dire "Ho pagato il mio debito con la Giustizia. A me non piace molto questa formula, perché è come se la persona detenuta avesse interiorizzato l’idea che al male si risponde con altrettanto male, e quindi ritenesse che, se sta scontando la sua pena, e magari in condizioni di illegalità, come succede spesso nelle nostre galere, in questo modo sta ripagando con la sua sofferenza la sofferenza provocata, quindi il suo debito con la società è estinto. In realtà, penso che si dovrebbe andar oltre l’idea che la sofferenza del reo procuri piacere e soddisfazione nella vittima, e iniziare a pensare a una idea diversa di Giustizia, quella che ripara il danno provocato dal reato, che ricuce lo strappo che si è prodotto. Un esempio? Mi viene in mente una madre, che ha perso un figlio, ucciso da una donna che guidava usando il cellulare: lei non chiedeva per la donna che le ha ucciso il figlio il carcere, la pena "cattiva", chiedeva di poterla incontrare, di spiegarle il suo dolore, la sua perdita, il vuoto che le aveva provocato. A volte è proprio l’incontro tra autore e vittima di reato che dà sollievo, che cura le ferite, che fa capire davvero le conseguenze del reato. Penso a quella studentessa che, durante un incontro in carcere con persone detenute della mia redazione, si è alzata e ha raccontato che aveva trovato, di notte, in casa un estraneo, un ladro, e che da quel momento la sua vita era radicalmente cambiata: prima, era una persona coraggiosa, oggi ha paura di tutto, si sveglia nel terrore, non riesce più a stare da sola. Ricordo fra i detenuti una specie di sgomento: perché spesso chi commette questi reati, furti in appartamento, rapine, immagina che la paura duri quanto dura quell’azione, si giustifica, dice che certo un’arma ce l’aveva quando andava a rapinare, ma non intendeva usarla… è servita di più la testimonianza di quella studentessa che non anni di galera per far capire a tanti autori di "reati contro il patrimonio" quanto quei reati rovinino a volte la qualità della vita di chi li subisce. L’incontro, il confronto sono il modo migliore per stabilire dove sta la responsabilità, chi è in debito e chi è in credito. In cosa consiste la "battaglia" della sua redazione verso i detenuti in regime di Alta Sicurezza? Quali sono gli obiettivi? In Alta Sicurezza ci stanno i detenuti per reati legati alla criminalità organizzata, quindi "i mafiosi", quindi quelli che non cambieranno mai, i "cattivi per sempre". Io invece ho voluto mettere un punto di domanda nel titolo del mio libro perché sono convinta che tutti possano cambiare, ma che nessuno possa farlo da solo. Queste persone spesso hanno passato anni in isolamento quasi totale nel regime del carcere duro del 41-bis, e poi sono finite in queste "sezioni ghetto" dell’Alta Sicurezza, dove stanno fra di loro, non si confrontano con nessuno, passano anni, decenni immersi nel loro mondo. Sono uomini che vengono "dati per persi" anche dalle istituzioni. La sfida della mia redazione invece è stata di non voler "buttare via nessuno", che poi è un’espressione non nostra, ma di Agnese Moro, di una donna che ha subito l’assassinio del padre e però non ha mai perso la fiducia negli esseri umani, nella loro capacità di capire il male fatto e di dare una svolta alla loro vita. In fondo, la cosa più disarmante anche per un delinquente è venire trattato da essere umano. Ho visto persone responsabili di gravi crimini in crisi di fronte alle domande degli studenti, ai loro sguardi, al loro bisogno di capire, persone che, avendo finalmente la possibilità di sentire altre idee, di scoprire, per esempio, la cultura, la passione della scrittura, la gratuità del Volontariato, hanno visto schiudersi davanti a sé altri mondi, e hanno cominciato a misurarsi in modo nuovo con il proprio passato. E questo è importante perché queste persone hanno figli, famiglie, e se cambiano loro, è tutto un pezzo di società che si mette in movimento, e soprattutto che comincia a mettere in discussione la subcultura di certi ambienti criminali. Carceri, regimi, circuiti, declassificazioni, trasferimenti. Tantissime regole, strutture e trattamenti. Per lo più sconosciuti alla società che il carcere non lo frequenta. Dopo vent’anni di "vita in carcere", da non carcerata, lei, cosa ritiene che "quelli fuori" debbano assolutamente capire, sapere, o conoscere della "vita dentro"? Si gioca sempre troppo sulle pene, si pensa che non sono mai abbastanza dure, si sente spesso dire "solo dieci anni, solo vent’anni" perché le persone libere misurano gli anni di galera con il loro metro di misura, dieci anni di vita libera, piena di esperienze, di cambiamenti, di emozioni in fondo passano in fretta, quindi sono pochi per punire di un grave reato. In realtà, provate a prendere il giorno più brutto della vostra vita, e moltiplicatelo per 365 giorni, quello è un anno di galera, sempre uguale, senza la speranza che succeda qualcosa, senza relazioni, senza affetti. Mi piacerebbe che la gente capisse che cos’è davvero la privazione della libertà, e che la smettesse di credere di poter essere solo la vittima di un reato, e cominciasse a capire che le potrebbe capitare anche di finire dall’altra parte, dalla parte dei colpevoli, o che ci finisse un suo caro. E poi vorrei che le persone libere immaginassero di mettersi in coda la mattina per andare a colloquio con un loro famigliare in carcere, e dopo essere state perquisite si sedessero a un tavolino con intorno altre dieci famiglie, e passassero quell’ora di colloquio sotto gli sguardi attenti di poliziotti penitenziari e cercassero di parlare e di fare un gesto di affetto e si trovassero paralizzati dalla mancanza di qualsiasi intimità: sei ore al mese, questi sono i colloqui consentiti, fanno tre giorni in un anno, tre giorni in cui uno dovrebbe mantenere vivi gli affetti di compagne, figli, genitori! Che uomo è quello condannato all’ergastolo? Un ergastolano è un uomo che non riesce più neppure a sognare, che non ha pressoché niente da raccontare, che non c’è mai nella vita delle persone che ama di più. Ricordo un ergastolano, entrato in carcere con la quinta elementare, che in carcere è riuscito a studiare, a laurearsi, a diventare una persona colta e competente, ma che nello stesso tempo mi raccontava di sentir crescere dentro di sé un senso di vuoto, di inutilità: ma io, si domandava, a chi potrò insegnare qualcosa, quale sapere riuscirò a trasmettere, che me ne farò della mia cultura? Stavo meglio quando vivevo nella mia ignoranza, nel mio mondo chiuso: questo l’ho sentito dire da tanti, perché in fondo "essere qualcuno" negli ambienti della criminalità non è così difficile, e se non ti fai tante domande, se non metti in discussione il tuo passato, continui anche dalla galera a restare attaccato a quelle sicurezze, e l’unica traccia di te che lascerai è quella triste dell’appartenenza al mondo senza umanità delle organizzazioni criminali. Consiglio d’Europa: limitare utilizzo della custodia cautelare, Italia tra gli Stati peggiori Ansa, 21 aprile 2017 Il Consiglio d’Europa sottolinea problema sovraffollamento carceri. L’Italia, secondo le statistiche del Consiglio d’Europa, è uno degli Stati con la percentuale più alta di detenuti in attesa di giudizio o di condanna definitiva e allo stesso tempo uno dei Paesi che ha problemi con il sovraffollamento delle carceri. Il dato è messo in rilievo dal comitato anti tortura (Cpt) del Consiglio d’Europa che nel suo rapporto annuale dedica una sezione specifica alla custodia cautelare, ritenuta una pratica dannosa per l’individuo e spesso una delle causa del sovraffollamento delle carceri del continente. In base agli ultimi dati pubblicati dal ministero della Giustizia, aggiornati al 31 marzo, i detenuti in Italia sono in totale 56.289 per 50.211 posti disponibili. Sul totale dei detenuti 9.749 sono in attesa di un primo giudizio e quasi altrettanti (9.641) sono condannati non definitivi. Nel suo rapporto annuale il Cpt chiede a tutti e 47 gli Stati membri del Consiglio d’Europa di ricorrere alla custodia cautelare solo in casi eccezionali quando non è possibile utilizzare misure alternative e di assicurare a chi è in carcere in attesa di giudizio o di condanna definitiva condizioni di detenzione adeguate. "Data la sua natura invasiva e tenendo a mente il principio della presunzione d’innocenza, la norma di base deve essere che la custodia cautelare deve essere utilizzata solo come ultima misura" si legge nel documento del Cpt. L’organismo del Consiglio d’Europa afferma anche che la custodia cautelare deve essere "imposta per il tempo più breve possibile e deve essere stabilita caso per caso dopo una valutazione dei rischi di reiterazione del reato, di fuga, del tentativo di alterare le prove o altre interferenze con il corso della giustizia". Inoltre va presa in considerazione anche la gravità del reato che la persona è sospettata di aver commesso. Quando gli Stati utilizzano la custodia cautelare devono, afferma il Cpt, assicurare a questo tipo di detenuti, "che sono la categoria meno avvantaggiata" tutta una serie di tutele, che vanno dallo spazio minimo nelle celle a attività giornaliere. Il sovraffollamento di ritorno delle carceri italiane di Filippo Poltronieri fainotizia.it, 21 aprile 2017 "Il sistema carcerario è un corpo febbricitante. Se non si procede con provvedimenti straordinari, come amnistia e indulto, anche le riforme sistemiche saranno inutili". Così Luigi Manconi, senatore del Partito democratico e membro della Commissione Giustizia del Senato, commenta la situazione delle carceri in Italia. Una riforma del sistema penitenziario, inserita in un disegno di legge sul processo penale, è ancora in discussione dopo un lungo ping pong tra i due rami del Parlamento. Secondo Manconi un maggiore ricorso alle misure alternative dovrebbe avere, sul lungo periodo, effetti sistemici sull’universo penitenziario. Le riforme strutturali sono invocate da più parti. Il sovraffollamento delle carceri italiane è tornato a essere un problema dopo anni di numero in calo. In Italia ci sono 55.929 persone private della libertà. Il tasso di sovraffollamento, secondo i dati del Ministero, è del 111%. Il centro studi della Lega Italiana per i Diritti dell’Uomo, in collaborazione con il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria (Sappe) e l’Associazione Pianeta Carcere, ha diffuso dati ben più allarmanti. I dati ufficiali sovrastimerebbero l’effettiva capienza. Secondo lo studio, 4.909 dei 50.177 posti dichiarati dal Ministero non sarebbero effettivamente disponibili. Con questi nuovi dati, il tasso di sovraffollamento sarebbe del 123%, con punte del 151% in Puglia e del 143% in Lombardia. Non stupisce che il numero di suicidi nei primi mesi del 2017 sia 12, una quota che, se proiettata su tutto l’anno, porterebbe a numeri senza precedenti nella storia del sistema carcerario italiano. "Siamo ancora una volta di fronte a numeri preoccupanti. Non appena l’Europa ha abbassato l’attenzione sul fascicolo Italia, ecco che i numeri tornano a salire", spiega Giovanni Torrente, autore di uno studio sull’indulto del 2006 che dimostra come il tasso di recidiva di chi abbia usufruito del provvedimento di grazia (34%) sia nettamente inferiore a quello di chi abbia scontato l’intera pena (68,45%). "C’è una forte influenza dei media su come vengono percepiti gli effetti dei provvedimenti di grazia - prosegue Torrente - nel 2006 nessuno si è voluto assumere la responsabilità del provvedimento, sui media si è dato per scontato che l’indulto del 2006 avesse causato un aumento della criminalità, un dato assolutamente falso". La politica ha così rapidamente preso le distanze dal provvedimento. "La maggior parte degli ideatori e dei sostenitori di quella misura, in poco tempo, ne presero le distanze", aggiunge Luigi Manconi. È facile pensare che l’impopolarità delle misure di grazia, in un momento di profondo scollamento tra elettori e politica, sia il principale motivo per cui, dal 1992, in Italia abbiamo assistito a un solo provvedimento di indulto. Un cambio di passo piuttosto netto, considerando che fino a quell’anno i governi repubblicani hanno costantemente fatto ricorso ad amnistia e indulto per risolvere alcuni problemi cronici del sistema giudiziario italiano: lentezza dei processi, sovraffollamento e condizioni precarie degli istituti penitenziari. Con una riforma costituzionale nel 1992, all’alba di Tangentopoli, si è stabilito che per approvare amnistia e indulto fosse necessaria una maggioranza dei due terzi del Parlamento. Precedentemente i provvedimenti di grazia erano concessi dal presidente della Repubblica su impulso del Parlamento a maggioranza relativa. La riforma ha reso quindi molto difficile, per una classe politica poco coraggiosa e in piena bufera giudiziaria, il ricorso ai due provvedimenti di grazia. "Si tratta di un’ipocrisia, l’amnistia in Italia già si fa, in un altro modo: è quella delle prescrizioni", spiega Rita Berardini, del Partito Radicale. "Nei tribunali esistono faldoni destinati alla prescrizione, è un modo implicito di abbattere la mole di lavoro". I problemi del sovraffollamento e della lentezza dei processi sono infatti riconosciuti da tutti i partiti politici. Da più parti di levano voci per riforme strutturali che riportino l’Italia nella legalità. In Parlamento è in discussione da anni una riforma del processo penale che contiene alcuni elementi di riforma del sistema penitenziario, in particolare la spinta a un maggiore ricorso alle misure detentive alternative. Per una rapida approvazione dei provvedimenti riguardanti il mondo carceri, Rita Bernardini e il Partito Radicale hanno chiesto "lo stralcio e l’approvazione delle norme condivise da tutti" slegandole dall’approvazione dell’intera riforma. Nella legislatura in corso sono nate in Commissione Giustizia di Camera e Senato numerose bozze di provvedimenti di amnistia e indulto. Nessuna di queste è arrivata a una discussione parlamentare. Anche un Ddl Pannella, proposto dal senatore Manconi, con l’intento di abbassare la soglia stabilita dall’articolo 79 per ottenere amnistia e indulto, si è presto impantanato nei meandri delle aule parlamentari. Le parole di Papa Francesco, dell’ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e di esponenti dei principali partiti politici, hanno riportato periodicamente alla ribalta il tema delle terribili condizioni penitenziarie del nostro Paese. Appelli accolti spesso da grandi plausi senza essersi mai tradotti nell’adozione di provvedimenti che riportino la giustizia italiana nel campo della legalità. Il Csm: "dopo la chiusura degli Opg, le Rems sono piene e i criminali liberi" Avvenire, 21 aprile 2017 Responsabili di gravi reati ma prosciolti per infermità mentale, corrono il rischio di vagare liberi in alcune zone del Paese perché sono già piene le Rems, le residenze per l’esecuzione Csm: "Dopo la chiusura degli Opg, le Rems sono piene e i criminali liberi". Responsabili di gravi reati ma prosciolti per infermità mentale, corrono il rischio di vagare liberi in alcune zone del Paese perché sono già piene le Rems, le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza nate con la chiusura degli Opg. Il quadro preoccupante emerge da un monitoraggio condotto dal Csm, che ha raccolto informazioni sugli effetti della riforma dai vertici degli uffici giudiziari. Il problema della carenza di posti in queste strutture, con l’inevitabile formazione di liste d’attesa per l’accettazione di nuovi pazienti, è diffuso. Ma in certe realtà è una vera emergenza. Come nel distretto di Catania: l’unica Rems, a Caltagirone, ha appena 20 posti letto a disposizione, già da tempo occupati con ammalati psichiatrici provenienti in gran parte dalle vecchie strutture carcerarie abolite. Il risultato lo descrive il presidente del tribunale di sorveglianza: "Vagano nel territorio ammalati psichiatrici gravi, violenti e socialmente pericolosi", per i quali è stato disposto il ricovero nelle Rems, ma sono "in attesa che si rendano disponibili posti" presso queste strutture. È allarme anche in Puglia, che dispone soltanto di due Rems per un totale di 38 posti. La loro limitatezza è fonte di rischio, segnala il Pg di Bari, perché si traduce nella "presenza sul territorio di soggetti autori anche di gravissimi reati di sangue che, affetti da patologie psichiatriche anche valutate di alta pericolosità, non sono stati ricevuti da alcuna Rems per indisponibilità di posti una volta recuperata la piena libertà". Pure a Napoli per carenza di disponibilità di posti sarebbero "molte" le misure di sicurezza in attesa di esecuzione. Ma così, rileva il presidente del tribunale, "non si riesce né a garantire la cura della malattia psichiatrica né ad assicurare la difesa sociale". Criticità anche a Roma, dove il presidente del tribunale avverte: il ritardo nell’esecuzione delle misure di sicurezza espone a "gravi pericoli" la collettività e le vittime di reato. E a Firenze, dove "l’indisponibilità di un sufficiente numero di posti nelle strutture esistenti nel territorio toscano - nota il Pg - impedisce di procedere all’applicazione della misura, rimasta in diversi casi inseguita per non breve tempo". Non solo posti contingentati: nelle Rems c’è anche un problema di inadeguatezza della sorveglianza interna e esterna. A Caltagirone ci sono state aggressioni al personale infermieristico ed "episodi di allontanamento dalla struttura degli ospiti ricoverati", come segnala il Pg di Catania. E altre tre fughe (ma gli ospiti sono stati poi rintracciati) si sono verificate a Bologna. Unione delle Camere Penali: ora si faccia presto, mai più bambini in carcere camerepenali.it, 21 aprile 2017 La Corte Costituzionale con la sentenza n. 76 dello scorso 12 aprile ha affermato che devono considerarsi "superiori" le esigenze di tutela della maternità e del minore rispetto alla pretesa punitiva dello Stato. L’Unione Camere Penali Italiane, con il proprio Osservatorio Carcere, aveva da tempo denunciato la presenza in carcere di donne con i loro bambini. Nel corso delle visite agli istituti di Como ed Avellino erano state riscontrate situazioni che compromettevano la salute stessa dei piccoli detenuti. Il Ministro della Giustizia Andrea Orlando aveva assicurato che entro la fine del 2015 tale condizione disumana sarebbe stata eliminata. Non è stato così e per alcune madri vi era anche un insormontabile ostacolo normativo, oggi finalmente rimosso dalla Corte Costituzionale che, decidendo sulla questione di legittimità sollevata dal Tribunale di Sorveglianza di Bari, ha evidenziato che il Legislatore non può escludere "in assoluto" l’accesso ad un istituto primariamente volto alla salvaguardia del rapporto della madre con il minore in tenera età, solo perché la condanna riguarda uno dei delitti di cui all’art. 4 bis.. Viene così eliminato uno dei tanti rigidi automatismi che, in sede di esecuzione della pena, impediva alle madri condannate di espiare la pena in detenzione domiciliare o in strutture protette, privandole del necessario rapporto con il minore e causando il fenomeno della "carcerizzazione degli infanti". Se l’interesse del minore è preminente, scrive la Consulta, deve poter esser oggetto di bilanciamento e, laddove il Giudice escluda il pericolo di reiterazione del reato, non può impedire la concessione del beneficio. L’ostacolo ad un reale accesso alle misure alternative costituito dall’inderogabile catalogo dei reati ostativi, subisce una prima necessaria scalfittura e vede quindi primeggiare i diritti fondamentali dell’individuo rispetto alle generiche esigenze di sicurezza dello Stato. Alla soddisfazione per tale pronuncia deve ora seguire immediatamente il riesame della posizione giuridica di tutte le detenute con i loro bambini, affinché la pena delle madri venga scontata senza pregiudicare la salute dei figli. La Giunta L’Osservatorio Carcere Ucpi "Carriere separate per giudici e pm". I penalisti ci provano di Errico Novi Il Dubbio, 21 aprile 2017 L’Ucpi deposita in Cassazione la legge di iniziativa popolare. Speranze? Non moltissime. Basta guardare che fine hanno fatto i 2 milioni di firme raccolte dall’Italia dei valori sulla legittima difesa: il Pd se n’è infischiato. Certo la legge costituzionale di iniziativa popolare proposta dall’Unione Camere penali ha un segno completamente diverso, esprime il garantismo autentico e non l’agitazione populista: punta a separare le carriere dei magistrati. E come se il coefficiente di difficoltà non fosse già elevatissimo, si aggiunge anche il superamento dell’obbligatorietà dell’azione penale. Una sfida temeraria. Ma il presidente dei penalisti Beniamino Migliucci scova una chiave interessante: "Il Comitato promotore è composto solo da noi avvocati. Partiti non ne troverete, vogliamo evitare la strumentalizzazione di chi direbbe subito "vedete, la proposta è di quella certa forza politica notoriamente ostile alle toghe". Naturalmente", aggiunge il vertice dell’Ucpi, "siamo aperti al contributo di tutti coloro che vorranno darlo". E questa è forse la vera forza dell’iniziativa: chiarire una volta per tutte gli schieramenti in materia di giustizia. Migliucci non lo dice, ma l’effetto si coglie da alcuni passaggi della conferenza stampa, allestita nella sede dell’Unione Camere penali pochi minuti dopo il deposito della proposta in Cassazione. In sala e sul banco dei relatori si avvicendano rappresentanti politici di diversa provenienza. C’è soprattutto Forza Italia, con Renato Brunetta che assicura "il sostegno mio personale, del gruppo alla Camera e del partito nel suo insieme: siamo in campo anche sul piano organizzativo". Significa che dal 4 maggio i berlusconiani daranno una robusta mano agli avvocati per raccogliere le sottoscrizioni: a cominciare dai banchetti davanti ai tribunali di tutte le oltre 100 sedi giudiziarie in cui le Camere penali sono rappresentate. Con l’ex ministro della Funzione pubblica si vede un rappresentante dell’esecutivo attuale, il ministro della Famiglia Enrico Costa, che nell’Alternativa popolare di Alfano è la voce più attenta in tema di giustizia. C’è il segretario di Scelta civica Enrico Zanetti, con lui il senatore di Ala Enzo D’Anna, che sembra il più realista: "Oggi in Italia la maggioranza vota per un partito, il Movimento Cinque Stelle, schierato su posizioni opposte alle nostre, ma dobbiamo provarci". Obiettivo minimo, le 50mila firme necessarie per presentare formalmente la proposta alle Camere. "Ma se vogliamo evitare di perderci nell’irrilevanza dobbiamo arrivare a un milione", dice Brunetta. Gli dà ragione l’altra parte politica che avrà un ruolo da protagonista in questo tentativo, il Partito radicale: in conferenza stampa lo rappresenta Giuseppe Rossodivita, che condivide in pieno l’idea del capogruppo azzurro, e aggiunge: "Basta con la leggenda per cui chi propone di separare giudici e pm vuole sottoporre questi ultimi al controllo dell’esecutivo". Infatti non è così: nella proposta in dieci articoli presentata dalla componente della giunta Ucpi Anna Chiusano ci si limita a prevedere due distinti Csm, uno per la magistratura giudicante e uno per la requirente, con composizione analoga all’organo unico attuale (il capo dello Stato sarebbe presidente di entrambi) e la conseguenza di concorsi separati per l’accesso alle carriere. A cambiare le cose potrebbe essere soprattutto la modifica dell’obbligatorietà che, nel nuovo articolo 112, verrebbe esercitata dal pm "nei casi e nei modi previsti dalla legge". Passaggio che Rossodivita trova necessario "per superare l’ipocrisia di una discrezionalità determinata dalle Procure con il 60% di prescrizioni nella fase delle indagini". La Fondazione Einaudi è già parte in causa attraverso un ex pm, Piero Tony: "La giustizia è una cosa seria, ecco perché mi espongo". Costa non a caso dice di essere pronto a "trarre le conseguenze anche nel rapporto con la maggioranza, se non verranno apportate modifiche al ddl penale". Altro tema, ma utile a capire quello all’ordine del giorno: sulla separazione delle carriere si misurerà il garantismo del Pd. Migliucci ricorda che si tratta di dare attuazione al "nuovo" Codice di rito, al modello accusatorio "in cui l’avvocato dovrebbe essere una parte uguale al pm, davanti al giudice: ma come può mai essere così se i due magistrati sono valutati dallo stesso Csm?". Francesca Scopelliti, la compagna di Enzo Tortora, spiega perché su questa sfida si scopriranno le vocazioni dei partiti: "Condivido questa battaglia, che non è assolutamente contro i magistrati ma per lo Stato di diritto. Enzo se ne fece carico all’epoca con i soliti quattro gatti: a 29 anni dalla sua morte non è cambiato nulla. Vediamo cosa succede adesso, con Nino Manfredi dico: fusse che fusse la volta buona". Mai darsi per vinti. Decreto sicurezza. Videosorveglianza, coinvolti i privati di Saverio Fossati Il Sole 24 Ore, 21 aprile 2017 Sicurezza in città e nei quartieri: con l’approvazione in Senato, in via definitiva, del Dl 14/2017 (la pubblicazione è attesa per oggi sulla Gazzetta Ufficiale) sono legge i provvedimenti che stringono le maglie su chi degrada l’ambiente urbano. Ad attuare le norme saranno chiamati soprattutto i sindaci (a loro sarà dedicata una pagina sul Sole 24 Ore del Lunedì del 24 aprile), che disporranno di poteri speciali. Il senso generale del Dl 14 è quello della "sicurezza integrata", considerando all’interno di piani e progetti tra loro coordinati tutte le attività che servono a combattere il degrado come spaccio di stupefacenti, abusivismo edilizio, occupazione illecita di alloggi, muri imbrattati. E prevedendo l’interconnessione di tutte le forze di polizia locali e statali. L’articolo 5, in particolare, indica i temi dei "patti" per l’attuazione della sicurezza urbana sottoscritti dal prefetto e dal sindaco: tra i principali la prevenzione e il contrasto dei fenomeni di criminalità diffusa, anche coinvolgendo le reti territoriali di volontari per la tutela e la salvaguardia dell’arredo urbano, delle aree verdi e dei parchi cittadini e attraverso l’installazione di sistemi di videosorveglianza. Proprio sulla videosorveglianza verranno coinvolti gli amministratori di condominio: l’articolo 7 stabilisce che gli accordi e i patti possono riguardare ex Iacp, amministratori di condomìni, imprese dotate di almeno dieci impianti di videosorveglianza, associazioni di categoria, consorzi o comitati costituiti "per la messa in opera a carico di privati di sistemi di sorveglianza tecnologicamente avanzati, dotati di software di analisi video per il monitoraggio attivo". In cambio, dal 2018, i Comuni possono deliberare detrazioni da Imu e Tasi per chi ha pagato quote per l’istallazione. Mano un po’ più ferma anche sulle occupazioni abusive di case: l’articolo 11 prevede che il prefetto impartisca, sentito il comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, disposizioni per assicurare il concorso della Forza pubblica all’esecuzione di provvedimenti dell’autorità giudiziaria sulle occupazioni arbitrarie di immobili. E se il provvedimento che decide gli sgomberi viene poi annullato dal Tar, a chi è stato "sfrattato" ingiustamente spetta (salvi i casi di dolo o colpa grave) solo il "risarcimento in forma specifica", cioè dovrà essere riammesso nell’alloggio. Il sindaco potrà però, in presenza di persone minorenni o meritevoli di tutela, derogare al divieto di allaccio utenze e di partecipazione all’assegnazione di alloggi. Maggiori possibilità di intervento per il questore anche sulla questione degli alcoolici ai minorenni: non solo a chi li vende ma anche a chi li somministra può essere irrogata la sanzione pecuniaria e chiuso il locale. Viene infine esteso dai pubblici esercizi (bar, ristoranti, alberghi e simili) e agli esercizi di vicinato (i negozi) il potere del questore di sospendere la licenza in caso siano teatro di disordini o ritrovo di delinquenti. Decreto sicurezza. Una stretta sui violenti e gli spacciatori di Giulio Benedetti Il Sole 24 Ore, 21 aprile 2017 La legge 401/89 consente ai questori di allontanare, emettendo un provvedimento amministrativo denominato "Daspo", dalle manifestazioni sportive calcistiche e dagli stadi e dalle loro immediate vicinanze i soggetti che negli ultimi cinque anni sono stati condannati per reati di natura violenta commessi anche in occasione di incontri sportivi. Il Dl 14/2017, recentemente convertito in legge dal Senato, ripercorre le stesse esigenze di prevenzione sociale e criminale dei reati commessi in ambito urbano e del relativo degrado. Il Dl 14/2017 ha come chiave di lettura principale la definizione (articolo 4) della sicurezza urbana quale bene pubblico "che afferisce alla vivibilità ed al decoro delle città, da perseguire anche attraverso interventi di riqualificazione e recupero delle aree e dei siti più degradati, l’eliminazione dei fattori di marginalità e di esclusione sociale, la prevenzione della criminalità, in particolare di tipi predatorio, la promozione del rispetto della legalità e l’affermazione di più elevati livelli di coesione sociale e convivenza civile". È evidente la natura di prevenzione sociale e criminale del testo di legge che ripropone nel nostro ordinamento esperienze giuridiche statunitensi, le quali legano direttamente la riduzione dei fenomeni criminali, soprattutto predatori, alla tutela del decoro urbano al punto di ritenere esistente una diretta correlazione tra la riduzione dei danni agli edifici e il decremento del crimine. Tale è il contesto in cui l’articolo 13 del decreto consente al questore di disporre, per ragioni di sicurezza, il divieto di accesso ai locali pubblici ai soggetti condannati in appello o definitivamente per reati connessi agli stupefacenti (articolo 73 del Dpr 309/1990) nel corso degli ultimi tre anni per fatti commessi in detti locali o nelle immediate vicinanze. Il divieto non può avere durata inferiore ad un anno né superiore a cinque. Se il reato è avvenuto nei pressi di scuole o università il questore può inoltre disporre, per due anni al massimo, uno o più dei seguenti obblighi: • presentarsi almeno due volte alla settimana presso gli uffici di polizia o il comando dei Carabinieri territorialmente competenti; • rientrare nella propria abitazione o in un altro luogo di privata dimora entro una determinata ora e di non uscirne prima di un’altra ora prefissata; • comparire in un ufficio o in un comando di polizia specificamente indicato negli orari di entrata e di uscita dagli istituti scolastici. Il questore può disporre i predetti divieti anche nei confronti di soggetti minori di 18 anni (ma che ne abbiano almeno 14) e il provvedimento deve essere notificato a coloro che esercitano la responsabilità genitoriale. Il divieto non può avere una durata inferiore ad un anno, nè superiore a cinque. È poi prevista l’irrogazione, da parte del prefetto, di una sanzione amministrativa pecuniaria da 10.000 a 40.000 euro e la sospensione della patente di guida da sei mesi ad un anno. Inoltre in caso di condanna per spaccio di stupefacenti in locali pubblici o immediate vicinanze il giudice può subordinare la concessione della sospensione condizionale della pena al divieto di accedere in locali pubblici o in pubblici esercizi specificamente individuati. Una misura efficace, perché in caso di violazione la sospensione è revocata e si sconta la condanna. Poteri dell’Anac ridimensionati. Palazzo Chigi: "Correzione a breve" di Franco Stefanoni Corriere della Sera, 21 aprile 2017 Ritoccati i poteri dell’Anticorruzione, che consentivano d’intervenire in casi di grandi irregolarità senza aspettare un giudice. Ma il governo annuncia il dietrofront. Lo scorso consiglio dei ministri ha deciso di abrogare il passaggio del codice degli appalti che attribuisce più poteri all’Anac di Raffaele Cantone, in materia di intervento e prevenzione. Si tratta del comma 2 dell’articolo 211. Un anno fa, dopo gli scandali di Expo e Mafia Capitale, il codice era stato approvato e una legge delega conferiva tale potere. Sono stati così ridimensionati i ruolo e capacità di azione da parte dell’Anticorruzione, che consentivano di intervenire in casi di macroscopica irregolarità senza aspettare un giudice. Nessuna volontà politica di ridimensionare i poteri dell’Anac, sottolineano tuttavia fonti di Palazzo Chigi. Il presidente Paolo Gentiloni, in missione a Washington, è stato in contatto con Cantone. Sul punto, assicurano le stesse fonti, sarà posto rimedio già in sede di conversione del decreto e in maniera inequivocabile. Su twitter, anche il presidente del Pd, Matteo Orfini, ha scritto: "Depotenziare l’Anac è un errore che sicuramente governo e Parlamento correggeranno subito". Relatori arrabbiati - Stefano Esposito e Raffaella Mariani, relatori in commissione Lavori pubblici del Senato, dove il codice ha preso forma, si sono detti molto arrabbiati. Secondo Huffington Post, hanno detto: "Questa soppressione è un atto grave e i responsabili devono assumersene la responsabilità. Siamo di fronte a una violazione del rapporto tra Parlamento e governo, con l’abrogazione di uno strumento innovativo, l’articolo 2 appunto, voluto dal Parlamento. Uno strumento fortemente innovativo, col conferimento all’Anac di poteri sostanziali. Chiediamo al presidente Gentiloni e al ministro Delrio che venga posto rimedio a questo blitz che qualcuno ha compiuto". M5S: "Ma hanno capito che cosa hanno fatto?" - Luigi di Maio nel corso della conferenza alla Camera sul programma Lavoro del M5S, ha commentato: "La scandalosa vicenda Anac: alcuni senatori dello stesso partito del governo fingono di litigare con il governo dicendo che devono reintrodurre quelle norme che il governo ha tolto. Chi è responsabile di parentopoli non può fare norme anticorruzione e, se le fa, poi le toglie". "Con un colpo di spugna l’Anac ha perso i suoi poteri". A scriverlo via Facebook è stata la deputata M5s Roberta Lombardi che riporta la notizia della cancellazione del comma 2 del nuovo codice degli appalti da parte del governo. "Il comma 2 è abrogato". Molte volte i cittadini mi chiedono dove inizia la corruzione. Ecco, inizia da lì: da una semplice e innocua frase come quella messa sopra tra virgolette", scrive la deputata su Fb. "Un anno dopo la legge deve fare un tagliando, ovvero in gergo politico e tecnico, si vede cosa funziona e cosa no e si aggiustano le varie parti. Una mano, a questo punto furba e criminale, cambia il testo della legge e scrive: "il comma 2 è abrogato". Con un colpo di spugna l’Anac ha perso i suoi poteri. La legge è passata per il consiglio dei ministri che o non ha capito nulla e quindi firma segna leggere le carte oppure è complice, e infine la legge è stata firmata dal presidente della Repubblica. Chi ha materialmente scritto quella riga di legge è sconosciuto al momento". Ma, si chiede la deputata, "rimane la domanda: chi vuole depotenziare l’Anac? Che poi significa: chi vuole proteggere la corruzione in Italia a discapito dei cittadini onesti? Nel frattempo crollano ponti e cavalcavia. E tra le macerie quelle più evidenti sono quelle della dignità della politica". La tempistica - "Tutto ciò emerge proprio nel giorno in cui l’Ad di Consip, Luigi Marroni, ha incontrato il presidente Cantone". È quanto affermano in una nota i deputati M5S della commissione Affari costituzionali, che aggiungono: "La tempistica del provvedimento adottato dal consiglio dei ministri è quantomeno sospetta, visti i personaggi del giglio magico che sono finiti sotto la lente della magistratura, nell’inchiesta che riguarda il più grande appalto d’Europa". "Non vorremmo infatti che, tutto ciò, fosse un regalo anche a coloro che sono coinvolti nella vicenda Consip che vede, fra gli altri, indagati il padre di Matteo Renzi, il ministro Lotti e i vertici dei carabinieri", concludono. Riconosciuto (e risarcito) il tumore per uso prolungato del telefonino di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 21 aprile 2017 Tribunale di Ivrea, sentenza 30 marzo 2017 n. 96. "Per la prima volta una sentenza riconosce un nesso tra l’uso scorretto del cellulare e lo sviluppo di un tumore al cervello". Lo annunciano gli avvocati Renato Ambrosio e Stefano Bertone, dello studio legale torinese Ambrosio e Commodo. Il tribunale di Ivrea ha infatti condannato l’Inail a corrispondere una rendita vitalizia da malattia professionale al dipendente di una azienda cui è stato diagnosticato il tumore dopo che per 15 anni ha usato il cellulare per più di 3 ore al giorno senza protezioni. La sentenza, resa nota ieri dagli avvocati, è dello scorso 30 marzo. Il giudice del lavoro di Ivrea, riconosce che il tumore, benigno ma invalidante, contratto dall’uomo è stato causato dall’uso scorretto del cellulare. "Speriamo che la sentenza spinga ad una campagna di sensibilizzazione, che in Italia non c’è ancora", afferma l’avvocato Stefano Bertone. "Non voglio demonizzare l’uso del telefonino, ma credo sia necessario farne un uso consapevole". Lo afferma Roberto Romeo, dipendente di una grande azienda italiana di 57 anni, a cui il Tribunale di Ivrea ha riconosciuto una rendita vitalizia da malattia professionale accogliendo il ricorso dei suoi legali. "Ero obbligato ad utilizzare sempre il cellulare per parlare con i collaboratori e per organizzare il lavoro - racconta l’uomo -. Per 15 anni ho fatto innumerevoli telefonate anche di venti e trenta minuti, a casa, in macchina. Poi ho iniziato ad avere la continua sensazione di orecchie tappate, di disturbi all’udito. E nel 2010 mi è stato diagnosticato il tumore. Ora non sento più nulla dall’orecchio destro perché mi è stato asportato il nervo acustico". Le motivazioni della pronuncia non sono ancora disponibili. Solo il dispositivo è noto e da questo è possibile trarre qualche prima (provvisoria) conclusione. Innanzitutto sulla linea difensiva su cui si è attestato l’Inail, davanti alla richiesta di riconoscimento di una malattia professionale e del conseguente beneficio economico. Sul punto si sono confrontato, come ovvio, due perizie cui le parti si sono agganciate per confermare o negare l’esistenza della patologia, innanzitutto, e, poi, anche in caso di riconoscimento di un nesso causale tra utilizzo del telefonino e malattia, sul fatto che la patologia fosse compresa tra quelle tabellate all’epoca dei fatti. La sentenza, nel dettaglio, ha l’esistenza di una malattia professionale che ha avuto come conseguenza un danno biologico permanente del 23 per cento. Ha perciò condannato Inail "alla corresponsione del relativo beneficio a decorrere dalla data della presentazione della domanda in sede amministrativa, oltre agli interessi al tasso legale e l’eventuale maggior danno in misura pari alla differenza tra la rivalutazione monetaria e il tasso legale sui ratei maturati e non riscossi, a decorrere da a decorrere dal 121° giorno dalla data della presentazione della domanda in sede amministrativa". Bancarotta senza rischio di bis in idem di Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 21 aprile 2017 Corte di cassazione, Terza sezione penale, sentenza 20 aprile 2017 n. 18927. La bancarotta documentale può concorrere con il delitto di occultamento o distruzione di documenti contabili e pertanto se l’imputato è già stato processato per il reato fallimentare non può invocare il ne bis in idem sostanziale per il procedimento relativo al delitto tributario. A confermare questo principio è la Corte di cassazione, sezione III penale, con la sentenza n. 18927 depositata ieri. Un imprenditore era condannato, in secondo grado per il reato di occultamento o distruzione di scritture contabili (articolo 10 del Dlgs 74/2000). Nel ricorso per cassazione rilevava che era stato già condannato per il reato di bancarotta documentale (articolo 216 della legge fallimentare). Evidenziava quindi che la fattispecie di occultamento o distruzione di documenti contabili (oggetto del ricorso per cassazione) integrava una condotta identica e combaciante con la bancarotta documentale. Peraltro dall’analisi delle due imputazioni si deduceva la sussistenza della medesima condotta e quindi, poiché il reato più grave per il quale era intervenuta la condanna, era quello fallimentare doveva ritenersi assorbito l’altro di occultamento di documenti contabili. La bancarotta fraudolenta documentale prevede, infatti, la pena della reclusione da tre a dieci anni, nei confronti dell’imprenditore, se dichiarato fallito, che ha sottratto, distrutto o falsificato, in tutto o in parte, con lo scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizi ai creditori, i libri o le altre scritture contabili o li ha tenuti in guisa da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari. Il delitto tributario di occultamento o distruzione di documenti contabili riguarda invece chiunque, "salvo che il fatto costituisca più grave reato", al fine di evadere le imposte sui redditi o l’Iva occulta o distrugge in tutto o in parte le scritture contabili o i documenti di cui è obbligatoria la conservazione, in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume di affari. È prevista la pena della reclusione da un anno e sei mesi a sei anni (fino al 22 ottobre 2015 da sei mesi a cinque anni). La relazione illustrativa al Dlgs 74/2000, a proposito della locuzione "salvo che il fatto costituisca più grave reato" introdotta nel delitto di occultamento di documenti contabili, evidenziava proprio che non era possibile ipotizzare il concorso con il delitto di bancarotta documentale. E infatti rilevava che "viene fatto espressamente salvo, comunque, il caso in cui la condotta costituisca più grave reato: clausola che vale ad escludere, in particolare, il concorso fra il delitto in esame e quello di bancarotta fraudolenta documentale, sancendo la prevalenza di quest’ultimo". La Suprema Corte ha, innanzitutto, rilevato che non può essere deducibile per la prima volta in Cassazione la violazione del divieto del ne bis in idem in quanto l’accertamento relativo alla identità del fatto oggetto dei due diversi procedimenti, intesa come coincidenza di tutte le componenti della fattispecie concreta, implica un apprezzamento di merito sottratto al giudice di legittimità. Per quanto concerne, invece, il rapporto tra il delitto fallimentare e quello tributario in questione, la sentenza ha escluso la specialità del primo rispetto al secondo, stante la diversità delle fattispecie incriminatrici. In particolare, quella tributaria comporta l’impossibilità di ricostruire l’ammontare dei redditi o il volume degli affari, intesa come possibilità di accertare il risultato economico di quelle sole operazioni connesse alla documentazione occultata o distrutta. Diversamente, l’azione fraudolenta sottesa dall’articolo 216, n. 2, della legge fallimentare si concreta in un evento cui discende la lesione degli interessi dei creditori risultando irrilevante l’obbligo normativo della relativa tenuta ben potendosi apprezzare la lesione anche della sottrazione di scritture meramente facoltative. La decisione dei giudici di legittimità è importante perché di fatto introduce il possibile concorso tra i due delitti nonostante, proprio per evitare tale circostanza, il legislatore del 2000 avesse espressamente introdotto la locuzione "salvo il fatto non costituisce più grave reato", come confermato dalla relazione illustrativa. Resterebbe da comprendere a questo punto il senso di tale frase. Peculato, ribadita la necessità del danno apprezzabile alla Pa di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 21 aprile 2017 Corte di Cassazione - Sezione VI - Sentenza 20 aprile 2017 n. 19017. Il reato di peculato presuppone che si sia verificato un danno apprezzabile per la pubblica amministrazione con conseguente lesione della sua funzionalità. Non sussiste quindi l’imputazione per peculato nei confronti del dipendente che utilizzi abusivamente, ma per tragitti nell’ordine delle centinaia di metri, l’auto di servizio. In tali casi l’unica imputazione sostenibile è quella della truffa aggravata in relazione alla retribuzione percepita per quella parte dell’orario di lavoro in cui il dipendente di fatto era impegnato in attività personali estranee alle proprie mansioni. Queste le affermazioni contenute nella sentenza 19017/2017 della Corte di cassazione penale, depositata ieri. Il ricorso - Così la Corte di cassazione ha respinto la tesi del procuratore, che aveva impugnato la decisione del Gup di non luogo a procedere per il reato di peculato e di rinvio a giudizio del dipendente pubblico per truffa aggravata. Il procuratore sosteneva, infatti, l’opposta tesi secondo cui il reato di peculato non richiede la sussistenza di un danno per la pubblica amministrazione. Sarebbe cioè sufficiente la mera appropriazione o il mero utilizzo del bene pubblico. Il caso - Nel caso specifico il dipendente di una Comunità montana utilizzava l’auto di servizio per recarsi in palestra, alle volte anche durante l’orario di lavoro. Ma poiché la palestra si trova sul percorso casa-lavoro fatto quotidianamente dal dipendente pubblico rimaneva, come dato rilevante ai fini del reato, solo il tempo dell’orario di lavoro utilizzato per finalità diverse dal servizio e la quantità di carburante consumato in quei frangenti. La decisione - Ma il Gup - come poi confermato dalla Cassazione - ha ritenuto non apprezzabile il danno economico per la Pa, in relazione al carburante necessario per raggiungere la palestra in orario di lavoro, visto che era raggiungibile percorrendo solo poche centinaia di metri. La Cassazione ha perciò rigettato il ricorso lasciando in piedi, tra i presupposti della vicenda processuale, solo il rinvio a giudizio per l’imputazione del dipendente della Comunità montana a titolo di truffa aggravata. Al dipendente pubblico verranno perciò contestate le retribuzioni indebitamente percepite per le ore in cui risultava in servizio, ma era di fatto in palestra. Disturbo della quiete pubblica per la musica troppo alta in automobile di Domenico Carola Il Sole 24 Ore, 21 aprile 2017 Corte di Cassazione - Sentenza 1 marzo 2017 n. 10024. La Sentenza della Corte di Cassazione n. 10024 del 1 marzo 2017 riguarda un caso di condanna per il reato di disturbo della quiete pubblica, commesso ascoltando musica in auto a un volume troppo elevato. Il caso - Il Tribunale di Messina dichiarava non doversi procedere nei confronti di un imputato per essere il reato di cui all’articolo 659 codice penale estinto per avvenuta oblazione, revocando il decreto penale di condanna ma nel contempo confermando l’ordine di confisca e distruzione di quanto in sequestro. Avverso il provvedimento veniva proposto ricorso per cassazione in quanto l’imputato aveva richiesto al tribunale di essere ammesso all’oblazione, anche sulla base della propria incensuratezza, con la clausola di ottenere la restituzione dell’impianto stereo sequestrato. Oltre a ciò, vi era una relazione di mera occasionalità tra le cose e l’illecito perpetrato, mentre in ogni caso non era stata spesa motivazione in ordine alla richiesta di restituzione dell’impianto stereo sequestrato, formulata in sede di opposizione al decreto penale di condanna. Al contrario venivano disposte confisca e distruzione dell’oggetto. La decisione - Gli Ermellini ritenendo fondato il ricorso annullano senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla disposta confisca, che esclude, disponendo la restituzione di quanto in sequestro all’avente diritto. I giudici della Corte concordano sul fatto che la confisca non poteva essere disposta, non essendoci sentenza di condanna e non ricadendo in una delle ipotesi di confisca obbligatoria (anche in assenza di reato) previste dalla legge. Infatti ricordano che il provvedimento di confisca può essere disposto per le cose che aiutano nel compimento di un reato e dei profitti derivanti dallo stesso. La confisca è anche obbligatoria, a fine preventivo, per tutti i delitti e le contravvenzioni concernenti le armi, anche in caso di estinzione del reato per oblazione, a meno che l’arma non appartenga a una persona totalmente estranea al reato. Rientrano nel novero delle ablazioni obbligatorie anche quelle riguardanti strumenti informatici o telematici. Non essendo prevista in nessuno dei casi de quibus, l’impianto stereo è salvo ma il suo possessore è avvisato. Ciò che non si paga non vale. ma se vale deve essere pagato di Alessandro De Rossi* L’Opinione, 21 aprile 2017 È il terzo ponte o viadotto che cade nel giro di sei mesi in Italia. Ieri sera nell’intervista in TV l’ottimo ministro Delrio, oltre a rassicurarci che saranno fatte tutte le indagini necessarie per capire la causa del crollo (sic), ci comunica che certe cose possono accadere ai ponti anche dopo qualche anno di esercizio. È evidente che il ministro non è mai passato sui ponti dei Romani (quelli antichi beninteso..). La premessa sui crolli è di avvio ad una riflessione più attinente alla situazione delle carceri in Italia. Il ministro Andrea Orlando, in campagna elettorale, ci dice invece che la condizione dei penitenziari è abbastanza accettabile e sotto controllo. Peccato che l’indice di affollamento reale non è quello ufficialmente dichiarato ma molto, molto diverso e lontano dalla realtà. I casi sono due: o il ministro non gode di dati aggiornati o non vuole spaventare gli italiani descrivendo lo stato reale delle cose. Ambedue le preoccupanti ipotesi non ci sembrano all’altezza della situazione. Ciò nonostante troppo spesso lo Stato italiano dimentica che un giudice in Europa esiste e in questo caso abita a Strasburgo e si chiama Cedu. E prima o poi si esprimerà di nuovo. Di nuovo dobbiamo interrogarci sui criteri, se ce ne sono, con i quali la politica attraverso l’amministrazione statale, sceglie, decide, si pronuncia in presenza di situazioni altamente drammatiche che riguardano le carceri in Italia. Giusta, e lo ripetiamo ancora con convinzione, la decisione di promuovere gli Stati generali dell’esecuzione penale. Ma questo non basta Onorevole Ministro. Meno giusto l’ambiguo "percorso" successivo che in certi ambiti più ristretti, tra discussioni, lotte interne, proclami e contestazioni ha visto partorire il bando per il nuovo carcere di Nola. Un progetto sul quale abbiamo avuto modo di discuterne l’evidente obsolescenza progettuale verificando che l’idea di base nasce già vecchia, con cifre stratosferiche di costruzione e di futura gestione. Vetrate blindate, brise soleil, frangisole a gogò, organizzazione funzionale tardo-ottocentesca ma con tanta demagogia coperta dal solito vetusto politically correct, quello ben noto della sinistra in cachemire. La domanda viene spontanea: chi decide queste soluzioni aberranti? Chi sceglie colui (o colei) che deve decidere simili aberrazioni? Saremmo ben curiosi di sapere quali siano i criteri di valutazione, se esistono, che hanno portato talune figure professionali a coordinare tavoli, meeting, convegni, simposi, conferenze e altre pubbliche manifestazioni dedicate alla (loro) più recente scoperta di una necessaria "riflessione" sulle carceri? Saremmo soddisfatti se almeno una delle teste responsabili, al di là delle amicizie e dei cognomi importanti anche se ufficialmente non pagata, avendo scoperto di recente queste problematiche, ci dicesse il perché di questi subitanei interessi verso l’architettura penitenziaria pur non avendo la necessaria pratica consolidata da anni in questo specifico settore. Quali titoli abbia acquisito o quali altre motivazioni "umanitarie" l’abbiano spinta a preoccuparsi di una così specialistica attività professionale. I ponti crollano per i calcoli sbagliati o perché costruiti male. Le carceri invece non funzionano perché troppe sono le deficienze informative di base che dovrebbero essere fondamento di un corretto approccio culturale teso ad una corretta progettazione e gestione. Gli istituti italiani nella maggior parte dei casi sono tutti fuori norma. Ed è l’intero patrimonio edilizio che occorre ripensare. Appunto: "ripensare". Ma per questo ci vorrebbe un pensiero, una cultura, l’esperienza e una informazione vasta. Le improvvisazioni di norma non danno buoni risultati. I ponti crollano e le carceri scoppiano. *Presidente Commissione Diritti della Persona privata della Libertà - LIDU Milano: San Vittore, detenuto si impicca in cella di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 aprile 2017 È il sedicesimo suicidio dall’inizio dell’anno in Italia, nel 2016 sono stati 39 e nel 2015 43. Si è ucciso nel bagno della sua cella con un laccio dell’accappatoio. Si chiamava Michele Daniele, 41 anni, e detenuto nel 5° Raggio del carcere San Vittore di Milano. A segnalare l’ennesimo suicidio è stato Riccardo Arena, direttore di Radio Carcere, che aggiunge il particolare che l’uomo, prima di impiccarsi nel bagno, abbia aspettato che gli altri due compagni di cella si addormentassero. "Michele Daniele, che era in attesa del giudizio di appello in merito a una condanna di 4 anni - spiega Riccardo Arena, soffriva di una grave dipendenza dall’alcol tanto che una settimana fa era stato visitato dallo psichiatra. Psichiatra che però pare non abbia intravisto rischi suicidari". Il direttore di Radio Carcere, infine, aggiunge: "Visto che il ministero della Giustizia parla tanto di trasparenza, val la pena di sottolineare che abbiamo scoperto di questo ennesimo suicidio, non tramite un comunicato stampa ufficiale, ma solo grazie alla segnalazione che ci è stata fatta da un nostro ascoltatore che ha il figlio detenuto proprio nel carcere di San Vittore". La situazione è oramai sempre più insostenibile. Ad oggi siamo arrivati a 16 suicidi dall’inizio dell’anno, per un totale di 30 decessi. Una media altissima e, se non fosse per i salvataggi in extremis da parte della polizia penitenziaria, le morti sarebbero molte di più. Nel 2016 il triste elenco è arrivato a 39 detenuti che si sono tolti la vita dietro le sbarre e ben 120 detenuti morti per malattia. Nel 2015 sono stati 43 i suicidi nelle carceri italiani e 123 i morti. I detenuti continuano ad uccidersi nonostante la direttiva del ministro Orlando che prevedeva l’attuazione di un Piano nazionale d’intervento per la prevenzione del suicidio e per il conseguente monitoraggio delle strategie adottate, attraverso la raccolta, l’elaborazione e la pubblicazione dei dati sul fenomeno e sulle esperienze condotte. In carcere, in mancanza di veri e propri percorsi trattamentali, si acuisce la sofferenza psichica. A tutto questo si aggiunge il sovraffollamento che aumenta le criticità. Al carcere di San Vittore, dove è avvenuto l’ultimo suicidio, si è raggiunta la quota di 904 detenuti per una capienza massima di 750 posti. Proprio in questo carcere è passato a far visita Papa Francesco e, qualche giorno fa, è stato trasmesso "Vedete, sono uno di voi". È il titolo del film sul Cardinale Martini, di cui Ermanno Olmi ha firmato la regia. Un film che insiste molto sulla dimensione sociale e civile della testimonianza di Martini, mostrandolo impegnato nelle periferie romane già durante gli studi biblici a Roma, a fianco della Comunità di Sant’Egidio, e non a caso lega il momento più alto del suo magistero intellettuale, l’iniziativa della Cattedra dei non credenti, alla frequentazione assidua dei detenuti del carcere di San Vittore. Nel 2003, il cardinale Martini, scrisse un libro intitolato "Non è giustizia. La colpa, il carcere e la parola di Dio" dove mise in discussione la necessità del carcere e spiegò che alla base del nuovo modo di concepire la pena e la sua esecuzione dev’essere posta la riconciliazione come proposta di partenza e traguardo d’arrivo del trattamento rieducativo. Sicuramente, l’alto tasso di sucidi, dimostra che tale obiettivo è ancora molto lungo dal prefigurarsi. Sondrio: lezione molto speciale nella Casa circondariale di Nello Colombo La Provincia di Sondrio, 21 aprile 2017 Le allieve del "Balilla Pinchetti" di Tirano incontreranno gli ospiti della struttura. Grande fermento all’istituto "Pinchetti" di Tirano che, per la Festa della celebrazione dei 60 anni dalla firma dei Trattati di Roma, ospiterà sabato alcuni studenti provenienti dalla Germania. Il progetto "L’università tra i banchi di scuola" rientra invece fra le attività di orientamento universitario con gli open day dei singoli atenei a cui i ragazzi potranno partecipare. Ma certamente l’impegno della cittadinanza attiva gli studenti lo hanno sperimentato già lo scorso anno con "La scuola in Tribunale". Nel solco di questa esperienza, ora l’azione si sposta sul progetto "La scuola in carcere", che rientra fra le attività d’istituto legate all’alternanza scuola lavoro. H progetto che prevede la partecipazione delle classi terze e quarte del liceo Scienze Umane è articolato in due momenti: il primo, formativo, si svolgerà a scuola il prossimo 19 aprile con la presenza del comandante del reparto della Polizia Penitenziaria, Luca Montagna, e la direttrice della Casa circondariale di Sondrio, Stefania Mussio, che sta portando avanti una innovativa filosofia della rieducazione che tocca vari settori, dando gli stimoli giusti per una riabilitazione sociale dei detenuti che passa attraverso stimoli lavorativi come il nuovo pastificio, ma soprattutto culturali con la nuova biblioteca recentemente inaugurata, e un’ampia apertura verso la comunità civile. Non ultima l’iniziativa di giovedì alla sala Vitali di Creval per presentare il progetto filatelico che la casa circondariale ha realizzato con Poste italiane. Infine, dopo una lezione a scuola sull’esecuzione della pena, del suo significato, in una vera e propria formazione di carattere legale, vedrà le studentesse del "Pinchetti" il prossimo 9 maggio nel carcere del capoluogo, a contatto diretto con i detenuti che le guideranno tra gli spazi della casa circondariale spiegando loro i ritmi e la gestione del mondo penitenziario. Volterra (Pi): detenuti "sommelier per una sera" con Fisar gonews.it, 21 aprile 2017 Nuovo appuntamento con "Cene Galeotte". Venerdì 21 aprile, a partire dalle ore 19,30, la Fortezza Medicea apre le porte ai visitatori per un nuovo appuntamento con le "Cene Galeotte", progetto di cene sociali, giunto alla sua XI edizione, che vede coinvolti ogni anno circa trenta detenuti impegnati tra fornelli e sala. Ad accompagnare il menù, firmato dalla chef Beatrice Segoni del ristorante gourmet Konnubio di Firenze, cinque vini che rappresentano le eccellenze venete - Prosecco DOCG Conegliano Valdobbiadene, Svejo Manzoni Bianco IGT Veneto, Chieto Rosso IGT Veneto e Amablè Doseè Moscato Dolce - selezionati dalla Delegazione FISAR Volterra. Per festeggiare i 10 anni di partecipazione e collaborazione della FISAR al Progetto "Cene Galeotte", ideato e fortemente sostenuto dalla Direttrice del carcere Maria Grazia Giampiccolo, già Socio Onorario FISAR, sarà presente Graziella Cescon, Presidente Nazionale FISAR, accanto ai componenti della Giunta Esecutiva, ed alcuni consiglieri Nazionali FISAR Delegazione storica di Volterra, è Partner Istituzionale del progetto dal 2007, anno in cui ha siglato il protocollo d’Intesa con il Ministero di Grazia e Giustizia, ed è impegnata all’interno della Casa di Reclusione nella formazione dei detenuti alla professione del sommelier attraverso l’organizzazione e direzione delle attività di abbinamento dei vini ai piatti. Già alcuni detenuti e agenti hanno sostenuto un corso di avvicinamento al vino in occasione dei 40 anni di FISAR celebrati proprio a Volterra. "In un’ottica di ri-abilitazione sociale e professionale delle persone detenute - dichiara Flavio Nuti, Delegato FISAR di Volterra - da dieci anni FISAR ha aderito a questo progetto selezionando le migliori cantine -toscane e non- da abbinare alle cene dirette da importanti chef, e soprattutto, cercando di avviare i detenuti ad un percorso di formazione nell’attività di sommelier per arricchire il loro bagaglio di esperienze utile ad un migliore inserimento nel lavoro al termine della pena. Già alcuni ex-detenuti hanno trovato impiego nei locali della città e hanno intrapreso la formazione superiore per diventare Sommelier". Da oltre 40 anni FISAR è il punto di riferimento autorevole e strategico del settore enologico. Attraverso un fitto network di Delegazioni, la Federazione Italiana Sommelier Albergatori e Ristoratori sostiene e promuove una cultura del vino che diffonda i valori di indipendenza, territorialità e qualità. Lecce: al via la campagna di crowdfunding "Contatto. Un teatro nel carcere" corrieresalentino.it, 21 aprile 2017 Una compagnia di teatro, una rivista e un collettivo di architetti insieme per lanciare un nuovo progetto, punto di "contatto" tra diverse discipline, ma soprattutto tra due luoghi, quello dei liberi e quello dei reclusi, tra città e carcere. È online sulla piattaforma Eppela - e sarà attiva per i prossimi 40 giorni - la campagna di crowdfunding "Contatto. Un teatro nel carcere di Lecce", lanciata dall’associazione culturale Archistart assieme alla Compagnia di Teatro "Io ci provo" e all’Associazione culturale Prospettive Teatrali. Il progetto è supportato da CrowdFunder35, la sezione crowd del bando Funder35 rivolto alle iniziative non profit e culturali lanciate da giovani under 35 per promuovere la cultura. La campagna è volta alla realizzazione del Nuovo Centro Teatrale Aperto all’interno del Carcere di Lecce. Molto di più di un teatro, un luogo aperto a tutta la comunità, dove uomini liberi possono condividere esperienze culturali e detenuti avere l’occasione di una nuova possibilità di reinserimento sociale. Da un lato l’associazione Archistart, attraverso un workshop di autocostruzione, si propone di coinvolgere attivamente cittadini, professionisti, studenti, detenuti, istituzioni e organi territoriali, ai quali verranno trasmesse le tecniche di autocostruzione e l’impiego dei principali attrezzi da lavoro. Dall’altro, l’associazione Prospettive Teatrali si occuperà della sensibilizzazione alle tematiche teatrali che animeranno il nuovo spazio, attraverso il "Contatto Open Days", una quattro giorni di incontri e laboratori di avvicinamento alla visione e di educazione allo sguardo teatrale rivolti agli studenti delle scuole superiori di Lecce. La campagna di crowdfunding, che punta a un obiettivo economico di 10.000 euro - e che, se raccoglierà la metà della cifra sul web, beneficerà di un contributo da parte di CrowdFunder35 pari alla restante parte (5.000 euro) - è finalizzata alla realizzazione di parte del nuovo spazio in autocostruzione, acquisto dei materiali, attivazione di un contest internazionale di idee per raccogliere proposte giovanili e innovative da integrare al progetto già presentato al Carcere e derivato da giornate partecipative tra Archistart ed i detenuti. Siena: i detenuti San Gimignano aprono un blog di ricette e poesie radiosienatv.it, 21 aprile 2017 Un blog di ricette e riflessioni che hanno il sapore della libertà. È quello realizzato dai detenuti della Casa di reclusione di Ranza, a San Gimignano, che frequentano la sede carceraria dell’Istituto Enogastronomico di Colle Val d’Elsa, indirizzo dell’Istituto d’Istruzione superiore statale "Bettino Ricasoli" di Siena. Il blog, intitolato "Scriviamo… con gusto" (scriviamocongusto.wordpress.com), raccoglie ricette, poesie e riflessioni curate dagli studenti detenuti sviluppando ogni mese un tema diverso. A coordinare testi e pubblicazione sono le docenti Gilda Penna e Laura Staiano, che curano la formazione dei detenuti insieme ad altri insegnanti impegnati nella sede carceraria dell’istituto senese con lezioni di italiano, matematica, storia, economia, lingua inglese e francese, scienze degli alimenti, laboratori di cucina, sala e vendita. "Scriviamo…con gusto". "Il blog - spiega Gilda Penna, referente dell’Istituto B. Ricasoli di Siena per la sede carceraria - coinvolge ogni mese gli studenti dei circuiti di Alta e Media Sicurezza del carcere di Ranza su un tema diverso, con una ricetta pensata e realizzata in team e, successivamente, raccontata e condivisa con il mondo esterno. Insieme alle ricette, in lingua italiana, inglese e francese, trovano spazio sul blog ricerche storiche sulla gastronomia, italiana e non, e riflessioni che guardano fuori dalle sbarre attraverso la cucina. Gli studenti possono, così, mettersi in gioco e valorizzare le loro capacità aprendosi, attraverso la rete, a tutti coloro che si interessano di gastronomia e cogliendo un’opportunità di arricchimento personale e professionale". I temi sviluppati dal blog. Il blog ha esordito con il tema dedicato al mondo, sviluppato dagli studenti delle classi IV C (Alta Sicurezza) e III D (Media Sicurezza), che ha offerto un viaggio virtuale attraverso l’incontro di sapori diversi. È stata, poi, la volta dei sensi, coinvolgendo le classi V C (Alta Sicurezza) e V D (Media Sicurezza) nel racconto di ricette che chiamano in causa i cinque sensi per assaporare fino in fondo il piatto e il desiderio di libertà del suo autore. Nei prossimi mesi, altri studenti dei circuiti di Alta e Media Sicurezza, dalle classi prime alle terze, saranno chiamati a sfidarsi a colpi di ingredienti e riflessioni culinarie sul tema del mare, della montagna e del rosso. La sede carceraria dell’Istituto "B. Ricasoli". Dall’anno scolastico 2014-2015 l’Istituto "B. Ricasoli" di Siena, a seguito del protocollo di intesa tra i Ministeri dell’Istruzione e della Giustizia siglato il 23 ottobre 2012, ha rivisto i propri percorsi curricolari nella sede carceraria, dove era già presente. "La revisione dell’offerta formativa rivolta ai detenuti - afferma il dirigente scolastico, Tiziano Neri - ha migliorato i percorsi curricolari dell’Istituto Enogastronomico, che sta diventando una realtà sempre più presente all’interno del carcere di Ranza-San Gimignano e sta affinando, di anno in anno, le metodologie didattiche per valorizzare le potenzialità e le capacità degli studenti reclusi, partendo dalla loro volontà e disponibilità a impegnarsi in attività didattiche e di laboratorio dedicate alla cucina. Su queste basi è nata l’idea del blog "Scriviamo…con gusto", che vuole essere uno strumento per condividere le esperienze e le attività della scuola "dietro le sbarre", al fianco di altre iniziative che hanno già coinvolto gli studenti della sede carceraria negli anni scorsi, fra cui la pubblicazione di un ricettario e la gara di cucina con gli alunni della sede di Colle di Val d’Elsa". Foggia: a tu per tu coi detenuti… c’è vita dietro (e oltre) le sbarre di Annalisa Graziano immediato.net, 21 aprile 2017 C’è vita oltre le sbarre. Volti, nomi, storie, si nascondono dietro le celle e gli ambienti grigi delle carceri italiane, sempre così lontane dalla realtà. Un ponte tra la vita dentro e la vita fuori che non esiste. È da questo punto che nasce l’idea editoriale della giornalista foggiana, Annalisa Graziano con "Colpevoli. Vita dietro (e oltre) le sbarre", che ha voluto, con fermezza e passione, tirare fuori le storie all’interno della Casa Circondariale di Foggia. "Mi tremavano le gambe la prima volta che sono entrata nel carcere foggiano - racconta con un pizzico di emozione l’autrice del libro. L’idea di "Colpevoli" nasce da una lunga chiacchierata con il direttore dell’istituito penitenziario Mariella Affatato, subito dopo l’esperienza della mostra e del volume fotografico "L’altra possibilità. Reportage dal mondo penitenziario", realizzati a quattro mani con Giovanni Rinaldi. Ho pensato di raccontare la vita - e le vite - a 360°. "Colpevoli", è un titolo provocatorio - spiega - perché spesso l’altro, il cattivo, il colpevole è qualcosa di diverso. L’obiettivo del libro è innanzitutto quello di raccontare il carcere a chi non lo conosce. Spesso però quello che non si conosce, spaventa. E poi, l’altro fine è quello di dare un’idea su tutto ciò che si fa all’interno del carcere e mettere a tacere chi pensa che la gente sia lì dentro solo ad oziare". Un viaggio nelle sezioni dell’Istituto Penitenziario foggiano, tra le celle, le aule scolastiche, la cucina e tutti i luoghi accessibili, dove la maggior parte dei detenuti chiede di poter fare qualcosa, testimoniata dai tanti volontari, in primis dall’avvocato Luigi Talienti. "È stato un iter complesso - precisa l’autrice. All’inizio del percorso c’è stata una complicazione per chiedere l’autorizzazione a partecipare ad incontri e attività, sia perché ero giornalista, sia perché avevo anche il tesserino da volontaria. L’area educativa dei detenuti mi ha fornito un elenco di nominativi di coloro che hanno iniziato un percorso di revisione del reato e che quindi stanno riflettendo su quello che è accaduto. Uno dei temi più complessi che abbiamo affrontato - racconta - è stato il rapporto che i detenuti hanno avuto ed hanno, tuttora, con le vittime dei loro reati. Ho intervistato molti uomini che avevano rapinato in banca ad esempio, esperienza molto diversa invece, con chi aveva compiuto un omicidio". Una sala gremita ieri, tra amici, colleghi, rappresentanze delle associazioni foggiane che hanno preso parte alla presentazione del volume presso la Sala Rosa della Fondazione Banca del Monte. Dal presidente del Csv Foggia, Pasquale Marchese al direttore in missione del carcere di Foggia, Giuseppe Altomare, e poi ancora la vicepresidente nazionale di Libera, Daniela Marcone, il presidente della Fondazione Banca del Monte di Foggia, Saverio Russo, il sociologo e direttore del Csv Foggia, Roberto Lavanna. Un libro che si accinge a diventare una sfida per l’intera comunità foggiana, come ha spiegato la direttrice delle edizioni La Meridiana, Elvira Zaccagnino. "Una scommessa che continua, per recuperare e valorizzare la parte migliore di sé, dando la possibilità a chi è dentro di avere un ponte con le persone sane che sono fuori. Solo così si vince la scommessa della legalità. In ognuna di quelle persone c’è un reato che hanno commesso e che nessuno può cancellare, ma dobbiamo dar loro la possibilità del riscatto", ha spiegato la direttrice foggiana. Non solo colloqui ma anche visite all’interno della Casa Circondariale. Annalisa Graziano ammette quasi di essere stata adottata dagli agenti della penitenziaria, che l’hanno accompagnata nel suo "viaggio" fino alla scelta di redigere un volume, arricchendosi di due contributi fondamentali, la prefazione a firma di don Luigi Ciotti, e la postfazione affidata a Daniela Marcone, figlia di Francesco Marcone, vittima della mafia. L’autrice ha inoltre rinunciato ai diritti d’autore. I proventi, infatti, sosterranno attività nel carcere di Foggia. Palermo: "Diritti in cantiere", Assemblea generale di Amnesty International Italia di Riccardo Noury Corriere della Sera, 21 aprile 2017 Da domani al 25 aprile, Palermo apre le porte ai diritti umani. L’occasione è la XXXII Assemblea generale di Amnesty International Italia, che si apre domenica 23 ai Cantieri Culturali alla Zisa. Nei due giorni che precederanno la riunione, si svolgerà "Diritti in cantiere": due giorni fitti di dibattiti, incontri con le scuole, momenti formativi, proiezioni e spettacoli dedicati alla campagna globale di Amnesty International "I welcome", per i diritti dei migranti e dei rifugiati. Non mancheranno incontri sulle principali crisi umanitarie in corso, sulle lacune in tema di diritti umani in Italia (prima tra tutte, l’assenza del reato di tortura) e sulla campagna "Verità per Giulio Regeni". Il ricercatore italiano ucciso al Cairo sarà ricordato dall’Assemblea generale di Amnesty International Italia domenica 25, in occasione dei 15 mesi dalla sua scomparsa nella capitale egiziana. Tra le proiezioni, di particolare rilevanza e attualità il film-documentario "Io sto con la sposa", diretto nel 2014 da Antonio Augugliaro, Khaled Soliman Al Nassiry e Gabriele Del Grande, dal 9 aprile detenuto in Turchia. Il 23 aprile verrà inaugurata un’opera inedita dell’artista cinese AI Weiwei, di cui parleremo nei prossimi giorni. Infine, lunedì 24 la città di Palermo si unirà ai partecipanti all’Assemblea generale di Amnesty International Italia in un flash mob in favore dell’accoglienza dei rifugiati che si svolgerà in piazza Massimo alle 19.30. Migranti. L’Austria minaccia di chiudere la frontiera con l’Italia di Carlo Lania Il Manifesto, 21 aprile 2017 Ma il capo della polizia Gabrielli minimizza: "È il solito refrain". Per ora il capo della polizia Franco Gabrielli preferisce gettare acqua sul fuoco. E così di fronte all’ennesima minaccia austriaca di chiudere la frontiera con l’Italia se non diminuiranno gli arrivi di migranti nel nostro paese, sceglie di minimizzare: "Con tutto il rispetto per l’Austria, che come paese sovrano fa quello che ritiene opportuno, è un refrain che sento spesso", dice. Per poi aggiungere: "Viviamo in un tempo in cui le autorità parlano di più alle opinioni pubbliche che agli addetti ai lavori". Tradotto: si tratta solo di annunci elettorali. Sebbene non siano da sottovalutare, le minacce di Vienna in effetti sembrano guardare più alle urne che alla realtà dei fatti. Benché previste per l’anno prossimo, l’ipotesi di elezioni politiche anticipate in autunno non è affatto esclusa e turba pesantemente il governo di coalizione guidato da Christian Kern. Soprattutto per i sondaggi, che danno i populisti della Fpo in testa insieme ai socialdemocratici. Soffiare sull’immigrazione torna dunque utile per provare ad arginare la scalata e la possibile vittoria dell’estrema destra, possibilità che già in occasione delle recenti elezioni presidenziali ha preoccupato non poco l’Europa. "Occorre mettere in sicurezza le frontiere esterne dell’Ue", avverte così il ministro degli Interni Wolfang Sobotka, per il quale "un salvataggio in mare aperto non può essere un biglietto per l’Europa, perché questo dà ai trafficanti organizzati tutti gli argomenti per convincere la gente a partire per ragioni economiche". Da qui la necessità per Vienna di "chiudere la rotta mediterranea così come è stata chiusa quella balcanica". Resta da vedere cosa questo significhi. Difficile infatti capire se Vienna pensi più ad attuare un accordo come quello siglato con la Turchia per bloccare i migranti (ipotesi tentata, finora con scarso successo, dal governo italiano con la Libia) oppure se, più realisticamente, gli austriaci pensano di fare con l’Italia quello che la Macedonia ha fatto a suo tempo con la Grecia, ovvero sigillare la frontiera impedendo così il passaggio dei migranti. Qualunque cosa sia, non tiene conto di come stanno realmente le cose. Ovvero che ormai la quasi totalità dei migranti che arrivano in Italia vengono identificati. "Non ci sono le condizioni per provvedimenti di questo tipo", conferma Gabrielli facendo riferimento all’ipotesi di una chiusura della frontiera. "Se poi qualcuno dice delle cose perché non ha altro da dire le prendiamo per come sono". Non è la prima volta che Vienna crea dei problemi sulla questione migranti. Solo un mese fa ha annunciato l’intenzione (rientrata in seguito) di uscire da programma europeo di ricollocamento dei richiedenti asilo e alla fine di marzo ha reso noto di aver ripreso i controlli sui treni che passano il valico del Brennero dove, sia detto per inciso, tutti i lavori preliminari per erigere una barriera lunga 370 metri e alta quattro sono già stati ultimati la scorsa primavera. Mentre sempre ieri Sobotka ha annunciato il dimezzamento del tetto fissato per le richieste di asilo accolte, che passano così da 35 mila a 17.500 l’anno. Intanto preoccupazione per l’aumento degli sbarchi in Italia viene espressa anche dalla Svizzera. "L’Italia ha già registrato una crescita del 60% degli arrivi" in confronto ai primi mesi dell’anno scorso, ha detto ieri il segretario di Stato alla migrazione Mario Gattiker, per il quale "non si vedono ancora gli effetti in Svizzera, ma non è da escludere che una parte di queste persone arriverà nel nostro Paese dal Ticino". Gattiker ha comunque ammesso che l’Italia identifica tutti i migranti e che "le domande d’asilo sono perfino in calo in confronto al primo trimestre 2016". Migranti: contro l’intolleranza prima tappa il 30 a Ventimiglia Il Manifesto, 21 aprile 2017 Dar da mangiare a chi ha fame è, da sempre, il gesto fondamentale della solidarietà. È ciò che fonda una comunità di uguali. Punire la solidarietà o impedirne l’esercizio, qualunque ne sia la ragione, mette in pericolo i principi e i valori minimi di umanità e di civiltà. Per questo ci preoccupa e ci indigna l’avvenuta incriminazione a Ventimiglia, nel marzo scorso, di alcuni volontari francesi, denunciati per il reato di cui all’articolo 650 del codice penale ("inosservanza dei provvedimenti dell’autorità") per avere distribuito cibo a migranti contravvenendo al divieto previsto nell’ordinanza 11 agosto 2016 del sindaco della città. E tanto più ci preoccupa e indigna il contesto in cui questa vicenda si colloca: un contesto in cui si moltiplicano ordinanze e divieti analoghi, che trovano la loro "legittimazione", da ultimo, nel decreto legge n. 14/2017 (il cosiddetto decreto Minniti) in cui, evocando la tutela di un non meglio precisato "decoro urbano", si attribuiscono ai sindaci enormi poteri sulla libertà delle persone più vulnerabili. E ciò mentre, sul confine, italo-francese crescono i processi contro chi sostiene e appoggia la libertà di circolazione dei migranti, processi che vedono in questi giorni imputati Francesca Peirotti a Nizza e Felix Croft a Imperia. Non è questa la strada indicata nella storia della parte migliore dell’umanità e nella Costituzione repubblicana il cui articolo 2, oltre a "riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell’uomo", richiede esplicitamente a tutti "l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà economica e sociale". Per affermare questi principi è necessaria una campagna per la solidarietà, contro l’esclusione e l’intolleranza. Cominciamo a Ventimiglia domenica 30 aprile, alle ore 12.00, alla Stazione ferroviaria. Sarà un’occasione di incontro di italiani e francesi. Un’occasione per opporci alla criminalizzazione della solidarietà, che colpisce proprio chi cerca di sopperire alle lacune delle istituzioni. Un’occasione per sollecitare la revoca dell’ordinanza sindacale dell’11 agosto 2016, per chiedere un’inversione della linea politica sottostante ai decreti legge degli ultimi mesi in tema di immigrazione e sicurezza, per contribuire a costruire una mobilitazione diffusa e una rete di sostegno all’accoglienza in tutte le sue manifestazioni. Adesioni: Livio Pepino (magistrato e saggista), René Dahon (Association Roya citoyenne), Marco Revelli (storico e politologo), Cédric Herrou (attivista),don Luigi Ciotti (Gruppo Abele e Libera),Domenico Chionetti (Comunità San Benedetto al Porto),Riccardo De Vito (Magistratura democratica), Monica Di Sisto (Campagna Stop Ttip), Anna Falcone (Comitato per la democrazia costituzionale), Carlo Freccero (autore televisivo e scrittore), Patrizio Gonnella (Cild e Antigone), Mariarosaria Guglielmi (Magistratura democratica), Roberto Lamacchia (Associazione Giuristi democratici), Gad Lerner (giornalista e scrittore), Luigi Manconi (sociologo, A buon diritto - Associazione per le libertà), Susanna Marietti (Antigone), Lidia Menapace (staffetta partigiana, femminista e saggista), Tomaso Montanari (storico dell’arte, Libertà e giustizia), don Fredo Olivero (Caritas Migranti), Moni Ovadia (attore teatrale, drammaturgo e compositore), Gianni Tognoni (Tribunale permanente dei popoli), Massimo Torelli (attivista), padre Alex Zanotelli (missionario comboniano) Per adesioni: solidarietavsintolleranza@gmail.com Tso, una legge per evitare altri casi Mastrogiovanni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 aprile 2017 La proposta di iniziativa popolare sarà presentata oggi alla Camera dai Radicali Italiani. Prevista l’assistenza legale obbligatoria per i malati e la massima trasparenza delle condizioni di cura all’interno dei reparti psichiatrici. Una legge "Mastrogiovanni" per i morti di trattamento sanitario obbligatorio. È la proposta di legge di iniziativa popolare che i radicali italiani presenteranno oggi, alle ore 11.30, presso la sala stampa della Camera dei Deputati. La legge prende il nome di Franco Mastrogiovanni, il "maestro più alto del mondo" di Castelnuovo Cilento sottoposto nel 2009 a trattamento sanitario obbligatorio nell’ospedale San Luca di Vallo della Lucania e morto dopo essere rimasto legato mani e piedi per quattro giorni nel suo letto. Di fronte allo "spaccato" dei reparti di psichiatria italiani che questa triste vicenda rivela, e di fronte al moltiplicarsi dei casi di "morte per Tso" di cui sempre più spesso si ha notizia, i Radicali italiani, attraverso il segretario Riccardo Magi e il tesoriere Michele Capano - che ha assistito avvocato la sorella di Mastrogiovanni - chiedono di riformare il Tso introducendo meccanismi di garanzia onde evitare altre tragedie. La proposta di legge prevede un’assistenza legale obbligatoria per i malati che si trovano in queste situazioni: chi è sottoposto a Tso deve avere immediatamente un avvocato, così come accade per l’assegnazione di un legale a un arrestato. Altro punto che tale proposta prende in considerazione è la disciplina del reparto in cui si svolge il trattamento sanitario obbligatorio: massima trasparenza delle condizioni di cura all’interno dei reparti psichiatrici. Attualmente, infatti, ai parenti delle persone che subiscono tale trattamento non viene consentito di fare visite. Così come accadde con i familiari di Mastrogiovanni, quando non fu permessa neppure una visita per sincerar- si delle condizioni del congiunto. "Il caso Mastrogiovanni è venuto alla ribalta perché le telecamere dell’ospedale di Vallo della Lucania hanno filmato minuto per minuto la lunghissima agonia di quest’uomo, legato al letto e abbandonato senza cibo né acqua. Questo ha permesso di portare all’attenzione pubblica un problema che però nel nostro Paese riguarda centinaia e centinaia di persone, lontano dai riflettori e nel silenzio. Storie che a volte si concludono tragicamente, come quelle che racconteremo venerdì", spiega Michele Capano. "Purtroppo non ci sono statistiche esaustive sull’esecuzione dei Tso, come ha denunciato nella sua relazione anche il Garante nazionale dei detenuti - continua Capano - una lacuna preoccupante, visto che anche psichiatri e giuristi tra i più avvertiti segnalano come spesso il ricorso al Tso sia disposto con superficialità e sottovalutando la privazione della libertà personale che con esso si determina". Conclude il Tesoriere dei Radicali Italiani: "Insomma, a quasi quarant’anni dalla legge Basaglia, dopo un doppio passaggio generazionale di psichiatri, bisogna ammettere che il trattamento sanitario obbligatorio, nella sua attuale realtà e modalità di esecuzione, perpetua una concezione "manicomiale" del trattamento psichiatrico e per questo come Radicali Italiani proponiamo di riformarlo con questa "legge Mastrogiovanni" che introduce meccanismi di garanzia irrinunciabili in uno Stato di Diritto". Alla conferenza stampa interverranno, tra gli altri, Michele Capano, tesoriere di Radicali Italiani e avvocato della famiglia Mastrogiovanni; il segretario di Radicali Italiani Riccardo Magi; lo psichiatra Piero Cipriano; Gioacchino Di Palma, avvocato Telefono Viola; Gilda Losito, ufficio del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale; l’avvocato Francesco Petrelli, segretario dell’Unione delle camere penali italiane e Grazia Serra, nipote di Franco Mastrogiovanni. Porteranno inoltre la propria testimonianza i familiari di Marcello Esposito e Gianfranco Malzone, entrambi deceduti nell’ambito della procedura di Tso. Stati Uniti. In Arkansas eseguita prima condanna a morte dal 2005 di Beatrice Montini Corriere della Sera, 21 aprile 2017 Ledell Lee, 51 anni, era stato condannato nel 1993. L’esecuzione dopo il via libera della Corte Suprema che mette fine alla battaglia legale da parte delle case farmaceutiche sull’uso di alcuni medicinali per le iniezioni letali. A dodici anni di distanza dall’ultima esecuzione, l’Arkansas ha eseguito la condanna a morte di un detenuto: Ledell Lee, 51 anni, che è stato dichiarato morto alle 23.56 di giovedì. Lee era stato condannato alla pena capitale nel 1993 per aver picchiato a morte Debra Reese, 26 anni. Lee fu arrestato un’ora dopo la morte della donna con l’accusa di aver speso 300 dollari che le aveva rubato. Si è sempre dichiarato innocente e i suoi avvocati speravano ancora di poter riaprire il processo. Un portavoce della prigione ha raccontato che Lee ha rifiutato il suo ultimo pasto e ha preferito invece di ricevere la comunione. Otto esecuzioni in 11 giorni - Il boia in Arkansas era fermo dal 2005, soprattutto per il difficile accesso ai tre farmaci utilizzati nelle iniezioni: il bromuro di rocuronio, il midazolam e il potassium chloride. Qualche giorno fa un giudice aveva stoppato le nuove esecuzioni programmate - otto in 11 giorni - dopo il ricorso di una casa farmaceutica che si oppone all’uso di uno dei suoi farmaci per le esecuzioni ("sono farmaci creati per far vivere meglio le persone non per uccidere", sostiene). La decisione della Corte Suprema - La Corte Suprema dell’Arkansas ha però dato il via libera all’esecuzione della condanna a morte di quattro detenuti entro il 30 aprile, e lo Stato ha subito iniziato le esecuzioni prima che la partita di farmaci acquistata scada. Iraq. Un piano per i carabinieri a Mosul dopo la fuga dei miliziani del Califfo di Paolo Mastrolilli La Stampa, 21 aprile 2017 Washington pensa ai nostri militari per garantire la sicurezza della città. Allarme per l’arrivo in Libia di jihadisti dell’Isis in fuga da Siria e Iraq. Il ruolo dei carabinieri in Iraq potrebbe aumentare. L’Italia ha chiesto la responsabilità del dossier Libia, e gli Usa sembrano disposti a sostenerla. Questo significa lavorare insieme per impedire che l’ex colonia diventi la destinazione dei terroristi dell’Isis, dopo la caduta di Mosul e Raqqa; evitare la frammentazione del Paese; e richiamare tutti gli alleati all’unità, affinché non ci siano tentativi di ingerenza nazionale che favoriscono solo la destabilizzazione. In cambio Roma, attraverso i carabinieri che stanno già facendo un lavoro di addestramento a Baghdad molto apprezzato dal consigliere per la sicurezza nazionale McMaster, potrebbero svolgere un ruolo fondamentale per l’integrazione delle forze che ora stanno combattendo il Califfato nel Nord dell’Iraq, una volta che queste operazioni si saranno concluse. L’amministrazione Trump finora non aveva preso una posizione chiara sulla Libia, e quindi Gentiloni temeva decisioni non in linea con i nostri interessi. L’Egitto preme per costituire una sua zona di influenza nella regione orientale del Paese, altri immaginano un esecutivo islamico a Ovest, la Francia punta a controllare le coste con un occhio sulle riserve petrolifere, la Russia appoggia Haftar e sta cercando di usare la nostra ex colonia come nuovo grimaldello per acquistare peso in Medio Oriente. Nessuna di queste ipotesi è accettabile per l’Italia, che considera la frammentazione una minaccia, anche per la sicurezza dell’Europa e la lotta al terrorismo. Il governo Sarraj è debole, ma non esistono alternative. Bisogna coinvolgere Haftar e le altre componenti del Paese, come abbiamo fatto facilitando l’accordo tra le tribù del Sud, ma senza spaccare il Paese. Gentiloni lo ha fatto presente a Trump, che ha riconosciuto la nostra competenza su questa materia. Con l’Egitto Washington ha già cominciato a esercitare qualche pressione, con la Russia la partita è globale, ma con la Francia e gli altri alleati Nato si può intervenire affinché ci sia unità dietro la leadership italiana. Il principale problema militare è che la Libia potrebbe diventare la destinazione dei terroristi dell’Isis in fuga, dopo l’attesa caduta di Mosul e la successiva offensiva su Raqqa. Su questo Roma vuole lavorare con Washington, tanto sul piano dell’intelligence, quanto sul terreno. La Nato dunque potrebbe aiutare, perché la presenza dei nostri mezzi in mare andrebbe oltre il lavoro già in corso per soccorrere i migranti. Dopo la sconfitta a Sirte, gli uomini dell’Isis si sono spostati nelle regioni desertiche del Sud. Ciò li espone agli attacchi dall’aria, ma per impedire che puntino a ricostituire il Califfato in quelle zone serve anche l’iniziativa politica di stabilizzazione, che coinvolga le tribù locali e includa tutte le forze affidabili nel progetto sostenuto dall’Italia. In questo quadro dovrebbe essere chiarita anche la responsabilità sulle risorse petrolifere, finora gestite in larga parte dal nostro Paese che non vuole rimetterle in discussione. Durante la cena di mercoledì sera nella residenza dell’ambasciatore Armando Varricchio, il consigliere per la sicurezza nazionale McMaster ha elogiato il contributo dell’Italia, sottolineando in particolare il lavoro che i carabinieri stanno facendo in Iraq per l’addestramento. Questo contributo si potrebbe allargare, in relazione all’offensiva in corso a Mosul. L’operazione è complessa, ma procede. Quando la città sarà caduta, oltre al problema dei terroristi dell’Isis in fuga, ci sarà quello delle molte forze locali irregolari mobilitate per combatterli. Il Paese non può permettersi che comincino a combattere fra di loro, e qui i carabinieri potrebbero dare un aiuto fondamentale per addestrare questi uomini e inquadrarli in strutture utili a stabilizzare il Paese. Interventi simili potrebbero essere necessari anche in Siria, ma questo è un problema che deve prima essere risolto sul piano politico tra Usa e Russia, per trovare un compromesso sul futuro del Paese che non potrà essere affidato ad Assad. Iran. Manconi a Grasso: "una missione per liberare il ricercatore in carcere" di Barbara Cottavoz La Stampa, 21 aprile 2017 Intanto il dossier sul caso di Ahmadreza Djalali è stato affidato alla ministra Valeria Fedeli che è a Teheran per il Forum sulla scienza. Il dossier su Ahmadreza Djalali è nelle mani della ministra Valeria Fedeli che da ieri si trova a Teheran per un forum Iran-Italia dedicato alla scienza. Il caso del medico del Crimedim di Novara, in prigione da quasi un anno, le è stato affidato da Luigi Manconi, presidente della commissione diritti umani del Senato che con la collega Elena Ferrara, parlamentare novarese, da mesi sta seguendo la vicenda del ricercatore dell’Università del Piemonte Orientale. Djalali è detenuto dal 25 aprile 2016 con l’accusa, non formalizzata, di collaborazione con paesi nemici. Le due lettere - Manconi ha scritto due lettere. Una missiva accompagna il dossier composto dai colleghi del Crimedim sull’attività di Djalali, iraniano di 45 anni e collaboratore del Centro novarese: si occupava di testare le capacità di risposta delle strutture sanitarie in caso di disastri e questo lo portava a contatto con studiosi di tutto il mondo. Manconi ha poi scritto anche al presidente del Senato Piero Grasso chiedendogli di autorizzare una missione in Iran, con la partecipazione della parlamentare Ferrara. "Un casco blu della conoscenza" - "Come ha sottolineato anche la senatrice e scienziata Elena Cattaneo, Djalali è un "casco blu della conoscenza" - ha commentato Ferrara -. Svolge attività ad altissimo livello e le sue frequentazioni internazionali derivano da queste ricerche. Noi chiediamo la sua liberazione o almeno una detenzione rispettosa delle sua condizioni di salute". Djalali non sta bene: ha avviato e interrotto a più riprese lo sciopero della fame e della sete, nelle scorse settimane ha avuto un collasso ed è stato portato in ospedale e poi di nuovo in cella. Pesa 56 chili. Gli esami hanno evidenziato calcio nelle urine e si teme possa soffrire di calcoli ai reni. Gravi condizioni di salute - Da qualche giorno non si trova più in isolamento e può telefonare alla famiglia ogni giorno. "È più sereno, sente la vicinanza di tanti e la battaglia che stiamo conducendo per la sua liberazione" commenta il professor Francesco Della Corte, direttore del Crimedim e del master in Medicina dei disastri con cui Djalali è venuto in contatto con l’Università del Piemonte Orientale e l’Italia. La sua famiglia ha incaricato un nuovo legale di seguire la sua vicenda ma, come il precedente, anche questo è stato rifiutato dal giudice Salavati. Djalali è in carcere da un anno senza mai aver avuto un processo nè una formalizzazione delle accuse mosse contro di lui. Russia. La Corte suprema mette al bando i Testimoni di Geova: "sono estremisti" di Rosalba Castelletti La Repubblica, 21 aprile 2017 I giudici ne hanno vietato l’attività in tutto il territorio russo, confiscando i beni dell’organizzazione. Jaroslav Sivulskij, 48 anni, che non ha mai tenuto un’arma in mano, da ieri è considerato "un estremista" alla stregua di un membro di Al Qaeda, dello Stato Islamico o di altri gruppi terroristici. Solo perché si professa Testimone di Geova. La Corte Suprema russa, accogliendo una richiesta del ministero della Giustizia, ha vietato tutte le attività del movimento religioso in Russia e ne ha confiscato tutti i beni. Non appena la sentenza entrerà in vigore, Jaroslav e altri 175mila fedeli russi rischieranno multe tra 300mila e 600mila rubli (circa 5mila-10mila euro) e il carcere da sei a 10 anni se si ritroveranno a pregare. "Siamo scioccati da quest’ingiustizia. Durante il processo il ministro della Giustizia non ha presentato alcuna prova d’estremismo. Abbiamo semmai ascoltato numerose testimonianze inconfutabili sulla nostra innocenza. Siamo tornati all’era sovietica quando noi Testimoni di Geova eravamo perseguitati", commenta da San Pietroburgo Sivulskij, portavoce della congregazione russa. "Mio padre trascorse sette anni in prigione, inclusi sei mesi in isolamento. Mia madre, appena diciottenne, venne condannata a 10 anni di carcere. Fu rilasciata dopo quattro grazie a un’amnistia alla morte di Stalin, ma dovette andare in esilio in Siberia insieme alla sua famiglia". Dopo le persecuzioni, i Testimoni di Geova erano tornati liberi di professare la loro fede al crollo dell’Urss nel 1991. "Sembrava che avessimo riconquistato la libertà, ma non è così. Andremo in prigione di nuovo. Non smetteremo di credere nel nostro Dio e di praticare la nostra religione. Non abbiamo smesso sotto il regime sovietico, non smetteremo nel ventunesimo secolo", commenta Jaroslav annunciando che la congregazione presenterà appello e, se necessario, ricorso presso la Corte europea per i diritti umani. "Non ci arrendiamo". Il bando totale dalla Federazione russa è solo l’ultimo colpo per il movimento religioso dopo dieci anni di battaglie legali, sequestri di Bibbie, raid durante le funzioni domenicali e gli incontri di preghiera casalinghi. La magistratura russa accusa i Testimoni di Geova, una denominazione religiosa fondata negli Stati Uniti nel 1870, di minare l’armonia della società e considera "sediziose" le loro pubblicazioni perché "dipingono le altre religioni in chiave negativa", invitano a non votare e a evitare il servizio militare. Le vessazioni sono iniziate nel 2007 quando il viceprocuratore generale lanciò controlli a tappeto sulle attività dei Testimoni di Geova. L’anno prima, tra le attività estremiste vietate per legge, era stato incluso "l’incitamento alla discordia religiosa". Da allora otto congregazioni locali e 95 pubblicazioni erano state dichiarate "estremiste" e perciò messe al bando. Talora, racconta Sivulskij, i volumi vietati venivano piazzati ad arte durante i raid nei luoghi di culto per avere il pretesto per chiuderli e incriminare i fedeli. Un anno fa, a preludio dell’ultima offensiva, al quartier generale dell’organizzazione a San Pietroburgo era stato intimato di cessare ogni attività, ordine che i Testimoni di Geova avevano provato a sfidare in tribunale venendo però respinti definitivamente lo scorso gennaio. Ora il bando totale che Rachel Denber, vicedirettrice di Human Rights Watch per l’Europa e l’Asia centrale, definisce "un terribile colpo per la libertà di religione e associazione in Russia". "I testimoni di Geova - ha commentato - sono messi di fronte a una scelta straziante: abbandonare il proprio credo o venire puniti perché lo professano".