Anche i detenuti nel Piano nazionale per prevenire Aids e Hiv di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 aprile 2017 Si stima che possano essere circa 5.000 i reclusi sieropositivi. All’interno degli Istituti vivono una condizione difficilissima, le terapie in molti casi vengono interrotte a causa dei trasferimenti e molti non sanno di essere ammalati. Il nuovo piano nazionale di interventi contro l’Hiv e l’Aids, redatto dal ministero della Salute e inviato alla conferenza Stato- Regioni, si interessa anche dei detenuti. Un piano molto articolato che parte dalla constatazione del rischio del "sommerso" e della necessità di riparlare della malattia e di come evitarla con comportamenti consapevoli. Attenzione soprattutto ai giovani e focus sui diritti sociali e lavorativi. Il capitolo 2.3 è interamente dedicato ai detenuti e alla stesura del testo ha partecipato la Società italiana di medicina penitenziaria (Simpse). Si legge che le persone detenute transitate nel 2015 all’interno degli Istituti penitenziari italiani sono state 103.840. Sulla base di numerosi studi di prevalenza puntuale, si stima possano essere circa 5.000 le persone sieropositive per Hiv, di cui circa la metà non noti o non dichiaratisi tali ai servizi sanitari penitenziari. Per il Sistema sanitario nazionale, che dal 2008 ha in carico l’assistenza sanitaria alle persone detenute, il periodo della detenzione rappresenta un momento unico per avvicinare ai propri servizi un cluster di persone altrimenti difficilmente raggiungibili. Nel 2012 la conferenza Stato- Regioni ha approvato un documento di Indirizzo "Infezione da Hiv e detenzione" che indica gli interventi necessari alla gestione delle problematiche dell’infezione da Hiv nel contesto detentivo. Il punto critico evidenziato dal testo riguarda la mancata conoscenza dei dati riguardanti il numero reale dei detenuti sieropositivi. Non sono stati condotti in Italia studi relativi all’incidenza di nuove infezioni e non è quindi noto il tasso annuo di siero-conversione ad anti-Hiv in carcere, pur essendo stati riportati singoli casi di sieroconversione durante detenzioni ininterrotte. Ugualmente è noto che le pratiche "a rischio" per la trasmissione del virus Hiv quali rapporti sessuali non protetti, utilizzo di aghi usati e tatuaggi siano tuttora comuni all’interno delle prigioni. Per questo motivo, il nuovo Piano nazionale, spiega che "è necessario disporre di dati epidemiologici ufficiali e certi in base ai quali individuare le criticità sanitarie intramoenia e allocare gli opportuni interventi". Sono cinque gli interventi pro- Creazione di un Osservatorio nazionale sulla salute in carcere, presso l’Istituto Superiore di Sanità, in grado di coordinare i già previsti "Osservatori regionali per la tutela della salute in carcere" fornendo dati epidemiologici accreditati e aggiornati sia a livello locale che nazionale; attivazione dei programmi di formazione specifici riguardanti tutto il personale sanitario e di polizia penitenziaria; proposta normativa che preveda la "presa in carico" del detenuto, con l’obbligo per i Servizi sanitari di offrire, reiteratamente nel tempo, un counseling adeguato e un accesso volontario e libero ai test di screening d’ingresso, il tutto reiterato nel tempo; promozione di programmi ad ampio raggio, ossia con il coinvolgimento di tutti gli attori, di educazione sanitaria della popolazione detenuta. Elaborazione e distribuzione di materiale specifico; promo- zione di programmi di prevenzione con preservativi e siringhe/ aghi sterili (riduzione del danno). Tali sperimentazioni andranno congiuntamente autorizzate dai ministeri della Giustizia e della Salute. Il testo poi prosegue nel dare indicazioni su come assistere i detenuti che hanno l’Hiv. Viene promossa la garanzia della continuità terapeutica attraverso indicazioni a tutti gli Istituti attraverso le modalità normative ritenute idonee, mediante la consegna ai pazienti liberanti di una quantità di farmaco non inferiore ai sette giorni successivi e, in caso di trasferimento in altro istituto penitenziario, garantire il trasferimento dei farmaci in uso del paziente all’Istituto che lo riceve. Il capitolo riguardante i detenuti conclude ordinando di favorire al massimo l’inserimento nel "continuum of care assistenziale" del paziente in via di liberazione. L’aids è una vera e propria piaga all’interno degli istituti penitenziari. Essere sieropositivo in carcere è come vivere un incubo dentro un altro incubo: l’Hiv non è una patologia come un’altra, ma è oppressa dallo stigma sociale e dalla mediocrità delle informazioni; se si aggiunge il carcere, il risultato è spaventoso. Secondo dei vecchi dati, mai aggiornati, il 28% dei detenuti è positivo all’epatite C, il 7% all’epatite B, il 3,5% all’Hiv, il 20% ha una tubercolosi latente e il 4% è positivo alla sifilide. E se questi numeri sono già spaventosi, va aggiunta la scarsa consapevolezza: un terzo ignora di soffrire di una patologia, ritardando così l’assunzione di farmaci e rischiando di contribuire inconsapevolmente alla diffusione. Per coloro che vengono curati, sorgono altri problemi. Non di rado i detenuti cambiano carcere e questo, nella maggior parte dei casi, vuol dire cambiare terapia e di conseguenza la cura risulta inefficace. Ma accade anche che la terapia venga interrotta e ciò significa far aumentare la carica virale dell’Hiv. Il virus si riproduce velocemente e la non aderenza fa la differenza tra una patologia tenuta sotto controllo e una patologia che rischia di diventare incontrollabile. Rimane comunque il dato oggettivo che l’assistenza infettivologica in molte realtà penitenziarie è ancora fornita in maniera occasionale e spesso solo su richiesta di visita specialistica da parte delle Unità Operative di assistenza penitenziaria. Le richieste di visita presso i centri ospedalieri, invece che in carcere, sono ancora troppo elevate rispetto a insufficienti risorse di personale per le traduzioni; questo determina di fatto una discontinuità nel percorso assistenziale di cura e trattamento. Poi c’è mancanza di prevenzione. In Spagna ad esempio, quando si entra in carcere, i detenuti ricevono un kit con prodotti per l’igiene, siringhe, preservativi, detergenti e altro di cui puoi avere bisogno. Il nuovo piano nazionale per combattere questa piaga che coinvolge anche i penitenziari va nella direzione giusta. Fare la bella vita? In carcere o fuori vuol dire la stessa cosa: possedere di Bruno Contigiani* Il Fatto Quotidiano, 1 aprile 2017 Se chiedo ai detenuti che incontro ogni martedì nel gruppo di lettura o nella redazione del mensile, come mai si trovino fra quelle mura, nel caso di rapinatori, ladri o truffatori, la risposta è quasi sempre la stessa: "Mi piaceva la bella vita". Una bella vita che, nella maggior parte dei casi, si riduce al poter possedere auto di lusso, orologi e gioielli di valore, permettersi vacanze "da sogno" e svariate tipologie di eccessi. Nel fare la bella vita, si raggiunge uno stato adrenalinico che va alimentato in continuazione. In realtà non bisogna per forza dialogare con dei carcerati per ritrovare nella quotidianità le medesime aspirazioni. Sono modelli molto diffusi che la Società performante ci propone dagli schermi televisivi, nei media di ogni tipo, sul lavoro, e persino nelle attività sportive dei più piccoli. Raggiungere un obiettivo sempre maggiore, con qualsiasi mezzo, anche mettendo a rischio la propria salute o integrità fisica è diventato parte di una normalità, in cui ricorrere al doping chimico o a quello neuronale della realtà aumentata, della caccia ai Pokemon, diventa quasi uno stato di necessità. La società della Pazza Gioia, però, non è nient’altro che la Società della grande infelicità, in cui la felicità viene scambiata con lo sballo, l’esagerazione, in una vita totalmente priva di significato, nell’insignificanza, come direbbe Milan Kundera. Un superattico nel quartiere "Le Albere" di Trento, disegnato da Renzo Piano, pensato per vip, è il sogno infranto del promotore finanziario che ha decretato, in totale solitudine, il proprio fallimento, con le conseguenze che tutti conosciamo. Andare al massimo non consente di rallentare, permette solo di infilarsi in una strettoia che non prevede vie di mezzo. Accontentarsi e l’accettare gli alti e bassi della vita di ogni giorno non sono contemplati. Non si riesce nemmeno a trovare il tempo e le energie per confidarsi con un amico vicino. La corsa senza fiato si trasforma così in una fuga e si arriva a pensare che il nostro mancato successo, il nostro fallimento, colpirà i nostri figli, miseramente poveri per il fatto di non possedere quei simboli. *Scrittore e fondatore de "L’Arte del vivere con lentezza" Davigo: troppi errori, nella riforma del processo penale, così il Paese resta bloccato Il Mattino, 1 aprile 2017 L’Aiga, l’Associazione dei Giovani Avvocati, riapre il confronto con i magistrati del Foro di Avellino che si era interrotto nei mesi scorsi. Un incontro con Piercamillo Davigo, presidente uscente dell’Anm, l’Associazione Nazionale Magistrati, consente dimettere sul tavolo un po’ di questioni aperte. Anche se si è trattato di temi generali, legati alla riforma del processo penale, dell’impegno in politica dei magistrati o del carico di processi pendenti, l’occasione ha rimesso in moto un dialogo. Nonostante l’ostentata assenza della Camera Penale che, obbediente al diktat nazionale, non si è seduta con il suo presidente Giuseppe Saccone allo stesso tavolo di Davigo. Il quale, in realtà era sostanzialmente non più in carica ieri sera al convegno, dato che da stamattina presidente dell’Anm è il pm di Roma Eugenio Albamonte. E Davigo non ha parlato nemmeno da ex presidente dell’associazione, nonostante le sollecitazioni, preferendo rivolgersi a questioni legate al formalismo imperante nei tribunali, nell’eccesso di giudizio che, a paragone di quel che avviene negli altri paesi d’Europa fa finire l’Italia continuamente in infrazione per la lunghezza dei processi e la violazione dei diritti dell’imputato. E così Davigo - che in passato non aveva nascosto la sua insofferenza ricoprire il ruolo, che tuttavia ha gestito con impeto, passione e piglia combattivo ingaggiando tenzone con il ministro Orlando e il Parlamento, ma anche con i suoi colleghi impegnati in politica (come Emiliano) -ha fatto un discorso di principio, ironico e sanguigno non lasciando fuori nessuno. Gli avvocati? "Non conoscono la storia e le scienze sociali e finiscono per credere che il mondo si interpreti attraverso le norme. Quando invece è il contrario". "I tempi del processo sono contingentati, in tempi e risorse, a differenza di quel che fa credere il legislatore", dice Davigo. Il nuovo processo penale avrebbe dovuto attuare le norme costituzionali e le convenzioni internazionali. A distanza di trenta anni abbiamo riformato la costituzione nella parte dedicata al processo e sono aumentate le condanne dell’Italia in sede internazionale sulla durata del processo". Un basso tasso di giustizia comporta importazione di criminalità, spiega Davigo in un libro uscito proprio ieri. Ironia dunque su figure come "imputato in procedimento connesso" che ha portato al paradosso dell’"impumone" (imputato di reato connesso che durante il processo diventa testimone), per non parlare del il testimone con difensore o della prescrizione: "Ci ricovererebbero al manicomio se fossimo all’estero", dice Davigo. Da noi un testimone può essere testimone o imputato. Un giudice americano mi chiese i testi in Italia fossero obbligati a dire la verità: certo che sì. Allora a che serve l’avvcato? A scegliere quale verità dichiarare. E ancora: a che senso ha la prescrizione - ha continuato - dopo che le prove sono state acquisite? "Fervida inventiva italiana capace di inventare scemenze: bisogna smetterla", dice Davigo più divertito o rassegnato che indignato. I limiti di efficienza sono stati sottolineati dal presidente del tribunale Vincenzo Beatrice e dal presidente della sezione di Avellino dell’Anm Gaetano Guglielmo. Mentre sono stati gli avvocati a ricostruire i contorni di un sistema malato come hanno detto Sara Zuccarino presidente della sezione avellinese dell’Aiga e Walter Mauriello che coordina l’Aiga Campania, da Raffaele Tecce che ha organizzato la giornata di studio. Della necessità di rispondere con rapidità alla richiesta di giustizia anche parlato il segretario nazionale del Sappe, sindacato di Polizia penitenziaria, Emilio Fatterello. Su discrasie e scelte tutte derivanti dalle convenienze della politica, ad esempio in materia di prescrizione si sono intrattenuti il penalista Alberico Villani e il presidente dei giovani penalisti Ennio Napolillo. Rotazione ai vertici dell’Anm, dopo Davigo tocca a Area: presidente sarà Albamonte di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 1 aprile 2017 Albamonte nuovo presidente. Il risultato di un anno di confronto. Un meccanismo a orologeria regola la successione nelle cariche che sarà decisa questa mattina dal Comitato direttivo centrale dell’Associazione nazionale magistrati. L’accordo unitario, trovato faticosamente un anno fa dopo le elezioni per il sindacato che rappresenta la quasi totalità delle toghe, prevede un’alternanza al vertice. L’incastro sarà rispettato alla perfezione. Se oggi ai primi due posti ci sono Piercamillo Davigo e Francesco Minisci, presidente e segretario, rispettivamente leader della nuova corrente di destra Autonomia e indipendenza e magistrato più votato della storica corrente centrista di Unicost, da domani nelle prime due caselle prenderanno posto i rappresentanti delle altre due correnti penalizzate un anno fa. Presidente sarà Eugenio Albamonte, sostituto procuratore a Roma e toga più votata nella corrente di sinistra Area, e segretario Edoardo Cilenti, terzo degli eletti per Magistratura Indipendente, la corrente di destra dalla quale si è scissa la nuova formazione guidata da Davigo. Vice presidente e vice segretario saranno di conseguenza un rappresentante di Unicost, Antonio Sangermano, uno dei pm del processo Ruby, e Francesco Valentini, pm a Latina eletto nel comitato direttivo dell’Anm per Autonomia e indipendenza. L’equilibrio quasi da manuale Cencelli è richiesto dal fatto che questa è la prima giunta unitaria dopo circa dieci anni di gestione a maggioranza dell’Anm. Unità non facile da mantenere soprattutto per il protagonismo del presidente uscente che non di rado ha disturbato il resto della magistratura associata. Davigo aveva addirittura esordito, nello scorso aprile, prendendosi una smentita dal resto della sua giunta: nella prima uscita post nomina spiegò che il problema dell’Italia è che ci sono troppi ladri, collocabili dalle parti della politica, e troppo pochi detenuti. Fu caldamente invitato a confrontarsi con le altre correnti prima di schierare l’Anm. Il risultato di un anno di confronto è che Davigo lascia con anticipo rispetto alla scadenza prevista, avendo avvertito per tempo che non vedeva l’ora di tornare al suo lavoro in Cassazione. Il cambio al vertice anticipato, però, si spiega soprattutto con l’esigenza dell’Anm di prendere una posizione ufficiale (certamente critica) sul decreto che impone agli agenti di polizia giudiziaria di informare sempre i superiori gerarchici delle indagini. E sulla legge di riforma del codice penale che è all’ultimo passaggio alla camera; il neo presidente Albamonte ha anticipato al manifesto dieci giorni fa il suo personale giudizio: luci (ordinamento penitenziario, e al netto dei dubbi sull’ampiezza della delega, anche intercettazioni) e ombre (la norma sull’avocazione delle indagini da parte della procura generale) sulla riforma del ministro Orlando. Davigo invece vedeva solo ombre. Procura e redazioni: quando il copia-incolla diventa uno scoop di Paolo Delgado Il Dubbio, 1 aprile 2017 Le relazioni pericolose tra giornalisti e pm. Spesso dietro le notizie ci sono i magistrati e così finisce che a dettare la linea e il senso comune siano appunto quegli stessi magistrati. Intercettato in carcere Massimo Carminati, che secondo la procura di Roma è la versione romanesca di Totò Riina, si lascia andare a una confidenza sbalorditiva: "La vera Cupola a Roma sono i costruttori". Sull’Espresso, uno dei giornalisti più addentro nelle cose della Cosa nostra capitolina commenta: "La bomba er Cecato la sgancia così. Senza aggiungere nulla. Senza dare una spiegazione all’interlocutore che però comprende il messaggio". Però se le parole del temibile sono "una bomba" conviene evitare i bar della Capitale, pena il ritrovarsi nell’inferno di Mosul: che a Roma i padroni siano i palazzinari lo sanno e lo ripetono proprio tutti. Da decine d’anni. L’articolo in questione, uscito nel settembre scorso ma del tutto omogeneo a un migliaio d’altri usciti su quasi tutte le testate italiane, è un florilegio. Carminati è in cella con altre tre detenuti e stando in regime di 41bis non vede nessun altro. Sempre in virtù del medesimo 41bis, l’articolo che dispensa il carcere duro per i mafiosi, capita che in cella il Pirata si ritrovi appunto con mafiosi, tra cui Giulio Caporrimo, considerato intimo del super latitante Matteo Messina Danaro. Capita anche, per quanto incredibile sembri, che ci parli. Commento del settimanale: "Ecco come la mafia siciliana ritorna prepotente e silenziosa in questa storia". Di perle del genere, a spulciare i media italiani se ne rintracciano senza sforzo a tonnellate. Fanno notizia, anche quando la notizia latita o si riduce a un’opinione. Fanno cultura di massa, mentalità diffusa, e siccome 99 volte su 100 dietro quelle notizie ci sono le procure finisce che a dettare il senso comune sono appunto le procure. Fanno anche carriera: per essere promossi a principi del giornalismo niente, neppure una bella sparata contro i politici magnaccioni, vale una minaccia mafiosa, un sguardo di sbieco del boss di turno. Se resuscitasse, Leonardo Sciascia volgerebbe oggi i suoi strali non più contro i palazzi di giustizia ma contro le redazioni, che del resto ne sono spesso pure dependance. Roberto Saviano ha aperto la strada e indicato la rotta. In mezzo allo stuolo di principi e duchesse è senza discussioni il sovrano. Cosa abbia scritto nel celebre Gomorra che non fosse già noto è un mistero. L’apporto creativo e fantasioso in quello storico titolo è conclamato: si chiama romanzo proprio perché non perde tempo a separare i fatti dall’immaginazione. Ma se ai boss non è piaciuto deve per forza trattarsi di capolavoro: tanto che qualche anno fa di Saviano, con all’attivo due titoli, è uscita l’edizione di lusso delle opere complete. Come usa Con Tolstoj o Gadda. Il secondo titolo in questione, al quale si è aggiunto nel frattempo un terzo e bisognerà sfornare al più presto l’edizione aggiornata dell’opera omnia era un’inchiesta sullo spaccio di cocaina, "Zero Zero Zero": basta spulciare i ringraziamenti finali per scoprire che le fonti dell’inchiesta sono essenzialmente le inchieste della magistratura. Del resto anche in quel caso si trattava di un romanzo. L’esempio più lampante ed eloquente resta tuttavia ancora quello dell’inchiesta Mafia capitale. La procura ipotizza l’associazione mafiosa, ma è ben consapevole di muoversi su un terreno friabile, tanto che nelle ordinanze pagine e pagine sono devolute a giustificare la pesante accusa a carico di un gruppo che non ammazza, non ferisce, non picchia ed è discutibile persino che minacci. A giudicare a fondatezza del capo d’accusa saranno ovviamente i tre gradi giudizio, ma il dubbio è lecito e dovrebbe anzi essere obbligato. Qualche giornalista infatti dubita, ma il circolo è ristretto e sembra essere precluso, con pochissime eccezioni, ai cronisti di giudiziaria. I quali si sono invece procurati in massa il crampo dello scrivano per spiegare senza pensarci su due volte che il capo d’accusa è in realtà solare e solidamente giustificato. Neppure quando una sentenza ha stabilito che nell’unico municipio di Roma sciolto per mafia, quello di Ostia, la mafia non c’era. Non è solo questione di opportunismo e asservimento alle procure. Quando si parla di mafia e affini entra in ballo l’impegno civile. Revocare in dubbio le conclusioni dei pm che indagano sulla criminalità organizzata significa farsene complici, e chi mai potrebbe guardarsi nello specchio sapendo di aver dato una mano a Matteo Messina Denaro o Massimo Carminati? Non è forse l’etica civile a imporre per prima di prendere per oro colato qualsiasi cosa i guerrieri dell’antimafia partoriscano, scemenze incluse? Il rovello non si pone solo nei casi clamorosi, come il processone romano. La logica discende sino a quelli microscopici. Mani Pulite. Quando Di Pietro faceva gli interrogatori "di massa" di Francesco Damato Il Dubbio, 1 aprile 2017 L’epopea di Mani Pulite e gli strascichi. prima di lasciare la magistratura "tonino" usava metodi da poliziotto: interrogava con faldoni che intimorivano gli indagati ma che erano fatti di carta straccia. Mi sono sempre chiesto se Antonio Di Pietro pre-politico sia stato più bravo come commissario di polizia che come magistrato, pur avendogli dato sicuramente più celebrità e soddisfazione la toga, dismessa improvvisamente il 6 dicembre 1994 per ragioni sulle quali si sono dette e scritte le cose più diverse, senza che si sia mai venuti a capire gran che. Per cui, anche per evitare querele alle quali egli è facile ricorrere, conviene attenersi alla spiegazione dell’interessato: di essersi stancato ad un certo punto di venire "strattonato" da tutte le parti e di avere voluto liberare i colleghi della Procura milanese guidata da Francesco Saverio Borrelli dal rischio di procedere nelle loro indagini sul finanziamento illegale della politica in un clima disturbato dalle polemiche sulla sua persona. La voglia di capire se "Tonino", come Di Pietro viene chiamato dagli amici, sia stato più bravo come commissario o come magistrato inquirente mi è tornata irresistibile leggendo l’altro ieri sul Dubbio il resoconto fatto da Giovanni M. Jacobazzi di una celebrazione a Merate, vicino Lecco, dei 25 anni trascorsi dall’esplosione delle indagini Mani pulite. Così si chiamò ed è rimasta famosa nella storia giudiziaria l’inchiesta arrivata sulle prime pagine dei giornali il 18 febbraio del 1992 con l’arresto di Mario Chiesa, il presidente socialista del Pio Albergo Trivulzio di Milano sorpreso a riscuotere la sera prima una tangente da una ditta delle pulizie. Fu la scoperta di Tangentopoli. Affiancato dagli ex colleghi della Procura milanese Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo, ora presidente uscente dell’associazione nazionale dei magistrati, Di Pietro ha confermato e illustrato una scena del film di Sky su Mani pulite che molti telespettatori hanno forse attribuito alla immaginazione, appunto, dello sceneggiatore. Dato il grande numero di indagati, Di Pietro aveva allestito una specie di catena di montaggio. Ne raccoglieva in una stessa stanza undici alla volta, collocati in altrettante postazioni fra le quali lui si spostava per completare o avviare, secondo i casi, l’attività della polizia giudiziaria. Ma più ancora delle undici postazioni per altrettanti interrogatori contemporaneamente, mi ha colpito il trucco, l’espediente, chiamatelo come volete, cui lo stesso Di Pietro ha confessato di avere fatto ricorso per vincere le prevedibili resistenze degli indagati ad ammettere le loro responsabilità e a svelarne magari altre, consentendo l’apertura di nuovi percorsi agli inquirenti. Quel diavolo di "Tonino" all’occorrenza aumentava artificialmente la consistenza dei fascicoli, o faldoni che li raccoglievano, imbottendoli di giornali o di carta straccia. Come si fa con le borse quando vengono esposte sugli scaffali di vendita perché rimangano ben gonfie e capaci. A vedere quella montagna pur farlocca di carte, scambiandola per un enorme materiale probatorio raccolto dagli inquirenti, ci poteva essere - e probabilmente ci fu qualche inquisito crollato di suo, prima ancora che Tonino o altri lo incalzassero con le loro domande, dopo essersi magari limitati a dire: "Ormai sappiamo tutto". E così l’interrogatorio poteva trasformarsi persino in una lunga, incontenibile, fluviale confessione, superiore ad ogni attesa. Non dimentichiamo che in quei mesi e in quegli anni gli avvocati spiegavano ai loro clienti più ansiosi, peraltro basandosi su dichiarazioni pubbliche degli stessi magistrati, l’alto rischio di finire in manette già durante le indagini preliminari se non riuscivano a convincere gli inquirenti o di essere davvero estranei alla pratica diffusissima delle tangenti, in uscita o in entrata, o di avervi disgraziatamente partecipato decidendo però di tirarsene fuori davvero. Che significava dimostrare con opportune rivelazioni di non volere più coprire o proteggere nessuno con comportamenti omertosi. Sono rimasti purtroppo celebri, a questo proposito, i passaggi più drammatici della lettera scritta dal carcere alla moglie dall’ormai ex presidente dell’Eni Gabriele Cagliari prima di uccidersi infilando la testa in una busta di plastica. Il povero Cagliari, deluso da una mancata scarcerazione che riteneva gli fosse stata invece promessa dopo l’ennesimo interrogatorio, si era drammaticamente convinto che inquirenti e giudici lo volessero lasciare in carcere, magari muovendogli altre imputazioni, fino a quando non fossero riusciti a sentirsi dire da lui ciò che si aspettavano. Quel suicidio sorprese e addolorò per primo - va riconosciuto - proprio Di Pietro, colpito anche dalla decisione dell’indagato Raul Gardini di uccidersi in quegli stessi giorni dell’estate del 1993 a casa sua, a Milano, nella convinzione che non potesse uscire libero da un interrogatorio che lo attendeva di lì a poco. Scoppiarono polemiche giustamente furibonde. Anche alcuni giornalisti entusiasti della "rivoluzione" di Mani pulite, e dei cortei che sfilavano per le strade di Milano con uomini e donne in maglietta bianca che chiedevano ai magistrati di farli ancora e sempre più "sognare", ebbero momenti di dubbio e di sconcerto. Ma durò poco. Gli umori tornarono subito giustizialisti, cioè favorevoli più all’accusa che alla difesa degli imputati. Di questo ritorno al giustizialismo, se mai qualcuno se ne fosse ritirato davvero, si ebbe la prova nell’estate successiva, quando il primo governo di Silvio Berlusconi, arrivato inaspettatamente a Palazzo Chigi all’esordio della sua avventura politica, adottò un decreto legge per limitare il ricorso alle manette nella fase delle indagini preliminari. Per quanto prontamente firmato dal presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, non certamente sospettabile di scarse simpatie per i suoi ex colleghi magistrati o di scarso interesse alle loro esigenze di lavoro, quel decreto provocò il finimondo nella Procura di Milano. Di Pietro e gli altri inquirenti chiesero, per protesta contro le nuove misure, di essere destinati ad altri compiti. I leghisti si dissociarono dal provvedimento, per quanto firmato anche dal loro Bobo Maroni, ministro dell’Interno, sostenendo di non averlo ben compreso, o di averlo trovato sulla Gazzetta Ufficiale diverso dal previsto. E a Berlusconi non restò che piegarsi rinunciando alla conversione per accontentarsi delle scarcerazioni nel frattempo eseguite. Egli non volle anticipare all’estate la crisi che i leghisti gli avrebbero però procurato ugualmente alla fine dell’anno su altri versanti. Ma torniamo alla storia della catena di montaggio, per quanto metaforica, degli interrogatori in Procura raccontata con baldanza e divertimento da Di Pietro celebrando a Merate le nozze d’argento di Mani pulite con gli italiani. Non credo proprio che "Tonino", convinto della sua buona fede nella ricerca della verità come inquirente, possa o debba offendersi se gli dico che quelle undici postazioni per gli interrogatori e soprattutto quei fascicoli gonfiati ad arte, con giornali e carta straccia, mi sono apparsi più da commissario di polizia che da magistrato. Ma quella storia, che ad occhio e croce doveva comportare anche verbali d’interrogatorio di più persone redatti e firmati dallo stesso o dagli stessi magistrati alla stessa ora dello stesso giorno, o quasi, mi riporta alla mente pure ciò che in quegli anni mi raccontò l’allora vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, il mio amico Giovanni Galloni. Che era assediato, diciamo così, da altri amici e colleghi di partito che si lamentavano con lui del trattamento ricevuto persino da familiari incorsi a Milano sotto le lenti giudiziarie. Galloni mi parlò, fra l’altro, proprio di più verbali milanesi redatti alla stessa ora, ma a volte persino svoltisi in luoghi diversi, su cui era prevedibile l’interessamento del Csm. Ma poi non se ne fece o non se ne seppe più niente. Mentre fece invece un rumore enorme il 6 dicembre 1994 il già ricordato annuncio delle dimissioni di Antonio Di Pietro dalla magistratura. Lombardia: agenti e detenuti a scuola di dialogo fra religioni omnimilano.it, 1 aprile 2017 Il pluralismo culturale e religioso è oggi "un dato di fatto". Anche all’interno degli istituti penitenziari e delle carceri: "Nel 1989 il carcere di San Vittore ospitava al 99% italiani, soprattutto cattolici" ha spiegato il provveditore regionale alle carceri, Luigi Pagano. "Oggi il 67% dei detenuti sono stranieri, con circa 60 etnie differenti", ha precisato la direttrice di via Filangieri, Gloria Manzelli, durante la presentazione del progetto per il dialogo tra religioni, al carcere di San Vittore. Per questo motivo Caritas Ambrosiana, la Comunità Ebraica di Milano, la Coreis e l’Istituto di Buddismo Tibetano di Milano "Ghe perl ling" hanno dato vita, insieme all’Università degli Studi di Milano, al progetto che prende il nome da una parabola persiana: "Simurgh. Conoscere e gestire il pluralismo religioso negli istituti di pena lombardi". L’iniziativa ha preso forma in seguito a una tre giorni di formazione, tenutasi nel maggio del 2016, che ha dato al personale carcerario (polizia penitenziaria, funzionari pedagogici, volontari e docenti che insegna negli istituti di pena lombardi) le basi per comprendere meglio la diversità delle culture e delle religioni e per confrontarsi. "Conoscere dai detenuti le basi della vita quotidiana, attività banali come l’alimentazione o i momenti di preghiera, per noi è importante. Ci permettono di creare un rapporto di empatia con il detenuto, di agganciarlo umanamente" ha spiegato il vice commissario Marco Casella, comandante della Casa Circondariale di Monza, che ha partecipato ai corsi di formazione nel maggio scorso. Dal successo di questo progetto pilota si è deciso di estendere la formazione e il confronto non solo tra gli operatori delle carceri, ma anche tra i detenuti: nel progetto saranno coinvolti, infatti, 450 tra polizia penitenziaria, volontari, docenti e psicologi, e anche 900 detenuti dei nove istituti lombardi (San Vittore, Pavia, Brescia, Bollate, Como, Vigevano, Opera, Monza e Bergamo). L’obiettivo, oltre al dialogo tra le diverse religioni, è quello di prevenire la creazione di "stereotipi dell’altro", in particolare in questi luoghi dove la coesistenza di diverse fedi, etiche, convenzioni e stili di vita può essere esasperata dalla condizione di non libertà, che potrebbe arrivare a degenerare in forme di radicalizzazione ed estremismo religioso. "Il pluralismo religioso non è solo un atto di bontà, ma anche di convenienza: conviene a tutti che nelle carceri si sviluppi il seme della tolleranza e conoscenza reciproca, perché chi oggi è recluso domani non lo sarà, uscirà ed è giusto che si restituisca alla società un uomo rieducato" ha spiegato Davide Romano, della Comunità ebraica di Milano, che ha partecipato alla presentazione insieme a Hamid Di Stefano della Coreis, a Cesare Milano dell’Istituto di Studi di Buddismo e a monsignor Luca Bressan della Caritas Ambrosiana. "Siamo convinti che da questo impegno nascerà un laboratorio che aiuterà la città a costruire nuove forme di cittadinanza. Milano è una città plurale e ci aspettiamo che come il cattolicesimo è riuscito a generare qui un ‘cattolicesimo ambrosiano’ anche l’Islam e le altre religioni potranno creare il loro ‘movimento ambrosiano’, ha detto monsignor Bressan durante la presentazione del progetto. La formazione - che toccherà nel triennio 2017/2019 i nove istituti di pena della Lombardia - affronterà tre punti tematici e sarà affidata alle Università Milanesi. Il modulo antropologico - curato dalla Cattolica di Milano - analizzerà i fondamenti di ebraismo, cristianesimo e islam, affrontando anche il tema della radicalizzazione e del reclutamento jihadista in carcere; il modulo sociologico - curato dalla Statale - parlerà del cambiamento demografico e sociologico avvenuto all’interno degli istituti di pena, concentrandosi sulle libertà di espressione religiosa all’interno delle carceri e ad alcuni profili pratici, come l’alimentazione e le ore di preghiera; infine, il modulo etico - curato dalle comunità religiose - affronterà i temi del contrasto tra etica e religione nelle varie confessioni. Il ciclo di formazione si concluderà con degli incontri pubblici, per sensibilizzare e informare anche la società civile e i cittadini su quanto accade all’interno delle carceri. "È una sfida non facile, e proprio questo giustifica gli sforzi che si fanno per migliorare la comprensione reciproca. In questi luoghi ci sono ragioni e sensibilità particolari, ma sono queste che garantiranno il successo di queste iniziative" ha spiegato il rettore della Statale Gianluca Vago, sottolineando anche l’importanza della partecipazione della Università milanesi a iniziative come questa. Al progetto partecipa anche la Fondazione Cariplo. I nove istituti di pena parteciperanno al progetto divisi nel triennio: 2017 San Vittore, Pavia e Brescia; 2018 Bollate, Como e Vigevano; 2019 Opera, Monza e Bergamo. Pavia: muore in carcere, aperta indagine. L’uomo era stato visitato in ospedale e dimesso di Maria Fiore La Provincia Pavese, 1 aprile 2017 L’avvocato: "Le sue condizioni erano incompatibili con la detenzione". Era entrato in carcere due settimane fa ma era ancora in attesa di processo. Il 4 aprile Vincenzo Massimiliano Zampino, 48 anni, originario di Giussano, avrebbe dovuto presentarsi davanti al giudice per rispondere di resistenza a pubblico ufficiale per essersi scagliato contro i vigili urbani. È morto giovedì mattina, nel carcere di Torre del Gallo dove era recluso. Sul decesso la procura di Pavia ha aperto un’inchiesta per omicidio colposo e disposto l’autopsia per chiarire le circostanze della morte, subentrata per un arresto cardiocircolatorio. Da verificare anche un accesso al pronto soccorso del San Matteo, il giorno prima del decesso, che si era concluso con le dimissioni. L’unica certezza è che il 48enne era entrato in carcere in condizioni psicofisiche già compromesse. Era tossicodipendente (anche se aveva interrotto la terapia con metadone), sottopeso e manifestava un disagio psichico, tanto che in carcere era in una cella da solo. Le sue condizioni erano compatibili con la detenzione in carcere? È l’interrogativo che pone il suo avvocato, Antonio Savio, che già durante l’udienza di convalida dell’arresto aveva sollevato il problema. "In considerazione del suo stato psicofisico avevo insistito per trovare una soluzione alternativa al carcere - spiega -, perché l’impatto con la realtà carceraria poteva essere molto traumatica". Per il 48enne, che non poteva restare nell’abitazione con sua moglie proprio per i problemi che da tempo manifestava, non si era potuto trovare una soluzione alternativa, ma il giudice Daniela Garlaschelli aveva disposto che fosse sottoposto in carcere a una serie di visite. Resta da capire, a questo punto, che tipo di accertamenti sono stati condotti. Giovedì mattina la polizia penitenziaria ha eseguito gli accertamenti del caso e inviato una relazione in procura. Il detenuto si è sentito male verso le 7, nella sua cella. Faticava a respirare e gli agenti hanno avvisato il medico di guardia che a sua volta ha allertato l’ambulanza del 118. I medici hanno tentato di rianimare l’uomo, ma non c’è stato nulla da fare. Roma: ucciso dalla polizia, ma il tribunale non se ne accorge e lo condanna per rapina Corriere della Sera, 1 aprile 2017 Bernardino Budroni fu ucciso dalla polizia che lo inseguiva sul Gra il 30 luglio 2011. Un anno dopo la sentenza. Ora la sorella l’ha impugnata in appello e chiederà che sia dichiarata "inesistente". È morto all’alba del 30 luglio 2011, ucciso dalla polizia che lo inseguiva sul Gra. Eppure un anno dopo, il 9 luglio 2012, Bernardino Budroni, 41 anni, è stato condannato: due anni e un mese di reclusione e 600 euro di multa per rapina (si era impossessato della borsa dell’ex fidanzata, che l’aveva denunciato per stalking) e per la detenzione abusiva di una vecchia carabina. La sentenza è stata pronunciata in contumacia: il tribunale di Roma evidentemente non ha accertato che per l’imputato era impossibile essere presente al processo. In appello - L’avvocato Fabio Anselmo, per conto della sorella di Budroni, Claudia, ha impugnato la sentenza: l’udienza si terrà il 20 aprile. La difesa chiederà che il verdetto del tribunale sia dichiarato inesistente: non si accontenterà di una pronuncia di improcedibilità per morte del reo (che avrebbe dovuto esserci in primo grado) perché ormai la sentenza c’è stata e non la si può ignorare. Malfunzionamento - Si tratta, si legge infatti nel ricorso, di salvaguardare "il legittimo diritto di Claudia Budroni a eliminare il grave pregiudizio morale e sociale rappresentato dalla condanna nei confronti del proprio fratello. Tutto ciò nel rispetto della sua memoria e dell’intera famiglia Budroni e anche in virtù del fatto che l’impugnata pronuncia certamente rappresenta una censura per l’amministrazione giudiziaria in quanto tale". Cuneo: Grimaldi (Sel) "anche al Cerialdo cerco di tirare fuori dalle sbarre i sogni" cuneocronaca.it, 1 aprile 2017 Dopo la visita ispettiva al carcere del Cerialdo, il Consigliere regionale Marco Grimaldi, presidente del gruppo Sinistra Ecologia e Libertà, accompagnato dall’esponente della Direzione nazionale di Radicali Italiani Igor Boni, è giunto in centro a Cuneo per ammirare la statua e la figura del giurista Barbaroux. "Dall’annunciata fine del carcere duro, circa 90 detenuti sottoposti al regime del 41 bis sono stati trasferiti nella nuova struttura speciale aperta a Sassari", racconta Marco Grimaldi, facendo un passo indietro nelle vicende della Casa Circondariale cuneese. Due sezioni sono state chiuse definitivamente, in attesa di un investimento che possa rimettere a norma l’impianto di riscaldamento e quello elettrico. L’unico padiglione rimasto aperto, inaugurato nel 2011, risulta essere uno dei più puliti, dei più salubri e dei più attrezzati in Piemonte. Durante il lungo colloquio, il direttore della Casa Circondariale cuneese, Mazzeo, ha spiegato che da fine ottobre del 2016 ad oggi le presenze sono però aumentate da 186 a 254, da quando la Direzione Penitenziaria Regionale ha deciso di inserire un detenuto in più a cella, passando da tre a quattro. Molti di loro, giunti in seguito a sanzioni disciplinari o a motivi di sovraffollamento in altre strutture, hanno dovuto interrompere il proprio percorso di inclusione nella realtà carceraria, perdendo così quei pochi, forse essenziali, legami instaurati con le persone e con i luoghi. Lontani anche dalle famiglie, a cui vorrebbero riavvicinarsi, si trovano invece a non capire i motivi e a non ricevere adeguate spiegazioni. "Abbiamo visitato la parte che funziona meglio, dove l’attivismo è forte. Il panificio, dove ogni giorno vengono sfornati i famosi grissini di Pausa Caffè, le aiuole e i laboratori di scuola edile, di muratura e di stucchi e decorazioni. Inoltre, la Casa Circondariale è dotata di un’eccellente scuola alberghiera. "Basterebbero pochi investimenti da parte degli Enti locali del territorio e di alcune Fondazioni private per ampliare i laboratori, costruendo una nuova falegnameria e rendendo la scuola alberghiera idonea a produrre anche pizze e dolci", dichiarano i membri della delegazione. I detenuti sognano di potere essere utili anche nel restauro di edifici pubblici all’esterno, come le scuole. Da poco è attivo un progetto di raccolta differenziata all’interno della struttura; come è avvenuto a Torino, sarebbe importante trovare le risorse per avviare un percorso che consenta a tanti detenuti di lavorare in questo e in altri settori fuori dalla struttura. Lanciato quest’appello, Grimaldi conclude: "Là dove mi capita di avvertire un po’ inerzia, provo sempre a tirar fuori dalla sbarre i sogni". Reggio Emilia: pene alternative per i detenuti, nuova sede per l’Uepe di Andrea Bassi reggionline.com, 1 aprile 2017 Da via Paradisi, a maggio traslocherà nei nuovi locali alla ex Polveriera. Nel 2016 un migliaio le persone affidate a lavori di pubblica utilità. Trasloco in vista per lo sportello Uepe. La sigla sta per Ufficio Esecuzione Penale Esterna e, per conto del ministero della Giustizia, si occupa di tutti quei condannati per reati minori oppure giunti a fine detenzione che chiedono l’affidamento ai servizi sociali. Nella nostra provincia sono stati un migliaio, nel 2016, le persone che hanno scontato misure alternative. "Sono persone condannate a delle pene detentive più o meno importanti che vengono restituite attraverso un percorso di legalità al loro territorio - racconta Daniela Calzelunghe, dirigente del servizio - Si va dal condannato a una lunga detenzione, anche per reati gravi, a percorsi molto più brevi: è il caso del medico che per negligenza ha causato un danno un paziente o dell’automobilista che ha aggredito un vigile urbano". A Reggio Emilia, dal 1981, l’attuale sede dell’ufficio si trova in via Paradisi al civico 10. Negli spazi recuperati della ex Polveriera, a maggio sarà tutto pronto per il trasloco dei 27 dipendenti. L’affitto costituisce un’entrata su cui contare per la società che gestisce i locali, formata da una cordata di cooperative sociali. Contro l’arrivo dello sportello, ha protestato, un mese fa, un gruppo di cittadini della zona Mirabello: 800 le firme raccolte da una petizione. "Il ministero della Giustizia è un pezzo fondamentale dello Stato che garantisce legalità e un presidio cotentente", sono le parole del vicesindaco Matteo Sassi, alla cui disponibilità di ragionare con chiunque abbia dei dubbi fa eco la proposta della dirigente dell’Ufficio: "Incontriamoci dopo un anno dal nostro insediamento per fare un bilancio". Agrigento: intesa tra carcere e Lions per piani di intervento nei confronti dei detenuti grandangoloagrigento.it, 1 aprile 2017 Un Protocollo d’Intesa che regoli i rapporti di collaborazione tesi al raggiungimento dell’obiettivo di collaborazione del progetto trattamentale a favore dei detenuti sarà stipulato il prossimo 5 aprile 2017 tra il l’Amministrazione penitenziaria del carcere di Agrigento e il Lions Club Ravanusa-Campobello. Quest’ultimo dopo l’avvenuta stipula si impegna a supportare, con i propri volontari e senza retribuzione per il servizio prestato, l’Amministrazione Penitenziaria in tutta la progettualità trattamentale a favore dei detenuti e si impegna, assumendo anche la veste di Club Guida, a promuovere iniziative di condivisione con altri Lions Clubs ed altre associazioni. Al fine di favorire la realizzazione di quanto previsto ut supra le parti elaborano, di intesa, indicazioni sulle modalità più idonee a realizzare proficue intese tra il sistema dell’esecuzione penale ed il Volontariato e definiscono gli ambiti di intervento e le modalità operative dell’attività del Volontariato in relazione alle specifiche peculiarità di ogni singola attività trattamentale Le parti individuano i seguenti ambiti di intervento prioritari (anche se non esaustivi) delle iniziative da promuovere ed attuare congiuntamente per il reinserimento sociale dei soggetti in esecuzione penale esterna e in detenzione e per lo sviluppo della legalità: percorsi di formazione culturale e professionale del condannato, di orientamento al lavoro e di accompagnamento nello svolgimento di un’attività lavorativa o nei rapporti con la famiglia; assistenza domiciliare e sostegno nei confronti di singoli e delle loro famiglie, anche con riferimento alle necessità della vita quotidiana; attività culturali, ricreative e sportive; interventi progettuali diretti a particolari categorie di soggetti (es. tossicodipendenti, ammalati, immigrati, donne con notevole carico familiare, anziani), da attuare anche attraverso il lavoro di gruppo; programmi di partecipazione da parte del soggetto adulto entrato nel circuito penale ad attività non retribuite a beneficio della collettività, eseguite all’interno degli organismi del privato sociale, con particolare riguardo allo svolgimento delle applicazioni del lavoro di pubblica utilità (come, a titolo esemplificativo, l’art. 21 c. 4 ter l. 354/1975 o art. 168 bis c.p.); iniziative di sensibilizzazione e di educazione alla legalità e alla solidarietà, rivolte alle comunità di appartenenza dei soggetti in misura alternativa alla detenzione. Saranno promosse e agevolate altre attività di inclusione sociale, di concerto con ulteriori risorse e istituzioni del territorio, anche stipulando appositi protocolli e convenzioni. Inoltre, si potranno svolgere specifiche iniziative, anche di portata regionale, finalizzate alla valorizzazione delle esperienze nel settore, alla diffusione delle "buone prassi" ed allo sviluppo di metodologie e modelli di organizzazione omogenei della partecipazione del Volontariato al trattamento dei condannati. L’Amministrazione Penitenziaria della Casa Circondariale di Agrigento garantisce da diverso tempo piani di intervento trattamentale nei confronti dei detenuti, sia a livello formativo che assistenziale, tramite il proprio personale mostrandosi sempre disponibile a iniziative provenienti da associazioni esterne. Da qui a stipula con il Lions International del prossimo 5 aprile. Roma: il Garante di infanzia e adolescenza in visita all’Ipm di Casal del Marmo ilfaroonline.it, 1 aprile 2017 Jacopo Marzetti ha visitato anche Rebibbia per affrontare il tema delle difficoltà nel rapporto tra minori e genitori detenuti. Il Garante dell’Infanzia e dell’Adolescenza della Regione Lazio, Jacopo Marzetti, si è recato questa mattina all’Istituto penale per minorenni di Casal del Marmo. Il Garante ha visitato i tre edifici di cui si compone l’istituto, quello che ospita l’utenza maschile, quello destinato all’utenza femminile e quello in cui sono detenuti i maggiorenni che hanno commesso reati prima dei 18 anni. Marzetti si è intrattenuto con il personale della struttura e ha avuto colloqui con alcuni ragazzi, in particolare con una giovane detenuta, madre di un bambino di otto mesi. Presenti durante la visita il comandante di reparto Saulo Patrizi e il direttore dell’istituto, la dottoressa Liana Giambartolomei. Con quest’ultima, in particolare, Marzetti ha affrontato i temi dell’integrazione e dei percorsi di accoglienza e reinserimento. Nel corso della mattinata il Garante ha visitato anche i locali dell’ambulatorio per informarsi sull’assistenza sanitaria prestata all’interno dell’istituto e, in particolare, sull’aspetto della somministrazione dei vaccini. Tema questo verso il quale Marzetti si è detto particolarmente sensibile, annunciando l’intenzione di "collaborare con l’amministrazione regionale per poter assicurare un percorso più regolare". Al termine dell’incontro il direttore Giambartolomei ha chiesto il sostegno del Garante per far diventare il giornale interno curato dai ragazzi detenuti un progetto a tiratura regolare. In settimana il Garante si è recato anche alla Casa circondariale di Rebibbia per incontrare un padre sottoposto a misura restrittiva della libertà personale. Nel corso del colloquio con il Garante l’uomo si è soffermato in particolare sulla difficoltà che le persone detenute incontrano nel preservare i rapporti con la propria famiglia, soprattutto con i figli minori. "L’incontro che ho avuto a Rebibbia - ha commentato il Garante - mi ha molto colpito e ha suscitato in me l’intenzione di seguire più da vicino il tema dei bambini e dei ragazzi che hanno un genitore in carcere. Proprio per questa ragione ho voluto avviare una collaborazione con il direttore del reparto in cui è ospitato il detenuto, la dottoressa Anna Del Villano, finalizzata alla prossima sottoscrizione di un protocollo d’intesa che possa affrontare la questione". Da parte sua la dottoressa Del Villano, che si occupa in particolare di progetti sul tema della genitorialità in carcere, ha sottolineato che "per la direzione dell’istituto è stato importante conoscere il Garante Marzetti. Siamo ben lieti di poter avviare un rapporto di collaborazione, che siamo sicuri sarà proficua sia per i detenuti che per i minori che hanno un genitore in carcere". Opera (Mi): sul palcoscenico del riscatto gli "uomini confiscati alla mafia" di Cesare Giuzzi Corriere della Sera, 1 aprile 2017 I detenuti ex affiliati alle cosche diventano attori nel musical "Il figliol prodigo". Il direttore Siciliano: lo Stato vince quando si trovano alternative credibili. Le parole giuste le trova il direttore del carcere di Opera Giacinto Siciliano quando sale sul palco per ringraziare attori e pubblico. "Questi uomini sono beni confiscati alla mafia". Al suo fianco ci sono una ventina di detenuti con indosso abiti di scena e la regista Isabella Biffi della compagnia "Eventi di valore". È stata lei a insegnare a questi detenuti a ballare, recitare, cantare. E solo in questo momento, quando il sipario cala e attori e ballerine si tengono per mano, e sul palco salgono gli agenti della polizia penitenziaria, ci si accorge che davvero quei venti ragazzi sono l’espressione di un piccolo miracolo. Sono tutti detenuti in regime di alta sicurezza, sono ex affiliati alla ‘ndrangheta, a Cosa nostra, alla camorra. Alcuni di loro hanno ucciso, molti stanno scontando l’ergastolo. Nel teatro del carcere di Opera è andata in scena la seconda serata del musical "Il figliol prodigo" che partendo dalla parabola narrata nel Vangelo di Luca attualizza e affronta il tema del perdono. A fare da cornice al racconto ambientato in Palestina, l’immagine di un detenuto che riceve la visita in cella del padre e del fratello. C’è il tema dell’incontro con Dio, ma anche quello del perdono umano che non può mancare anche di fronte ai gesti più efferati. E l’idea di lavorare solo con detenuti di alta sicurezza simboleggia proprio come anche il carcere stia faticosamente tentando di entrare nel terzo millennio. Se è vero che Bollate rappresenta un modello a livello internazionale, e San Vittore, nonostante le difficoltà legate al fatto di essere una casa circondariale con pochissimi reclusi "definitivi", ha mutato la sua nomea ormai legata solo alle canzoni della mala, il carcere di Opera è noto soprattutto per ospitare o aver ospitato i principali capi mafia e i criminali più pericolosi. Ma è ormai una realtà dove tutti o quasi i detenuti (soprattutto grazie alle associazioni di volontariato e di lavoro dietro le sbarre) riescono a partecipare a progetti realmente rieducativi. Merito del direttore Siciliano, ma anche di un provveditore alle carceri "illuminato" come Luigi Pagano e di un presidente del Tribunale di sorveglianza come Giovanna Di Rosa che ha sempre incentivato queste iniziative. Così la compagnia di attori di Opera ha potuto girare l’Italia per presentare i suoi spettacoli (prossima data il 7 aprile a Limbiate), salire sul palco dell’Ariston al Festival di Sanremo o recitare a Roma davanti a papa Francesco, che li ha applauditi. "Crediamo fortemente in questi progetti - racconta il direttore. Certamente sono necessari sforzi importanti da parte di tutta la struttura del carcere, a partire dagli agenti della penitenziaria, ma l’entusiasmo certo non è mai mancato". In sala ci sono i parenti dei detenuti e molti cittadini che hanno la possibilità per una sera di entrare a Opera e toccare con mano cosa sia davvero il carcere. "Il 21 marzo con i ragazzi di Libera abbiamo recitato i nomi di tutte le vittime di mafia. A scandire l’elenco c’erano 150 detenuti, molti avevano commesso reati di criminalità organizzata. È stato davvero un momento toccante. Lo Stato vince la mafia se riesce a creare un’alternativa credibile per queste persone". Libri. "Per qualche metro e un po’ d’amore in più" di Francesca Boccaletto unipd.it, 1 aprile 2017 "A noi interessa poter aver dell’intimità con i nostri cari e non pensiate che la parola intimità ricopra solo il significato di sesso, non banalizzate. L’intimità è anche una carezza sul viso di un figlio, di una moglie, oppure anche un rimprovero a voce grossa per un figlio che non studia. Questo accanimento nei nostri confronti di riflesso demolisce i nostri cari. Condannateci con le condanne che prevede il nostro codice penale, ma non condannate i nostri familiari con un codice che non esiste e che è più disumano del nostro". Le parole di Lorenzo Sciacca, della redazione di Ristretti Orizzonti del Carcere Due Palazzi di Padova, sono contenute nel libro Per qualche metro e un po’ d’amore in più. Raccolta disordinata di buone ragioni per aprire il carcere agli affetti, recentemente pubblicato grazie a un crowd-funding: 416 pagine che raccontano sofferenze, pentimenti, nostalgie e speranze, 207 testi provenienti da oltre 60 carceri italiane e da una ventina di scuole superiori. Il volume, curato da Angelo Ferrarini, si apre con un’introduzione di Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti, la rivista della Casa di reclusione di Padova e dell’Istituto di pena femminile della Giudecca, e presidente della Conferenza nazionale Volontariato Giustizia: "Non ci aspettavamo di ricevere questa valanga di testi che ci ha invece sommerso in tempi brevissimi: testi scritti a mano, molti in quello che è lo "stampatello da galera", perché si sa che il carcere è rimasto uno dei pochi luoghi da cui si scrive tanto, e si scrive spesso a mano malgrado si viva ormai nell’era digitale; testi di tutti i generi, poesie, racconti, lettere, narrazioni autobiografiche; testi scritti da una platea allargata di persone che in qualche modo sono state toccate dal carcere, detenuti, figli, fratelli, amici, operatori, volontari". E aggiunge: "Quel disordine, che abbiamo voluto mantenere nel libro, offre così il quadro dettagliato del disastro degli affetti in carcere, un disastro con tante sfumature, ma un’unica origine: quella di un Ordinamento penitenziario che, all’articolo "Rapporti con la famiglia", riserva in tutto 19 parole: "Particolare cura è dedicata a mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti e degli internati con le famiglie". Una telefonata a settimana, sei ore di colloquio al mese, ovvero tre giorni in un anno. La verità è che, quando non resta altro che il pensiero di chi ti vuole bene, un incontro diventa di vitale importanza. Una parola può salvare dal buio non solo chi sta dentro, ma anche chi aspetta fuori. Perché attorno a una detenzione c’è un universo di affetti e infinite attese. "Alla reclusione, intesa come pena individuale per una responsabilità personale, si aggiunge una pena suppletiva per il coniuge, per i figli, per i genitori, i quali soffrono per l’assenza del congiunto - spiega nel libro Veronica De Fina, sociologa, criminologa clinica e psicopatologa forense, volontaria nel carcere di Milano San Vittore - La detenzione di un familiare rappresenta un evento traumatico per tutta la famiglia. Siamo un Paese che ama parlare di famiglie e in questo caso si tratta di famiglie che non hanno colpe e che si trovano anch’esse vittime, perché involontariamente coinvolte nel processo punitivo di un reato che ha commesso un loro congiunto e non ricevono alcuna tutela dallo Stato". I testi raccolti sono firmati dai detenuti e dalle loro famiglie, da studenti, coinvolti nel Progetto Scuola Carcere attraverso le attività di informazione sulle condizioni della vita carceraria e di prevenzione del reato, e dai volontari che svolgono attività negli istituti penitenziari italiani. Tra questi c’è Matilde Nicita, laureata in Psicologia e volontaria al carcere di Torino: il suo è un lungo e paziente racconto a tappe, mese dopo mese, incontro dopo incontro, dentro e fuori dai cancelli che separano quegli spazi dal resto del mondo: "Liberamente e obbligatoriamente ispirato ad affetti veri - scrive. Il carcere inghiotte il cielo come una scatola ermetica inesorabilmente impermeabile allo sguardo del mondo e prosciugante lo sguardo sul mondo". Il suo contributo prezioso, che aiuta a comprendere l’importanza degli affetti per evitare il rischio di estinzione degli aspetti più profondi dell’esistenza, nel finale si trasforma in una lettera a Ruggero, detenuto trasferito in un altro carcere e mai più ritrovato: "Ti tengo a mente - scrive Matilde. E, per prima cosa, spero ardentemente che tu sia vivo. M.N. Gennaio 2015". Quando sono le detenute a scrivere, il sentimento si carica ancor più di emozione, portando con sé tracce d’amore e speranza, come si legge nella lettera di Natashja dal carcere di Vigevano: "Io, te e noi dobbiamo lottare per una vita migliore […] La mia bocca è secca e il mio cuore batte solo per te". Altre volte, l’amore è quello di una madre ed è la separazione dai figli il pensiero fisso, è questo l’unico tormento e al tempo stesso l’unico aggancio alla vita. Girolama scrive dal carcere di Agrigento: "In questo incubo che sto vivendo, siete voi figli miei che mi date la forza per andare avanti. Voglio dirvi grazie per quello che ogni giorno fate per me. Mi rendo conto oggi che siete miei figli speciali e quanto amore mi date quando mi venite a trovare. Io mi sento una mamma indifesa in queste quattro mura". Infine, ma prima di tutto, ci sono le parole di chi sta fuori, dei parenti che oltre le sbarre scontano la pena dell’assenza, che attendono la fine di una condanna o, a volte, solo un colloquio. Il libro raccoglie anche le riflessioni e le lettere di quei figli che provano ingiustamente vergogna perché, come scrive Ornella Favero, a scuola non sanno rispondere alla domanda: cosa fa il tuo papà? Figli che devono essere aiutati, sostenuti. Ma anche mogli, mariti e genitori "fuori" condannati a vivere una vita "senza". Scrive Serena, figlia di Lara, detenuta nel carcere di Pozzuoli: "Per mammina adorata mamma. Quante volte pronuncio il tuo nome nei momenti di gioia, per condividere con te la mia allegria. Quando sono triste, sperando che tu scacci via la mia malinconia". Libri. "Visto censura". I pensieri dei detenuti politici in epistole di Ernesto Milanesi Il Manifesto, 1 aprile 2017 "Visto censura": un libro che in 79 lettere e 7 documenti inediti racconta i prigionieri particolari, terroristi e fautori della lotta armata. Terrorismo, anni di piombo, lotta armata. Storia dell’Italia che qualcuno vuol far combaciare soltanto con le sentenze dei tribunali, mentre - al di là degli archivi di accademici e politici di professione - continuano ad affiorare documenti originali. È il caso del volume appena pubblicato dalla bolognese Bébert Edizioni (pp. 29, euro 18): "Visto censura. Lettere di prigionieri politici in Italia (1975-1986)". Materiale scaturito da fondi privati: ordinato, scansionato, "riletto", catalogato. Si tratta di 79 lettere e 7 documenti inediti frutto di un lavoro durato anni. Sono divisi in quattro capitoli: affettività, carcere, politica e documenti. Appartengono ai "prigionieri politici", per lo più delle Brigate Rosse rinchiusi per decenni spesso in carceri speciali come Palmi e Voghera. Fin dall’introduzione, l’approccio viene dichiarato e offerto alla lettura che può essere alimentata dalla curiosità per la corrispondenza "militante", e non solo: "Comprendere il fenomeno politico e armato a 40 anni di distanza è necessario per riuscire ad analizzare un magmatico momento storico che si vuole liquidare in maniera dicotomica… Abbiamo provato a costruire un piccolo tassello attraverso le storie dei protagonisti che direttamente hanno vissuto la lotta armata, la reclusione, le carceri speciali, le rivolte e gli scioperi della fame". Visto censura restituisce a stampa proprio tutto. La "toponomastica" delle celle all’Asinara nell’estate 1977 oppure i versi da Pianosa nella primavera 1984; i saluti in classico stile Br e i "baci bacini da dividere equamente in famiglia". Corrispondenza d’epoca: lettere sottoposte a lettura preventiva, telegrammi più o meno urgenti, informazioni strettamente affettive. E "analisi di fase", ispirate dalla scelta di militare, da rivoluzionari di professione, nel partito armato. Materiale messo a disposizione anche da Vincenzo Solli, animatore della rivista Soffione Bora (Lu) Cifero, e prezioso nello sguardo analitico dei saggi introduttivi. Lorenzo De Sabbata (dottorando del Centre de Recherche Historique de l’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi) parte dalla foto scattata all’inizio di marzo del 1972 a Idalgo Macchiarini, dirigente della Sit-Siemens: è il debutto del "mordi e fuggi" delle Brigate Rosse destinato a culminare con il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro. Simone Santorso (docente di Criminologia all’Università di Hull) rilegge, invece, la parabola della lotta armata alla luce delle riforme carcerarie abbinate al "sistema speciale", istituito dal decreto 450 del 12 maggio 1977 con i primi cinque istituti di massima sicurezza (Cuneo, Fossombrone, Trani, Favignana e Asinara) per un migliaio di detenuti. Infine, Giulia Fabini (dottore di ricerca in Law and Society all’Università di Milano e collaboratrice in Criminologia a Bologna) esplora il corpo delle donne in carcere proprio a partire dalla condizione "speciale" dell’altra metà del partito armato, alle prese con la detenzione "tradizionale" che negava ogni aspetto politico. "Visto censura" si chiude con un indispensabile glossario che aiuta a districarsi fra le sigle delle organizzazioni, il linguaggio giuridico e il gergo carcerario. La qualità del lavoro di ricerca e della documentazione originale prodotti da Bébert Edizioni è fuori discussione: si tratta di un volume che colma un vuoto. Non solo a beneficio degli storici, ma anche di chi voglia provare a misurarsi con le voci dei protagonisti di quella stagione ormai archiviata. Libri. "Giustizialisti", di Sebastiano Ardita e Pier Camillo Davigo Il Fatto Quotidiano, 1 aprile 2017 Davigo e Ardita traducono il Codice in italiano: "Qui da noi il delitto paga". Il mercato della criminalità - nelle cui leggi di domanda e offerta incide il rischio di punizione - agisce da sempre nella dimensione territoriale. I criminali, potendo, scelgono il luogo dove è più vantaggioso commettere reati. Una rapina in casa in Romania "costa" 30 anni di carcere duro, in Italia puoi cavartela con 4. Anticipiamo parte del quarto capitolo di "Giustizialisti". La scena è quella di una faticosa riunione notturna. In una sala maestosa e piena di legni scolpiti, le scomode e solenni poltrone di pelle sono schierate su file contrapposte per ospitare le rappresentanze dei diversi Paesi. È solo una delle tante interminabili riunioni che si svolgono nel ministero della Giustizia di via Arenula. Da una parte la delegazione italiana e dall’altra quella rumena discutono delle modalità di trasferimento in patria dei detenuti che sono stati condannati per reati commessi nel nostro Paese. La Romania - tra le nazioni con le quali l’Italia è costretta a negoziare il problema della criminalità d’importazione - è uno dei Paesi più seri, abituato a rispettare i propri impegni. Ma i problemi sono tanti. Le convenzioni internazionali prevedono che ci debba essere il consenso dei diretti interessati al trasferimento. E i detenuti, naturalmente, preferiscono rimanere nelle carceri italiane, che evidentemente sono ritenute molto più comode. La nostra delegazione è stanca. Qualcuno inizia a fumare avvicinandosi a una finestra. Con altri Paesi in via di sviluppo erano stati fatti accordi e pianificati piani di rientro, l’Italia si era impegnata a fornire auto blindate e a favorire - anche con aiuti economici - la costruzione di carceri e di tribunali, sperando di avere in cambio il rimpatrio dei detenuti; ma non aveva ottenuto comunque niente. Alla Romania, tutto sommato, non avevamo promesso nulla, ma anche se loro sembravano disponibili a riprendersi i concittadini, i problemi rimanevano tanti e insormontabili. A un certo punto, complice la stanchezza e l’ora tarda, a un rappresentante italiano viene fuori dalla bocca una battuta infelice: "La verità è che in Romania avete troppi criminali". Nella sala improvvisamente il silenzio. Il capo delegazione rumeno, che era rimasto tutto il tempo in ascolto, sollevò lentamente lo sguardo verso il suo interlocutore e mantenendo alte le sopracciglia disse la sua. "Non abbiamo molti criminali, o comunque non molti di più rispetto a quanti ne abbiate voi. Solo che i nostri preferiscono venire a delinquere nel vostro Paese, perché in Romania chi sbaglia paga: le leggi sono molto severe e le carceri parecchio dure. E non siamo soliti concedere a gratis sconti di pena ai criminali". Quelle parole rimbombarono come colpi di cannone nella sala e servirono a riportare alla realtà. Il nostro Paese cercava di porre rimedio a una situazione che in qualche modo - sia pure involontario - aveva generato. Nei modelli statali chiusi, con sistemi autarchici e frontiere impermeabili, ogni Stato può scegliere indifferentemente di adottare il sistema penale che vuole. Il numero dei reati sarà certamente collegato alla capacità di dissuasione che quel sistema riuscirà a imporre rispetto ai suoi cittadini, o a quanti si trovino nel territorio dello Stato in cui vige una certa legge penale. Ma, come si è detto, nei sistemi a frontiere aperte le leggi, se vogliono continuare ad avere lo scopo di dissuadere dal commettere reati, devono tenere conto di un’altra variabile delle regole penali vigenti negli altri Paesi che rispetto all’Italia sono in regime di libera circolazione. E se è presente anche una massiccia immigrazione clandestina, non si possono neppure trascurare le regole e i sistemi penali dei Paesi da dove arrivano i clandestini. Perché altrimenti gli Stati con sistemi penali deboli finiscono per importare criminalità. Il mercato della criminalità - nelle cui leggi di domanda e offerta incide molto il rischio di punizione penale - è da sempre orientato dalla dimensione territoriale. I criminali, potendosi spostare su territori diversi, scelgono il luogo dove è più conveniente delinquere. Negli anni 80, quando ancora esistevano le frontiere, vi fu una ingente migrazione interna di criminali sul territorio nazionale. Una delle possibili mete era rappresentata dal Nord Italia, dove vi erano territori più ricchi da aggredire, anche se vi era il rischio collaterale di condanne più pesanti, perché i reati in quei territori, determinavano un più elevato allarme sociale. I criminali, specie quando operano all’interno di compagini organizzate, calcolano tutto. A volte vengono programmati delitti laddove statisticamente è più basso il rischio di essere arrestati, ovvero in caso di arresto si registrino condanne a pene meno severe. Alla luce di queste valutazioni, negli anni Settanta, a Torino e Milano, si formarono importanti colonie di catanesi e di calabresi che operavano nel settore del traffico della droga e della prostituzione. Nello stesso periodo, sul territorio della Provincia di Siracusa - ove erano meno presenti comandi di polizia e si registravano condanne a pene mediamente più basse rispetto a quelle riportate in altri circondari - si notava una ingente presenza di rapinatori provenienti da altre province siciliane. Questo esempio solo per dire che all’interno di confini nei quali è consentita una certa mobilità, la criminalità si sposta tenendo conto dei rischi che si corrono. A seguito dell’apertura delle frontiere, e con la formazione di compagini mafiose di respiro internazionale, questo fenomeno si è ulteriormente strutturato. Al di là dei flussi migratori spontanei e interni, si è manifestata una presenza massiccia di gruppi criminali provenienti da Paesi neo-aderenti all’Unione europea o addirittura a composizione mista transazionale. Possiamo senz’altro dire che tali realtà criminali non solo sono sensibili alla facilità di migrazione, ma hanno addirittura, in certi casi, tratto origine dal modello di organizzazione a frontiere aperte, scegliendo in quale luogo operare: quello dove il rapporto tra ricchezza da aggredire e rischio penale appariva concretamente più favorevole. E così - per fare un esempio che ci riporta all’aneddoto da cui siamo partiti - se per una rapina in abitazione in Romania rischi 30 anni di duro carcere, in Italia puoi cavartela con quattro che, al netto della liberazione anticipata e della possibilità di ottenere l’affidamento in prova, si riducono né più né meno che a qualche dozzina di mesi. Il tutto in un istituto in cui viene garantito il trattamento dei nuovi giunti e qualche opportunità di lavoro e di svago previsti dalla nostra organizzazione penitenziaria. In queste condizioni, perché mai i criminali stranieri dovrebbero organizzare rapine in patria, dove c’è molta meno ricchezza da aggredire e un ben più alto rischio di finire davanti a una giustizia inflessibile e rigorosa? E dunque aveva ragione l’esponente della delegazione rumena: non sono loro a produrre criminali, siamo noi che li importiamo da tutti i Paesi in cui vigono normative penali più rigorose. Dietro i fenomeni di criminalità d’importazione vi è perciò una importante responsabilità politica, consistita quanto meno nella sottovalutazione delle differenze dei sistemi penali e nella correlativa incapacità di prevedere e prevenire i fenomeni criminali collegati all’immigrazione. La sinistra al tempo di Minniti o il "securitario" democratico di Tommaso Rodano Il Fatto Quotidiano, 1 aprile 2017 Per i migranti una giustizia parallela, nel mirino senza tetto e protesta sociale. Il decreto Minniti sull’immigrazione cerca di trovare soluzioni a un problema reale: il sistema d’accoglienza italiano è in difficoltà, i numeri di chi chiede asilo sono in costante aumento come, di conseguenza, i contenziosi che ingolfano la macchina della giustizia. Nel 2014 le domande di protezione internazionale (a cui ha diritto chi fugge da persecuzioni, torture o guerre) sono state 63.456 (+143% sul 2013), nel 2015 83.970, nel 2016 123.600. Le Commissioni territoriali non sono riuscite a valutarle tutte: le decisioni sono state 91.102, oltre 33 mila richieste sono rimaste inevase. Solo nel 5% dei casi è stato concesso lo status di rifugiato: un altro 14% ha avuto lo status di protezione sussidiaria (un permesso di soggiorno di 5 anni concesso a chi rischia di subire una grave minaccia nel caso in cui rientri nel suo paese); al 21% è stato concesso invece lo status di protezione umanitaria (un permesso la cui durata varia tra i 6 mesi e i 2 anni). Le restanti domande, il 60%, sono state respinte. Il presupposto da cui muove il decreto, dunque, è che le richieste d’asilo dei migranti sono troppe e per lo più destinate al fallimento: la soluzione è rendere il sistema più rapido. Risultato: la contrazione delle garanzie processuali di chi chiede protezione. In Italia viene istituita, nei fatti, una giustizia parallela per i migranti. Processo speciale. Come? Prima di tutto, il decreto Minniti abolisce il secondo grado di giudizio: non c’è appello per le richieste di protezione respinte. Vengono esaminate prima in un’audizione del migrante di fronte alla commissione territoriale (4 membri: due del Viminale, uno del sistema delle autonomie e uno dell’Onu, Unhcr). In caso di rifiuto, il richiedente può presentare ricorso entro un mese. Il giudizio spetta ai nuovi tribunali specializzati in materia d’immigrazione: dopo il maxi-emendamento approvato in Senato, le sezioni create ex novo saranno 26, una per ogni sede di corte d’appello. La durata massima dell’intero procedimento è ridotta a 4 mesi, il decreto del tribunale non è impugnabile, si può ricorrere esclusivamente in Cassazione. Via, infine, l’udienza obbligatoria (diventa "eventuale"): non è più necessario alcun incontro tra chi chiede tutela e il giudice. Il decreto intende "valorizzare" il primo colloquio di fronte alla commissione, che viene videoregistrato. In assenza di contraddittorio, l’esito del ricorso dipende essenzialmente dal giudizio su quella registrazione e dal verbale del colloquio, che il migrante peraltro non può contestare. Lavoro. Secondo l’art. 22-bis, va presa "ogni iniziativa utile all’implementazione dell’impiego di richiedenti protezione internazionale, su base volontaria, in attività di utilità sociale in favore delle collettività locali". Tradotto: l’integrazione si favorisce col lavoro volontario e gratuito (finanziato con fondi Ue). Pagare i richiedenti asilo, ha spiegato il ministro, avrebbe "creato duplicazioni nel mercato del lavoro". Tradotto, di nuovo: sarebbe concorrenza sleale. I nuovi Cie. Addio ai famigerati Centri di identificazione ed espulsione: si chiameranno "Centri di permanenza per i rimpatri". Minniti ha garantito che i "nuovi Cie saranno completamente diversi". Il testo prevede un "ampliamento della rete dei centri in modo da garantirne una distribuzione omogenea sul territorio nazionale". Il ministro ha spiegato che saranno strutture "più piccole", "lontane dai centri abitati", "una in ogni Regione". Ospiteranno circa 1600 persone in tutto. Oggi i Cie attivi sono quattro (Caltanissetta, Torino, Brindisi e Roma) per un totale di 359 posti. Una media di 90 ospiti per centro: diventeranno 21 con una media di 76 migranti per struttura. La capienza sarà simile, la diffusione capillare. I Cie sono stati definiti dalla Commissione per i diritti umani del Senato dei "luoghi orribili, in cui si verificano con frequenza violazioni dei diritti fondamentali della persona". Sicurezza urbana. A definire l’idea di società del governo Gentiloni non c’è solo il decreto immigrazione, ma anche quello sul "decoro urbano". È stato approvato in Consiglio dei ministri assieme al suo "gemello ", il 10 febbraio, ma attende ancora il primo sì della Camera. Tra gli obiettivi, "l’eliminazione dei fattori di marginalità e esclusione sociale" e "la prevenzione della criminalità". Il decreto mette nelle mani dei sindaci la gestione degli "interventi per la sicurezza urbana", oggetto di "appositi patti con il Prefetto". Senzatetto & C. Il decreto di Minniti introduce una sanzione tra 100 e 300 euro per chi "ponga in essere condotte che limitano la libera accessibilità e fruizione" a infrastrutture e mezzi di trasporto pubblico di ogni tipo. In sostanza: chi sosta o dorme nei pressi delle stazioni, degli aeroporti o degli autobus viene prima multato e poi allontanato. Un provvedimento destinato a rimanere simbolico, visto che i destinatari impliciti della norma sono in genere nullatenenti, senza fissa dimora, etc. Gli stessi provvedimenti - si spiega poi - possono essere estesi anche a musei, parchi archeologici e verde pubblico. Chi è ai margini della società - pare di leggere tra le righe - non deve farsi vedere. Misure dello stesso tenore "securitario" sono quelle contro chi scrive sui muri o il Daspo per chi spaccia (una sorta di bando temporaneo dai locali pubblici). Puntano alla criminalizzazione del dissenso, invece, le norme contro le occupazioni abusive e l’arresto in flagranza differita per i reati commessi durante le manifestazioni. La sinistra al tempo dei Minniti. La vita non cerca la sicurezza di Sarantis Thanopulos Il Manifesto, 1 aprile 2017 Biagio De Giovanni ha contestato "il luogo comune che chi invoca la sicurezza è di destra, chi invoca la libertà è di sinistra". A suo dire: la sicurezza è il primo diritto di ognuno, viene prima di ogni altro diritto, assicurare la conservazione della vita e il suo agevole movimento furono il contenuto del primo "contratto" che, alle soglie dell’età moderna, si stabilì tra lo Stato e i suoi, allora, sudditi". Ci si può chiedere se la sicurezza, intesa come "conservazione della vita" e del suo "agevole movimento", sia stata davvero un diritto inalienabile dei sudditi o, piuttosto, una concessione funzionale al mantenimento di uno Stato centralizzato, interessato a concentrare nelle sue mani un potere normativo in cui le restrizioni sovra determinavano decisamente le aree di libertà. L’idea della sicurezza come "valore", nasce come strumento di assoggettamento dei desideri dei sudditi a un potere piramidale, in cambio della soddisfazione, ineguale, dei loro bisogni e di stabilità (il potere d’arbitrio incarnato nel sovrano assoluto). Dove la contrattazione è circoscritta nel campo dei bisogni - in cui gli esseri umani sono ineguali - prevale il diritto del più forte e i "diritti umani", appannaggio di tutti, non esistono, se non nella forma negativa di limitazione necessaria del privilegio. Il diritto del più debole è espressione della restrizione del diritto del più forte. Ha il significato della compensazione e resta avulso da una condizione paritaria degli esseri umani. Segnala che è il divieto a definire il diritto e non il contrario. Quando la sicurezza non deriva dal diritto di mantenersi vivi sul piano del desiderio, è al servizio di un principio omeostatico dell’esistenza. È un diritto paradossale alla difesa perpetua dalla vita. Fondata apparentemente su condizioni materiali, è in realtà, un bisogno psichico. L’essere umano ha come esigenza primaria la rappresentazione di sé e del suo ambiente in termini che rendano sensata la sua esistenza. Il bisogno di stabilità è relato alla necessità di una coesione accettabile del suo apparato psichico, anche quando la sua precarietà è dovuta alle condizioni oggettive, materiali della sua esistenza. Perciò, spesso agisce secondo una visuale deformata della realtà, che nuoce ai suoi interessi materiali e affettivi. La precarietà non spinge automaticamente a trasformare le condizioni reali che la determinano, può portare a una semplificazione, distorsione della complessità, nel tentativo di stabilire un ordine psichico (individuale e collettivo) coerente. Non sorprende che, il più delle volte, la classe politica, invece di eliminare le cause della criminalità, punti non tanto a reprimere i delinquenti, quanto a compiacere l’opinione comune su di loro. La sicurezza non è un "valore" di per sé, è parte del supporto logistico dell’esistenza. L’amore, la ricerca scientifica, l’arte, il lavoro creativo, prediligono la meraviglia e l’imprevedibilità, non disdegnano la vulnerabilità, né l’incertezza. La domanda di sicurezza (che sostituisce la domanda ben più impegnativa di una fiducia nella complessità) è uno strumento di manipolazione che consente di trasformare il desiderio in bisogno, ingannandolo, e di drogare la vita. La dissociazione del bisogno dal desiderio e la rivendicazione del suo primato portano a destra. Nella contraddizione della sinistra, che spesso li sovrappone, il capitalismo si è incuneato (con tutta la tendenza suicida per l’umanità che si annida nel suo nucleo più oscuro, che gli fa da motore), riuscendo a portare l’orologio del tempo dei diritti democratici reali di parecchi decenni indietro. Migranti. "Le Ong sono solo un capro espiatorio" di Marina Della Croce Il Manifesto, 1 aprile 2017 Le organizzazioni umanitarie respingono le accuse di connivenza con i trafficanti di esseri umani: "È l’Ue che è incapace". L’accusa è infamante e riguarda un ipotetico coinvolgimento con le organizzazioni criminali che gestiscono il traffico di migranti dalle coste africane verso l’Europa. Per ora si tratta solo di dubbi, sospetti sui quali da alcune settimane sta lavorando la procura di Catania, ma il solo fatto che qualcuno possa pensare a una loro collusione con i trafficanti di uomini, indigna le Ong impegnate da anni nel Mediterraneo e che ogni giorno contribuiscono a salvare la vita a centinaia di uomini, donne e bambini. "Noi non abbiamo alcun tipo di collegamento con le persone che sono coinvolte dal lato della Libia nelle conduzioni di queste operazioni, e non abbiamo alcun tipo di legame con loro in nessun modo", ha spiegato ieri a Catania la co-fondatrice e vice-presidente della Ong francese Sos Mediterranee, Sophie Beau, in una conferenza stampa convocata insieme a Medici senza frontiere sulla nave "Aquarius". "Siamo trasparenti al cento per cento sul lavoro che svolgiamo - le ha fatto eco il capo missione nel Mediterraneo di Msf, Ellen van der Velden - e siamo molto preoccupati di queste accuse contro le organizzazioni umanitarie che non hanno fondamento concreto". Tutto nasce nello scorso mese di dicembre quando Frontex, l’agenzia europea per il controllo delle frontiere trasformata di recente in guardia costiera, insinua una non provata combutta tra alcune ong e i trafficanti di esseri umani. Nessuna prova a dimostrazione delle pesanti accuse, ma intanto il sospetto è lanciato. Ed è anche in seguito a quei sospetti che la procura di Catania decide di vederci chiaro. "Vogliano capire chi c’è dietro tutte queste organizzazioni umanitarie che sono proliferate questi ultimi anni, da dove vengono tutti i soldi che hanno a disposizione e soprattutto che gioco fanno", spiega in un’intervista il procuratore capo di Catania Carmelo Zuccaro. Che in seguito di fronte ai parlamentari del comitato Schengen spiega come, da quando le navi militari della missione europea sono arretrate rispetto al limite delle acque territoriali libiche, il loro posto è stato preso dalle imbarcazioni delle Ong. Una fortuna, verrebbe da dire, visto che proprio l’intervento della "flotta" delle Ong (sono almeno una decina quelle che operano nel Mediterraneo centrale)ha permesso il salvataggio di decine di migliaia di migranti. Per la precisione 46.796 nel solo 2016, stando all’ultimo rapporto della Guardia costiera, su un totale di 178.415 salvataggi effettuati in mare e a fronte dei 13.616 compiuti dalle navi di Frontex. Verrebbe da chiedersi quante di queste persone sarebbero morte in mare senza l’intervento delle Ong. Nonostante questo le accuse fioccano anche se, come confermato del procuratore capo Zuccaro, finora non risulta alcun rilievo penale. "Il nostro lavoro si svolge ne pieno rispetto delle normative internazionali e nazionali e abbiamo pena collaborazione con il Mrcc (Maritime Rescue Coordination Centre) di Roma a cui comunichiamo tutte le informazioni richieste", ha chiarito Nicola Stalla, vice-coordinatore ricerca e soccorso della "Aquarius". "Dopo che carichiamo a bordo i migranti, i gommoni sono resi inservibili: vengono affondati da noi e la posizione dei barconi è segnalata al Mrcc, che provvede poi a inviare chi di dovere per distruggerli perché noi non abbiamo i mezzi per farlo". "Queste accuse trasformano le Ong in un capro espiatorio", prosegue van der Bellen, di Msf. "Il vero problema non sono le ong, m le ragioni che spingono le persone a scappare, a lasciare la Libia e a mettere le loro vite nelle mani dei trafficanti. Noi rileviamo l’incapacità dell’Unione europea a far fronte a questa tragedia". Da Bruxelles anche Sea-Watch, Proem-Aid, Proactiva Open Arms. Hellenic Rescue team e le altre Ong impegnate nel Mediterraneo hanno fatto sentire la loro voce con un comunicato in cui chiedono che che venga messa fine alle accuse verso le Ong "a meno che non siano sostanziate dalla presentazione di prove, e che in futuro le Ong posano avere un dialogo libero, corretto e aperto con tutte le istituzioni europee coinvolte". "Stop ai ladri che arrivano dall’Italia": la Svizzera chiude i confini di notte di Davide Cantoni La Repubblica, 1 aprile 2017 Saranno tre i varchi bloccati per sei mesi dalle 23 alle 5, "per motivi di sicurezza". Polemiche dal Consiglio regionale lombardo contro il progetto varato dal Canton Ticino. Sbarre abbassate e confine blindato contro ladri e criminali transfrontalieri. Una chiusura sperimentale, per sei mesi, ma tanto è bastato perché la decisione sollevasse un polverone. A partire da domani, primo aprile, il Ticino ha deciso di chiudere di notte - dalle 23 alle 5 - tre valichi secondari al confine con l’Italia: Novazzano-Marcetto, Pedrinate e Ponte Cremenaga distribuiti tra le province di Como e Varese. E si apre un nuovo capitolo nei rapporti decisamente non idilliaci che da anni si consumano tra Italia e Svizzera. Tra referendum e campagne antifrontalieri, ora la battaglia si gioca sulla questione sicurezza e sembra attribuire all’Italia se non tutta almeno una parte della responsabilità dell’emergenza furti nel cantone elvetico. Il progetto, definito "pilota", è conseguenza diretta di una mozione presentata dal consigliere nazionale leghista (e vicesindaco di Chiasso) Roberta Pantani. In un primo momento era stato ipotizzato di chiudere 6 valichi - sui 16 secondari presenti in Ticino - cifra poi scesa a tre. L’obiettivo espresso dal documento è chiarissimo "attuare misure adeguate al fine di aumentare sensibilmente la sicurezza nel Cantone". Da diversi anni oltrefrontiera si discuteva il progetto e ora un tentativo è partito, varato dal Gran Consiglio. L’idea è stata maldigerita dai sindaci italiani. Nessuno li ha avvisati o coinvolti nel processo decisionale, hanno denunciato sottolineando come la sicurezza non si ottenga chiudendo le frontiere soprattutto quando si parla di furti, crimini che, spiegano, raramente vengono commessi la notte. La questione nelle scorse settimane era stata discussa in un super vertice a Bellinzona tra una delegazione del consiglio regionale lombardo e il Gran Consiglio del Ticino a Bellinzona. Fortissime le perplessità sollevate dal consigliere democratico Luca Gaffuri. "Una decisione unilaterale - accusa - verso cui abbiamo sottolineato fortissime perplessità. Si tratta comunque di un provvedimento a tempo. Aspettiamo che il Ticino ci comunichi le proprie conclusioni a fine sperimentazione". Turchia. Dalle carceri il leader filo-curdo Demirtas in sciopero della fame sinistraineuropa.it, 1 aprile 2017 Il co-leader del principale partito filo-curdo in Turchia HDP, Selahattin Demirtas, detenuto da quasi 5 mesi con accuse di "terrorismo" nel carcere di massima sicurezza di Edirne, al confine con la Grecia, ha annunciato uno sciopero della fame per protestare contro le condizioni "disumane" nel carcere in cui è detenuto. Con Demirtas, ha avviato la protesta anche un altro deputato, Abdullah Zeydan, detenuto nello stesso penitenziario. A dare l’annuncio è stato lo stesso Partito democratico dei popoli. Hdp, il secondo partito dell’opposizione in Turchia, sta facendo campagna contro il progetto di modifiche costituzionali del governo, che incrementerebbe in modo irrimediabile i poteri del presidente Recep Tayyip Erdogan. Demirtas e l’altro leader del partito, Figen Yuksekdag, sono in carcere con altri undici parlamentari di HDP, accusati di legami con i separatisti kurdi del PKK, che ha promosso una guerriglia contro lo stato turco dal 1984. In un messaggio trasmesso dal suo partito, Demirtas ha spiegato di promuovere lo sciopero perché le autorità del carcere, nella provincia nordoccidentale di Edirne, si erano rifiutate di discutere quelle che ha definito "pratiche illegali". Uzbekistan. I tentacoli della sorveglianza raggiungono anche i dissidenti all’estero di Riccardo Noury Corriere della Sera, 1 aprile 2017 In un nuovo rapporto diffuso ieri, Amnesty International ha accusato il governo dell’Uzbekistan di sorvegliare illegalmente i suoi cittadini e di alimentare un clima di paura e incertezza tra gli uzbechi che si trovano in Europa. Le autorità del paese centro-asiatico hanno dato vita a un clima di sospetto in cui la sorveglianza o la percezione di essere sorvegliati sono un aspetto costante della vita dei difensori dei diritti umani, dei giornalisti e degli attivisti politici. L’effetto della sorveglianza si avverte fortemente anche all’estero. La paura provoca separazione tra le famiglie: i rifugiati hanno il terrore di contattare i loro parenti in patria a causa del terribile pericolo in cui potrebbero metterli. Dilshod (non è il suo vero nome), un rifugiato che vive in Svezia, non è più in contatto coi suoi familiari da quando, a seguito di una breve telefonata, questi hanno ricevuto visite da parte della polizia. Una zia di Dilshod, quasi in punto di morte, è stata persino interrogata dai servizi segreti. Alla fine del 2014 l’account di posta elettronica di Galima Bukharbaeva, responsabile del portale indipendente UzNews.net con sede a Berlino, è stato hackerato e i contenuti delle sue mail sono stati pubblicati su siti uzbechi mettendo in pericolo i colleghi che le fornivano informazioni dal paese. Una di loro, Gulasal Kamolova, è stata costretta a lasciare l’Uzbekistan nel 2015, dopo aver ricevuto una serie di minacce. Prima della fuga, un funzionario dei servizi segreti l’aveva avvisata: "Ovunque sarai, ti troveremo. Ovunque…". Da allora vive in Francia e non ha mai più contattato la famiglia. Alla fine, il sito UzNews.net è stato costretto alla chiusura. Un difensore dei diritti umani, Dmitry Tikhonov, ha dovuto a sua volta lasciare l’Uzbekistan dopo che i suoi dati personali, hackerati e resi pubblici, erano stati usati per minacciarlo di aprire un’inchiesta penale nei suoi confronti. Il sistema normativo creato dal governo uzbeco in materia di sorveglianza serve solo a facilitarne l’uso massiccio, in contrasto con gli standard e le norme internazionali. Il governo può avere accesso diretto ai dati delle telecomunicazioni e non ha bisogno di autorizzazioni per applicare tutta una serie di metodi di sorveglianza. Dunque, ogni telefonata, ogni mail e ogni messaggio di testo può non restare privato. Ne derivano restrizioni sulla vita e sulla libertà delle persone che sono insopportabili e inaccettabili. In Uzbekistan, la sorveglianza aggrava una situazione già difficile per i difensori dei diritti umani, i giornalisti, gli attivisti politici e ulteriori persone. Negli ultimi anni, Amnesty International ha documentato gravi violazioni dei diritti umani tra cui detenzioni arbitrarie e diffuse torture ad opera di agenti di polizia e di funzionari dei servizi segreti. Difensori dei diritti umani, persone che avevano espresso critiche nei confronti del governo e giornalisti indipendenti sono stati costretti a lasciare il paese per evitare gli arresti, le minacce e le intimidazioni da parte dei servizi segreti e delle autorità locali. I pochi che rimangono nei paese sono costantemente sorvegliati da agenti in borghese. I difensori dei diritti umani e i giornalisti vengono regolarmente convocati per interrogatori nelle stazioni locali di polizia, posti agli arresti domiciliari o impediti in altro modo dal prendere parte a incontri con diplomatici stranieri o a manifestazioni pacifiche. Vengono spesso arrestati e picchiati, da agenti in divisa o da persone in borghese sospettate di lavorare per i servizi segreti. Pakistan. Ricatti sui detenuti cristiani: chi si converte all’Islam viene liberato di Stefano Vecchia Avvenire, 1 aprile 2017 Proteste della comunità a Lahore dove un pm ha "garantito" l’immunità a 42 imputati per terrorismo. Anche ad Asia Bibi venne proposto. Le pressioni per la conversione dei cristiani alla fede islamica in Pakistan sembrano non avere limiti. E, mentre da un lato una magistratura laicista e fautrice dello Stato di diritto cerca di contenere le richieste degli islamisti di giudizi sommari in base alla sharia, dall’altro è un pubblico ministero a chiedere la conversione di prigionieri cristiani in cambio di un provvedimento di clemenza. La notizia che il procuratore Syed Anees Shah ha segnalato a decine cristiani di cui era in corso il giudizio davanti a un tribunale anti-terrorismo in Lahore, nella provincia del Punjab, di "garantire il loro rilascio" se si fossero convertiti all’islam ha sollevato forti polemiche nel Paese. Leader religiosi e attivisti cristiani hanno chiesto di aprire un’indagine sull’episodio e avviare provvedimenti contro il pubblico ministero, che ha prima negato ogni addebito ma ha poi confessato, motivando la sua azione con la volontà di offrire una possibilità agli accusati. I 42 battezzati erano stati arrestati con l’accusa di avere linciato due musulmani dopo l’attacco dinamitardo di matrice taleban contro due chiese - una cattolica e una protestante - nel quartiere di Youhanabad a Lahore. In quell’evento del 15 marzo di due anni fa i morti furono una quindicina e una settantina i feriti. Un "vile ricatto", quello del offerto in un’aula di giustizia, simile a quello proposto alla cattolica Asia Bibi, in carcere da 2.838 giorni, condannata a morte per offesa all’islam ma salda nella sua fede in attesa di una decisione definitiva della Corte suprema che si fa attendere. Più volte la madre aveva ribadito che la sua fede è viva" e non si "convertirà mai". Secondo l’avvocato cristiano Nadeem Anthony, non un’eccezione, ma invece "una pratica comune" quella attuata sui detenuti. "Queste imposizioni - ha segnalato Anthony - sono ovvie in un contesto di persecuzione religiosa". Come ricorda l’agenzia missionaria AsiaNews, sono in molti nel Paese a essere costretti a conversioni forzate con vari espedienti. Il caso più noto e anche più condannato dalle organizzazioni per i diritti umani all’interno e all’estero è quello delle donne cristiane e indù - un migliaio ogni anno - costrette a convertirsi per sposare uomini musulmani dopo il rapimento e lo stupro. Sovente senza potere far più ritorno alle famiglie d’origine. "Il pubblico ministero può essere denunciato per quest’atto discriminatorio. Abbiamo intenzione di incontrarlo presto - ha affermato ancora a AsiaNewsil pastore Arshad Ashknaz della Chiesa di Cristo, una delle chiese colpite a Youhanabad. Il governo dovrebbe respingere questa iniziativa. La paura della morte può spingere chiunque a cambiare religione". India. Condizioni di abbandono per 400mila detenuti, servono volontari per aiutarli L’Osservatore Romano, 1 aprile 2017 "Quasi quattrocentomila persone languono in 1.382 case di detenzione in India. Per questo motivo, vi invitiamo a trascorrere un anno come volontari o addetti a tempo pieno nella nostra comunità". È l’appello lanciato da padre Sebastian Vadkumpadan, coordinatore nazionale dell’associazione Prison Ministry India, un’organizzazione cattolica dello stato del Karnataka che da oltre 30 anni porta sollievo ai carcerati rinchiusi nelle prigioni del paese. Conta oltre 6.000 volontari che mettono entusiasmo, competenze ed energie per dare speranza e migliorare la qualità della vita dei detenuti. "Prison Ministry India offre ai giovani volontari la possibilità - sottolinea il sacerdote - di essere coinvolti in un percorso di riabilitazione". L’iniziativa parte da un episodio avvenuto lo scorso anno nel periodo pasquale, durante una delle numerose opere di misericordia. Nel giovedì santo, monsignor Kuriakose Bharanikulangara, vescovo di Faridabad, durante la cerimonia della lavanda dei piedi nel carcere di Tihar, a New Delhi, aveva lavato i piedi di dodici prigionieri. Alla fine della liturgia un altro prigioniero si è avvicinato all’altare e ha domandato: "Eccellenza, può lavare anche i miei piedi?". Per il vescovo e i presenti quella richiesta è stata una vera sorpresa. Il presule, quindi, ha accolto con gioia la domanda del tredicesimo carcerato, detenuto con false accuse. "Dovremmo andare tutti alla ricerca del tredicesimo prigioniero - ha spiegato monsignor Peter Remigius, vescovo di Kottar e presidente di Prison Ministry India - disposto ad accogliere il nostro sostegno e supporto. È possibile che essi non siano disponibili ad accoglierci, ma noi dobbiamo sempre avere uno spazio amorevole per loro". Grazie al sostegno di diocesi, congregazioni e istituzioni ecclesiastiche lo scorso anno centinaia di detenuti hanno riguadagnato la libertà. Sulla scia delle opere attuate nell’anno della misericordia, l’organizzazione - riferisce AsiaNews - ha deciso di dare il via in tutta l’India al "reclutamento" di volontari per dare il proprio contributo nel ricercare il "tredicesimo prigioniero".