Il carcere come vendetta di Stefano Anastasia* e Luca Zevi** L’Unità, 20 aprile 2017 Un convegno a Roma per rilanciare la battaglia politica e culturale contro il giustizialismo. Il convegno "Il mondo come prigione? Carcere, diritti, giustizia", che si è svolto ieri al museo d’arte contemporanea Maxxi di Roma, costituisce un punto di passaggio importante del lavoro politico e culturale di critica del giustizialismo dilagante. Il coinvolgimento diretto del Ministero della Cultura a fianco di quello della Giustizia da un lato e la promozione da parte di un centro propulsore delle arti contemporanee dall’altro, esprimono eloquentemente come i luoghi della detenzione possano davvero essere considerati una "cartina di tornasole" del livello di civiltà raggiunto dalla società cui appartengono. D’altronde "Please come back. Il mondo come prigione?", la mostra d’arte contemporanea voluta e curata da Hou Hanrou e Luigia Leonardelli, in corso al Maxxi fino al 28 maggio, denuncia chiaramente come l’universo detentivo, lungi dall’essere una sfera separata, sia una sorta di paradigma del mondo in cui viviamo. Il continuum disciplinare che Michel Foucault, sulla scorta del Panottico di Bentham, leggeva nelle pratiche istituzionali delle carceri e delle caserme, delle scuole e degli altri luoghi della educazione e della riabilitazione, raggiunge ormai i singoli ben oltre le mura delle tradizionali "istituzioni totali". Il vecchio paradigma del panottico, in cui un’autorità determinata esercitava il controllo sulla vita di persone sottoposte al suo potere per specifiche ragioni giudiziarie o sanitarie, educative o produttive, ha lasciato il posto alle nuove forme della sorveglianza, allo stesso tempo globali e minute, autoritarie e diffuse, che stanno ridefinendo la stessa idea di libertà nel mondo contemporaneo. Così, se da una parte la prigione può apparire come una metafora del mondo sorvegliato, dall’altro emerge la stessa obsolescenza della sua struttura materiale, come se fosse un esempio di archeologia punitiva. Ciò induce a riflettere sulla sua persistenza, sui limiti della sua legittimità e su ciò che è possibile fare - qui e ora - per renderne accettabile la sopravvivenza. A dispetto dei luoghi comuni, la privazione della libertà - anche quando legittimata da ragioni di giustizia - è un terribile potere da maneggiare con estrema cura e autocontrollo. L’intero sistema del diritto penale, infatti, si giustifica sulla sua differenza dall’arbitrio che vigerebbe in sua assenza e dalla pulsione vendicativa della comunità offesa dal reato. Per questa ragione, anche la privazione della libertà per motivi di giustizia non può dimenticare l’umanità dell’autore di reato e anzi deve garantirgli il rigoroso rispetto di tutti i diritti fondamentali compatibili con lo stato di detenzione, proprio per fargli apprezzare la differenza del diritto dalla violenza della vendetta. Per questa ragione, la Corte costituzionale ha individuato un limite alla privazione della libertà nel rispetto dell’autonomia della persona detenuta, senza la quale sarebbe ridotta a cosa e perderebbe la sua dignità. Compito difficile del legislatore, dell’amministrazione penitenziaria, della giurisdizione di sorveglianza è - a loro volta - quello di individuare, in via generale e caso per caso, quali limitazioni di autonomia dei detenuti siano conseguenze essenziali della privazione della libertà e quali invece siano espressione di un eccesso punitivo ingiustificato. Anche di questi aspetti della privazione della libertà per motivi di giustizia si è molto discusso negli Stati generali dell’esecuzione penale voluti dal ministro della Giustizia Andrea Orlando, approdati a un ampio ventaglio di proposte per limitare l’abuso del carcere e la privazione di diritti in stato di detenzione e per ampliare l’offerta di opportunità per il migliore reinserimento sociale dei condannati. E proprio dagli spazi della pena è partito il lavoro degli Stati generali. Cinquant’anni fa il nostro paese si trovava all’avanguardia nel campo dell’architettura carceraria. Non è difficile immaginare in quali condizioni si trovassero invece i reclusi nella Spagna franchista. Ebbene, la prima missione di studio del Tavolo 1 degli Stati Generali, dedicato per l’appunto a Gli spazi della pena: architettura e carcere, ha avuto come meta proprio la Spagna, che a partire dalla fine della dittatura ha avviato una politica di riforma del sistema penitenziario di grande efficacia. E noi? Come spesso ci capita, abbiamo dissipato un importante patrimonio di ricerche e di interventi esemplari sull’altare di una risposta al terrorismo in nome della quale gli spazi della pena sono diventati un problema di edilizia e non più di architettura, quasi che gli istituti, in nome dell’emergenza, dovessero regredire a "gabbie" per delinquenti incurabili. Come se sicurezza e qualità spaziale non potessero essere coniugate, come se la progettazione non avesse mai dovuto fare i conti con questioni di vigilanza, come se privazione della libertà e rispetto dei diritti fondamentali fossero necessariamente in conflitto tra loro. Il risultato di questo drammatico fraintendimento è sotto gli occhi di tutti: nella maggior parte degli istituti realizzati a partire dagli anni Ottanta - e purtroppo sono tanti - al carattere assolutamente burocratico della progettazione fa riscontro purtroppo un’inefficacia impressionante delle strutture, che ha contribuito a far impennare la recidiva dei nostri detenuti nientemeno che al 70%. D’altro canto questo percorso ha condotto nel 2013 alla condanna del nostro paese da parte della Corte Europea dei Diritti Umani proprio a causa delle condizioni in cui versano le nostre carceri. Una condanna che ha indotto il governo a una sterzata mirata alla riduzione del sovraffollamento, soprattutto mediante un ricorso assai più ampio alle misure alternative alla detenzione, destinando a queste ultime un numero di casi ormai quasi equivalente a quello di coloro che sono affidati alla reclusione. Dunque carcere come "extrema ratio" che, secondo i criteri definiti dal tavolo 1 degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale, dovrà perdere le connotazioni proprie alla tradizionale "istituzione totale" per divenire una simulazione quanto più letterale della vita "normale" alla quale si auspica di ricondurre, nei tempi più brevi possibili, le persone detenute. *Garante dei Diritti dei Detenuti del Lazio e dell’Umbria **Architetto consulente del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria In cella si parla pulito. Il compagno non più "dama di compagnia" di Marzia Paolucci Italia Oggi, 20 aprile 2017 Una Circolare del Dap cancella numerosi termini ritenuti ormai inadatti. C’era a volta la dama di compagnia, un nome a cavallo tra i romanzi delle monarchie di ieri e le corti reali delle favole ma, per chi non lo sapesse, il titolo portato da tante illustri favorite di regine del passato, è sopravvissuto finora, largamente utilizzato nelle carceri italiane da Polizia penitenziaria e personale in servizio per indicare, udite-udite, il compagno di cella. Se il linguaggio parla di noi, quello finora usato negli istituti di pena, per lo più mortificante e inespresso, spiega molto della povertà del nostro sistema penitenziario. Ebbene, il 30 marzo scorso, una circolare del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria l’ha cancellato. Così Santi Consolo, Capo del Dap, rivolgendosi a provveditori regionali, direttori delle carceri, direttori generali e direzione del personale, destinatari della lettera avente come oggetto le "ridenominazioni corrette di alcune figure professionali e altro in ambito penitenziario", ha detto basta a "scopini" e "stagnini" da primo novecento, "spesini", "dame di compagnie" di ottocentesca memoria, "domandine" e via dicendo. "Termini infantilizzanti ed espressioni utilizzate con accezione negative", le definisce il documento datato 30 marzo con cui il magistrato da due anni alla direzione del Dap, mette la parola fine a un linguaggio carcerario anacronistico e non dignitoso, concepito quasi a scherno dei suoi protagonisti. L’argomento era stato approfondito l’anno scorso dal Tavolo 2 degli Stati generali sull’esecuzione penale, coordinato dal magistrato di sorveglianza Marcello Bortolato. Un momento di rivisitazione generale di un ordinamento penitenziario vecchio di quarant’anni, come ricordato dal processual-penalista Glauco Giostra, nel suo intervento conclusivo da coordinatore del comitato scientifico degli Stati generali dell’Esecuzione penale. Suo il merito di voler abbattere quel muro di isolamento che divide istituti di pena e reclusi messi da parte da un sistema più preoccupato di farne dei buoni detenuti piuttosto che dei buoni cittadini. Il richiamo europeo. La circolare riporta: "In ogni comunità il linguaggio svolge un ruolo fondamentale, soprattutto per il carcere". Di qui il richiamo dell’Europa: "Anche le regole penitenziarie europee prevedono che la vita all’interno del carcere sia il più possibile simile a quella esterna, assimilazione che deve comprenderne anche il lessico. I termini sono stati definiti avulsi da quelli comunemente adottati dalla collettività e causa di una progressiva e deprecabile infantilizzazione e di un isolamento del detenuto dal mondo esterno che crea ulteriori difficoltà al possibile reinserimento oltre ad assumere in alcuni casi una connotazione negativa". Una situazione di cui si sarebbe accorto lo stesso Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti degradanti: "Prassi errate e terminologie persistenti, alcune anche istituzionalizzate, evidenziate nel corso di alcune visite presso gli istituti penitenziari", ricorda la circolare. La terminologia bocciata. Tredici in tutto le parole che cambiano. Nella circolare, il magistrato chiede di "procedere senza indugio alla modifica della parola "cella" con "camera di pernottamento", "dama di compagnia" con "compagno di socialità" e "domandina" con "modulo di richiesta"". Ed ecco che lo "scopino" diventa "addetto alle pulizie", il "piantone" "assistente alla persona", lo "spesino", "addetto alla spesa detenuti", il "portapane", "addetto alla distribuzione pasti", il "cuciniere", "addetto alla cucina", il "casario", "casaro", lo "stagnino", "idraulico", il "pascolante", "pastore" e il "lavorante", "lavoratore". Glauco Giostra: Circolare che ha un forte valore simbolico e traccia un tornante culturale di Marzia Paolucci Italia Oggi, 20 aprile 2017 Glauco Giostra, marchigiano, all’attivo 127 pubblicazioni: dal 2005 in cattedra da ordinario di Procedura penale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Roma "La Sapienza". La sua è una vita spesa al servizio della procedura penale tra incarichi accademici e istituzionali. L’anno scorso ha avuto il ruolo di coordinatore del comitato scientifico degli Stati generali dell’Esecuzione penale. Domanda. Che idea si è fatto di questa circolare e del linguaggio in uso finora nelle carceri italiane? Risposta. Si tratta di una circolare che ha un forte valore simbolico e traccia un tornante culturale, come auspicato dai lavori degli Stati generali dell’esecuzione penale. Potrebbe sembrare un’innovazione puramente nominalistica. In realtà le parole sono indicatori del tipo di relazione che si intende instaurare. Usare termini "adulti" significa restituire dignità alla persona ristretta e chiarire che non si intende più forgiare un detenuto modello, prono alle prescrizioni delle autorità, ma preparare un futuro buon cittadino. Se i detenuti debbono per le loro richieste rivolgere "una domandina", se a loro si assegna "una dama di compagnia" (per indicare la condivisione dello spazio detentivo con un altro detenuto) si determina, quando addirittura non si persegue, una infantilizzazione che è all’opposto della responsabilizzazione, indispensabile per un percorso di recupero sociale del soggetto. In ogni caso, il rispetto della dignità delle persone ristrette non è una graziosa concessione ma un dovere costituzionalmente imposto, come ha più volte chiarito anche la Consulta. Dire che alle parole devono seguire miglioramenti concreti della condizione carceraria è dire una sacrosanta ovvietà; non cogliere l’importanza di garantire il rispetto delle parole, significa non capire che le parole - come insegnava Primo Levi -sono pietre: pietre che possono seppellire o pietre su cui costruire una realtà non indegna di un uomo. D. Ritiene che ci sia una sorta di "stigma" nel linguaggio riguardante l’universo carcerario? R. È così. Le parole marchiano. Il lessico "penitenziario" corrente ancora oggi tende a contrassegnare un microcosmo sociale minore, guardato con arrogante denigrazione. Uno "sguardo sociale" che coinvolge anche le forze dell’ordine impiegate. Talvolta si continua a parlare di guardie carcerarie, di secondini, di gira-chiavi, quasi avessimo a che fare con una forza dell’ordine di serie B. Si tratta invece di uomini che devono affrontare gravosi sacrifici quotidiani in un contesto doloroso, mortificante e talvolta insidiosamente pericoloso. Devono essere garanti della sicurezza degli operatori e dei detenuti e devono, primi osservatori di prossimità, saper capire le personalità e le potenzialità dei soggetti a loro affidati, la loro è una delicata funzione all’ombra di fatiscenti strutture, mai rischiarata dai riflettori e dalle gratificazioni dei media. Non si tengono conferenze stampa per celebrare un anno di ordinata e costruttiva convivenza nel penitenziario o la riconsegna alla società di soggetti totalmente recuperati. Se le altre forze dell’ordine hanno l’arduo compito di assicurare delinquenti alla giustizia, loro hanno il non meno impegnativo compito, garantita la sicurezza di questi soggetti e da questi soggetti, di collaborare con gli altri operatori del trattamento per cercare di riconsegnarli migliori alla società". L’ingiusto processo di Piero Tony Il Foglio, 20 aprile 2017 Sempre più lunghi, pazzotici, in balìa dei pm. Ecco perché l’ultimo progetto di riforma del sistema penale evita di mettere mano alle vere storture del sistema Sarebbe da ridere se non ci fosse da piangere. O viceversa. Dal 10 al 14 aprile nel settore penale resta bloccata qualsiasi attività giudiziaria perché l’Unione camere penali ha deliberato l’astensione dalle udienze. Per la sacrosanta protesta contro un Disegno di legge in materia penale passato in Senato con il ricorso al voto di fiducia - cioè senza nessun adeguato dibattito parlamentare. E per denunciare che il Ddl - al riparo da qualsiasi discussione - ha quasi generalizzato il processo a distanza nei confronti degli imputati detenuti per reati che non siano bagatellari, con buona pace per presenza e assistenza difensiva concentrate e dirette nonché per il principio di immediatezza e centralità della dialettica dibattimentale. Il Ddl, per il resto, si limita ancora una volta ai soliti pannicelli caldi senza arrivare al "dunque", ossia senza affrontare i veri problemi: 1) la ragionevole durata del processo (art. 111 della Costituzione), senza la quale, tra l’altro, la sospensione dei termini di prescrizione dopo le sentenze di primo e secondo grado - pur condivisibile -appare a molti addetti un ampliamento dei cimiteri anziché un premuroso incremento degli ospedali; 2) l’irrinunciabile centralità del dibattimento e non più delle indagini - indagini non solo preliminari ma sovente di polizia e basta, per via di quel cinico "principio di non dispersione dei mezzi di prova" che nel diritto vivente fa realisticamente conto dell’impossibilità di acquisire le prove dopo anni dal fatto - per un processo che si declama accusatorio ma che per ora è e mostra di restare più pericolosamente inquisitorio di prima; 3) l’obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 della Costituzione), ormai troppo spesso menzionata solo come inverecondo alibi o per scherzare; 4) l’impugnabilità di sentenze assolutorie da parte del pm per far dichiarare l’interdizione di coloro che sono stati assolti, un pm che tra l’incontentabile e l’irragionevole non raramente insiste per una condanna al di là di ogni ragionevole dubbio (art. 533 codice di procedura penale). Ma soprattutto il Ddl non fa un cenno all’unicità indifferenziata delle carriere giudicanti e requirenti, madre di tutte le disfunzioni giudiziarie, dei processi eterni e inconcludenti, delle guerre ai fenomeni sociopolitici più che ai singoli delinquenti, degli squilibri tra verificazione e falsificazione e tra accusa e difesa, dei non rari massacri giudiziari conclusi con un flop. Quell’unicità che da noi spesso consente di vedere - unico paese al mondo tra quelli che hanno adottato il processo accusatorio - arbitro e arbitrato operare allegramente a braccetto (con i tanti ausiliari di contorno) quali tutori esclusivi di tutto ciò che è bene e giusto, alla faccia delle altre parti. Appiattiti l’uno sull’altro come pesci in barile (chi sopra, chi sotto?) in quanto avvinti da un leale rapporto di sana colleganza, da cartelle Word condivise, da solidarietà di appartenenza a uno stesso sistema, con modalità di ingresso e di carriera e di autogoverno assolutamente identiche. Sono preoccupazioni che attengono non solo alle garanzie ma anche alla qualità del prodotto giudiziario, che troppo di frequente si rivela - e non penso solo a Consip, Mafia Capitale, Trattativa, concorsi esterni i più vari - in un primo tempo opinabile e divisivo e alla fine dei conti velleitario e basta. Ormai è diventata opinione affatto comune: solo chi per le ragioni più varie vuol fare lo gnorri può restare impassibile in presenza della sperimentata insufficienza di una professionalità indifferenziata di pandettisti universitari laddove sarebbero necessari, come in tutti i campi, approcci rigorosamente specialistici. Visto che il mondo è sempre più globalizzato e complesso, quantomeno in relazione sia ad attività terroristiche folli e terribili e diffuse oltre qualsiasi confine, sia a criminalità organizzata e delinquenza informatico-finanziaria sempre sovranazionali, aggiornate, affinate e per questo continuamente mutanti. Ecco perché oggi non può che fare infinita tenerezza il magistrato che nel corso della vita saltabecca disinvoltamente tra ruoli requirenti e giudicanti, laddove nel gioco delle parti occorrerebbero - da decenni se ne sono accorti in tutto il resto del pianeta, dove motivatamente si critica il nostro sistema - da una parte un pm tendenzialmente sprovincializzato, indipendente segugio di carriera, collegato con le reti internazionali e sempre aggiornato sia tecnologicamente sia criminologi-camente e, dall’altra, un giudice "terzo" di/per carriera, professionalmente sereno ed equidistante sul suo alto scranno, culturalmente non suggestionabile e al di sopra delle parti in causa. Il Ddl su tutto ciò tace, come tacciono stampa politica e istituzioni. Ma per tutte queste ragioni l’Unione camere penali, comprensibilmente esasperata da tale persistente silenzio, si è vista costretta ad attivarsi per una proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare - pare che verrà depositata il 6 maggio prossimo - che, in linea con quanto disposto dall’art. 111 della Carta sul giusto processo, sancisca ulteriormente l’imparziale terzietà del giudicante attraverso una netta separazione delle carriere, con distinti Csm a tutela dell’indipendenza di entrambe e distinti concorsi di accesso. A proposito di indagini e di media. È noto che le parole, quando vengono ripetute e stra-ripetute, con il passar del tempo s’annacquano e si divarica nella nebbia il rapporto significante-significato. Oggi sono tutti d’accordo sull’imperante centralità delle indagini preliminari e forse anche sulla loro perniciosità. Tutti d’accordo che il processo mediatico sostituisce spesso quello ordinario. Ma cosa vuol dire esattamente tutto ciò e quali ne sono le conseguenze? Rispondo a me stesso. Il processo mediatico irresponsabilmente divampa - e dopo poco si spegne, come fuoco di paglia ma dopo aver bruciato per sempre gli interessati -da una falla del segreto investigativo e, dunque, siccome è costola dell’ipotesi accusatoria, senza che sia possibile alcun controllo di fatto viene a sostituire la presunzione di non colpevolezza dell’art. 27 della Costituzione, con un’antitetica presunzione di colpevolezza. Poi sappiamo tutti come può andare a finire: il titolone mattutino e la forza delle immagini dei talk show. Seguono poi indagini freneticamente mediatizzate e pressione pubblica perché si individui e si mandi al rogo un colpevole. Si consolida man mano un’opinione pubblica tendenzialmente colpevolista, opinione pubblica che per il suo solo esistere può pesare, suggestionare, fare pressione e così ostacolare una piena imparzialità di chi dovrà giudicare. Il francobollino in ultima pagina dopo anni darà notizia dell’assoluzione eventualmente sopravvenuta. E cosa vuol dire esattamente centralità delle indagini preliminari? ("Preliminari di polizia" sono solito aggiungere, visto che la gran parte delle indagini viene svolto dalla polizia giudiziaria su sua iniziativa -artt. 347, 348 cpp, o su delega art. 370 cpp - tanto che non raramente l’indagato si trova in carcere o a giudizio senza che il pm lo abbia mai visto o ci abbia mai parlato). Vuol dire che le prove - che dovrebbero essere formate in dibattimento, a ragionevole distanza di tempo dal fatto, sotto il controllo dialettico delle parti - vengono in realtà formate dagli investigatori alle spalle dei soggetti interessati. Ohibò, ma non si era sempre detto che il vigente codice accusatorio diffidando delle indagini le aveva relegate al primo e più basso scalino del procedimento, brevi e contenute al minimo necessario per decidere se archiviare oppure fare il processo! Sì, è vero. Però sostengono che il procedimento sia troppo lento per poter pensare seriamente di formare e acquisire le prove in dibattimento, ossia alla presenza dei difensori, perché i tanti anni trascorsi dalla consumazione del reato non possono non aver usurato ogni ricordo. E raccomandano di star comunque sereni visto che, per via di codesta usura, si può infilare nel fascicolo del dibattimento del giudice tutto quello che il pm ha nel suo fascicolo di indagini; proprio tutto, perché il diritto vivente per fortuna - dicono - ha individuato il principio di non dispersione dei mezzi di prova, "il principio del norcino", lo chiama qualcuno, perché non si butta via nulla. A questo punto si impone un’altra riflessione su cosa siano e in cosa consistano queste benedette indagini di cui il codice accusatorio diffidava/diffida e che, ciononostante, sono divenute inaspettatamente centrali, proprio il cuore pulsante del procedimento. Non dovrebbero sussistere dubbi sulla risposta: al di là dei casi di flagranza e di prove oculari o documentali, per ricostruire l’evento all’investigatore non resta che indagare a 360°, e scegliere la direziona giusta. E poi risalire lungo i rami degli accadimenti tentando sempre di indovinare la diramazione giusta, perché se si imbocca quella sbagliata è finite. La fase delle indagini, insomma, è costituita da una sequenza di micro-decisioni, di valutazioni su attendibilità, credibilità, ragionevolezza e significatività di qualsiasi elemento indiziario al fine di imbroccare il verso giusto. Sequenza che in progressione costituisce un percorso investigativo fitto di tessere come un mosaico. Fase delicatissima che apre e segna - quasi sempre definitivamente - la strada del procedimento e spesso anche al di fuori di qualsiasi controllo difensivo - da ciò la diffidenza del legislatore e la gravità della vigente centralità. Perché ciascuna di codeste scelte e decisioni non è raziocinio e basta. Scientificamente assodato, ciascuna di codeste scelte/decisioni è come un grumo, o meglio un guscio - a dire il vero le neuroscienze (ne parla diffusamente un recente e informatissimo libro, "Il giudice emotivo" di Antonio Forza, Giulia Menegon, Rino Rumiati) non hanno fatto altro che sperimentare e confermare oggi quello avevano intuito e andavano dicendo nei secoli scorsi Mario Pagano, Altavilla, Carnelutti, De Marsico, Antolisei, Leone, Pannain e tanti altri - contenente in compenetrato connubio sia il nocciolo dell’istinto, quale corredo di sopravvivenza implacabilmente selezionato dall’evoluzione contro chi reagiva solo dopo aver riflettuto, sia il nocciolo della razionalità. Di solito l’istinto opera in prima battuta. Il primo è denso di impressioni, stereotipi, pregiudizi, antipatie e simpatie (anche politiche, perché no?), innamoramenti di ipotesi. Il secondo è legato alla capacità professionale - al riguardo formazione e informazione necessiterebbero ma sovente latitano - di verifica critica delle intuizioni e dei pregiudizi vissuti. Il controllo di codesti intimi rapporti, delle reciproche influenze e delle conseguenti dinamiche sarebbe ben consentito nell’ambito di quella rituale dialettica dibattimentale che nei fatti non c’è, è fisiologico quanto alle decisioni interlocutorie e conclusive dei giudicanti, è impedito durante le indagini - segrete ed il più delle volte non garantite dalla presenza difensiva - proprio perché nel loro ambito, secondo codice, non dovrebbero essere formate o acquisite prove di alcun genere. E così spesso i giudicanti debbono accontentarsi della pappa scodellata. In conclusione il procedimento penale poggia oggi, spesso e pericolosamente, su indagini preliminari di polizia non controllate né controllabili nel loro nascere e nel loro progredire. Provare per credere. Un giudicante ammise dopo anni che le vicissitudini giudiziarie di Enzo Tortora erano state determinate anche dal suo odioso e irrispettoso comportamento processuale. Quasi nessuna delle vittime di clamorosi errori giudiziari ha sembianze angeliche, quasi tutti musi grifagni oppure occhi inquietanti di ghiaccio, oppure testardamente non smettono di protestarsi innocenti. Pacciani era un pregiudicato vistosamente sporco brutto e cattivo e venne assolto dai fatti del "mostro di Firenze" poco prima che morisse. Il presidente Corrado Carnevale era presuntuoso e polemico da non credere, venne messo alla berlina perché - anche lui irrispettoso e poco angelico - aveva osato non seguire il mainstream del momento. Se è centrale la fase delle indagini, allora non lo è la fase dibattimentale, e ciò calpesta il nostro codice accusatorio. Quel "al di là di ogni ragionevole dubbio" dovrebbe annichilire qualsiasi dubbio non ragionevole, cioè istintivo. Innalzare pene che non avranno mai esecuzione equivale - come celiava un mio vecchio procuratore - a pratica onanistica: se esistono queste disfunzioni ci sarà una ragione da individuare ed eliminare. Amo abbandonarmi all’ottimismo della ragione. Credo che occorrerebbe protestare a voce sempre più alta a tutela della dignità di tutti, denunciando e proponendo riforme risolutive in luogo dei soliti pannicelli. Riproponendo innanzitutto la separazione delle carriere, e poi un esercizio dell’azione penale non più obbligatorio, ma mirato diacronicamente solo sui fatti di maggiore pericolosità, concretamente perseguibili in quel dato momento secondo periodiche indicazioni parlamentari. È di solare evidenza che nel nostro paese l’esercizio indiscriminato dell’azione penale ingolfa e paralizza le aule: l’art. 112 della Costituzione obbliga alle indagini per qualsiasi bagatella denunciata, e la massa dei conseguenti processi risulta incompatibile con gli accidentati e annosi percorsi in cui da sempre si snoda la sonnacchiosa lentezza dei bradi-procedimenti italiani. Esiziale paludosa lentezza - sia chiaro - determinata non certo da infingardaggine degli addetti ma da sottodimensionamento delle risorse strumentali e umane soprattutto amministrative; da quella comunanza di carriera - ammetto, ne parlo fino alla noia ma spero ne valga la pena - che impedisce o limita un’efficiente specializzazione sia dei giudicanti che dei pm requirenti. E poi un carico di lavoro divenuto pressoché ingovernabile per l’abnorme litigiosità degli utenti, per le farraginose regole processuali, per il suo continuo accumularsi nel tempo; infine da un costume giudiziario non raramente sensibilizzato più agli onori della carica che agli oneri legati alla produzione di un servizio, essenziale e delicatissimo. E poi, quale altra proposta? I fascicoli penali vanno digitalizzati, perché solo così potrà avere ingresso il necessario controllo di gestione, l’accountibility di qualsiasi impresa o amministrazione che intenda ottimizzare il lavoro; con uno scadenzario digitale che, allertando sia il magistrato responsabile sia il superiore ufficio giudiziario deputato alla vigilanza, impedisca ed eviti di complicare qualsiasi stagnazione dei fascicoli -e delle sorti umane - nella polvere degli armadi. È ragionevole sperare che di tutto ciò si avveri almeno qualcosa? Che l’Italia provveda a una riforma strutturale dopo essersi adontata per sentirsi continuamente considerato dalla giurisprudenza Cedu, per via della lentezza del sistema giustizia, "incapace sia di prevenire future violazioni sia di porre fine a quelle in corso"? La lentezza della giustizia è sempre perniciosa perché una risposta dopo anni rappresenta solo negazione di giustizia. Quando poi diventa tradizione educa a pazienza e sopportazione e questo è un altro male, perché così nessuno vibra di sdegno o si scandalizza più di tanto. E nulla cambia. Nessuno alza la voce se l’udienza viene rinviata di anni nonostante le parti siano ottuagenarie (non è ipotesi, accade). Né batte i pugni sul tavolo se nutrite squadre, giudiziarie e di polizia, si impegnano all’infinito nello scrivere la storia di un’ipotizzata trattativa anziché tentare di capire dove/come spariscono nel nulla, ogni giorno - sottolineo, ogni giorno - e in barba alla Convenzione di New York 1989 resa esecutiva in Italia con legge n. 176 del 1991, una trentina di minori stranieri non accompagnati. Né protesta più di tanto se quello sconsiderato giudice nomina per te un amministratore di sostegno o un tutore provvisorio di cui pensi di non aver bisogno perché sei vispo come un grillo e lo fa in via provvisoria e con efficacia immediata - come non bastasse lo fa senza nominare un curatore speciale che ti rappresenti autonomamente nel procedimento, attaccandosi al pretesto che c’è il pm che seppure genericamente vigilerebbe dall’alto - il che vuol dire limitando la tua capacità di agire, con il fatto compiuto di un provvedimento non impugnabile in quanto formalmente provvisorio (non è ipotesi, accade). Né se ti sequestrano l’azienda per i sospetti evidenziati solo in un’annotazione di polizia. Né se vieni assolto dopo una spada di Damocle durata oltre vent’anni. Né se ti accorgi e pensi che, se le cose non cambiano, in barba allo strombazzato processo accusatorio, continuerà a esistere solo un disperato e pericoloso affaccendarsi giudiziario in nome di emergenza e sicurezza, con misure di prevenzione spesso applicate sulla sola base di meri sospetti, con misure di sicurezza anticipate secondo la previsione dell’art. 206 del Codice penale, con misure cautelari eccessive e applicazioni provvisorie e provvedimenti d’urgenza con efficacia immediata, con ectoplasmi di imputazioni di concorso esterno in concorso interno, e chi più ne ha più ne metta. Tutto in via provvisoria, quasi niente in via definitiva. Resta l’interrogativo, assolutamente retorico, di quanto sia giusto che la fragile precarietà della condizione umana, già compromessa da ragioni naturali, debba sopportare un suo aggravamento per ragioni artificiali quale una giustizia approssimativa sgangherata ansiogena e qualche volta perfino autoreferenziale che - sicuramente al di là delle intenzioni - può crocifiggerti secondo l’uzzolo del mattino. Dà qualche speranza di cambiamento il fatto che codesta precarietà giudiziaria sia stata ormai sperimentata, sulla propria pelle, un po’ da tutte le aree politiche. Ma soprattutto il fatto che, assieme a tanti altri, la Fondazione Einaudi, l’Unione camere penali e l’associazione "Fino a prova contraria" di Annalisa Chirico si stiano autorevolmente battendo affinché il processo diventi giusto, anzi smetta di essere ingiusto. Se cala la fiducia nella magistratura di Giovanni Verde Il Mattino, 20 aprile 2017 Il recente sondaggio di Swg sulla magistratura impone alcune riflessioni. I magistrati e la politica: il 68 % degli intervistati è convinta che "certi settori della magistratura italiana perseguono obiettivi politici". La risposta sconta gli effetti di una domanda riguardante il rapporto tra magistratura e politica che merita di essere precisata. È oramai tramontato il periodo vissuto negli anni Settanta, allorquando molti teorizzarono un uso politico della giustizia (e una corrente della Magistratura condivise l’idea). Finita, sul finire degli anni Ottanta, anche la "conventio ad excludendum" nei confronti del partito comunista (soprattutto dopo la caduta di Berlino), la Dc (a partire dagli anni Ottanta con il Psi) ha cessato, per così dire, di essere il bersaglio di quella parte della magistratura che vedeva nel patto (a sua opinione, scellerato) tra Dc e Psi la radice dei mali italiani. All’epoca era giusto pensare che la magistratura o una sua parte perseguisse obiettivi politici (e molti di noi hanno il ricordo di eminenti personalità del partito comunista che avevano la mappa delle Procure e lavoravano di concerto con alcuni esponenti della magistratura per favorire alcune nomine). Oggi il clima è mutato. La liquefazione dei partiti tradizionali, la difficoltà di collegare i movimenti che si agitano nel Paese a precise ideologie, una qualche alternanza nel governo non solo dello Stato, ma anche delle Regioni e degli enti locali impediscono di individuare un preciso obiettivo politico. Il problema, attualmente, si è spostato: di sicuro il singolo magistrato è portatore di una sua ideologia che lo guida nelle sue scelte (che, per ciò che riguarda il p.m., si evidenziano soprattutto nell’esercizio del potere di indagine, che è e non può non essere discrezionale), ma la sua azione non è politica, ma di controllo del potere e di chi lo gestisce al fine di stabilire che l’esercizio sia corretto. E questa azione è del tutto naturale e doverosa. Oggi la questione è quella dei limiti. Ossia dobbiamo chiederci fino a quale punto si può spingere il controllo della magistratura ed il disorientamento della pubblica opinione è da ricollegare ad una invasiva attività di indagine delle Procure collegata a fattispecie di reato dai confini troppo mobili e liquidi che si prestano ad interpretazione dove troppo spesso il disvalore etico prevale su quello strettamente giuridico (fenomeno che attualmente si estende anche al campo della responsabilità civile e amministrativa-contabile). I magistrati e la politica. Il 72% degli intervistati ritiene che i magistrati non dovrebbero fare politica e il 62 % che, comunque, sarebbe meglio se a fine mandato non indossassero nuovamente la toga. Qui si annida un equivoco. Il magistrato è un uomo e, in quanto tale, non può non avere una sua ideologia politica. Ciò che i cittadini respingono è il legame che può determinarsi tra il magistrato che svolge attività politica o che intende svolgere attività politica e il partito o il movimento politico di riferimento, in quanto lo stesso si traduce in un inevitabile condizionamento. In sostanza, il cittadino teme che il magistrato legato alla politica, nell’esercizio della sua doverosa attività di controllo del potere, sia influenzato da scelte partitiche nella prospettiva di carriera politica o di altre utilità. Poiché la Costituzione garantisce anche al magistrato il diritto di elettorato passivo, il problema è quello di stabilire limiti ragionevoli alla sua possibilità di candidarsi e limiti altrettanto ragionevoli al suo reinserimento nei ruoli della magistratura allorquando cessi il suo mandato. Ma la vera soluzione sarebbe quella per la quale i partiti o i movimenti si dessero, per statuto, la regola di non candidare magistrati in qualsiasi competizione elettorale. In questo modo si eviterebbe il sospetto diffuso che molti magistrati (guarda caso, quasi sempre pubblici ministeri) ispirino la loro azione a fini (non politici, ma) di carriera politica. I magistrati, la corruzione e la diffusione di notizie. Gli italiani, qui, vogliono tutto e il suo contrario. La pubblicazione delle indagini per il 50% degli intervistati andrebbe vietata, ma per il 70% gli ascolti vanno usati anche a costo di sacrificare la privacy. Ma gli italiani ben sanno che l’Italia è il paese di Pulcinella, per cui è assai difficile tenere riservata una notizia, una volta acquisita. Di conseguenza, sono disposti a scontare il rischio che la privacy sia violata (anche perché l’intervistato, quando risponde alla domanda, pensa alla privacy degli altri). È probabile che questo atteggiamento sia influenzato dall’idea che il nostro malanno maggiore sia la dilagante corruzione, così che c’è un plebiscito (l’81%) che chiede un (ulteriore) inasprimento delle pene. Qui il discorso si fa lungo. Gli italiani sono assordati dalla miriade di novelli "Saint Just" che della denuncia hanno fatto una (lucrosa) professione e finiscono con il condividere posizioni del tutto giustizialiste (quando la questione riguarda gli altri). Essi vogliono curare una malattia, che non li coinvolge. Al contrario, si tratta di una malattia che andrebbe prevenuta per quanto è possibile. A tal fine, dovremmo cominciare a farci un esame di coscienza collettivo per capire quali sono le ragioni per le quali il nostro Paese sia terreno di cultura della corruzione (anche se sono convinto che non siamo tanto peggiori degli altri). E, a mio modo di vedere, un Paese che ha distrutto il merito, in ogni campo (nella scuola, nel lavoro, nelle professioni, nell’impresa e, persino, nella politica) non può aspirare, per definizione, a comportamenti collettivi di esemplare correttezza. Il voto finale. I magistrati pagano il prezzo dell’attuale evoluzione con una caduta di credibilità. Soltanto il 44% degli intervistati nutre fiducia nella magistratura. È il dato più preoccupante, perché una sana democrazia ha bisogno di una magistratura credibile. Le statistiche, con la fredda logica dei numeri, ci forniscono un insegnamento. C’è qualcosa nel nostro sistema di giustizia che non va, ma una riforma della giustizia presuppone che gli italiani smettano, una buona volta, di pensare che i nostri problemi possano essere risolti dai giudici e, prima ancora, che smettano di atteggiarsi, essi, a implacabili giudici degli altri. La "questione morale" si è trasformata soltanto in questione penale di Giuseppe Gargani* Il Dubbio, 20 aprile 2017 Il contrasto tra la politica e la magistratura si è inasprito nell’ultimo periodo e ha avvelenato i rapporti tra l’Associazione nazionale magistrati e vari esponenti politici. Le prese di posizione ricorrenti del presidente Piercamillo Davigo hanno dimostrato che per i magistrati (o per gran parte di essi, visto che nessuno si è dissociato) è radicato il concetto di una presunzione di colpevolezza per tutti gli indagati e gli imputati, essendo l’indipendenza della magistratura condizione di infallibilità!! Tante iniziative giudiziarie non convincenti, si sono avute nell’ultimo periodo, puntuali, a scadenze preordinate, con provvedimenti cautelari cumulativi come per ultimo quelli di Napoli, tanto numerosi da non essere credibili: (risulterebbero collegati blocchi sociali diversi e difficilmente comunicabili tra loro per poter individuare una associazione). Tutto questo ci ha riportato al clima e alle polemiche degli anni 90 quando le iniziative giudiziarie contribuirono in misura notevole ad affossare la politica e a compromettere il ruolo delle istituzioni. Si sono verificate, di conseguenza, reazioni molteplici e prese di posizioni di esponenti della sinistra che hanno scoperto con molto ritardo che "il potere in Italia è solo dei magistrati", che "la politica rischia di perdere il suo primato" come ha detto il senatore Pietro Ichino, e un esponente di primo piano degli anni 80/ 90 come Luciano Violante che ha potuto dire che in Italia "sta nascendo una società giudiziaria che conduce ad una concezione autoritaria". La soddisfazione di ascoltare queste parole soprattutto da Violante è grande; ed essendo trascorso ormai un lungo periodo dagli anni 80/ 90 credo che sia arrivato il momento di dare un giudizio in qualche modo storico ed evidenziare le responsabilità. In verità Violante ha già espresso il suo pensiero di totale revisione delle sue teorie e delle sue iniziative precedenti, scrivendo un libro di grande interesse con un titolo significativo: Magistrati, i giudici devono essere leoni, ma leoni sotto il trono e ora è giustamente preoccupato di quello che può derivare dal contrasto tra i poteri dello Stato. Io dico che in Italia non "sta nascendo una società giudiziaria" ma è nata da tempo e il codice penale è diventato effettivamente la Magna Carta, perché ha sostituito il codice etico e deontologico che dovrebbe essere la misura di tutte le cose, la misura dei comportamenti e della credibilità di ogni individuo inserito nella società. La povertà della politica priva di autorevolezza e di credibilità ha consentito che la questione morale sia diventata solo questione penale: non valgono i comportamenti e i codici deontologici, ma vale solo la devianza criminale che deriva non solo dai reati commessi ma anche dalle omissioni incolpevoli e dai peccati. Tutto arriva in capo ai magistrati ed è il giudice è diventato riferimento etico che deve garantire la legalità, e stabilire che cosa è il bene e che cos è il male, fuori dalle fattispecie giuridiche. Funzione questa molto pericolosa e anomala del giudice e ancora più del pubblico ministero che invece sono chiamati a reprimere l’illegalità, compito ben diverso e fissato dalla Costituzione e dalle leggi. Questa mia analisi obiettiva e realistica impone di ricercare le ragioni e i perché. Una dialettica tra politica e magistratura vi è sempre stata e non solo in Italia, ma qui ha caratteristiche peculiari e specifiche. La domanda è perché ci troviamo nella situazione denunziata da Violante, da De Giovanni e da Ichino e da tanti altri? Le cause sono complesse e sono state esaminate negli anni 90 non da molti in verità; ma ora è opportuno ribadirle e spiegare per quale ragioni storiche e contingenti il pubblico ministero più che il giudice, con il consenso di tanti e con l’omissione di tutti aveva fatto diventare politica la sua azione di indagine. Per rispondere a questa domanda ho riportato tante volte una frase esplicativa del magistrato Gherardo Colombo del 1984, che ora voglio trascrivere per intero perché assolutamente illuminante sul ruolo diverso che il magistrato andava assumendo quegli anni e che è causa principale della situazione attuale. Colombo ha scritto nella rivista di magistratura democratica: "dalla proclamazione della Repubblica ad oggi, si è assistito ad un fenomeno forse unico nelle democrazie occidentali. Le due maggiori forze politiche, che rappresentano nel loro complesso circa i due terzi dell’elettorato, si sono trovate, una sempre presente nelle compagini governative succedutesi nel tempo, l’altra sempre esclusa". "Questi fattori generano ciascuno delle conseguenze specifiche, rappresentate da un progressivo svuotamento delle istituzioni; dalla impossibilità di un controllo politico che passi all’interno dell’esecutivo, attraverso il riesame critico della precedente diversa amministrazione". "Decrescendo la trasparenza nell’esercizio delle funzioni pubbliche, dovendosi ricorrere ad accordi che possono avere come obiettivo la sopravvivenza di certi apparati piuttosto che la loro corretta funzionalità, venendo escluso un controllo di merito approfondito sulle decisioni dell’esecutivo, risulta che una incisiva attività di opposizione politica alle linee di intervento governativo sia sempre meno attuale". "In sostanza, cioè, nel attuale fase storica", continua Colombo, "la funzione di opposizione è svolta a livello politico del tutto marginalmente e superficialmente, nel di controllo dell’attività di governo". "La mancanza di una profonda, incisiva e penetrante opposizione politica da parte degli apparati, cui lo svolgimento di questa funzione spetta istituzionalmente e costituzionalmente, ha indotto come conseguenza un fenomeno che riguarda direttamente la magistratura. Il controllo giurisdizionale, tradizionalmente istituzionalmente diretto alla composizione dei conflitti e all’accertamento di comportamenti devianti di singoli, si è via via trasformato per una molteplice serie di motivi, che hanno complessivamente portato al risultato di modificarne la natura". "Il primo luogo, probabilmente è proprio per evitare un confronto politico diretto e quindi un dibattito da cui uscissero nette linee di demarcazione tra governo e opposizione, è stata devoluta alla magistratura una serie di compiti che non sono suoi propri e che investono più la funzione politica che non quello giurisdizionale". "È successo, inoltre, che gli spazi lasciati liberi dalla mancanza della opposizione politica siano stati essi pure, ed essi pure necessariamente, occupati dall’intervento giudiziario". "In una diversa democrazia", conclude Colombo, "di tipo occidentale una situazione del genere avrebbe scatenato una reazione da parte dell’opposizione politica; in Italia invece, succede che spesso l’unica attività di controllo sia rappresentata dal controllo giudiziario, che si trasforma in controllo politico nella misura in cui ha come conseguenza di incidere sulla vita politica dello Stato". "Ma prima ancora dell’intervento a livello gestionale di fenomeni di questo genere, il controllo della magistratura interviene nell’evidenziarli, in via quasi esclusiva". Questo il proclama di magistratura democratica del 1984, con l’esperienza di tutto quello che è accaduto negli anni successivi, deve essere capito fino in fondo. Si tratta di una analisi puntuale, profonda che è alla base scientifica del ruolo antisistema esercitato dalla magistratura negli anni 90. Vi sono state molte altre motivazioni nazionali e internazionali che hanno prodotto le inchieste di "mani pulite", ma quelle sistemiche sono contenute in quello scritto e hanno consentito al Pci di quel periodo di opera per evidenziare e potenziare quel ruolo. Cerco di dare una spiegazione generale e di programma a questa analisi profonda e veritiera. Sin dagli anni 80 si era verificata una crisi del rapporto tra potere politico e potere giudiziario: il rapporto tra i due poteri perdeva sempre più le caratteristiche istituzionali e accentuava gli aspetti politici e partitici. Alcuni di noi, in verità, hanno fatto di tutto per scongiurare un grave pericolo, quello di una intesa tra limitati settori della magistratura fortemente politicizzati e i partiti della sinistra, del Pci in particolare, che, attraverso una strategia giudiziaria, avevano intravisto la possibilità di sconfiggere i partiti della maggioranza non essendo riusciti a ridimensionarli attraverso il confronto elettorale, e conquistare il potere. È questa la premessa culturale esplicitata con lucida sincerità da Colombo che ha consentito una funzione della magistratura in qualche modo fuori dalle regole istituzionali, ideologizzando il suo ruolo come ruolo politico, non al di sopra delle parti, ma capace di assumere su di sé una sorta di arbitraggio della questione sociale e tutelare appunto le ragioni delle parti sociali in antagonismo tra loro. La classe dirigente politica assistette in maniera passiva e remissiva a questo tentativo e a questo sconvolgimento, facendo aggravare ancora di più la situazione e allontanando ancora di più i cittadini delle istituzioni. Se i leader politici degli anni 80 e 90 e la classe dirigente dei partiti avessero avuto il coraggio di reagire, di difendere le prerogative del Parlamento, di confermare il primato della politica e di pretendere rispetto, non solo a parole, di rispettare l’indipendenza vera della magistratura, che attraversava allora il periodo più difficile della sua storia, si sarebbe evitata una deriva così pericolosa che ha incriminato la nostra cultura del diritto. Quando il Pci spinto dagli eventi internazionali cominciò ad andare in crisi, una crisi irreversibile sul piano ideologico e organizzativo, Enrico Berlinguer scoprì la ‘ questione moralè di cui si fece paladino facendola diventare una questione politica. Berlinguer credeva nella superiorità morale della sinistra e degli uomini della sinistra, che non avendo esercitato il potere in Italia erano immuni dalle "tentazioni", e aveva capito che la fine del marxismo metteva il suo partito in una situazione difficile per conquistare la maggioranza che fino ad allora era preclusa: nel contesto internazionale l’Italia rifiutava il comunismo e dunque Berlinguer aveva immaginato di poter sconfiggere i partiti della maggioranza, la Dc come principale antagonista e il Psi come concorrente nell’area socialdemocratica, attraverso la "questione morale". Il leader del Pci credeva nel rigore morale che caratterizzava anche la sua persona e voleva utilizzarlo come leva contro la corruzione: era lo stesso obiettivo che si poneva la corrente di magistratura democratica che si impegnava a formare magistrati che dovevano "lottare" contro la corruzione, dovevano in tutte le sedi non solo giudiziarie lottare "contro" la mafia contro tutti… e chi lotta fa politica non applica serenamente il diritto, ma fa giustizia. Questo è il punto! Orbene la sinistra ha accompagnato questa evoluzione della magistratura che ha interessato l’intero "ordine giudiziario", che è diventata "potere". Il magistrato entra nelle lotte sociali e la giurisprudenza si sostituisce alla legge, alla norma che è incerta e approssimativa e soprattutto non riesce a dare indicazioni erga omnes e quindi delega al "potere giudiziario". Luciano Violante giovane magistrato e poi vero leader politico, ha accompagnato o ha ispirato questa evoluzione e ha consentito che la azione della magistratura fosse rivolta a "combattere" più che il reo il sistema nel suo complesso corrotto e deviato. Ormai anche nelle requisitorie o nelle sentenze è valsa l’ abitudine di fare valutazioni non riferite all’indagato o all’imputato ma al sistema che le amministrazioni e la politica mettono in atto: né derivano proclami politici di condanna alla corruzione, alla devianza, con la conclusione che l’attività giurisdizionale e finalizzata a far vincere il bene sul male! Come dice giustamente De Giovanni il nostro sistema è stato distrutto da "mani pulite" e non è più rinato perché ci siamo trovati con una magistratura diversa, con un ruolo diverso che si è discostato profondamente da quello previsto dai Costituenti, che il potere legislativo non è in grado di disciplinare e regolamentare. La Carta Costituzionale aveva immaginato un giudice neutro, bocca della legge e oggi la giurisdizione è cosa ben diversa. Sì è condannato negli anni 90 il finanziamento pubblico ai partiti che era un fatto generalizzato semplice presupposto per reati di corruzione ma di per sé non configurabile come reato contro la pubblica amministrazione e si è quindi condannata una intera generazione politica. Senza che vi fossero nuovi codici o nuove leggi la giurisdizione ha surclassato la legislazione tant’è che si celebra a Palermo un processo sulla trattativa tra lo Stato e la mafia senza un fondamento specifico e con una contestazione, aleatoria e fumosa, alla potestà statuale di comportamenti e decisioni fuori dal codice penale. La resa formale dei politici e la rassegnazione a soccombere al nuovo "potere" si verificò quando con una larghissima maggioranza il Parlamento abrogò le sue tradizionali e sacrosante guarentigie dimostrando di aver perduto il ruolo di classe dirigente. Orbene se attraverso un dibattito serrato e veritiero la cultura giuridica riesce a individuare la nuova e diversa funzione che la magistratura e il giudice debbono assolvere in una società democratica, si potrà dare soluzione al problema che è il principale per la democrazia, altrimenti la politica e le istituzioni soccomberanno. *Ex parlamentare Dc I ministri Costa e Alfano: "la legittima difesa va rifatta da capo, parola di garantisti" di Errico Novi Il Dubbio, 20 aprile 2017 Costa: noi di Ap contro i processi eterni agli aggrediti. Alfano e il ministro della famiglia spiegano la rottura col Pd sulla legge per chi reagisce alle rapine: "diversi dalla Lega ma chi si difende non passi una vita in tribunale". Tireranno dritto ciascuno per la propria strada. Sulla legittima difesa Pd e Alternativa popolare sono destinati a non incontrarsi. Mediazione difficile ed esito che rischia di tradursi nella paralisi: se i dem licenzieranno la legge alla Camera senza intesa con l’alleato, il via libera di Palazzo Madama è missione quasi impossibile. "Chiediamo che a fronte di alcune condizioni si presuma sempre la legittima difesa, e che debba essere il pm a far emergere elementi in grado di mettere in ombra la condotta dell’aggredito", spiega il ministro per la Famiglia Enrico Costa a margine della conferenza stampa del suo partito. Una posizione che porterebbe, in concreto, alla modifica dell’articolo 52 del Codice penale, il cuore dell’attuale normativa. I dem non intendono lasciare margini, e nella riunione di maggioranza della mattina lo ribadiscono proprio a Costa che vi partecipa in rappresentanza di Ap. All’incontro con i giornalisti è lo stesso Angelino Alfano a spiegare che sul diritto a difendersi "serve una svolta: vogliamo un testo che protegga la proprietà privata, che dia ai cittadini la possibilità di non essere incolpati ingiustamente, che faccia paura ai ladri e a chi prova ad aggredire o a spaventare i cittadini". E per questo il ministro degli Esteri "ufficializza" una "alleanza di scopo con l’Italia dei valori: saremo la forza politica che in Senato si farà carico della legge d’iniziativa popolare presentata da questo partito, al 50% sovrapponibile al nostro testo, presentato da Nico D’Ascola", presente in conferenza stampa. Il segretario dell’Idv Ignazio Messina interviene a sua volta, ricorda "i due milioni di firme raccolte" e dichiara: "Chi si difende non può mai finire sotto processo per eccesso colposo di legittima difesa". Difficilmente l’Aula di Montecitorio comincerà ad occuparsi dello spinosissimo dossier già a partire da oggi: i tempi per l’ok al testamento biologico restano imprevedibili. Ma la tensione nella maggioranza è già ben riconoscibile. E a parte il dettaglio delle ragioni di distanza tra renziani e alfaniani, il caso pone il problema dell’identità politica che Ap intende darsi. È il partito che al governo e in Parlamento ha rappresentato negli ultimi tre anni le ragioni del garantismo. Ora questa svolta che sembrerebbe securitaria. Ma che, spiega Costa, è perfettamente in linea con posizioni come quelle espresse su prescrizione e custodia cautelare: "Il principio a cui guardiamo è molto chiaro: evitare che i tempi della giustizia si traducano essi stessi in una pena. Ecco perché sul ddl penale abbiamo contrastato la linea più restrittiva in materia di prescrizione, ecco perché non è possibile che i termini per la custodia cautelare scandiscano i tempi del processo, ed è sempre per lo stesso motivo che chiediamo al Pd di intervenire sull’articolo 52 in materia di legittima difesa". Il ministro aggiunge: "Oggi il vero punto per chi subisce un’aggressione e si difende con l’uso di un’arma è che viene sì assolto nella stragrande maggioranza dei casi, ma in capo a una pena costituita da un processo lungo e costoso. Con le scriminanti che chiediamo di introdurre e che fanno presumere la legittima difesa per chi è aggredito di notte o con violenza, per esempio, indichiamo una linea analoga a quella della legge in vigore in Francia, e che consentirebbe di chiudere la maggior parte dei procedimenti davanti a un gip senza andare a dibattimento". Il centro di Alternativa popolare, secondo Costa, "non rischia in alcun modo di essere assimilato alla Lega: tra l’altro la legge del 2006 fu modificata soprattutto sotto loro impulso e adesso ne vediamo i risultati, visto che sono i primi a chiedere di modificarla". Il Pd non recede dall’idea che il solo punto su cui si possa intervenire siano le "cause di errore" per l’aggredito, previste all’articolo 59 e a cui l’emendamento del responsabile Giustizia David Ermini ha aggiunto il "grave turbamento psichico" provocato nell’aggredito. Secondo Costa "in questo modo non si supera il problema di un lungo procedimento come pena ingiusta per chi poi sarà assolto. Visto che anche loro se ne rendono conto, i deputati del Pd propongono di risarcire integralmente le spese legali per le persona a cui viene riconosciuta in sentenza la legittima difesa, noi invece vogliamo risolvere il problema in partenza". È un punto di vista chiaro, che però anticipa anche un tema politico più generale: l’identità moderata di un partito che in futuro potrebbe trovarsi ancora ad essere il primo alleato di Renzi. Si può essere "garantisti e avere a cuore nello stesso tempo la certezza della pena", come dice Costa, "è il processo lungo che non deve condannare gli innocenti". Idea che val bene un contrasto col Pd: "Faremo passare il girone d’andata alla Camera e pensiamo di rifarci al girone di ritorno al Senato", assicura Alfano. Lo sforzo di equilibrio, per i centristi. è molto impegnativo, e passa anche per posizioni intransigenti sulla legittima difesa. Morte di Stefano Cucchi, la Cassazione annulla le assoluzioni dei medici del Pertini di Eleonora Martini Il Manifesto, 20 aprile 2017 L’annullamento delle assoluzioni dei cinque medici dell’Ospedale Pertini dove Stefano Cucchi morì il 22 ottobre 2009 è arrivato appena il giorno prima della prescrizione del reato di omicidio colposo contestata ai sanitari. "Sono passati 7 anni, 5 mesi e 28 giorni dalla morte di Stefano Cucchi. Domani scatta la prescrizione ma oggi c’è ancora tempo per fare giustizia", aveva detto il Pg della Cassazione, Antonio Mura, nella sua requisitoria davanti alla I Sezione Penale della Corte Suprema, E il collegio di giudici presieduto da Antonella Mazzei in serata, dopo circa tre ore di camera di consiglio, ha accolto la richiesta. La sentenza dell’appello bis è stata annullata. Il processo a carico dei medici - Aldo Fierro, Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi Preite De Marchis e Silvia Di Carlo - è da rifare, anche se il reato va oggi in prescrizione. Il Pg Mura ha motivato la sua richiesta sostenendo che la Corte d’Assise d’Appello di Roma, nell’appello bis che ha prosciolto i medici, ha "sovrapposto indebitamente il suo giudizio, non scientifico, a quello del collegio di periti costituito da luminari" secondo cui "Cucchi poteva essere salvato, o il suo decesso ritardato, se le terapie adeguate fossero iniziate il 19 ottobre, se solo fossero stati letti congiuntamente tutti i dati delle analisi arrivate nel pomeriggio". Per Mura, la sentenza del 18 luglio 2016 emessa dopo il rinvio della Cassazione, presenta "molteplici aspetti critici" che potevano essere sciolti da "una nuova perizia, che però non è stata disposta". Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, invita gli imputati a difendere la loro innocenza davanti ad altri giudici: "Se i cinque medici rinviati a giudizio si sentono non responsabili rinuncino alla prescrizione e vadano a nuovo processo". Per Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano, è sicuramente un giorno importante: "È un grande segnale di speranza per tutte le persone che attendono giustizia ed è la dimostrazione che vale la pena non smettere mai di credere nella giustizia", è stato il suo commento. Poi, più tardi, Ilaria posta su Facebook: "Ringrazio il Procuratore Generale Eugenio Rubolino per non essersi arreso alla seconda assoluzione e il Procuratore Generale della Cassazione Antonio Mura per essersi battuto per avere giustizia. La prescrizione la dobbiamo soltanto ai periti della Corte Cattaneo e Grandi che hanno fatto talmente tanta confusione sulla morte di Stefano da produrre questo disastro". Entusiasta anche l’avvocato Fabio Anselmo, inseparabile legale della famiglia del 32enne romano: "È la prima vittoria morale della lunga battaglia per la verità sulla morte di Stefano - ha detto - ora diventa tutto coerente con quello che sta facendo il procuratore Pignatone". All’agente che fomenta la rivolta di detenuti se viene assolto niente rimborso per la difesa di Antonio Capitano Il Sole 24 Ore, 20 aprile 2017 Trga Trento - Sentenza 10 aprile 2017 n. 126. È legittimo il diniego del rimborso delle spese legali, sostenute da un dipendente statale - sottoposto a procedimento penale e poi assolto - poiché l’assunzione a carico dell’amministrazione dei costi di difesa sconta la riconducibilità dei fatti nell’ambito puntuale dei doveri di istituto. La mera prestazione lavorativa non rileva sufficientemente, alla luce delle finalità del sistema, che implica, viceversa, che i fatti e i comportamenti denotino una comunione degli interessi perseguiti dal dipendente e dall’amministrazione di appartenenza. Questo il principio espresso dalla sentenza del Trga Trento n. 126/2017. La vicenda - Il caso in esame trova origine da un ricorso di un agente penitenziario per l’annullamento del decreto di rigetto emesso dall’amministrazione penitenziaria, dell’istanza di rimborso delle spese legali sostenute, ex articolo 18 del Dl 67/1997, convertito nella legge 135/1997. Il processo deriva dal colloquio del ricorrente con alcuni detenuti, in violazione di norme di legge e regolamento, asseritamente fomentando atti di protesta da parte dei medesimi. Per i reati di abuso d’ufficio e abbandono del posto di servizio il procedimento penale si è concluso con l’assoluzione in primo grado per l’insussistenza del fatto e perché il fatto non costituisce reato. Per il reato di interruzione di un ufficio o servizio pubblico o di un servizio di pubblica necessità, dopo la condanna in primo grado, l’assoluzione in appello è intervenuta con riferimento all’articolo 530, comma 2, del Codice di procedura penale. L’amministrazione giudiziaria ha negato il rimborso delle spese legali sostenute, in ragione della non "piena coincidenza degli interessi facenti capo al dipendente inquisito ed alla amministrazione di appartenenza". La decisione - Il Tar ha evidenziato che l’articolo 18, del Dl 67/1997 subordina il rimborso delle spese legali, a favore di dipendenti di amministrazioni statali coinvolti in giudizi per responsabilità civile, penale e amministrativa, non solo all’esclusione della loro responsabilità ma, altresì, alla circostanza che i predetti giudizi siano promossi in conseguenza di fatti e atti connessi con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento di obblighi istituzionali. Tale rimborso assolve dunque la funzione di ripristinare la situazione di esposizione economica del dipendente ingiustamente coinvolto in procedimenti giudiziari, addossando l’onere relativo all’amministrazione di appartenenza, implicitamente ma coerentemente riconoscendo l’immedesimazione tra l’azione del dipendente e la funzione dell’ente di appartenenza. I giudici trentini hanno puntualizzato l’interpretazione rigorosa dell’inciso "in conseguenza di fatti ed atti connessi con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento di obblighi istituzionali": e nella fattispecie l’inopinata presenza del ricorrente in un reparto detentivo diverso e l’ingiustificato e, comunque, inopportuno, colloquio con i detenuti, ha evidenziato una condotta che, benché non censurata in sede disciplinare, non è consonante con la funzione svolta e non trova corrispondenza negli interessi dell’amministrazione Procedura esecutiva: peculato per l’avvocato delegato alle vendite che intasca i soldi di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 20 aprile 2017 Corte di cassazione - Sezione VI - Sentenza 19 aprile 2017 n. 18886. Peculato e non truffa aggravata ai danni dello Stato per l’avvocato delegato alle operazioni di vendita che si appropria delle somme depositate, da creditori e aggiudicatari, nei libretti postali intestati alla procedura esecutiva. La Cassazione(sentenza 18886) riqualifica i reati commessi dal ricorrente, nominato delegato alle operazioni di vendita (articolo 591 del Codice di rito civile)che aveva presentato ai funzionari di banca falsi decreti di autorizzazione del giudice dell’esecuzione per prelevare i soldi. La Suprema corte chiarisce i motivi per i quali il reato commesso è quello di peculato e non di truffa con l’aggravante del danno allo Stato. Il delitto di truffa aggravata scatta quando l’impossessamento del denaro o di altre utilità è la conseguenza logica e temporale di una serie di raggiri da parte del funzionario che non avrebbe altrimenti la possibilità di mettere le mani su somme delle quali non dispone. Il peculato è invece configurabile quando il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio si appropria di denaro nella sua disponibilità per ragioni di ufficio. Adattando i principi al caso esaminato, i giudici precisano che i prelievi dai libretti di deposito intestati alla procedura esecutiva rientrano nel reato di peculato, anche se sono stati messi in atto mostrando una falsa autorizzazione del giudice. L’imputato - come legittimo detentore dei libretti di deposito - aveva la disponibilità delle somme la cui consegna era subordinata alla verifica, puramente formale, del funzionari dell’istituto del decreto di autorizzazione. Lo stesso articolo 591-bis comma 1 n.13 del Codice di procedura civile che regola la delega delle operazioni di vendita, conferma, infatti, la disponibilità delle somme da parte del professionista prevedendo espressamente che questo provveda "ad ordinare alla banca o all’ufficio postale la restituzione delle cauzioni e di ogni altra somma direttamente versata mediante bonifico o deposito intestato alla procedura dagli offerenti non risultati aggiudicatari". È poi sbagliato il presupposto dell’aggravante dei danni allo Stato nel caso dell’ipotizzata truffa, perché in nessun momento della procedura esecutiva le somme depositate nei libretti passano nella titolarità dello Stato. Per finire i giudici precisano che la riqualificazione del reato da truffa aggravata in peculato rientra nei poteri della Cassazione, non comportando una reformatio in peius. La pena resta la stessa irrogata dalla Corte d’appello, non è integrato il termine di prescrizione del meno grave reato di truffa e il "cambio" di reato non è avvenuto a sorpresa, con violazione del diritto di difesa. La "scelta" tra i due reati è stata, infatti, oggetto della controversia sia in primo sia in secondo grado. Evasione Iva, obbligo di versamento per l’amministratore subentrato dopo la dichiarazione di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 20 aprile 2017 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 19 aprile 2017 n. 18834. Risponde del reato di omesso versamento Iva, l’amministratore subentrato nell’incarico dopo la dichiarazione di imposta ma prima della scadenza dell’obbligo tributario, qualora non provveda a completare il pagamento dell’acconto. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 19 aprile 2017 n. 18834, confermando la condanna ad un anno di reclusione per il rappresentante legale di una Spa, entrato in carica nel mese di ottobre del 2009, dunque dopo la dichiarazione di settembre, ma prima del termine ultimo del 27 dicembre. Il ricorrente si era difeso sostenendo di aver assunto la carica sociale "in un momento successivo alla sottoscrizione della dichiarazione Iva, redatta da altro soggetto", e che la dichiarazione "non indicava il debito Iva, il cui omesso versamento sarebbe poi stato imputato al ricorrente". Per la Suprema corte però, contrariamente all’assunto difensivo, la sentenza impugnata ha dato atto che nella dichiarazione annuale Iva "erano riportati il credito finale, l’ammontare dell’imposta dovuta (e non versata), l’ammontare dei versamenti periodici asseritamente compiuti". Dunque, prosegue, "dalla mera lettura del provvedimento impugnato il ricorrente, che al momento della scadenza del termine per compiere il versamento (27/12/2009) era il legale rappresentante, ben poteva avere contezza del debito tributario della società". Del resto, anche prima egli aveva svolto ruoli di vertici all’interno del consiglio di amministrazione per cui "non poteva non essere a conoscenza del debito tributario". I giudici di legittimità hanno perciò affermato che "nel caso di successione nella carica di amministratore di società (legale rappresentante) in un momento successivo alla presentazione della dichiarazione di imposta e prima della scadenza del termine fissato per l’adempimento dell’obbligo tributario di versamento, sussiste la responsabilità, per i reati tributari connessi all’omesso versamento di imposte dovute, di colui che succede nella carica dopo la presentazione della dichiarazione di imposta e prima del termine ultimo per il versamento della stessa". E ciò "sul rilievo dell’assenza di compimento del previo controllo di natura prettamente contabile sugli ultimi adempimenti fiscali che comporta la responsabilità quantomeno a titolo di dolo eventuale". Tanto più, prosegue la sentenza, in quei casi, come quello in esame, "in cui il debito fiscale non era remoto e/o occulto", perché esposto nella dichiarazione presentata al 30 settembre 2009. Infatti, trattandosi dell’Iva dovuta sulla base dell’ultima dichiarazione, "era sufficiente, prima di assumere la carica di amministratore (pochi giorni dopo), di chiedere in visione la dichiarazione e l’attestato di versamento all’erario dell’Iva a debito per adempiere nel termine stabilito al pagamento dell’obbligazione tributaria". La Cassazione ha così dato continuità al principio per cui "l’assunzione della carica di amministratore, per comune esperienza, comporta una minima verifica della contabilità, dei bilanci e delle ultime dichiarazioni dei redditi, per cui, ove ciò non avvenga, risponde dei reati tributari in materia di mancato versamento di imposte, colui che subentra nella carica sociale/legale rappresentanza in un momento successivo alla presentazione della dichiarazione di imposta, in quanto con l’assunzione della carica si espone volontariamente a tutte le conseguenze che possono derivare da pregresse inadempienze". Padova: i detenuti eleggono il loro "sindacato" di Alberta Pierobon Il Mattino di Padova, 20 aprile 2017 Novità assoluta al Due Palazzi: l’obiettivo è individuare i rappresentanti per confrontarsi con l’amministrazione. Si vota nella Casa di reclusione Due Palazzi, carcere che ospita detenuti già condannati a pene definitive. Ad essere chiamati alle urne sono i seicento che, lì dentro, tra cella, corridoi e, i più fortunati, lavoro nelle cooperative, passano decenni, alcuni tutta la vita (in 70 stanno scontando l’ergastolo, 10 quello ostativo ovvero fine pena mai). Seicento dentro una struttura con una capienza di 430 persone. Tornando alla novità del voto, si tratta di vere e proprie elezioni già programmate per fine aprile, con candidati e votanti tutti detenuti. Obiettivo, eleggere propri rappresentanti chiamati a confrontarsi con l’amministrazione. Insomma, portavoce. Una piccola rivoluzione e una scommessa per dare una chance alla consapevolezza, alla crescita personale e collettiva, per dare ossigeno al senso di partecipazione. Per migliorare la convivenza, insomma. "La sperimentazione partirà tra pochi giorni. Non è un’idea nostra, è un’idea nata e già attivata nel carcere di Bollate (Milano): bisogna saper copiare il meglio, prendere a modello le buone prassi": lo ha annunciato Ornella Favero, fondatrice e direttrice di "Ristretti Orizzonti", giornale della casa di reclusione di Padova, che ieri ha partecipato al convegno organizzato a Roma sul tema "Il mondo come prigione? Carcere, diritti, giustizia". L’idea è partita da Ristretti Orizzonti, poi, spiega Rossella Favero, presidente della cooperativa Altra Città sempre all’interno del Due Palazzi e sorella di Ornella "l’abbiamo proposta alla direzione del carcere che l’ha fatta propria. Due mesi fa abbiamo avuto un incontro al carcere di Bollate per studiare le modalità e a Padova c’è stata una riunione apposita con l’ufficio comando e la polizia penitenziaria". A Bollate è stato eletto un detenuto per ogni braccio, probabilmente sarà così anche per Padova. Verrà eletta una "commissione" composta da 10-15 detenuti in rappresentanza dei piani "i quali dovranno essere portavoce delle esigenze e delle proposte collettive, non personali. Sarà un elemento di crescita, di assunzione di responsabilità", continua Rossella Favero. Per ora diciamo che non ferve la campagna elettorale interna, anche per mancanza di informazioni ché i detenuti sono gli ultimi a sapere ciò che li riguarda. "È un esperimento interessante", commenta Paolo Piva, da dieci anni insegnante al Due Palazzi nonché presidente dell’associazione sportiva Palla al Piede (calcio, la squadra dei detenuti è fortissima). "I vecchi detenuti, nel senso di quelli che sono in carcere da tanto tempo, dicono che ora il problema è un eccesso di individualismo, ognuno pensa a sé, punto. E rimpiangono forme di solidarietà e mutuo aiuto che non ci sono più". Prato: tante ombre e qualche luce alla "Dogaia" di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 aprile 2017 La relazione della Garante dei detenuti sulle criticità dell’istituto. sovraffollamento, un detenuto con disagi psichici in isolamento per un mese e mezzo, mancanza di mediatori culturali. ma anche il polo universitario penitenziario. Detenuto con disagi psichici tenuto in isolamento per un mese e mezzo, condizioni igieniche scadenti, impossibilità da parte dei detenuti di telefonare ai familiari. È la situazione del carcere "La Dogaia" di Prato illustrata da Ione Toccafondi - la garante dei detenuti del comune della Toscana ed ex direttrice del carcere stesso - durante un’audizione alla commissione comunale per le politiche sociali. La garante ha denunciato non solo il dimezzamento degli educatori professionali, ma anche la carenza risorse per la mediazione culturale nonostante il comune abbia stanziato dei fondi. La dottoressa Toccafondi ha spiegato che il contributo è stato insufficiente, per questo i mediatori hanno lavorato solo per qualche mese e ciò ha provocato un enorme disagio nei confronti della popolazione detenuta straniera (il 48 per cento dei ristretti) che si sono visti privati della possibilità di telefonare ai familiari e questo ha contribuito ad accrescere la tensione all’interno della Dogaia: per poter autorizzare le telefonate tra detenuti e parenti, occorrono verifiche sulle utenze, e solo chi comprende la lingua straniera può compierle. Altro problema che ha denunciato è quella dei detenuti psichiatrici - problema generale del sistema penitenziario - che è rimasta irrisolta. La garante ha spiegato che "dopo la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari - che è stata una conquista - purtroppo si sono create lunghe liste di attesa per entrare nei percorsi terapeutici delle Rems. In Toscana e Umbria c’è soltanto una struttura di questo tipo, la residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza di Volterra, che ha 30 posti". Altri problemi segnalati riguardano le condizioni della struttura. Poi ha denunciato anche il problema riguardante i sex offender, i detenuti che hanno commesso reati sessuali. La garante ha spiegato che per loro non c’è nessun progetto riabilitativo, per cui c’è il rischio della recidiva. L’istituto si trova in una zona periferica, raggiungibile con un autodi bus che ferma a 1 km di distanza. La sperimentazione di una navetta è stata abbandonata perché non rispondeva alle esigenze dei familiari dei detenuti. In alternativa, i taxi applicano una tariffa agevolata per i collegamenti con il carcere e il cappellano ha allestito una struttura di accoglienza per i familiari in visita. Il carcere ha subito anche un aumento della popolazione per il trasferimento di una buona parte dei detenuti di Pistoia, il cui carcere è in parte inagibile dopo una tempesta di vento, senza che alla Dogaia siano stati assegnati risorse e personale, come ha evidenziato la garante. Non mancano però delle note positive. Il carcere è all’avanguardia con un progetto sulla formazione con il polo universitario penitenziario, nato sette anni fa, e frutto di un accordo fra la Regione Toscana, il Provveditorato toscano dell’amministrazione penitenziaria e le università di Pisa, Firenze e Siena. Offre ai detenuti l’opportunità di una formazione universitaria attraverso percorsi didattici specifici e assistiti. L’idea del professore universitario Nedo Baracani e del magistrato Alessandro Margara - morto recentemente e famoso per aver ispirato la legge Gozzini, si è sviluppata negli anni e ha interessato anche Siena e Pisa, tanto che dal 2010 i tre poli si sono uniti per creare il Polo Universitario Penitenziario Toscano, l’esperienza di insegnamento accademico in carcere più rilevante in Italia. A Prato sono attivi corsi di studio professionali e artistici e il prossimo anno si aggiungerà una sezione dell’indirizzo alberghiero alla Dogaia. In ambito artistico e culturale è oramai decennale la collaborazione con la compagnia di Teatro Metropopolare. Tra i progetti che saranno potenziati in ambito di avviamento al lavoro c’è la creazione di una officina meccanica: i corsi tenuti gratuitamente da meccanici della zona hanno già portato a un paio di richieste di lavoro in favore dei detenuti della Dogaia. Roma: il carcere di Rebibbia apre al pubblico "Terza bottega", il forno dei detenuti di Giovanni Iacomini Il Fatto Quotidiano, 20 aprile 2017 "Tear down the wall" erano le parole, ripetute in un crescendo entusiasmante, con cui Roger Waters, bassista e autore dei Pink Floyd, chiudeva la sua opera rock e prevedeva il crollo dei muri che alla fine del secolo scorso ci avrebbe fatto illudere di poter vivere in un mondo più libero e più aperto. Oggi invece muri e steccati, divisioni fisiche o metaforiche, sono prepotentemente invocati da società sempre più insicure. Una piccolissima eccezione è costituita dalla Terza Casa Circondariale del carcere romano di Rebibbia. Da qualche tempo è attivo, all’interno della struttura, un forno che rifornisce diversi esercizi commerciali esterni. Ci lavorano alcuni detenuti (tra i migliori studenti della nostra scuola interna) selezionati dopo un corso di formazione. Li conosco uno a uno, dal titolare dell’impresa fino all’ultimo incaricato delle pulizie finali; so con che serietà, passione e competenza lavorano e posso garantire sulla qualità dei loro prodotti. Ora si apre l’ultimo varco per l’osmosi, necessaria per il superamento di certe dinamiche negative per tutti, tra il mondo del carcere e la società esterna. Tutti potranno varcare, per qualche metro, il confine che delimita l’istituto penitenziario e partecipare all’inaugurazione del punto vendita, con degustazione gratuita di tutti i prodotti dolci e salati. L’appuntamento è oggi, 20 aprile, dalle ore 13 in via Bartolo Longo 82. Da non perdere: come dicono gli addetti, è… "la prima esperienza in Italia". Roma: le 23 volte di Francesca, ruba perché sa vivere solo in carcere di Vincenzo Imperitura Il Dubbio, 20 aprile 2017 L’incredibile storia di una quarantenne romana che compie piccoli reati per farsi arrestare. "Ma che devo fare per andare in galera"? Francesca, poco più che quaranta anni, se lo lascia sfuggire durante l’ennesima udienza di convalida all’ennesimo arresto. Quasi un’invocazione, un appello, che rimbalza nell’aula affollata delle udienze "direttissime". Con quello della settimana scorsa - accusata di tentato furto aggravato per avere portato via da un’autorimessa una manciata di chiavi e il frontalino di una radio - fanno 23 procedimenti penali pendenti, alcuni in fase di indagine, altri definiti in primo e in secondo grado, negli ultimi due anni. Un vero e proprio tour de force giudiziario per una figura che sfugge alle consuete classificazioni sociali. Cresciuta nella Capitale, Francesca vive una vita quasi normale: il lavoro, almeno quando c’è, il matrimonio. Poi il baratro della droga che le costa una condanna definitiva per aver venduto una dose poi risultata fatale. Anche il suo compagno muore a causa di un’overdose, e Francesca resta vedova, con una pensioncina di reversibilità che le arriva per il lavoro del marito defunto. Una vita difficile, vissuta ai margini della città, tra gli ultimi. Tanto carcere, poi accampata dove capita: in una tenda arrangiata sul Tevere, o dentro i padiglioni dismessi del Forlanini, la donna viene inserita anche in un percorso di rinserimento attraverso una comunità terapeutica in Veneto, ma dura poco. Francesca scappa da Vicenza e torna a Roma. Non sta bene. Ormai anche gli ultimi amici, che ostinatamente avevano tentato di aiutarla, rinunciano. La donna inizia così la sua personale odissea giudiziaria: tra il 2015 e il 2017 si rende protagonista di piccoli furti (alcuni commessi a distanza di poche ore l’uno dall’altro) e non rispetta gli obblighi che le impone il tribuna- le in conseguenza agli stessi reati. Finisce così con l’entrare e uscire dalle aule di piazzale Clodio per una ventina di volte, l’ultima delle quali, appunto, la settimana scorsa, quando era stata sorpresa dopo avere tentato di sottrarre alcune chiavi e poco altro da un garage a Monteverde. Davanti al giudice che deve convalidare il suo arresto, la Procura - visto anche il curriculum giudiziario dell’indagata - chiede la custodia cautelare in carcere, ma la richiesta viene respinta dal tribunale che, salomonicamente, assegna alla donna l’obbligo di firma in questura, ignorando contestualmente anche la richiesta del suo legale. L’avvocato Dario Candeloro infatti, cercando di evitare l’ennesima carcerazione inutile ai suoi danni, aveva richiesto per Francesca l’applicazione della custodia cautelare presso una struttura di cura. Una perizia dice: vada in comunità - Una tesi che si sosteneva anche sulla perizia psichiatrica che aveva riconosciuto Francesca come solo parzialmente in grado di intendere. Una soluzione prevista dal codice di procedura penale e che avrebbe certamente aiutato una donna che, appare evidente, continua a chiedere aiuto. La richiesta però è stata respinta e il "problema" Francesca così, rimandato al prossimo furtarello. "La mia assistita versa in una situazione assolutamente disperata, ai limiti del surreale, come d’altronde rappresentato all’autorità giudiziaria. Sotto il profilo prettamente giuridico - racconta l’avvocato Candeloro, che può consolarsi di avere almeno evitato il carcere per la propria assistita - si è ottenuto certamente il miglior risultato auspicabile; tuttavia sarebbe opportuno un incisivo intervento, da parte degli enti competenti, al fine di favorire il sostegno che necessita una persona che versa in queste condizioni, ed evitare il verificarsi di paradossali situazioni analoghe". Ora Francesca deve recarsi due volte la settimana in questura per la firma. Almeno fino a quando non tenterà di rubare qualche altra sciocchezza. Palermo: per i detenuti dell’Ipm patente di guida e patentino di istruttore di barca a vela Adnkronos, 20 aprile 2017 Prende il via operativo domani, all’interno dell’Ipm Malaspina di Palermo, il progetto "Giovani Leader" che darà la possibilità a giovani del circuito penale di prendere la patente di guida e il patentino di istruttore di barca a vela. È la prima volta che in Italia all’interno di un centro per la giustizia minorile, con un progetto finanziato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri - dipartimento della Gioventù e del Servizio civile nazionale - i giovani detenuti, i giovani a fine pena o che devono scontare pene alternative in carico ai servizi sociali degli uffici territoriali del ministero di Giustizia, hanno la possibilità di partecipare a delle attività educative e formative per conseguire la patente di guida e il patentino per diventare istruttori di barca a vela. Il progetto denominato ‘Giovani Leader’ è stato redatto dal Centro per la giustizia minorile per la Sicilia, dalla Lega navale italiana sezione Palermo centro, e da alcune cooperative e associazioni palermitane che operano nel settore del recupero educativo e sociale di minori del circuito penale. Nello specifico, i laboratori ai quali parteciperanno i giovani del circuito penale sono due: quello per conseguire la patente di guida, denominato ‘Laboratorio di guida sicurà e quello per conseguire il patentino di istruttore di barca a vela, denominato ‘Istruttori di barca a vela". Il primo laboratorio attraverso un percorso di apprendimento permetterà a venti giovani di conseguire la patente di guida. Il laboratorio per ‘Istruttori di barca a velà vede invece coinvolti cinque giovani del circuito penale in carico all’ufficio Servizio sociale per i minorenni del Malaspina. L’età dei ragazzi selezionati dal Centro per la giustizia minorile per la Sicilia è tra i 14 ed i 21 anni. Tutte le attività dovranno concludersi entro il 29 aprile 2018. Napoli: "Fair play" a Secondigliano, il quartiere apre le porte ai detenuti di Anna Laura De Rosa La Repubblica, 20 aprile 2017 "Fair play... Noi di Secondigliano": detenuti, scuole e parrocchie uniti contro la violenza per il riscatto. Il quartiere apre le porte ai detenuti che giocheranno partite di calcio con residenti, poliziotti e fedeli, e incontreranno gli studenti nelle scuole per trasmettere messaggi contro la violenza. In programma, anche fiaccolate e spettacoli. Lo scopo dell’iniziativa è creare un "ponte" tra i giovani e chi vive il quartiere dietro le sbarre. Il progetto è sostenuto dal carcere guidato dal direttore Liberato Guerriero e dalla settima municipalità, in particolare dal presidente Maurizio Moschetti e dal consigliere Simone Tedeschi. Tra le associazioni coinvolte, "Cavalieri Templari" ed "Event", il parroco della chiesa dei Santi Cosma e Damiano don Vincenzo D’Antico e la coop "Mare dentro". Il 2 maggio, alle 10, ci sarà un incontro tra le diverse realtà associative che hanno organizzato l’evento e gli alunni delle terze dell’istituto secondario di primo grado "Sauro-Errico-Pascoli". Si parlerà di bullismo, violenza di genere, femminicidio, reinserimento dei detenuti nel tessuto sociale. Il 5 maggio, alle 10.30, il campo sportivo Andrea Capasso di via Limitone di Arzano ospiterà un quadrangolare "solidale" che vedrà affrontarsi per la conquista della prima edizione del "Trofeo Fair-play Event cup" la squadra dei detenuti del carcere di Secondigliano, quelle della polizia penitenziaria, della parrocchia dei Santi Cosma e Damiano e la rappresentativa del quartiere. Il torneo sarà preceduto, alle 9.30, da un incontro-dibattito che vedrà faccia a faccia i reclusi e gli studenti. Subito dopo si svolgerà l’esibizione del campione del mondo di aeromodellismo Luca Pescante. Nel pomeriggio una fiaccolata, che partirà alle 17 dalla chiesa dei Santi Cosma e Damiano in corso Secondigliano e si snoderà tra le vie del quartiere fino a raggiungere la sede del carcere dove, in segno di solidarietà verso i detenuti, i cittadini concluderanno il percorso. La partenza del corteo sarà preceduta dalla santa messa e dal concerto gospel del coro Polifonico Maranathà diretto da padre Geppo Tranchini. Milano: un concerto di canti alpini nel carcere di Opera tracce.it, 20 aprile 2017 Una platea in silenzio, tutta tesa a seguire melodie e testi del concerto di canti alpini del Coro Cet nel carcere di Opera, alle porte di Milano. Coi detenuti che alla fine, a sorpresa, iniziano a cantare. Quando Guido ha proposto un concerto di canti alpini nel carcere di Opera, per vivere in prossimità della Pasqua un momento insieme ai detenuti che incontriamo con la caritativa di Incontro e Presenza, la mia reazione è stata scettica. Pensavo: "Cosa vuoi che importi a ergastolani e ladri, di canti di più di cento anni fa. Cosa ne capiranno, poi, marocchini e albanesi". Invece quando i ragazzi del Clu, del Coro degli Allievi Cet, ha cominciato a cantare, immediatamente in teatro è calato il silenzio. Tutti ascoltavano, forse incuriositi da melodie e parole che probabilmente non avevano mai sentito, ma soprattutto si coglieva lo stupore per il fatto che ragazzi potessero essere interpreti così bravi e appassionati di canti di un passato lontano e distante dall’esperienza di tanti. Silenzio e attenzione: così di canto in canto e dopo ogni canto, applausi scroscianti e sinceri. Al termine del concerto, dopo i bis richiesti a gran voce, mi ha colpito il commento dell’ispettrice del carcere: "In qualsiasi condizione ci troviamo, in guerra con altri o con noi stessi, dentro o fuori dal carcere, quello che resta e vince sulla morte, il dolore, il sacrificio è sempre l’amore". Dopo il ringraziamento al Coro per il magnifico concerto, è successo un fatto inaspettato: spinti dal clima che si era creato, sono saliti sul palco alcuni detenuti, prima uno, poi due, poi sette. Erano alcuni dei partecipanti al gruppo di scrittura creativa che durante il concerto avevano composto delle poesie e desideravano comunicare a tutti le emozioni ispirate e provocate da quanto avevano ascoltato. I versi recitati, evocavano l’amore per la propria amata, paragonavano la propria condizione a una guerra interiore, descrivevano la guerra quotidiana nel vivere. Insomma un concerto nel concerto, dove ognuno aveva reagito alle note e alla bellezza che aveva toccato il proprio cuore. La cosa più incredibile che ha chiuso questa mattinata memorabile è stato il moto spontaneo nato dalla platea dei detenuti che dopo il canto conclusivo, Il testamento del capitano, ha intonato "Quel mazzolin di fiori" coinvolgendo tutti: noi volontari e persino gli agenti. La situazione si è ribaltata. Il coro era in platea e i ragazzi del Cet, sul palco, spettatori increduli e stupiti all’ascolto. Al termine saluti, strette di mano e complimenti reciproci. La Direttrice del carcere, fino a quel momento discreta spettatrice, è salita sul palco per complimentarsi con i ragazzi e, anch’essa stupita da quanto aveva visto succedere, ha chiesto di ripetere in futuro il concerto. Alcuni amici detenuti hanno chiesto come poter continuare quanto vissuto durante la mattinata, magari facendo nascere un coro di canti alpini tra i detenuti. In Italia 7,2 milioni di poveri di Maria Teresa Martinengo e Fabio Poletti La Stampa, 20 aprile 2017 Secondo l’Istat l’11,9 per cento della popolazione è in gravi difficoltà economiche. Nel 2016 in sofferenza l’11,1% degli over-65 e 1 milione e 250 mila minorenni. In Italia sono oltre 7,2 milioni le persone che vivono in famiglie in gravi difficoltà economiche. Un livello, dice l’Istat, pari all’11,9%, che nel 2016 è rimasto "sostanzialmente stabile" rispetto all’anno prima. Ecco cosa fa la differenza: non potersi permettere spese impreviste di 800 euro, una settimana di vacanze, un pasto proteico ogni due giorni, l’acquisto di un’auto, un riscaldamento adeguato o avere arretrati per mutuo o bollette. Gli over-65 registrano un peggioramento sul 2015: la percentuale di chi è in seria difficoltà passa dall’8,4% all’11,1%.I minorenni in situazioni problematiche sono 1 milione e 250 mila. Torino, perso il lavoro resta solo la Caritas - È stata Lucia ad avere il coraggio di andare a chiedere aiuto al Centro di ascolto della Caritas, in una delle periferie nuove, nate dove prima c’erano le fabbriche. Lucia, 43 anni, e il marito Giovanni, 40, abitano poco lontano con il figlio, al primo anno di università: vivono in un alloggio di due stanze e cucina di cui stanno pagando il mutuo. E questo è uno dei problemi. La loro è una storia comune, alla Caritas torinese, dallo scoppio della crisi. "Gente che se la cavava bene, a cui, senza essere ricca, non mancava niente", dice il direttore Pierluigi Dovis. L’inizio della discesa nessuno riesce a immaginarlo. Colpe? Lavorare in due aziende dello stesso settore di indotto in crisi. "Lui è un tecnico, era responsabile di un reparto di produzione. Due anni fa ha cominciato a vedersi ridurre i giorni di lavoro "compensati" dalla cassa integrazione, finché è rimasto a casa: delocalizzazione. E lì sono incominciati i problemi in famiglia. Perché lei lavorava e lui no, e quindi sensi di colpa devastanti, impressione di essere inutile, mantenuto. La moglie lo ha sostenuto in tutti i modi", ricorda il direttore della Caritas. "Per mesi lo ha invitato ad avere fiducia. Poi è toccato a lei. L’impresa nella quale lavorava ha dovuto cedere un ramo d’azienda: in venti giorni è si ritrovata a casa. Con il sussidio di disoccupazione, certo. Ma il reddito della famiglia si era dimezzato". È stato a quel punto che il figlio ha cercato di alleviare le preoccupazioni dei genitori cercandosi un lavoretto. "Lo ha trovato come operaio tuttofare in un’impresa edile, in nero, nel fine settimana. Così - spiega Dovis - è andata avanti per un paio di mesi, con qualche centinaio di euro di aiuto alla famiglia, finché un giorno il ragazzo è caduto da un’impalcatura. Di denunciare non se n’è parlato perché sono state subito minacce. Per fortuna recupererà completamente, ma è stato in ospedale a lungo e ora deve fare molta fisioterapia. Madre e padre sono caduti in depressione, ma non possono curarsi perché devono prima di tutto pensare al figlio. Che comunque, per ragioni economiche, non potrà continuare l’università". La ragione che ha spinto Lucia a superare la vergogna e a rivolgersi alla Caritas è stato il sollecito della banca dopo tre rate di mutuo non pagato. "Ma quando mi hanno incontrato - dice Dovis - la richiesta più accorata è stata un’altra: essere aiutati a non scoppiare come famiglia". Un rischio reale. L’aggravante della povertà. Vigevano, addio ricchezza nell’ex Eldorado delle scarpe - Negli Anni Sessanta c’erano 1.000 aziende che producevano 30 milioni di scarpe l’anno. Oggi sono 15 e non arrivano a 800 addetti. Se la crisi morde, nel settore calzaturiero di Vigevano addirittura sbrana. "Nell’ultimo anno ho lasciato a casa 8 dipendenti. Siamo rimasti in 20. Non ci dormo la notte per capire come fare ad andare avanti", racconta Carlo Dal Monte, piccolo imprenditore del settore, in proprio da nemmeno 20 anni. I peggiori 20 anni di questo distretto dove solo nel 1962 Giorgio Bocca sul Giorno scriveva: "Fare soldi, per fare soldi, per fare soldi: se esistono altre prospettive, chiedo scusa, non le ho viste". Più di 50 anni dopo le prospettive sono cambiate di brutto. Prima sono arrivati i cinesi, bassi costi e bassa qualità. Poi ci si è messa la crisi, basso tutto. Secondo Banca Intesa il trend è negativo anche nelle esportazioni: -8,1% nel quarto trimestre, -4,3% su base annua. "Io non posso competere con i cinesi ma i grandi marchi per cui lavoriamo ci stanno strangolando. Negli ultimi 7 anni è aumentato tutto meno il costo di lavorazione. Sento tanto i politici parlare di made in Italy. Ma lo Stato che conosco io è quello che mi ha fatto versare 17 mila euro di contributi per i 20 dipendenti rimasti". I sopravvissuti negli anni si sono dovuti riconvertire. Le linee con un proprio marchio sono quasi sparite. Si lavora per le grandi "griffe" che dettano legge. Anche chi sta meno peggio degli altri, perché ha saputo posizionarsi bene con i grandi marchi, non dorme sonni tranquilli. Massimo Martinoli guida l’azienda di famiglia che fa scarpe da 70 anni. Oggi ha 60 dipendenti, 20 anni fa erano 80: "Negli Anni 70 per andare avanti puntammo sulla eccellenza. Negli Anni 90 ci aprimmo ai grandi marchi del lusso. Oggi fanno fatica anche loro. Penso all’e-commerce ma sono sicuro che ci sarà una nuova trasformazione del settore". Gianni Ardemagni che segue il settore per la Cisl usa toni da funerale: "Vanno avanti solo le aziende più strutturate o un sottobosco di piccoli artigiani che lavorano conto terzi. Ma Vigevano da anni non è più un distretto vincente". Sarebbe bastato poco per tutelare il distretto. Da 15 anni i calzaturieri si battono per il riconoscimento del made in Italy a livello europeo. Massimo Martinoli assicura che è una battaglia soli contro tutti: "I Paesi del Nord che sono grandi importatori non lo vogliono. I nostri politici sono assenti". Migranti. Il governo: "sbarchi record non casuali, c’è una regia" di Francesco Grignetti La Stampa, 20 aprile 2017 Dall’inizio dell’anno soccorsi in 37mila, anche i team umanitari nel mirino. Save the Children: le organizzazioni più grandi hanno conti trasparenti. L’impennata di sbarchi nei giorni di Pasqua ha avuto l’effetto di un’onda tellurica nelle stanze del governo. Non è normale che dai porticcioli libici partano 8500 migranti in poche ore. Un pullulare di barconi tutt’insieme ha preso il mare ed è andato incontro alle navi umanitarie. Un concatenarsi di eventi che ha messo in ginocchio il sistema di accoglienza dell’Italia e nelle stanze del governo ha generato il sospetto che questa escalation non sia stata casuale. "Un’azione logistica fuori dal comune, quasi di stampo militare", dice chi è a conoscenza del dossier. Un’azione sicuramente concertata. E ora è caccia ai registi. È più che un sospetto. È una certezza consolidatasi con l’affinarsi delle indagini: gli investigatori italiani hanno ricostruito la rotta dei gommoni, i porti di partenza, gli orari, i punti di incontro con le navi umanitarie, e si sono convinti che la Pasqua del 2017 abbia segnato un punto di svolta. Dietro le partenze si pensa che quantomeno ci sia la grande criminalità organizzata della Libia, ma non solo. Si guarda alle connection politiche in loco. Potrebbe essere scattata un’operazione per minare definitivamente il ruolo del premier Sarraj, che si era impegnato con l’Italia a far qualcosa contro gli scafisti. Ma non si perde di vista il secondo protagonista di questa vicenda: le navi delle Ong. Chi sono i veri finanziatori, da dove giungono le loro navi, quali inconfessabili accordi potrebbero avere alcune organizzazioni. Intelligence, polizia e militari sono stati tutti mobilitati, ciascuno per la propria parte, a trovare le risposte. Anche Matteo Renzi si è arrabbiato e ha dato voce ai retro pensieri del governo: "Noi siamo accoglienti e salviamo vite umane, ma non possiamo essere presi in giro da nessuno, né in Europa, né da Ong che non rispettano le regole". Renzi cita espressamente il "lavoro straordinario" del ministro Marco Minniti e l’indagine conoscitiva della Commissione parlamentare guidata da Nicola Latorre. "Si sta gettando una luce sulla vicenda". Dalle audizioni che si tengono al Senato emerge come negli ultimi mesi le navi umanitarie abbiano surclassato le flotte ufficiali. Sistemandosi al limite delle acque territoriali libiche ed esercitando una "ricerca attiva", l’internazionale della solidarietà francese, tedesca e spagnola fa il pieno di migranti e poi, appellandosi alla legge del mare, li consegna nei porti italiani. Secondo lo stesso Renzi, "c’è un problema europeo, che prima o poi verrà fuori. Non è possibile che l’Europa abbia 20 navi che prendono e portano solo in Sicilia". Anche la procura di Catania indaga su questo aspetto. E il tema riemerge di continuo nelle audizioni del Senato. Ieri finalmente qualcuno ha riconosciuto: "Quando girano così tanti soldi, non si può escludere qualche affare sporco". Era il commento di Valerio Neri, direttore generale di Save the Children in Italia, una Ong storica che si appresta a festeggiare i suoi 100 anni di storia e che il procuratore Carmelo Zuccaro considera "al di sopra di ogni sospetto". Neri però circoscrive l’area del sospetto: "Escludo categoricamente che qualcosa possa macchiare il profilo delle Ong più grandi, più strutturate, più storiche. Conosco le loro procedure interne e so che sono inattaccabili". Di certe associazioni più piccole si sa che affrontano spese pazzesche e sono evasive sulle entrate. Più di un senatore cita il caso di Moas, una Ong con base a Malta fondata nel 2014 dal filantropo statunitense Chris Catrambone e da sua moglie Regina, che dispone di una nave di 40 metri, il Phoenix, battente bandiera del Belize, e di un aereo con cui pattuglia il mare. L’anno scorso utilizzava anche due droni per il cui nolo pagava 400 mila euro al mese. Moas dichiara di aver salvato 33 mila migranti. Monta la polemica anche del centrodestra. Laura Ravetto, di Forza Italia, presidente del Comitato Schengen, sostiene che soltanto il 50% delle segnalazioni che ricevono le Ong arriva dalla nostra Guardia Costiera. "È una situazione delicata perché, se fosse vera, stiamo creando dei corridoi umanitari privati in mare". Migranti. "Picchiati nel consolato d’Egitto a Milano" di Floriana Bulfon e Brahim Maarad L’Espresso, 20 aprile 2017 Insultati, maltrattati, presi a pugni e calci. Almeno due i casi denunciati. "Eravamo lì solo per fare dei documenti: hanno preso mio figlio, lo hanno buttato a terra. Ora mi minacciano per farmi tacere. Ho paura". Maltrattati, umiliati e picchiati. Negli uffici pubblici del consolato d’Egitto a Milano. Sono almeno due i casi denunciati nei giorni scorsi alle forze dell’ordine italiane. È il 4 aprile quando Mustapha entra negli uffici in via Timavo. Deve solo sbrigare alcune pratiche per i documenti del figlio che ha da poco compiuto un anno. Ordinaria amministrazione. "Anche per una cosa semplice è necessario però attendere ore senza sapere nulla. Ormai ci siamo abituati", constata. Accanto a lui c’è una signora che chiede a un funzionario la cortesia di accelerare i tempi. Ha persino un motivo: "Purtroppo ha spiegato di aver lasciato il figlio piccolo alla vicina di casa". Una semplice richiesta che riceve una reazione inattesa. "La insultano. Quel dipendente le dice che non è lì al suo servizio e l’accusa di mancargli di rispetto. La tratta così male che scoppia a piangere", spiega Mustapha. Ed è a quel punto che decide di intervenire: "Ho solo detto che non si può trattare così una donna. Immediatamente mi hanno portato in una stanza. Pensavo volessero parlare con me e così li ho seguiti con tranquillità, invece mi hanno buttato a terra e picchiato. Sono andati avanti per diverso tempo. Ho ricevuto così tanti colpi in testa che ancora oggi ho problemi d’udito". Un trauma documentato da un referto del pronto soccorso dell’Ospedale San Paolo che attesta "una verosimile perforazione timpanica e apparente interessamento dell’orecchio interno". Mustapha ricorda quel giorno con molta sofferenza. E una rabbia che va persino oltre la violenza fisica perché: "Mi hanno sequestrato i documenti di mio figlio. Ho chiamato Polizia e Carabinieri, sono arrivati ma si sono fermati al cancello perché non sono autorizzati a entrare". E così ai calci e pugni si è aggiunta anche l’umiliazione: "Li ho dovuti supplicare per riavere indietro i documenti di mio figlio". Racconta Mustapha e alla fine scoppia a piangere: "Mai in vita mia avrei pensato che mi succedesse una cosa simile al consolato del mio Paese". Poche ore dopo la stessa sorte tocca a una mamma e a suo figlio. "Per aggiornare una carta d’identità siamo rimasti lì oltre quattro ore", spiega Fatma El Sayed. "Ci hanno praticamente chiusi dentro e hanno detto che saremmo potuti uscire solo quando l’avrebbero deciso i responsabili. Ho detto loro che si trattava di un sequestro di persona". Fatma si reca in questura a Milano, si fa coraggio e sporge querela. Ripercorre quelle ore. "Mio figlio Sherif", mette nero su bianco, "dopo aver aspettato svariato tempo si avvicina ad un addetto al consolato per esprimere alcune lamentele, ma viene spinto a terra". A quell’uomo se ne aggiungono altri due. Fatma vorrebbe dimenticare quel pomeriggio del 4 aprile. "Mio figlio voleva filmare tutto con il cellulare per denunciare cosa stavamo subendo. Hanno voluto togliergli il cellulare, lo hanno buttato a terra e malmenato. Mi sono dovuta mettere io in mezzo per separarlo", ricorda. Da quel momento le dicono che non possono uscire. "Un uomo mi ha sottratto il telefono, ci ha impedito di uscire". Inutile ogni tentativo di farli desistere. Alla fine il figlio, secondo la ricostruzione di Fatma, approfittando di un momento di distrazione è riuscito a scavalcare il cancello d’ingresso e a chiamare la Polizia. Alla fine il cellulare viene restituito, ma il video è scomparso. Al pronto soccorso di Monza constatano la necessità di tre giorni di riposo per una distorsione cervicale. Fatma intanto continua a ricevere le pressioni per non raccontare l’accaduto. "Solo l’altra notte ho ricevuto tre telefonate di persone che mi dicevano di non fare male al mio Paese se avevo a cuore mio figlio. Queste sono minacce e io ho davvero paura", racconta. È spaventata ma vuole far sapere, vuole dire basta ai maltrattamenti e ai soprusi che, secondo alcuni cittadini egiziani residenti a Milano, vanno avanti da anni almeno dal 2014. Avremmo voluto parlare con il consolato, chiedere spiegazioni. Nessuno ha voluto rispondere. Il telefono continua a squillare a vuoto. Bimbi rubati, schiaffo alle vittime dei traffici. E Gentiloni non risponde al magistrato di Fabrizio Gatti L’Espresso, 20 aprile 2017 L’appello riservato di Silvia Della Monica al presidente del Consiglio: "Commercio di minori e pedofilia, il governo italiano non può essere additato come difensore dei criminali". Ma il premier non riceve la vicepresidente della Commissione adozioni che ha scoperchiato lo scandalo. E il Csm dà il nullaosta alla sua sostituzione Il Consiglio superiore della magistratura ha autorizzato il collocamento fuori ruolo della presidente del Tribunale per i minorenni di Firenze, Laura Laera: "Destinata a ricoprire l’incarico di vicepresidente della Commissione per le adozioni internazionali", spiega una nota dell’organo di autogoverno dei magistrati, "su nomina della presidenza del Consiglio". Il premier Paolo Gentiloni e la sottosegretaria Maria Elena Boschi hanno così confermato l’intenzione di non rinnovare il mandato al magistrato antimafia Silvia Della Monica, il cui incarico di vicepresidente era scaduto nelle scorse settimane. Sia il capo del governo, sia la sottosegretaria alla presidenza del Consiglio hanno quindi deciso di ignorare gli accorati appelli di una cinquantina di famiglie adottive che hanno denunciato l’ente milanese per le adozioni internazionali "Aibi - Amici dei bambini" e chiedevano al governo la dovuta protezione di fronte alle continue minacce nei confronti loro e dei loro figli. "Vi va bene che non vi bruciano" - I bambini sono infatti vittime e testimoni diretti di quanto è avvenuto nella Repubblica Democratica del Congo (Rdc), dove Aibi non avrebbe segnalato quanto sapeva su gravi irregolarità nelle procedure di adozione, e in Bulgaria, dove l’organizzazione di San Giuliano Milanese ha ritardato di tre mesi la denuncia contro una rete di pedofili che sfruttava i bimbi di un orfanotrofio per girare film pornografici. Ritardo confermato da un Tribunale italiano. E i pedofili non sono mai stati identificati. "Forse SDM (Silvia Della Monica) la scampa per problemi mentali, ma per la "company" saranno dolori forti forti. Auguri!", scrive ad alcune coppie adottive su Twitter un anonimo che si definisce "il Barba", profilo seguito da diciassette "follower" tra i quali Marco Griffini, presidente di Aibi, Irene Bertuzzi, sua moglie, e Maurizio Faggioni, un loro amico e collega (che ovviamente non hanno alcuna responsabilità per i testi pubblicati da "il Barba"). "E ora chiudiamo il conto anche con chi direttamente o indirettamente vi ha sostenuto... è tutto pronto, manca soltanto un semplice click", avverte in concomitanza con il nullaosta del Csm a Laura Laera, il profilo Twitter di un altro anonimo che si firma Mauro Leli e che poco dopo aggiunge: "Il tempo delle streghe e del medioevo è finito. E vi va pure bene perché a quel tempo le streghe e i suoi seguaci venivano bruciati vivi". Una situazione delicatissima che sta terrorizzando le famiglie che si sono fidate delle istituzioni. E che per questo chiedevano al premier, e tuttora chiedono, la riconferma di Silvia Della Monica, finora unico magistrato al vertice della Commissione che ha tutelato vittime e testimoni perché potessero consegnare le loro denunce in piena sicurezza all’autorità giudiziaria. Altri esposti su Aibi, nella gestione precedente della Commissione, erano finiti nel nulla. Il premier sapeva: il resoconto del 18 febbraio - Il premier Paolo Gentiloni, che è contemporaneamente presidente della Commissione per le adozioni internazionali (Cai), è al corrente dei pericoli che corrono i piccoli testimoni. Ma anche i funzionari legali che hanno operato in Congo su mandato del governo locale e del governo di Roma per liberare diciotto bambini adottati da famiglie italiane e trattenuti per un anno e mezzo a Goma, nell’Est del Paese africano. Il 18 febbraio scorso il magistrato Della Monica ha inviato al presidente del Consiglio un resoconto sulle indagini, che abbiamo potuto leggere grazie a fonti interne nella segreteria generale di Palazzo Chigi. Le stesse fonti rivelano che Gentiloni non ha mai risposto né voluto ricevere il magistrato, suo vicepresidente nella Commissione. Nonostante la delicatissima situazione, Palazzo Chigi ha lasciato cadere nel vuoto il resoconto-appello. "L’inquietudine e l’angoscia delle famiglie che da tempo aspettano un segnale dal governo, mentre subiscono scherno e minacce dall’ente che si è macchiato di gravissime responsabilità nell’ambito delle adozioni internazionali e mentre assistono sconcertate agli ignobili attacchi alla mia persona e all’istituzione che rappresento per aver smascherato inconfessabili infamie che sono state commesse sulla pelle dei bambini, è diventata la mia preoccupazione istituzionale", scrive Silvia Della Monica a Paolo Gentiloni: "Ritengo irrimandabile e necessario fornirTi, in ragione del Tuo ruolo di presidente della Commissione adozioni internazionali, ma soprattutto in ragione del Tuo ruolo di presidente del Consiglio e capo del governo italiano, alcuni elementi di conoscenza fondamentali, che riguardano il delicatissimo ambito di cui sono responsabile da tre anni e che, da quando hai assunto l’incarico di premier, ricade anche nella Tua responsabilità". Milioni di euro erogati con decisioni illegittime - "Quando ho assunto questo compito, ormai tre anni fa", continua il magistrato Della Monica, "pensavo sinceramente di potermi dedicare, dopo tanti anni di battaglie prima in sede giudiziaria, poi in sede parlamentare, ad un’attività sì impegnativa, sì delicata, ma certamente non così drammaticamente grave. Come sai, dopo la nomina a vicepresidente, Matteo Renzi mi ha conferito la delega di funzioni di presidente della Cai e questo, come è agevole comprendere dalla semplice lettura delle norme, nel pieno rispetto della legge. Quello che mi sono trovata di fronte, invece, é stata una situazione gravissima. Un organismo totalmente fuori controllo, o meglio un organo pubblico in cui alcune associazioni private che dovevano essere controllate e vigilate dalla Cai avevano preso il sopravvento. Soldi pubblici, milioni di euro, erogati con decisioni assunte in conclamato conflitto di interesse e quindi illegittime. Un organo collegiale in cui hanno seduto e siedono sotto mentite spoglie alcuni degli enti controllati, quelli che in pratica al posto di essere controllati e vigilati, controllavano la Commissione". Il commercio dei bambini - "Ma soprattutto mi sono trovata di fronte all’abominio del traffico di minori, lo spregevole commercio dei bambini e l’orrore della pedofilia", denuncia la lettera della vicepresidente della Commissione adozioni internazionali a Gentiloni: "Nell’affrontare la moratoria delle adozioni in Congo mi sono trovata di fronte uno scenario dell’orrore che ha assunto tinte, se possibile, ancora più fosche dopo alcuni mesi dall’arrivo dei bambini in Italia e specialmente nelle ultime settimane. Come ho detto in sedi istituzionali, quindi in maniera ufficiale assumendomene tutta la responsabilità, sono arrivati in Italia sotto la responsabilità di un ente, bambini che hanno padri e madri a cui sono stati tolti con danaro o con l’inganno. Ci sono, in Italia, fratelli e sorelle che sono stati separati e che sono stati fatti adottare da genitori differenti. Queste famiglie ignare e schiantate da tanto dolore si sono affidate alla Commissione, a me, convinte che le istituzioni di questo Paese le avrebbero protette ed aiutate. Hanno affidato le vite dei loro figli, ora cittadini italiani, alle istituzioni italiane. E le istituzioni italiane non possono, non devono abbandonarle. Io non ho intenzione di farlo". La macchina del fango - "Sono stati commessi reati gravissimi che, l’ho detto pubblicamente ed in sede ufficiale, sono al vaglio della magistratura. Altro sta venendo fuori proprio in questi giorni e proprio grazie alla fiducia incondizionata che il mio lavoro di questi tre anni, la mia battaglia contro l’illegalità che si annidava in un organo alle dirette dipendenze del presidente del Consiglio, ha determinato in una platea di famiglie, di cittadini italiani che non si fidavano della Cai, peggio non sapevano neanche cosa fosse. L’ente, con il suo presidente, ha montato una campagna diffamatoria e di calunnia nei confronti della mia persona e del governo italiano (visto che la Cai, mi preme ricordarlo, è nella diretta responsabilità del presidente del Consiglio). La macchina del fango è particolarmente in moto in questi giorni ed è esclusivamente mirata a chiedere la mia testa, perfettamente consci, coloro che si sono macchiati di fatti gravissimi, che dalla mia permanenza o meno al vertice della Commissione dipende la possibilità per loro di farla franca o di vedersi addossate le loro responsabilità, a partire dalla ineludibile revoca dell’autorizzazione ad operare come ente autorizzato". Ecco è proprio questo il punto. L’ente e il suo presidente sono perfettamente consapevoli di questo, come lo sono coloro che lo spalleggiano. Non sembra invece che lo sia il governo italiano. Ed è proprio la questione di cui mi preme renderti consapevole. In questo momento la situazione è ad un punto delicatissimo, il mio venire meno dalla Commissione comporterebbe automaticamente l’irrimediabile affossamento di tutta l’attività di indagine portata avanti fin qui dalla Cai. E, lo affermo con grande determinazione, si comprometterebbero anche le indagini penali". I rischi per l’incolumità personale - "È certamente quello che vuole chi si è macchiato di gravi responsabilità e che sta disperatamente tentando di liberarsi di me che sto operando per portare fino in fondo l’azione di legalità", avverte Silvia Della Monica: "Ma certamente non è quello che può consentire il Governo della Repubblica italiana. Aggiungo con estrema serietà e con grandissima preoccupazione che, tra l’altro, la mia sostituzione metterebbe a rischio l’incolumità personale di coloro che su incarico della Cai, cioè su incarico del governo italiano, stanno ancora impegnandosi in Rdc per il nostro Paese, per la giustizia e per la legalità, avendo già pagato in questi tre anni un prezzo altissimo. Già quando nel maggio scorso Matteo Renzi aveva ancora solo annunziato la mia sostituzione come presidente con Maria Elena Boschi, questo ha determinato una situazione di grave pericolo per coloro che in Rdc stavano adoperandosi per la Cai e per l’incolumità dei bambini che venivano tenuti ancora sequestrati a Goma". Un favore ai trafficanti - "Non è questione di competenza ed autorevolezza, in questo momento chiunque, pur competente ed autorevole, non sarebbe in condizioni di poter portare avanti questa serissima azione di legalità. L’interruzione e lo stallo che un avvicendamento in questo momento comporterebbe in maniera ineludibile porrebbe nel nulla tutto il lavoro svolto. Questo succederebbe per fatto oggettivo, non per questione di incapacità o incompetenza di chi prenderebbe il mio posto. I trafficanti di minori se ne gioverebbero. Il governo italiano non può essere additato come difensore dei trafficanti di minori. Io fino ad oggi non l’ho consentito. Mi permetto di sottolinearti ancora che questo sarebbe di fatto, per le ragioni che Ti ho sopra esposto. Il Governo che Ti ha preceduto a partire da Matteo Renzi, passando per Graziano Delrio e Maria Elena Boschi è stato da me puntualmente ragguagliato sulla situazione. La questione del traffico di minori verso l’Italia è sotto i riflettori della stampa italiana più autorevole e all’attenzione dei media internazionali". Il dovere delle istituzioni - "Il mio interesse personale non conta", aggiunge Silvia Della Monica, "come non ha mai contato nella mia vita. Per me, che da servitore dello Stato, non ho mai arretrato, neanche di fronte al rischio della vita, quello che conta è il rispetto della legge, è che le istituzioni facciano il proprio dovere, che portino fino in fondo i propri compiti, che non abbandonino i cittadini inermi in balia del malaffare. La mia unica preoccupazione è che l’azione di moralizzazione intrapresa si fermi e venga posta nel nulla. La cosa sarebbe sicuramente letta come un favore fatto a quelli che hanno cose (terribili) da nascondere ed hanno lucrato sulla pelle dei bambini. Questo non posso permetterlo, Tu, caro Presidente, non puoi permetterlo, e d’altro canto non posso nemmeno nascondere la verità del coacervo di interessi della più varia natura di cui sono portatori quelli che auspicano la mia sostituzione. La fiducia nelle istituzioni si tramuterebbe in sconcerto e sarebbe interpretata come nel cliché della mafia, che mi è ben conosciuto per averla combattuta come magistrato, in un invito alle famiglie al silenzio e all’omertà, quando finalmente hanno rotto la consegna del silenzio che i trafficanti dei bambini hanno per anni imposto loro e ai loro figli. Ti chiedo un colloquio urgente, per lealtà istituzionale e per metterti in condizione di tutelare il buon nome del Governo da Te presieduto". Il colloquio richiesto non è mai concesso. Turchia. "Gabriele libero subito": Ong e giornalisti chiedono la liberazione di Del Grande Redattore Sociale, 20 aprile 2017 Del Grande è in stato di fermo in Turchia dal 9 aprile scorso. Arci: siano comunicate al più presto data e modalità del rilascio. Noury (Amnesty) critica la posizione "debole" del nostro Governo nei confronti della autorità turche. Fsni: non abbassare la guardia. "Gabriele libero subito". È questo il messaggio che viene lanciato a gran voce in queste ore per chiedere la scarcerazione immediata di Gabriele Del Grande, giornalista, documentarista e blogger, fermato e tenuto in stato di fermo in Turchia dal 9 aprile scorso. Mentre si attende di sapere l’esito della trattativa tra l’Italia e il governo turco per il suo rilascio e rimpatrio, sono tanti a stringersi intorno alla famiglia di Del Grande. Arci nazionale esprime solidarietà: "Ci uniamo alla sua famiglia nel chiedere che al più presto siano comunicate la data e le modalità del rilascio - si legge in un comunicato. È nota infatti la durezza delle condizioni di vita nelle carceri di un Paese in cui, soprattutto dopo la dichiarazione dello stato d’emergenza successiva al fallito golpe delle scorsa estate, c’è stata una forte stretta repressiva a scapito del rispetto dei diritti umani. E certamente la situazione di tensione determinata dalla contestata vittoria nel referendum costituzionale voluto da Erdogan non ci tranquillizza. Ci auguriamo quindi il massimo impegno delle nostre rappresentanze diplomatiche in Turchia e chiediamo un intervento urgente del nostro ministero degli Esteri perché Del Grande venga immediatamente rilasciato e rimpatriato". Per Amnesty International "Del Grande è vittima dell’autoritarismo turco, un sistema di purghe e caccia alle streghe su tutta la società che ha portato all’arresto di magistrati, avvocati, insegnanti, giornalisti, universitari". Il portavoce Riccardo Noury si è detto "molto preoccupato per la detenzione di Gabriele" perché "sia il Governo italiano che quello turco dicono che sta bene, ma la sua voce non l’abbiamo ancora mai sentita" e la sua è di fatto "una detenzione arbitraria di una persona in stato di isolamento". Pertanto, dice Noury, "se il rilascio di Gabriele non dovesse avvenire entro mercoledì, come detto dalla Farnesina, sarà opportuno che il nostro Governo faccia sentire la propria voce" visto che finora il suo atteggiamento è stato "debole e accondiscendente, così come quello dell’Europa nei confronti della Turchia su tante altre questioni". In merito al fermo di Del Grande, Noury ha poi aggiunto: "Gabriele non ha compiuto nessun reato e se il motivo della detenzione è davvero la mancanza del permesso stampa, non è giustificabile un fermo così lungo". E infine: "La zona in cui si trova Gabriele è una zona militarizzata e in stato di emergenza, dove le condizioni per uno stato di diritto sono assenti". Anche la Federazione nazionale della stampa (Fnsi) ha fatto sentire la sua voce: "Quello che di grave poteva accadere in Turchia era già accaduto prima delle elezioni, con l’arresto di migliaia di oppositori e la chiusura quasi totale di tutti i media non allineati. Nelle carceri restano oltre 100 cronisti in attesa di processi affidati ad una magistratura che ha già subito un pesante processo di epurazione - sottolineano il segretario generale e il presidente della Fnsi, Raffaele Lorusso e Giuseppe Giulietti. Da giorni, infine, Gabriele Del Grande si trova in stato di fermo, sempre in attesa di essere rilasciato. Le autorità turche hanno garantito a quelle italiane che la sua liberazione potrebbe essere imminente, ma sarà bene non abbassare la guardia e continuare ad "illuminare" la sua vicenda sino a quando non sarà davvero rientrato in Italia". Turchia. Ankara detiene la metà dei giornalisti arrestati nel mondo di Chiara Cruciati Il Manifesto, 20 aprile 2017 Il caso del reporter turco-tedesco Deniz Yucel, in isolamento da febbraio. In totale sono 153 i giornalisti incarcerati, parte della narrativa dell’assedio interno ed esterno del presidente. La Turchia batte un altro record: è il paese con il più alto numero di giornalisti dietro le sbarre. Cina e Egitto mangiano la polvere: con 153 reporter in carcere Ankara detiene la metà di tutti i giornalisti arrestati nel mondo. Sono kurdi, sono turchi, sono indipendenti, sono scrittori e analisti, commentatori e fotografi. E sono anche stranieri. Gabriele Del Grande è l’ultimo di una lunga serie, in un paese che - a seguito della campagna di epurazione giustificata con il tentato golpe del 15 luglio - ha posto sotto il controllo governativo (diretto e indiretto) il 90% dei media, a sentire le opposizioni. I timori di amici e familiari di Del Grande sono più che giustificati. Basta guardare al caso di Deniz Yucel: il reporter del quotidiano Die Welt, cittadino turco e tedesco, è in prigione da febbraio in isolamento. Rischia 10 anni e mezzo di prigione dietro l’accusa di propaganda a favore del Pkk e incitamento alla violenza. Una settimana fa Yucel ha sposato la fidanzata nella prigione di Silivri; poche ore dopo il presidente Erdogan ha fatto sapere a Berlino che non sarebbe stato estradato in Germania, come richiesto dal Ministero degli Esteri tedesco che ha potuto fare visita a Yucel solo sette settimane dopo l’arresto. "È un agente terrorista - ha detto Erdogan - Faremo il necessario, nell’ambito della legge, contro chi agisce come spia e minaccia il nostro paese da Qandil". Un chiaro riferimento alle montagne irachene dove gli uomini del Pkk si sono ritirati quattro anni fa quando partì il breve processo di pace. Il suo caso è emblematico: ad Ankara non importa nulla dell’Unione Europea. Ha modellato lo Stato intorno al concetto di assedio: i nemici esterni (e interni, i kurdi) mettono a repentaglio la nazione turca, la vogliono indebolire per impedirgli di riprendersi il suo ruolo leader in Medio Oriente. È quello che Erdogan va ripetendo ad ogni piè sospinto. La retorica dello Stato in pericolo che necessita dell’uomo forte pronto a schiacciare qualsiasi tentativo di indebolimento è alla base dei reati contestati ai 153 giornalisti in prigione da mesi, qualcuno da anni. L’obiettivo reale è mettere sotto silenzio le poche voci critiche rimaste, lo strumento è la galera. Tanta galera: una settimana fa il procuratore di Istanbul ha chiesto tre ergastoli a testa per 16 dipendenti del gruppo editoriale Zaman. Tra loro la nota commentatrice (forse la più famosa in Turchia) Nazli Ilicak, il giornalista e scrittore pluripremiato Ahmet Altan e il professore di economia e analista Mehmet Altan. Tre nomi noti del panorama mediatico turco, accusati di voler rovesciare l’ordine costituito, il governo e il parlamento tramite il sostegno alla rete dell’imam Gülen, considerato la mente dietro il fallito putsch. Tre ergastoli senza che prove effettive siano mai state presentate all’opinione pubblica, una mannaia contro la libertà di stampa che dovrebbe sollevare qualcosa di più di critiche velate da parte di Bruxelles, impegnata a stringere accordi miliardari anti-rifugiati con il presidente Erdogan. Ovviamente il gruppo Zaman non è il solo. La stessa procura ha chiesto pene da 15 a 43 anni per 19 giornalisti del quotidiano di opposizione Cumhuriyet, ormai chiuso. Celebri furono i casi dell’ex direttore Dundar e il caporedattore Gul condannati in primo grado a cinque anni per il famoso reportage che svelava i legami dei servizi segreti turchi con gruppi islamisti in Siria. I capofila della devastazione del giornale, ora tocca al resto della redazione, al direttore Sabuncu, allo scrittore Sik, al vignettista Kart, all’editore Atalay. I 19 giornalisti sono accusati contemporaneamente di sostegno all’islamista nazionalista Gülen e di appoggio al movimento di liberazione kurdo Pkk. Due soggetti lontanissimi tra loro, ideologicamente ai poli opposti. Ma che finiscono in un unico calderone, quello del terrorismo contro lo Stato. Non a caso la procura parla di "tattiche di guerra asimmetrica, intense operazioni di percezione che hanno preso di mira il governo e il presidente". Alla fine non resta nulla, il deserto dell’informazione: con quasi 200 siti, agenzie, quotidiani, tv, radio chiusi per ordine governativo (per lo più kurdi) e 153 reporter in carcere, non stupiscono le parole dell’Osce sulla campagna referendaria: "Il fronte del sì ha dominato la copertura dei media". Medio Oriente. Detenuti in sciopero della fame, Israele chiude, Fatah si spacca di Michele Giorgio Il Manifesto, 20 aprile 2017 La protesta si allarga, il leader palestinese Marwan Barghouti messo in isolamento. Il partito del presidente Abu Mazen si divide tra chi sostiene i prigionieri e chi teme che le piazze si accendano. Marwan Barghouti è in isolamento nel penitenziario di Jalame, tagliato fuori da ciò che accade all’esterno della sua cella, ma lo sciopero della fame "Libertà e Dignità" che ha proclamato lunedì scorso per ottenere migliori condizioni di vita nelle carceri israeliane raccoglie continue adesioni. Ai 1.500 detenuti - in buona parte di Fatah, il partito di cui Barghouti è il segretario in Cisgiordania - si sono unite anche le 58 detenute palestinesi nel carcere di Hasharon. Gli avvocati da parte loro boicotteranno le corti militari israeliane che nel 90% dei casi condannano al carcere i loro assistiti. Ne ha scritto Barghouti nella sua lettera pubblicata il 16 aprile dal New York Times suscitando l’ira di Israele che considera il dirigente di Fatah non un nuovo Mandela bensì un terrorista condannato a cinque ergastoli per aver organizzato attentati contro civili. Accusa che Barghouti respinge. Nonostante la reazione di Israele, che ha adottato contromisure immediate e ha escluso, per bocca del ministro per la Sicurezza interna Gilad Erdan, qualsiasi ipotesi di trattativa con gli scioperanti, la protesta ha avuto un forte impatto internazionale e sta mobilitando migliaia di palestinesi come non accadeva da tempo. Tanto da scuotere i vertici di Fatah rimasti freddi fino a lunedì di fronte all’iniziativa di Barghouti, temendone i riflessi nelle strade della Cisgiordania e le insidie per la stessa Autorità nazionale palestinese. Dopo l’appello a sostegno della lotta dei prigionieri lanciato dal presidente dell’Anp (e leader di Fatah) Abu Mazen, ieri il segretario generale dell’Olp Saeb Erekat ha chiesto ai palestinesi "ovunque siano di sostenere il movimento nazionale dei prigionieri contro le politiche razziste che violano gravemente la legge umanitaria internazionale e i diritti umani". Erekat si è anche appellato alla comunità internazionale e ai firmatari della Quarta Convenzione di Ginevra sostenendo che "è tempo di intraprendere azioni concrete" per costringere il governo Netanyahu "a rispettare i suoi obblighi". Erekat infine si è rivolto al Tribunale Penale dell’Aja affinché concluda rapidamente "l’inchiesta preliminare e apra un’indagine su Israele per crimini di guerra". Nel gruppo dirigente di Fatah a Ramallah non c’è unanimità di giudizio nei confronti dello sciopero organizzato da Barghouti. Saeb Erakat e gli ex capi dei servizi di sicurezza Jibril Rajoub e Tawfiq Tirawi appaiono inclini, con accenti diversi, a sostenerlo, anche per guadagnare consensi tra i palestinesi. Altri dirigenti sono più cauti e mettono in guardia dai contraccolpi politici della mobilitazione della base del partito e di tanti palestinesi. Tra questi c’è l’ex governatore di Nablus, Mahmoud al Aloul, che percepisce la protesta come una sfida alla sua posizione visto che a inizio anno è stato nominato vice presidente, carica che molti militanti del partito pensavano fosse destinata proprio a Barghouti, il più votato tra i membri del Comitato centrale al congresso di Fatah alla fine del 2016. Esita anche Majd Faraj, il comandante dell’intelligence dell’Anp, consapevole che il peggioramento delle condizioni di salute dei prigionieri che fanno lo sciopero della fame potrebbe innescare ampie manifestazioni di protesta contro Israele che la polizia palestinese sarebbe chiamata a contenere se non addirittura a reprimere con ovvie ripercussioni interne. Faraj si prepara a partire, il 25 aprile, assieme ad altri rappresentanti dell’Anp, per gli Stati uniti dove preparerà la visita ufficiale di Abu Mazen che, pare il 3 maggio, sarà ricevuto alla Casa Bianca da Donald Trump. Faraj teme che eventuali scontri tra palestinesi e forze militari israeliane possano indebolire l’immagine di Abu Mazen agli occhi di Trump davanti al quale invece il presidente dell’Anp vorrebbe presentarsi avendo il pieno controllo della situazione in Cisgiordania e mostrando un atteggiamento intransigente nei confronti di Hamas. Se da un lato una delegazione di Fatah è andata a Gaza per discutere di riconciliazione con il movimento islamico, dall’altro i contrasti tra le due parti esplosi negli ultimi giorni, dopo il taglio del 30% al salario degli ex dipendenti dell’Anp nella Striscia e il mancato pagamento da parte del governo di Ramallah del gasolio per la locale centrale elettrica (ora ferma con grave disagio per la popolazione), indicano la volontà della leadership palestinese di mantenere una posizione dura verso Hamas. "Abu Mazen - ha spiegato ieri al manifesto una fonte di Fatah - sta dicendo al capo di Hamas a Gaza Yahya Sinwar che non è più disposto a finanziare la stabilità di Gaza mentre gli islamisti non appaiono pronti a rinunciare al pieno controllo della Striscia". Medio Oriente. Perché noi prigionieri palestinesi siamo in sciopero della fame di Marwan Barghouti* Il Manifesto, 20 aprile 2017 Lo sciopero della fame è la forma più pacifica di resistenza disponibile. Infligge dolore unicamente in chi vi partecipa e nei loro cari, nella speranza che i loro stomaci vuoti e il loro sacrificio aiutino a dare risonanza al loro messaggio oltre i confini delle loro buie celle. Avendo speso gli ultimi quindici anni della mia vita in un carcere israeliano, sono stato al tempo stesso un testimone e una vittima del sistema illegale di Israele di arresti arbitrari di massa e maltrattamenti dei prigionieri palestinesi. Dopo aver esaurito tutte le altre opzioni, ho deciso che non c’era altra scelta che resistere a questi abusi entrando in sciopero della fame. (…) Lo sciopero della fame è la forma più pacifica di resistenza disponibile. Infligge dolore unicamente in chi vi partecipa e nei loro cari, nella speranza che i loro stomaci vuoti e il loro sacrificio aiutino a dare risonanza al loro messaggio oltre i confini delle loro buie celle. Decenni di esperienza hanno dimostrato che il sistema inumano di Israele di occupazione economica e militare mira a spezzare lo spirito dei prigionieri e il paese al quale appartengono, infliggendo sofferenze ai loro corpi, separandoli dalle loro famiglie e comunità, usando misure umilianti per costringerli alla sottomissione. Ma nonostante questo trattamento, noi non ci arrenderemo. Israele, la forza occupante, ha violato la legge internazionale in molteplici modi negli ultimi 70 anni e ancora le viene garantita impunità. Ha commesso gravi violazioni delle Convenzioni di Ginevra contro il popolo palestinese; i prigionieri, che siano uomini, donne e bambini, non rappresentano un’eccezione. (…) Avevo solo 15 anni quando sono stato rinchiuso in carcere la prima volta. Ne avevo appena 18 quando un interrogatore israeliano mi costrinse ad allargare le gambe, prima di colpirmi ai genitali. (…) Qualche anno dopo, ero di nuovo in una prigione israeliana e conducevo uno sciopero della fame, quando nacque il mio primo figlio. Al posto dei dolci che di solito offriamo per celebrare simili eventi, io distribuii sale agli altri prigionieri. Quando aveva 18 anni appena, fu a sua volta arrestato, e spese 4 anni nelle carceri israeliane. Il più grande dei miei quattro figli ora è diventato un uomo di 31 anni. Io sono ancora qui che perseguo questa lotta per la libertà con migliaia di prigionieri, milioni di palestinesi e con il supporto di così tante persone in tutto il mondo. Che cos’è che con l’arroganza dell’occupante e dell’oppressore e dei loro sostenitori li rende sordi a questa semplice verità? Che le nostre catene saranno spezzate prima che lo siamo noi, perché è nella natura umana rispondere alla chiamata per la libertà, a prescindere dal prezzo che si avrà da pagare. Israele ha costruito quasi tutte le sue prigioni in Israele piuttosto che nei Territori Occupati. Così facendo, ha illegalmente e forzatamente trasferito dei civili palestinesi in cattività e ha sfruttato questa situazione per restringere le visite dei familiari e per infliggere ai palestinesi sofferenze attraverso lunghi tragitti in condizioni crudeli. Ha trasformato diritti umani basilari che dovrebbero essere garantiti in rispetto della legge internazionale - inclusi alcuni dolorosamente guadagnati attraverso precedenti scioperi della fame - in privilegi che il suo servizio carcerario decide di concederci o negarci. I prigionieri e detenuti palestinesi hanno subito torture, trattamenti inumani e degradanti e negligenza medica. Alcuni sono stati uccisi mentre erano in detenzione. Stando alle ultime stime del Club Prigionieri Palestinesi, circa 200 prigionieri palestinesi sono morti dal 1967 ad oggi a causa di questi crimini. (…) Attraverso questo sciopero della fame, noi cerchiamo di porre fine a questi abusi. (…) Negli scorsi cinque decenni, secondo l’associazione per i diritti umani Addameer, più di 800mila prigionieri palestinesi sono stati arrestati o detenuti da Israele - l’equivalente del 40% della popolazione maschile nel territorio palestinese. (…) Israele ha stabilito un regime legale doppio, una sorta di apartheid giudiziario, che dà impunità virtuale agli israeliani che commettono crimini contro i palestinesi, criminalizzando, invece, la presenza e la resistenza palestinesi. Le corti di Israele sono una sciarada di giustizia, chiari strumenti di occupazione coloniale e militare. Per il Dipartimento di Stato, il tasso di condanne per i palestinesi nei tribunali militari è di quasi il 90%. Tra le centinaia di migliaia di palestinesi che Israele ha catturato ci sono bambini, donne, parlamentari, attivisti, giornalisti, difensori di diritti umani, accademici, figure politiche, militanti, simpatizzanti, familiari di prigionieri. E tutti imprigionati con uno stesso scopo: sotterrare le aspirazioni legittime di un’intera nazione. Al contrario, tuttavia, le carceri israeliane sono diventate la culla per un duraturo movimento di autodeterminazione palestinese. Questo nuovo sciopero della fame dimostrerà ancora una volta che il movimento dei prigionieri è la bussola che guida la nostra lotta, la lotta per la Dignità e i Diritti, il nome che abbiamo scelto per questo nuovo passo nel nostro lungo percorso verso la libertà. (…) I diritti non sono più un bene concesso da un oppressore. Libertà e dignità sono diritti universali insiti nell’umanità, di cui tutte le nazioni e tutti gli esseri umani devono godere. I palestinesi non saranno un’eccezione. Soltanto porre fine all’occupazione metterà fine a questa ingiustizia e segnerà la nascita della pace. *Estratti dell’articolo scritto dalla prigione di Hadarim e apparso il 16 aprile sul New York Times. Traduzione di Valeria Cagnazzo Gran Bretagna. Il Consiglio d’Europa denuncia la violenza dilagante nelle carceri tvsvizzera.it, 20 aprile 2017 Nelle prigioni britanniche la violenza dilaga ed è fuori controllo. È la critica rivolta a Londra dal comitato per la prevenzione alla tortura del Consiglio d’Europa (Cpt), contenuta in un rapporto pubblicato su una visita condotta un anno fa nelle prigioni. Il Cpt denuncia che "nessuna delle prigioni visitate può essere considerata sicura per i detenuti e le guardie carcerarie". Il rapporto elenca violenze inferte dai carcerati su altri prigionieri e sulle guardie: episodi che vanno dall’acqua bollente gettata sulle vittime, con gravi ustioni su oltre il 10% del corpo, a ferite causate da coltelli artigianali, contusioni alla testa, nasi e denti rotti. Dai registri consultati dal Cpt risulta che spesso le ferite richiedono il ricovero e in un caso hanno condotto alla morte di un detenuto. L’organo del Consiglio d’Europa osserva che "mentre il numero di violenze in tutte le prigioni visitate riportate nei registri è a livelli allarmanti" il Cpt ritiene che "i dati sottovalutano il vero numero di incidenti violenti e di conseguenza non forniscono una vera immagine della gravità della situazione". Il Cpt raccomanda quindi a Londra di "adottare misure concrete per riportare le prigioni sotto l’effettivo controllo delle guardie" ritenendo che questo richiede "in particolare di rafforzare rapidamente il numero di guardie carcerarie". Stati Uniti. L’ex campione di football Aaron Hernandez si impicca in carcere Il Messaggero, 20 aprile 2017 L’ex stella del football americano della Nfl e dei Patriots, Aaron Hernandez, condannato all’ergastolo nel 2015 per omicidio si è tolto la vita in cella impiccandosi. Lo riferiscono le autorità americane. Hernandez, 27 anni, è stato trovato impiccato nella sua cella da ufficiali presso il Souza Baranowski Correctional Center, in Massachusetts. È stato dichiarato morto un’ora dopo. Hernandez era in una cella singola in un’unità generale del penitenziario e si è impiccato con un lenzuolo legato alla finestra della sua cella. Inoltre con altri oggetti ha bloccato dall’interno la porta della stessa cella. Un’indagine è in corso. I funzionari hanno detto Hernandez non aveva dato alcuna indicazione che avrebbe potuto togliersi la vita. "Se fosse emerso questo intento, non sarebbe stato detenuto in tale unità del carcere", ha detto il portavoce del Dipartimento di Correzione, Christopher Fallon. La morte di Hernandez è venuta quasi due anni dopo il giorno in cui è stato condannato per omicidio di primo grado per la morte del calciatore semi-professionista Odino Lloyd. Hernandez è stato arrestato nell’agosto 2013.