La vendetta non è efficace di Asher Colombo Corriere di Bologna, 19 aprile 2017 Offrire ai detenuti una possibilità di apprendere, di recuperare il tempo perso, di costruirsi un futuro è senz’altro la più negletta delle funzioni che attribuiamo al carcere. Ben altri sono gli obiettivi che siamo soliti attribuirgli. Molti cittadini chiedono solo che chi ha commesso errori ne paghi il conto, in misura più o meno proporzionata. Alcuni sperano che il timore della privazione della libertà dissuada i potenziali autori dal commettere reati, e freni chi ne ha già commessi dal ricadere nello stesso comportamento. Altri vogliono semplicemente essere protetti dalle persone socialmente pericolose, e il carcere è un mero luogo in cui esse possono venire rinchiuse, neutralizzando la loro minaccia. I progetti in corso alla Dozza, di cui abbiamo dato conto ieri, ci ricordano però che il carcere può avere anche almeno un altro obiettivo: mirare a riabilitare i detenuti, a fornire loro strumenti per reinserirsi nella società dopo avere scontato la pena. Non entriamo qui in un dibattito complesso e molto ideologico, ma, a chiunque conosca anche poco delle vicende delle carceri italiane, appaiono chiare almeno un paio di realtà. La prima è che, per i decisori pubblici, il mondo carcerario ha sempre costituito una preoccupazione a bassissima priorità. La seconda è che le funzioni di "rieducazione" e di "risocializzazione" della pena entrano spesso in collisione con le altre e, quando ciò accade, hanno sempre la peggio. Lo mostra anche lo squarcio sulla realtà carceraria cittadina aperto dall’inchiesta di ieri. L’impegno di un anno scolastico, per esempio, può andare interamente perso anche solo per un trasferimento. L’idea che, in fondo, l’obiettivo riabilitativo vada collocato in coda agli altri è figlia di un pregiudizio secondo il quale i programmi di reinserimento sono inefficaci o perfino del tutto inutili. Eppure le prove che la funzione deterrente sia più efficace di quella riabilitativa sono, a dir poco, controverse. Rimuovere quest’ultima, quindi, significa accettare che al carcere venga affidata la sola funzione di affliggere il condannato. Per sapere se è davvero questo che vogliamo, forse non ci serve nemmeno ricordare quanto diceva Winston Churchill, che di principi liberali un po’ si intendeva, secondo il quale il modo in cui un popolo tratta i criminali costituisce la principale cartina al tornasole del suo grado di civiltà. Basta invece cominciare a interrogarci se una sanzione che si traduca in non molto più che una mera vendetta sia davvero efficace. Rems. Il Comitato StopOpg in digiuno per cancellare l’emendamento Mussini Quotidiano Sanità, 19 aprile 2017 Digiuno di StopOpg durante la discussione del Ddl alla Camera, per ottenere lo stralcio della norma e garantire il diritto alla salute e alle cure dei detenuti. La richiesta per i deputati è quella di un emendamento entro il 27 aprile. Al digiuno (aperto dall’ex Commissario unico per il superamento degli Opg Franco Corleone) partecipa anche don Luigi Ciotti. In questi giorni molte persone aderenti a StopOpg o simpatizzanti sono impegnate nella staffetta "Io digiuno perché non devono tornare gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari". Anche don Luigi Ciotti (domani 19 aprile e poi ancora il 26) parteciperà alla staffetta del digiuno, che è stata aperta il 12 aprile da Franco Corleone (ex Commissario unico per il superamento degli Opg). "Esprimiamo grande preoccupazione - si legge nell’appello di StopOpg in cui vengono spiegate le motivazioni del digiuno - a proposito del testo di un comma del Disegno di Legge "Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario" art. 1 comma 16 lettera d), approvato al Senato e ora in discussione alla Camera (AC 4368), che, se confermato, rischia di riaprire la stagione degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (Opg). Viene infatti ripristinata la vecchia normativa disponendo il ricovero di detenuti nelle Residenze per le Misure di Sicurezza (Rems) come se fossero i vecchi Opg". "A pochi giorni - prosegue l’appello - dalla chiusura dei manicomi giudiziari, così le Rems rischiano di diventare a tutti gli effetti i nuovi Opg, travolgendone e stravolgendone la funzione. Vanificando l’ straordinario lavoro degli operatori che ha portato in questi mesi ad oltre 500 dimissioni. E smentendo la grande riforma che ha chiuso gli Opg, la legge 81/2014, che vede nelle misure alternative al detenzione, costruite sulla base di un progetto terapeutico riabilitavo individuale, la riposta prevalente da offrire. Non abbiamo chiuso gli Opg per vederli riaprire sotto mentite spoglie". "Per questo StopOpg - conclude l’Associazione nell’appello - sta effettuando una nuova staffetta del digiuno, durante la discussione del DdL alla Camera, per ottenere lo stralcio della norma in questione e garantire davvero il diritto alla salute e alle cure dei detenuti.". Abbiamo chiesto alle/ai deputate/i di presentare emendamento (il termine per la presentazione degli emendamenti scade il 27 aprile)". Nuovo sciopero dei penalisti: udienze in tilt dal 2 al 5 maggio Il Mattino, 19 aprile 2017 La Giunta dell’Unione delle Camere Penali Italiane nel proclamare la nuova astensione delle udienze nel mese di maggio ha evidenziato in un documento "i limiti della riforma del processo penale di iniziativa governativa ribadendo, in particolare, la profonda contrarietà, già manifestata con convinzione durante il lungo iter parlamentare del disegno di legge e davanti alle Commissioni Giustizia della Camera e del Senato, alla riforma della prescrizione e dell’istituto del così detto processo a distanza". Le ragioni poste alla base della protesta dell’avvocatura penale, che hanno visto una massiccia adesione alle varie astensioni "hanno trovato - prosegue la nota - anche un importante e diffuso consenso all’interno di vasti settori della politica, dell’informazione e fra i rappresentanti del mondo della cultura e dell’Accademia. Al contrario prosegue il silenzio del Governo in ordine alle richieste di non procedere oltre nella attuazione del dichiarato intento di porre la fiducia sul Decreto legge giustizia anche davanti alla Camera, ovvero di procedere allo stralcio ed alla immediata approvazione della legge delega sull’esecuzione penale. Nel reiterare le ragioni delle due precedenti astensioni, tra le quali le modalità "antidemocratiche" con le quali la riforma è stata approvata, la Giunta dell’Ucpi denuncia "la scelta di riproporre il voto di fiducia anche davanti alla Camera, che conferma il perdurare di un atteggiamento di inammissibile disprezzo nei confronti del dibattito parlamentare". L’Ucpi invita le Camere Penali territoriali ad organizzare nei giorni indicati manifestazioni ed eventi dedicati ai temi della riforma e del "denunciato contrasto con i principi costituzionali e convenzionali della immediatezza, del contraddittorio, della presunzione di innocenza e della ragionevole durata", mantenendo lo stato di agitazione dell’avvocatura penale e attivando ogni strumento di comunicazione ed interlocuzione per sensibilizzare l’opinione pubblica e le forze politiche sul metodo e sul merito della riforma. Lotta all’estremismo jihadista: nasce il Crad e arrivano figure specializzate diritto.it, 19 aprile 2017 Ieri alla Camera è stata discussa la proposta di legge volta alla repressione del fenomeno jihadista tramite l’adozione di misure, interventi e programmi per prevenire fenomeni di radicalizzazione e di diffusione dell’estremismo violento di matrice jihadista nonché a favorire la deradicalizzazione e il recupero in termini di integrazione sociale, culturale e lavorativa dei soggetti coinvolti. È definita "radicalizzazione" il consolidarsi di un atteggiamento del soggetto simpatizzante o aderente manifestamente ad ideologie di matrice jihadista, ispirate all’uso della violenza e del terrorismo, politicamente o religiosamente motivati. Centro Nazionale sulla Radicalizzazione e Prefetture: nuovo sistema - Al centro della proposta, vi è l’istituzione del Centro nazionale sulla radicalizzazione (Crad) presso il Dipartimento delle libertà civili e dell’immigrazione del Ministero dell’interno, che elabora annualmente il piano strategico nazionale di prevenzione dei processi di radicalizzazione e di adesione all’estremismo violento di matrice jihadista e di recupero dei soggetti coinvolti nei fenomeni di radicalizzazione. L’Ente sarebbe deputato a gestire i progetti, le azioni e le iniziative da realizzare per contrastare il fenomeno, anche prevedendo l’adozione di strumenti legati all’evoluzione tecnologica, tra cui la possibile istituzione di un numero verde, la promozione di progetti pilota o di poli di sperimentazione per l’individuazione delle migliori pratiche di prevenzione, nonché il possibile utilizzo dei fondi europei Ran. I progetti elaborati a livello centrale, dovrebbero poi essere realizzati dai Centri di coordinamento regionali sulla radicalizzazione (Ccr), presso le Prefetture - Utg dei capoluoghi di regione. Corsi di formazione per forze armate, docenti, operatori socio-sanitari - Un’ulteriore novità è la previsione di attività di formazione specialistica, anche per la conoscenza delle lingue straniere, consistenti in particolare in programmi e corsi volti a fornire elementi di conoscenza anche in materia di dialogo interculturale e interreligioso al fine di prevenire fenomeni di radicalizzazione ed estremismo violento di matrice jihadista. La formazione è rivolta al personale delle forze di polizia, delle forze armate e dell’amministrazione penitenziaria, ai docenti e ai dirigenti di scuole e università, agli operatori dei servizi sociali e socio-sanitari. Pluralismo e integrazione a scuola: l’Osservatorio - Molto importante è poi l’idea di istituire l’Osservatorio nazionale per l’integrazione degli alunni stranieri e per l’intercultura elabora, conformandosi al Piano strategico nazionale elaborato dal Crad, linee guida sul dialogo interculturale e interreligioso, finalizzate a diffondere una cultura del pluralismo e a prevenire episodi di radicalizzazione in ambito scolastico. Si prevede altresì la possibilità per le reti di scuole di stipulare convenzioni con università, istituzioni, enti, associazioni o agenzie presenti sul territorio, per lo sviluppo di iniziative che prevedano la presenza di esperti, secondo linee guida che devono essere definite con decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca. Infine, è stabilito che, con accordo tra lo Stato e le regioni, sono individuate le modalità per l’attuazione di misure per la prevenzione della radicalizzazione e dell’estremismo violento di matrice jihadista nel sistema dell’istruzione e della formazione professionale. Nuovi professionisti di mediazione culturale - Nasceranno, a seguito dell’eventuale approvazione, anche figure specialistiche post-universitarie, esperte nel condurre un dialogo interreligioso, nelle relazione interculturali ed economiche e nello sviluppo dei paesi di emigrazione, previsti ed organizzati da accordi di cooperazione fra università italiane e università dei paesi aderenti all’Organizzazione della cooperazione islamica, con i quali l’Italia ha stipulato accordi di cooperazione culturale, scientifica e tecnologica. Detenuti, rieducazione e deradicalizzazione - Piani ad hoc anche per i detenuti, che non solo saranno sottoposti all’ordinario programma di rieducazione, ma anche a quello di deradicalizzazione. Ciò in accordo con il Garante dei detenuti e d’intesa con il Crad, nonché individuando criteri per consentire l’accesso e la frequenza degli istituti penitenziari a quanti, in possesso di adeguate conoscenze e competenze sui fenomeni di radicalizzazione, dimostrino di potere utilmente promuovere lo sviluppo dei contatti tra la comunità carceraria e la società libera. Chi trascrive le intercettazioni? I periti scelti su base "fiduciaria" e pagati 4 euro l’ora di Giulia Merlo Il Dubbio, 19 aprile 2017 Parla Luciano Romito, professore di glottologia e linguistica: "non esistono né una formazione professionale specifica per chi viene nominato dal tribunale, né uno standard di qualità minima con cui registrare le tracce audio". Per l’opinione pubblica sono la prova regina, per molti giornali un’inesauribile fonte di scoop. Telefoniche o ambientali, le intercettazioni sono sempre più spesso l’elemento cardine su cui poggiano le indagini giudiziarie: conversazioni "rubate", ascoltate e trascritte, che svelano trame criminose e inchiodano alle proprie parole gli indagati. Eppure, il limite tra il vero e il travisato sta proprio in quest’ultimo passaggio: la trascrizione. Fatta da periti per i quali manca un albo, per i quali non è previsto un percorso universitario specifico e sottopagati dallo Stato. Scelti su base fiduciaria - Ore e ore di registrazioni, ascoltate da un operatore di polizia giudiziaria e sintetizzate nel cosiddetto "brogliaccio", quello che il codice di procedura penale definisce "verbale in cui è trascritto, anche sommariamente, il contenuto delle comunicazioni intercettate". Il tutto costa al Ministero della Giustizia circa 250 milioni di euro l’anno, cifra stabile dal 2012. Eppure lo dispone la norma stessa - il brogliaccio non riporta i dialoghi parola per parola, ma una ricostruzione della conversazione, prodotta dalla polizia giudiziaria. La trascrizione integrale delle registrazioni avviene in un secondo momento, attraverso un’analisi peritale. E per questa lo Stato spende 4 euro lordi l’ora, pagata a personale non qualificato. La legge dispone che i periti siano scelti all’interno di albi professionali. In Italia, però, non esiste un albo dei trascrittori dal quale attingere e allora - sempre stando al codice - bisogna scegliere una persona di particolare competenza nella specifica disciplina. "In Italia, a differenza del resto d’Europa, non esiste una specifica disciplina di linguistica forense", spiega Luciano Romito, professore di Glottologia e Linguistica all’Università della Calabria e tra i principali esperti italiani in materia. "Per questo, il pm spesso nomina una persona di cui ha fiducia e conoscenza diretta, ma spesso senza specifiche competenze". Risultato: uno studio di Romito ha rilevato che il 43% dei trascrittori non sono laureati e il 6% ha solo la licenza media. A gestire il passaggio più delicato di formazione della prova, dunque, sono spesso periti senza qualifiche specifiche e per di più sottopagati. Spiega il professore che, "In base ad una legge risalente, i periti trascrittori dovevano essere dipendenti statali, pagati per la loro attività straordinaria. Tradotto con le cifre di oggi, i periti nominati dal tribunale vengono pagati 4 euro lordi per ora lavorativa, per non più di otto ore al giorno. Oggi gli incarichi vengono dati a privati che lavorano con partita Iva, ai quali rimangono in tasca circa 2 euro netti l’ora". Con queste cifre, è difficile immaginare di trovare dei periti esperti. I più qualificati, infatti, vengono assunti dai privati per le perizie di parte, ma non hanno alcun interesse a lavorare per lo Stato. Trascrizione è interpretazione - Secondo una sentenza di Cassazione, trascrivere le intercettazioni è una "mera operazione di tipo meccanico", un riportare le parole ascoltate su un foglio. "Ma io, da perito, ogni volta che ascolto qualcosa la interpreto", spiega il professor Romiti. Per chiarire, basta un esempio: "Spesso a dare significato alle frasi sono i silenzi. Mi è capitato di trascrivere un’intercettazione con un dialogo di questo tipo: "Senti, sono arrivate quelle cose". "Quali?", "Quelle cose lì... le scarpe". "Si? Allora me ne porti quante ne hai portate l’ultima volta?". Se io nel verbale avessi riportato solo le parole, il giudice avrebbe avuto un indagato che voleva delle scarpe, quante gliene avevano portate la volta precedente". Invece, il lavoro del perito è ricostruire anche le pause, i silenzi, gli innalzamenti e abbassamenti del tono della voce. "Ecco, io devo segnalare dal punto di vista linguistico come le frasi sono state costruite sintatticamente, la presenza di pause anomale che servono a far capire a chi ascolta che il termine utilizzato è scarpe, ma che il significato è quello che solo loro conoscono. Un verbale deve essere costruito linguisticamente, mentre se io mi limito a scrivere una parola dietro l’altra ho sì trascritto, ma ho interpretato malissimo ciò che ho ascoltato". Inoltre, anche l’ascolto non è sempre una questione lineare: possono esserci voci sovrapposte, una scarsa qualità del segnale, rumori ambientali che disturbano. Tutte interferenze che, se non indicate nel verbale peritale, rischiano di consegnare al giudice una falsa certezza. Tutta l’operazione di trascrizione, poi, si complica nel Paese dei mille campanili. La Cassazione stabilisce che i verbali peritali siano redatti in italiano, ma capita spesso che conversazioni captate siano in dialetto. Questo comporta, quindi, una prima stesura in dialetto, perché la trascrizione deve essere fedele a ciò che si ascolta nel segnale, e poi una seconda "traduzione" in italiano. "Al giudice, però, per capire davvero l’intercettazione, non serve una traduzione letterale dal dialetto", spiega il professor Romito. "Per esempio, dalle mie parti in Calabria quando si incontra qualcuno spesso si usa l’intercalare "t’ammazzerà". Letteralmente significa "ti ucciderei", ma se io lo trascrivessi in questo modo, la traduzione in italiana avrebbe un senso completamente differente rispetto al suo significato e potrebbe essere interpretata in giudizio in chissà quanti modi". Eppure, se è possibile nominare un esperto linguistico quando nelle intercettazioni si parla in lingua straniera, lo stesso non è possibile nel caso di conversazioni in dialetto. Oggi, però, molte inchieste di ‘ndrangheta vengono condotte non in Calabria - dove i periti con competenza dialettale sono presenti sul territorio - ma a Milano e Genova, dove le cosce fanno affari. "Un decreto del Ministero stabilisce che i periti debbano essere scelti tra i residenti nel comune del tribunale, per risparmiare sulle spese. Allora i giudici più accorti cercano, nelle liste dei periti da poter nominare, quelli con cognomi del sud. Eppure la questione dialettale è complicatissima: solo in Calabria ci sono molti dialetti diversi". Ma, mancando un riconoscimento dei dialetti da parte dell’ordinamento, è impossibile utilizzare questo come criterio di nomina del perito. Come il dna - "In un procedimento, ho contato la bellezza di 13 perizie richieste. Questo perché il segnale della registrazione era talmente degradato che ognuno sentiva una cosa diversa", ha raccontato il professor Romito. La voce è un identificatore univoco, come le impronte digitali e il Dna, eppure non esiste una normativa che fissi uno standard al di sotto del quale l’intercettazione non è utilizzabile, come succede nel caso del ritrovamento di impronte digitali che, se non hanno sufficienti punti di riconoscimento, vengono considerate inadatte per procedere all’identificazione. I periti trascrittori, invece, non possono affermare lo stesso quando il segnale da trascrivere ha troppo rumore. Proprio il supporto audio da ascoltare - che è la vera prova in dibattimento, non la sua trascrizione - apre un’ulteriore questione: come vengono effettuate le registrazioni? La legge stabilisce che siano fatte con macchinari della Procura, ma sempre più spesso le intercettazioni vengono cedute in subappalto a ditte private che, per risparmiare, registrano in bassa qualità, comprimendo il segnale. In questo modo si risparmia perché, comprimendo in qualità mp3 la traccia audio, un cd può contenere l’intera giornata di intercettazione e non solo qualche ora. Risultato: un’intercettazione telefonica probabilmente rimane intellegibile ma, nelle intercettazioni ambientali (in cui entrano in gioco i fattori circostanziali come il vento, i fruscii e le voci sovrapposte), il grado di certezza della trascrizione si abbassa drasticamente. Il caso Consip e la tentazione di affidarsi a una "polizia privata" di Bruno Vespa Il Mattino, 19 aprile 2017 Ai tempi di Mani Pulite, venticinque anni fa, i pubblici ministeri di Milano avevano i loro militari di riferimento, in genere della guardia di finanza. Ufficiali e sottufficiali fedelissimi che rispondevano a loro e soltanto a loro. Ma erano persone che per mestiere debbono reprimere il tipo di reati per i quali venivano utilizzati. Il Noe è il nucleo dei carabinieri che si occupa dei reati ambientali. Per quale ragione la Procura di Napoli ha deciso di impiegarli in una serie di indagini che di ambientale non hanno nulla, come quella - delicatissima - su Consip? Perché tra loro e i pubblici ministeri napoletani c’è un rapporto fiduciario che prescinde totalmente dai compiti d’istituto del reparto. Il Noe è da tempo sotto esame da parte del Comando generale dell’Arma. L’uomo forte del reparto è il vice comandante che raggiunse una meritata celebrità come Capitano Ultimo, l’ufficiale che nel 1993 strinse le manette ai polsi di Totò Riina. Eccellente uomo d’azione, Ultimo da uomo di comando deve aver combinato qualche grosso pasticcio se nel 2015 il comandante generale dell’Arma gli ha tolto la qualifica di ufficiale di polizia giudiziaria rendendolo inabile all’attività investigativa. Del Noe fa parte l’intraprendente capitano Scafarto accusato di due grossi falsi. Un brigadiere e un carabiniere gli hanno inoltrato una relazione di servizio dalla quale risultano due fatti. 1. A dire di aver parlato con "Renzi" non è stato l’imprenditore Alfredo Romeo, accusato per aver corrotto un funzionario Consip, ma il suo assistente Italo Bocchino, già parlamentare di An. Il capitano ha scritto che Romeo aveva parlato con Tiziano Renzi, Bocchino ha detto di non averlo mai fatto: forse si riferiva a Matteo Renzi, in data e luogo imprecisati. L’ex presidente del Consiglio ha negato di aver incontrato Bocchino in anni recenti. 2. I due carabinieri hanno scritto al loro superiore che le verifiche su una jeep che si aggirava intorno ai cassonetti in cui furono recuperati i "pizzini" di Romeo con la lettera T. (Tiziano?) hanno dimostrato che era guidata da un uomo residente nella strada. Il capitano ha scritto di un coinvolgimento dei servizi segreti che dipendono dalla presidenza del Consiglio: in concreto, Renzi figlio da premier avrebbe cercato di proteggere Renzi padre. La difesa del capitano ha parlato di errore senza dolo. Qui i casi sono tre. O la relazione di Scafarto è stata scritta da un sottufficiale che non conosciamo e che ha stravolto le informative dei colleghi traendo in inganno il capitano (ipotesi molto improbabile), o il capitano ha una leggerezza tale da renderlo seriamente inidoneo al suo mestiere o ha stravolto lui la relazione dei sottoposti compiendo un gravissimo attentato istituzionale. A quanto pare, il capitano non è nuovo a errori del genere, avendo trascritto arbitrariamente il nome del sindaco di Ischia al posto di quello incomprensibile di una intercettazione. L’indagine Consip, come è noto, è stata tolta da tempo dalla procura di Roma al Noe di Napoli "per ripetute fughe di notizie" affidandola ai carabinieri del Nucleo investigativo di Roma che per mestiere investiga appunto anche su questo tipo di reati. Quel che sorprende è che la Procura di Napoli abbia confermato la sua fiducia in un ufficio che ha rischiato di stravolgere una delicatissima inchiesta. Allora, di chi dobbiamo fidarci? Noi riteniamo che a Roma ci si comporti con maggiore equilibrio. Sarebbe inoltre utile che per le indagini ci si rivolgesse ai reparti più idonei a farle, facendo cadere il sospetto della crescita di "polizie private" al servizio di questo o di quel pubblico ministero. L’autonomia di noi politici dai giudici di Roberto Cota Libero, 19 aprile 2017 Antonio Di Pietro ha detto che alcuni pm cercano prima i colpevoli e poi le prove. Lo ha detto facendo una specie di autocritica. Questa cosa era universalmente nota ma, come dire, se lo dice lui, c’è da credergli. A prescindere dai singoli casi in cui abbiamo toccato con mano questa degenerazione (che aumentano esponenzialmente quando siamo di fronte a persone politicamente o mediaticamente esposte), c’è da chiedersi se sia finalmente possibile fare qualcosa. La politica ha fatto poco o nulla, probabilmente per una ragione più semplice di quanto appaia: c’è sempre qualcuno che si crede più furbo degli altri e pensa di poter trarre un qualche vantaggio dal tritacarne mediatico/giudiziario. Detto questo, verrebbe automatico dire: applichiamo la regola del chi sbaglia paga. Non è così facile: in mancanza di una separazione delle carriere i giudici sono poco portati a certificare gli sbagli dei pm. Precondizione a qualsiasi intervento è che la politica recuperi l’autonomia rispetto alla magistratura. Quello che è successo a Grillo docet. Che cosa diranno i Cinque Stelle? Che i giudici se gli danno ragione sono l’oracolo e se gli danno torto sono politicizzati? diritti dei detenuti Detenuti. L’interpretazione costituzionalmente orientata del diritto di reclamo di Donato La Muscatella (Avvocato) dirittoegiustizia.it, 19 aprile 2017 Con la sentenza dello scorso 13 aprile - la n. 83/17 - la Corte Costituzionale ad occuparsi della procedura introdotta per scongiurare nuove censure della Corte europea dei diritti dell’uomo in materia di diritti dei detenuti. Già nel 2013, infatti, la Repubblica aveva riportato una condanna a Strasburgo a causa (anche) del ridotto spazio vitale a disposizione dei reclusi, con la sollecitazione a predisporre una via di ricorso domestico idonea a far cessare la violazione dell’art. 3 della Convenzione e, per altro verso, a consentire una forma di riparazione adeguata per coloro i quali abbiano già subito un pregiudizio (vd. Corte Edu, Sez. II, Torreggiani e altri c. Italia, 8 gennaio 2013). Il tema della compatibilità con la Costituzione della disciplina del 2014 è affrontato tanto sul piano dei destinatari dell’istituto, quanto in ordine alla logica di operatività delle diverse prospettive offerte; interrogativi che, tuttavia, sono reputati infondati. Il caso. Il giudizio a quo trae origine dal procedimento nell’ambito del quale un soggetto, ristretto presso una casa di lavoro, aveva domandato al competente Magistrato di Sorveglianza di accedere alle azioni di speciale riparazione, essendo stato obbligato in una "cella" di dimensioni inferiori ai 3 metri quadrati per persona. Dinanzi all’ammissibilità della richiesta, l’interprete si domandava se l’istituto fosse operativo per soggetti internati e non formalmente detenuti; ulteriore quesito concerneva l’assegnazione dell’indennizzo previsto a ristretto per un periodo indeterminato e, pertanto, non riducibile. A suo avviso vi erano plurimi, rilevanti e non manifestamente infondati, dubbi di legittimità, riguardanti: la lesione del principio di eguaglianza derivante dal diverso trattamento che si sarebbe riservato a detenuti ed internati; la violazione del principio del giudice naturale per l’istante che, in tal modo, si sarebbe visto sottratto alla valutazione del magistrato di sorveglianza; il pregiudizio per il diritto di agire in giudizio, consistente nell’impossibilità di accedere, totalmente o parzialmente, ai rimedi in argomento; l’inosservanza infine, ex art. 117 Cost., degli artt. 3, 6 e 13 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, poiché, in virtù delle criticità appena descritte, resterebbe compromessa la repressione delle violazioni del divieto di tortura. La Corte - su parere difforme dell’Avvocatura Generale dello Stato, che aveva concluso insistendo, in via principale, per l’inammissibilità, in virtù di una lettura della disposizione in senso costituzionalmente conforme - dichiara la quaestio non fondata. Il Redattore, invero, chiarisce come la legittimità costituzionale della norma derivi qui non dalla lettera della legge, ma dall’opportunità (rectius necessità) di ricavare dall’enunciato linguistico normativo un’esegesi coerente con la Carta (e, per norma interposta, con la Convenzione). Due i nodi sottoposti al vaglio di costituzionalità, strettamente consequenziali: se la domanda ex art. 35-ter o.p. possa essere proposta (pure) dall’internato; se in tal caso, per ragioni connesse ai diversi connotati della restrizione, quest’ultima trovi spazio utile nell’ambito dei benefici concessi dalla norma. L’equivalenza tra detenuto ed internato. La motivazione, in primis, esamina l’aspetto soggettivo dell’iter ermeneutico seguito dall’ordinanza di rimessione. Preliminarmente, in rapporto alle obiezioni sollevate dall’Avvocatura di Stato, i Giudici costituzionali ribadiscono il criterio, più volte affermato in precedenti arresti, in forza del quale "quando il rimettente si prospetta la via dell’interpretazione adeguatrice, ma esclude che essa sia percorribile, la questione che ne deriva non può ritenersi inammissibile a causa dell’erroneità di tale conclusione" (vd., da ultimo, sentenza n. 42 del 2017). Quanto al merito, il Collegio precisa come il raffronto tra casi, in realtà, non debba guardare al titolo formale per il quale il soggetto è privato della libertà personale, quanto piuttosto all’identità del bene giuridico leso ed alle modalità, del tutto analoghe, con cui tale danno si realizza in concreto; nemmeno l’invocato argomento letterale, peraltro, risulterebbe inequivoco, posto l’espresso rinvio ad una disposizione - art. 69, comma VI, lett. b), o.p. - che contempla l’internato tra i potenziali destinatari. In tale contesto, quindi, non può che estendersi la protezione prevista per il detenuto, conformemente alla stessa recente giurisprudenza europea, che già s’è pronunciata, con riferimento ad altro ordinamento nazionale, in relazione a soggetti sottoposti alla custodia cautelare in carcere (cfr. Corte Edu, Grande Camera, Mursic c. Croazia, 20 ottobre 2016, § 115). Il rapporto tra i rimedi previsti dall’art. 35 ter c.p.. Analoghe carenze possono riscontrarsi, secondo la Corte, nel modo in cui è dedotta la seconda questione. Da un lato, infatti, la novella del 2014 - promossa con l’apprezzabile intento di stroncare il fenomeno dei cc.dd. ergastoli bianchi - ha prescritto per qualunque misura di sicurezza detentiva un limite di durata pari al massimo edittale previsto per il reato commesso; dall’altro, poi, pur ignorando questo profilo, non è affatto vero che il ristoro economico sia finalizzato al mero completamento della tutela in forma specifica, poiché, al contrario, "il risarcimento patrimoniale del danno ha carattere subordinato, rispetto al ristoro in forma specifica, ma autonomo, nel senso che il primo compete ogni qual volta il secondo, in tutto o in parte, non sia utilmente attribuibile. L’internato che non può godere di alcuna riduzione della durata della misura di sicurezza detentiva è perciò legittimato a domandare il risarcimento integrale del danno in forma patrimoniale". Conclusioni. La sentenza in esame si caratterizza per l’apprezzabile linearità con cui ripercorre i singoli punti nodali, giungendo a conclusioni condivisibili, capaci di delineare un quadro di protezione coerente con lo spirito della Carta e con la stessa intentio legis, che si prefiggeva di contenere gli effetti nefasti derivanti dall’attuale situazione degli istituti penitenziari, soprattutto sul piano di potenziali ulteriori condanne per il Paese. Sarà quindi un’efficace indicazione per chi assista i richiedenti, nell’attesa che il Parlamento individui soluzioni strutturali al tutt’ora irrisolto problema del sovraffollamento. Detenuti. Il diritto allo spazio minimo in cella di Milena Patania (Avvocato) guidelegali.it, 19 aprile 2017 Gli orientamenti giurisprudenziali recenti che chiariscono lo spazio di libertà del detenuto nella camera di pernottamento. Tema attualissimo per la giurisprudenza dei legittimità consiste nel valutare lo spazio idoneo ad ogni detenuto in quelle che oggi sono denominate camere di pernottamento (ex celle). La vicenda che ha visto coinvolta la Suprema Corte prende le mosse non solo da una vicenda specifica, ma dal fatto che prima di tale pronuncia vi erano solo orientamenti giurisprudenziali e mai una decisione che potesse cristallizzare la fattispecie, soprattutto in assenza di una disciplina codificata che riguardasse lo spazio individuale per ciascun detenuto, tanto è vero che il corpo normativo 354/1975 e relative norme di attuazione nulla dicono in merito, lasciando quindi una lacuna che è stata colmata dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione. La vicenda - Un detenuto, presso il carcere di Spoleto, avanzava reclamo al fine di ottenere una tutela inibitoria ai sensi dell’articolo 35 bis e 35ter della Legge sull’Ordinamento Penitenziario, in quanto lamentava che la propria permanenza era in violazione dell’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Orientamenti giurisprudenziali - Contributi di notevole interesse circa lo spazio consentito al detenuto presso la camera di pernottamento sono stati avanzati dalla Corte di Strasburgo, la quale in un primo momento poneva attenzione soprattutto alle condizioni igieniche ed al rischio di diffusione delle malattie. Particolarmente importante è la sentenza Sulejmanovic c. Italia, 16 luglio 2009, con la quale la Corte Europea condannava al trattamento inumano lo Stato che non consentiva per ogni detenuto una metratura cubica di metri tre; trattasi in tal caso di trattamento inumano avente presunzione assoluta, mentre nel caso in cui lo spazio per ciascun detenuto era compreso tra tre e quattro metri cubici si trattava di presunzione relativa al trattamento disumano, tenendo in considerazione anche altri fattori. Il medesimo orientamento è stato assunto nella sentenza del giorno 8 gennaio 2013, Torreggiani e altri c. Italia, con la quale ha fatto emergere problematiche di tipo organizzativo nelle carceri italiane, facendo si che fosse ingiunto, a chi di competenza, di dotare ristoro a coloro che non lo possiedono. Con la sentenza Mursic c. Croazia, 20 ottobre 2016, invece sono stati definiti tre requisiti minimi che ogni camera di pernottamento deve avere: a) spazio di almeno 3 m.q. per detenuto; b) spazio individuale per dormire e c) libertà di movimento; nel caso in cui vengono a mancare uno di questi requisiti si ha una violazione dell’articolo 3 della Cedu salvo che vi sia una sorta di compensazione con il cotesto, ossia la struttura offra ottime possibilità di lavoro esterno, ottima igiene ovvero buona illuminazione etc., mentre nel caso in cui se lo spazio è compreso tra tre o quattro m.q. per la violazione è necessario la mancanza di idonee strutture, mentre nel caso in cui lo spazio è superiore a quattro m.q. il sovraffollamento, e quindi la conseguente violazione del citato articolo, si deve basare su altri presupposti. Il problema del calcolo per il detenuto nasce soprattutto nel considerare o meno gli arredi interni quali ostacoli alla metratura, ossia se letto ed armadio devono essere ricompresi nella metratura oggetto di contestazione ed è proprio questo il fulcro della pronuncia della Suprema Corte. Ne bis in idem, ammesse due sanzioni di Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 19 aprile 2017 Cambio di rotta dei giudici comunitari sul ne bis in idem, più difficile la sua configurazione e su questa nuova interpretazione i giudici italiani potranno adattare le proprie decisione. È quanto emerge, in sintesi, dall’analisi dell’ufficio del Massimario della Cassazione nella recente relazione (26/2017) dedicata al discusso istituto. In attesa che la Corte europea e la Corte costituzionale si pronuncino nuovamente sulla annosa questione, l’ufficio del Massimario con una approfondita relazione fa il punto sullo stato della giurisprudenza nazionale e comunitaria in materia e, soprattutto, tenta di individuare l’evoluzione della giurisprudenza internazionale. Il contrasto - Negli ultimi anni si è determinata una sostanziale divergenza sull’applicazione del ne bis in idem tra giudici comunitari e nazionali. La questione concerne il divieto di perseguire lo stesso trasgressore due volte (il bis) per il medesimo fatto/violazione (l’idem). Tra le principali questioni che contrappongono l’interpretazione comunitaria a quella nazionale vi è l’ambito della categoria dell’illecito penale. In campo comunitario si ha più riguardo ad un concetto sostanziale facendo così rientrare nella definizione di sanzione penale anche quella amministrativa se particolarmente afflittiva (come potrebbero essere le varie sanzioni tributarie), mentre, a livello nazionale, viene in genere operata più una distinzione formalistica escludendo dalle sanzioni penali quelle non previste come tali dall’ordinamento ancorché particolarmente afflittive. Da tale situazione sono scaturiti provvedimenti di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, oltre che questioni di legittimità costituzionale (violazione del parametro di cui all’articolo 117 della Costituzione) Il nuovo orientamento - La relazione evidenzia che la situazione sembra essere mutata per l’intervento della Grande Chambre della Corte Edu che, con la sentenza A e B/Norvegia del 15/11/16, n. 24130/11 (non ancora tradotta ufficialmente in lingua italiana), ha segnato una battuta d’arresto rispetto alle precedenti interpretazioni sul ne bis in idem. La Grande Camera, infatti, pare introdurre una nuova linea interpretativa per dirimere le violazioni del principio in esame, basata su valutazioni di ordine processuale e procedimentale. In particolare viene ora evidenziato (circostanza in passato sostanzialmente non ammessa) che i procedimenti sanzionatori, penale ed amministrativo, possono coesistere qualora si ritenga sussistente tra loro una "connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta". Si ammette, in altre parole, sia la conduzione parallela sia non contemporanea dei due procedimenti sullo stesso fatto, purché il soggetto sottoposto al "doppio binario sanzionatorio" non subisca un pregiudizio sproporzionato derivante da un perdurante stato di incertezza processuale; sotto il profilo sostanziale, i giudici europei individuano una serie di indicatori per evitare il bis in idem: la diversa finalità dei procedimenti, la prevedibilità della duplicazione di procedimenti e sanzioni da parte dell’autore della condotta, la conduzione integrata dei procedimenti, in modo da evitare la duplicazione nella raccolta e nella valutazione delle prove, la considerazione nel secondo procedimento dell’entità della sanzione inflitta nel primo, in modo che venga in ogni caso rispettata l’esigenza di una proporzionalità complessiva della pena. Secondo il Massimario, questa nuova pronuncia Cedu comporta, da un lato, che non sono più pressanti i dubbi di incompatibilità con il sistema comunitario di alcuni sistemi del nostro ordinamento interno calibrati sul "doppio binario" sanzionatorio (in materia tributaria e di abusi di mercato soprattutto); dall’altro, che diventa essenziale, per le sorti future dell’operatività del principio di ne bis in idem, l’orientamento che intenderà assumere in merito la Corte di Giustizia europea di cui si attende una imminente pronuncia. È truffa la vendita online senza consegna di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 19 aprile 2017 Corte di cassazione - Sentenza 18821/2017. Chi incassa un anticipo per la vendita di un veicolo online e si rende irreperibile senza consegnare l’auto, non commette il reato di insolvenza fraudolenta ma mette in atto una truffa. La Cassazione, con la sentenza 18821 depositata ieri, annulla la sentenza con la quale la Corte d’Appello aveva qualificato il reato come insolvenza fraudolente, in base all’articolo 641 del Codice penale. Secondo la Corte territoriale la condotta del ricorrente doveva essere inquadrata nell’insolvenza fraudolenta nell’impossibilità di individuare gli artifizi e i raggiri tipici del reato di truffa. Per i giudici di merito era chiaro che il venditore inadempiente aveva dissimulato il suo stato di insolvenza. La Suprema corte non è d’accordo. Nella giurisprudenza di legittimità sussiste il reato di truffa quando l’inadempimento contrattuale è la conseguenza di un precostituito proposito fraudolento. Per la Cassazione si deve dunque parlare di truffa contrattuale nel caso, come quello esaminato, in cui non venga consegnata la merce offerta in vendita e acquistata via web "allorché al versamento dell’acconto non faccia seguito la consegna del bene compravenduto e il venditore risulti non più rintracciabile". Le modalità dell’azione rendono, infatti, evidente la presenza del dolo iniziale del reato, che va ravvisato nella volontà di non adempiere all’esecuzione del contratto già dal momento dell’offerta online. Assegno di mantenimento, la disoccupazione non scrimina l’omesso versamento di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 19 aprile 2017 Corte d’Appello di Palermo - Sentenza 24 febbraio 2017 n. 802. "In materia di violazione degli obblighi di assistenza familiare, l’incapacità economica, intesa come impossibilità dell’obbligato di adempiere a tali obblighi, deve essere assoluta, cioè consistere in una persistente, oggettiva e incolpevole situazione di indisponibilità di introiti, e deve essere da lui provata con rigore, pur peraltro essendo imposto sul punto al giudice un esame attento e scrupoloso". Facendo applicazione di questi principi fissati dalla Corte di cassazione (n. 9759/1992), la Corte d’Appello di Palermo, con la sentenza del 24 febbraio 2017 n. 802, ha, parzialmente, confermato la condanna emessa dal Tribunale di Termini Imerese per violazione degli obblighi di assistenza familiare nei confronti di un papà separato. Il giudice di secondo grado, rilevato che i figli inizialmente vennero affidati al padre, l’ha assolto per quel periodo. Ma per i mesi seguenti - "non risultando che sia stata corrisposta alcuna somma per il loro mantenimento, fatta eccezione per talune somme versate dalla madre e dalla sorella dell’imputato" - ha confermato la decisione del Tribunale. Con riguardo poi alla difesa dell’appellante, che aveva sostenuto di essersi trovato nell’impossibilità di adempiere all’obbligo di mantenimento, essendo stato licenziato nel luglio del 2010, già il giudice di primo grado aveva evidenziato che "non basta dedurre il mero stato di disoccupazione" per giustificare il mancato versamento dell’assegno, considerato che per "lunghi e prolungali periodi" il prevenuto "ha totalmente omesso di prestare il dovuto ausilio economico alla prole". E ciò, "nonostante si debba riconoscere all’imputato (che ha ammesso di aver espletato dei lavori saltuari in nero) una piena capacità reddituale e lavorativa". Per cui, concludeva, "non si vede in che modo giustificare una condotta omissiva che perdura da oltre due anni e che, pertanto, non sostanziandosi in una diligente attivazione dell’onerato resta penalmente rimproverabile (né può considerarsi diligente la condotta di chi, per cercare lavoro, si limiti ad inviare i curricula a non meglio specificate enti ed imprese)". Una lettura condivisa dalla Corte di appello secondo cui "una volta provato da parte dell’accusa che l’obbligato non ha adempiuto, spetta allo stesso, che è nelle condizioni di conoscere la propria situazione patrimoniale, indicare e dimostrare che ciò non è dipeso da un atto volontario ed allegare idonei e convincenti elementi indicativi della totale ed assoluta impossibilità di far fronte agli obblighi di legge (Cass. n. 4152/1991)". Infatti, prosegue la decisione, "nemmeno lo stato formale di disoccupazione, oppure il fallimento o la chiusura dell’attività d’impresa esime il genitore dall’obbligo di contribuzione al mantenimento dei figli, specie se frutto di inerzia nel reperimento di altra stabile occupazione o di scarsa dedizione ad un impegno lavorativo, ben potendo egli procurarsi un’occupazione non regolarizzata o precaria, anche in luogo diverso da quello di abituale dimora (n. 9759/1992)". Per cui, la Corte ha confermato, per questa parte, la decisione del Tribunale "tenuto conto del protratto periodo nel quale l’imputato si è sottratto ai suoi obblighi, pur godendo di buona salute e di idoneità al lavoro". L’orologio familiare necessita di continue sincronizzazioni di Giulia Lotti Ristretti Orizzonti, 19 aprile 2017 La Casa di Reclusione Ranza di San Gimignano, da giovedì 16 marzo, ha aperto l’area verde per i consueti colloqui con i familiari dei detenuti, organizzando nelle giornate di venerdì 17 e sabato 18, animazioni per i bambini che sono venuti in visita ai genitori, in occasione della festa del papà. I detenuti, sia dell’alta che della media sicurezza, afferenti al progetto "Padre e figlio", nelle ultime settimane ai gruppi si mostravano emozionati e, in parte, anche in difficoltà, per l’arrivo dei figli e sentivano il bisogno di essere rassicurati, prevedendo ogni minimo gesto, domanda, ritualità di quelle giornate. Marco, che ha da poco concluso le pratiche di riconoscimento del figlio, nato quando lui si trovava già in regime detentivo, mi dice: "Dottoressa, lo sa che mio figlio prende l’aereo per la prima volta per venire qua? Chissà cosa penserà una volta arrivato, se mi chiederà di comprargli qualche gioco in particolare e, soprattutto, ci insegni a dire no ai figli… quando si vedono così poco, non si riesce a fare la parte dei cattivi con loro e quella parola scomoda, il NO appunto, finiamo per farla pronunciare sempre alle mogli, alle zie, alle nonne..". Said mi rassicura, dice che tutte le sue preoccupazioni rispetto alla distanza della figlia allo scorso colloquio erano state eccessive. "Aveva ragione lei, Dottoressa, la bimba non ce l’aveva con me, quel giorno, era solo stanca o forse si portava qualche brutto pensiero già da fuori, non voleva rifiutare un mio gesto d’affetto. Me lo ha proprio scritto in una lettera". Nelle loro domande, nelle scarpe sempre bianche e pulite, nei gesti nervosi delle mani che accompagnano e danno enfasi alle parole, ai dubbi, sento la fatica di incastrare tra loro realtà e dimensioni temporali così diverse. Il tempo dentro è ben cadenzato da una quotidianità che si ripete e rincorre sempre uguale a se stessa, con pochi imprevisti, tutto è tenuto sotto controllo, c’è un’ora per fare ogni cosa. Fuori, invece, e le mamme lo sanno bene, il tempo corre, i neonati diventano presto bambini e i bambini in un soffio divengono ragazzi, con la fatica di stare in scarpe che in fretta divengono strette ma, ancora, con gambe non sufficientemente forti per camminare da sole. Fuori, ci sono imprevisti, repentini cambiamenti di umore, corse al tempo, persino richieste di doni di ubiquità talvolta ed è difficile che questi due mondi, abitati da tempi così diversi tra loro, si incontrino e si sintonizzino in un orologio familiare che scorra fluido ed armonioso. Ne è un esempio l’ansia di Francesco, che al gruppo racconta della paura che a casa sia accaduto qualcosa di brutto. " Dottoressa dovevo telefonare ieri alle 15, come faccio ogni martedì. Mio figlio a quell’ora è tornato da scuola e mia moglie lo porta a casa della nonna, dove io di solito telefono perché là c’è il fisso e in 10 minuti posso sentirli tutti e tre. Certo, quando mio figlio parla veloce e non ci mette un’ora per dirmi che a scuola ha preso finalmente un bel voto; in quel caso io sono lì che fremo, vorrei già pronunciare la domanda successiva perché quei minuti scorrono talmente veloci.. Pensi che invece oggi il telefono è suonato a vuoto, l’agente mi ha fatto pure ripetere la chiamata, ma niente, nessuno ha risposto. Temo che sia successo qualcosa di brutto… La mente, allora, va alla mia vita, di mamma e lavoratrice, penso alle mie corse e lotte al tempo, a tutte le telefonate a cui non ho risposto perché all’ultimo alla bimba è venuto un gran febbrone e c’era da correre dal dottore, oppure un paziente che faticava a stare nei tempi della seduta perché la solitudine era troppa per uscire dalla porta e provare ad affrontarla da solo ed ecco che, viceversa, sono in ritardo rispetto al mio rientro a casa…e nasce sul mio viso un sorriso di comprensione, che fa da congiunzione tra la paura di chi, immobile, come Francesco attende che una voce risponda al telefono e la moglie che, magari, quel giorno, ha corso cercando di essere puntuale ma qualcosa, come spesso accade a chi si muove all’interno della giornata come un equilibrista sul filo sottile, l’ha fatta ritardare. Nelle giornate dedicate alla festa del papà in Istituto, la Dott.ssa Ivana Bruno, funzionario giuridico pedagogico e referente del progetto, la mia collega, Dott.ssa Michela Salvetti ed io, abbiamo cercato forse proprio questo: essere, con la nostra presenza, un ponte tra diverse realtà. Un ponte tra il paterno e il materno, il dentro e il fuori, l’imprevisto e la routine, la lentezza e la rapidità dello scorrere del tempo, il mondo adulto e quello dei bambini. Abbiamo provato a favorire il gioco con i figli, la vicinanza e il calore di due persone che sceglievano attentamente i colori e si osservavano con cura e amore, per fare i rispettivi ritratti. Abbiamo provato a far vedere ai padri che si può restare dei seri punti di riferimento per i figli anche dopo aver sudato sotto il sole a giocare a bandierina con loro, a colorare un disegno lasciato in dono, che poi altro non è che un modo per lenire il difficile momento del distacco e dei saluti. Certo avevamo ben presente che quei giochi, quegli abbracci, le fotografie e persino il tempo benevolo con quel tiepido sole di primavera, avevano un retrogusto amaro, che abbiamo provato ad accogliere, a non ignorare... perché i bimbi, che stavano su due giardini recintati l’uno di fronte all’altro, rispettivamente chiusi da cancelli e reti di protezione, chiedevano perché non potessero giocare insieme, visto che i loro papà afferiscono a circuiti diversi e vige il divieto di incontro. Le domande dei bambini vanno accolte, anche quando sono scomode e sembra che rovinino l’atmosfera di festa di un giorno di sole, vanno accolte con la delicatezza con cui vanno protetti i bambini, la loro dolcezza e i sogni. A volte, però, i bimbi spiazzano e non sappiamo cosa rispondere, soprattutto quando un pugno allo stomaco segue le loro ingenue ma forti domande. La risposta è arrivata facendo squadra, mettendoci a fianco dei papà, che non si sono sottratti dal rispondere in prima persona che "no, purtroppo quel cancello non si poteva aprire, è una regola.. però ci si poteva lanciare il pallone da una rete all’altra, in modo che i bambini potessero fare dei turni per quel gioco…trovando, a loro volta, un modo per fare ponte". Sono venuta via da quella giornata emozionante e stancante, arrivata a conclusione di una settimana dove non sono mancati imprevisti e necessità di rivedere più volte i piani in corso d’opera, pensando che quando ci si guarda, ci si ascolta, si prova a sentire ciò che l’altro prova, congiungere è possibile, le distanze si possono in parte colmare. *Psicologa-Psicoterapeuta Omosessualità e carcere: storia di un coming out imposto di Michael Crisantemi prideonline.it, 19 aprile 2017 Al sistema carcerario italiano sono state mosse censure dalla Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo e dalle organizzazioni per i diritti dei detenuti. Che siate colpevoli o innocenti, il rumore metallico delle porte che si chiudono alle spalle sembra già una condanna senza appello. Poi la richiesta di confessare, non il reato, forse il peccato: pochi istanti per dire quello che talvolta si tace una vita. Non è la Cecenia: benvenuti nelle carceri italiane. La condizione in cui versa il sistema carcerario italiano è tristemente noto: numerose censure sono state mosse tanto dalla Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo quanto dalle organizzazioni non governative che si occupano dei diritti dei detenuti. Negli ultimi anni è anche sorta una florida letteratura scientifica che ha indagato la condizione, particolarmente dura, delle persone Lgbti nel carcere. Tuttavia non è ancora stata denunciata una pratica non scritta, invalsa nell’amministrazione penitenziaria, per cui viene chiesto al detenuto di dichiarare il proprio orientamento sessuale al momento dell’ingresso nel carcere: nessun problema nel caso in cui questo si professasse eterosessuale. Se invece il detenuto, indotto al coming out, palesa la sua omosessualità, allora viene valutato dai vertici dell’amministrazione penitenziaria nella sua maggiore o minore "mascolinità": gli "effemminati" (o percepiti come tali dai dirigenti) vengono spediti nella sezione definita "protetti". Istituite dall’art. 32 del D.P.R. 230/2000, sono le sezioni, presenti solo in alcuni penitenziari italiani, in cui vengono ospitati i detenuti che non possono stare a contatto con il resto della popolazione carceraria, in ragione del proprio orientamento sessuale, dell’identità di genere o per aver commesso reati considerati infamanti. E così, in quello che appare un vero e proprio refugium peccatorum, vengono ospitati insieme stupratori, pedofili, collaboratori di giustizia, ex appartenenti alle forze dell’ordine, gay e persone transgender. Al contrario, l’omosessuale apparentemente più virile, viene invitato a tacere il proprio orientamento e a confondersi con il resto dei detenuti. Tutto ciò, si badi bene, per risparmiare al soggetto le pesanti ripercussioni che discendono dall’essere inseriti, una volta per sempre, nella sezione protetti (meno possibilità di risocializzazione, di rieducazione, lontananza dal luogo di origine e dagli affetti, etc.). Questa pratica, in via di superamento, denota come venga portato alle estreme conseguenze il paradigma eterosessuale imperante nella società contemporanea e non meno nell’istituzione carceraria, con effetti paradossali, a volte premiali, quasi sempre degradanti e avvilenti la dignità umana. Milano: tutti i sindacati difendono Bollate, tranne il Sappe di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 aprile 2017 Il modello del "carcere aperto" consente una recidiva molto bassa. Il carcere di Bollate, dopo la sesta evasione, viene messo sotto accusa dal sindacato autonomo della polizia penitenziaria (Sappe), ma difeso dal resto dei sindacati di polizia. Da una parte c’è chi condanna il modello di Bollate perché considerato troppo "aperto", dall’altra c’è chi lo difende perché funzionale alla riabilitazione del detenuto. Infatti, in una nota congiunta, i sindacati Uil-Pa, Sinappe, Cisl, Cnpp e Cgil hanno dichiarato che "pur nella massima consapevolezza delle criticità esistenti presso la struttura, così come nell’intero sistema penitenziario italiano, in materia di carenza organico, insufficienza di risorse e difficoltà a mantenere gli standard di igiene e sicurezza dei luoghi di lavoro, tutti elementi peraltro costantemente presenti sui tavoli politici nazionali, non possiamo non evidenziare come l’accensione dei riflettori dei media possa rappresentare una minaccia per l’immagine e l’operato della Polizia Penitenziaria di Bollate e dell’intero staff a disposizione del Dirigente". I sindacati spiegano che l’uso del mezzo stampa per denunciare le criticità è fondamentale se usato correttamente, ma le vicende delle evasioni rischiano di essere utilizzate per sparare addosso a un istituto che è stato realizzato per promuovere progetti avanzati di reinserimento dei detenuti. Cosa è successo in questo periodo, tanto da accendere i riflettori e polemiche annesse sul carcere di Bollate? Ci sono state sei evasioni dall’inizio dell’anno. In pratica alcuni detenuti non erano rientrati dal permesso premio, facendo perdere le loro tracce. Due di loro si sono costituiti quasi subito, uno è stato arrestato dagli agenti. Due di quelli non rientrati erano in permesso premio e non era la prima volta che ne usufruivano. In realtà presso la Casa di Reclusione di Bollate fruiscono di permessi oltre 200 detenuti, 190 sono gli ammessi al lavoro, 23 sono in semilibertà e tornano a dormire dentro la sera. E infine, nel 2016 sono stati ben 320 quelli a cui la magistratura di sorveglianza ha concesso una misura alternativa alla detenzione. Numeri che nessun altro Istituto penitenziario può vantare di avere. Come abbiamo già scritto su Il Dubbio, le misure alternative garantiscono una riabilitazione, abbassa la recidiva e rende più sicuro il Paese. La II Casa di reclusione di Milano - Bollate nasce nel 2001 come istituto a trattamento avanzato teso al recupero socio lavorativo dei detenuti. A differenza di molte altre carceri in Italia, non è sovraffollato ed ospita circa 1226 detenuti su 1238 posti previsti. All’interno dell’Istituto lavorano 370 agenti di polizia penitenziaria, 5 educatori, 3 psicologhe ed operano ogni giorno circa 50 volontari esterni. Un aspetto importante che occorre considerare dell’istituto di Bollate è il tipo di sicurezza che viene attuato nei confronti degli utenti del servizio. Per sistema di sicurezza integrato si intende la gestione compartecipata della sicurezza da parte di tutte le Aree, quindi dell’area trattamentale, dell’area Sanitaria e si intende in particolare un intervento anche in termini di responsabilità da parte di tutti gli Operatori penitenziari. Un esempio di sicurezza integrata lo possiamo ritrovare nel regime di apertura delle celle: nell’istituto di Bollate le celle sono aperte dalle 8 del mattino fino alle 20, e questo comporta un diverso rapporto che si instaura tra gli agenti presenti sul piano e la popolazione detenuta. Fondamentale, nell’Istituto, è il recupero socio lavorativo che si realizza attraverso la possibilità per i detenuti di seguire corsi scolastici e di formazione professionale, lavorare all’interno e all’esterno della struttura, partecipare ad attività culturali e trovare assistenza legale e psicologica. La casa di reclusione di Bollate offre ai detenuti la possibilità di conseguire la licenza media statale e per i detenuti stranieri corsi di alfabetizzazione della lingua italiana. Per chi è già in possesso della licenza media c’è la possibilità di diplomarsi come corrispondente in lingue estere. La recidiva, non è un caso, risulta la più bassa rispetto alla media nazionale. Genova: "nessun suicidio nel carcere", la direzione di Marassi contro la Uil-Pa La Repubblica, 19 aprile 2017 La direzione del carcere di Marassi contesta e smentisce seccamene i dati su suicidi e tentati suicidi forniti attraverso un comunicato alla vigilia di Pasqua da Fabio Pagani, segretario regionale del sindacato Uil Polizia Penitenziari. Maria Milano, direttrice dell’istituto di pena genovese accusa di falsificazione della realtà i dati del sindacato, riferiti ai primi quattro mesi dell’anno, che sembravano delineare una situazione al collasso all’interno delle Case Rosse. La direttrice Milano è categorica: "I dati forniti dalla Uil e riportati dai giornali non corrispondono a verità e non si capisce da quali fonti siano stati attinti". Prosegue la funzionaria precisando che i suoi sono quelli ufficiali ministeriali: "Riguardo ai suicidi indicati in numero di 10 casi - dice - non si è registrato neppure un caso. Mentre per i tentati suicidi indicati come 13, ne risultano 4 che potrebbero essere attribuiti anche alla stessa persona". Infine la direttrice di Marassi parla delle aggressioni al personale di polizia penitenziaria: "Il sindacato parla di 70 episodi, ma a noi non ne risulta neppure uno". Pagani, segretario della Uil penitenziaria regionale aveva anche detto che: "Nel carcere di Marassi la capienza è di 430 detenuti, ne sono presenti 700". La replica della direzione è questa: "La capienza regolamentare è di 450 detenuti e in data odierna sono presenti 693 persone. I detenuti hanno la possibilità di utilizzare le docce presenti nelle proprie camere di pernottamento e parte di queste è interessata a nuovi lavori di ristrutturazione per migliorarne la funzionalità". Il sindacalista Uil aveva anche raccontato alcuni episodi di comportamenti violenti e aggressivi di alcuni detenuti all’interno dell’istituto. "Episodi come quelli descritti - sottolinea la direttrice Milano - relativi a comportamenti posti in essere da persone detenute possono verificarsi, e con l’attività dei vari operatori (personale di Polizia Penitenziaria, medici, educatori, volontari) vengono gestiti. Prato: il Garante dei detenuti "negate le telefonate ai familiari per carenza di fondi" tvprato.it, 19 aprile 2017 Popolazione carceraria in aumento, problemi igienico-sanitari e carenze di risorse per pagare i mediatori culturali, senza i quali i detenuti di alcune nazionalità non possono telefonare ai propri familiari. Sono alcuni dei problemi segnalati dal garante dei diritti dei detenuti Ione Toccafondi, che è stata ascoltata oggi nella commissione comunale politiche sociali. A febbraio scorso i detenuti alla Dogaia erano 680, cento in più rispetto al 2015. Da allora buona parte dei detenuti di Pistoia, il cui carcere è in parte inagibile a seguito della tempesta di vento, sono stati dirottati su Prato, senza che alla Dogaia siano stati assegnati risorse e personale. Gli educatori nell’ultimo anno sono perfino scesi da 5 agli attuali 3. Sono aumentati gli atti di autolesionismo: il carcere di Prato è stato il sesto in Italia per questa triste graduatoria. E il garante ha anche denunciato il problema della carenza di risorse per la mediazione culturale, per le quali l’assessorato ai servizi sociali del Comune di Prato aveva stanziato dei fondi. "Purtroppo il contributo è insufficiente a coprire l’attività per tutto l’arco dell’anno - ha detto il garante -. I mediatori hanno lavorato per qualche mese ma poi si sono trovati costretti ad interrompere l’attività con effetti negativi sul rapporto tra i detenuti e i familiari. Per poter autorizzare le telefonate tra detenuti e parenti, occorrono verifiche sulle utenze, e solo chi comprende la lingua straniera può compierle. In assenza dei mediatori, i detenuti (il 48% dei quali sono stranieri) si sono così visti privati della possibilità di telefonare ai familiari e questo ha contribuito ad accrescere la tensione all’interno della Dogaia. Sono lievitati in maniera esponenziale atti di autolesionismo e il carcere di Prato ha raggiunto il sesto posto nazionale per questo fenomeno" - ha denunciato Ione Toccafondi. Altri problemi segnalati riguardano le condizioni della struttura. "L’anno scorso la Asl ha fatto una descrizione dettagliata perché ha trovato condizioni igieniche scadenti - ha detto il garante - Continua ad esserci il problema di detenuti extracomunitari che rovesciano parte dei rifiuti dalle finestre, soprattutto nel reparto detenzione a medio termine. Si creano degli accumuli che hanno fatto proliferare la presenza di grossi topi. È stata fatta un’ordinanza per mettere delle grate alle finestre in modo da impedire questi sversamenti: probabilmente il problema dei rifiuti si risolverà, ma peggiorerà ancora la vivibilità in celle nelle quali non si respira, soprattutto d’estate". La garante per i diritti dei detenuti Ione Toccafondi ha poi sottolineato le criticità da un punto di vista sanitario. "Per quanto riguarda i detenuti con problemi psichiatrici, dopo la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari - che è stata una conquista - purtroppo si sono create lunghe liste di attesa per entrare nei percorsi terapeutici delle Rems. In Toscana e Umbria c’è soltanto una struttura di questo tipo, la residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza di Volterra, che ha 30 posti. Le esigenze sono però maggiori e queste persone vivono in carcere con tutti i problemi che ne conseguono. A Prato abbiamo tenuto in isolamento per un mese e mezzo un detenuto dichiarato totalmente incapace di intendere e di volere, in condizioni di totale illegalità". Toccafondi ha poi invocato l’intervento delle istituzioni anche per una particolare categoria di detenuti, i sex offenders, coloro che hanno commesso reati a sfondo sessuale: un’ottantina a Prato, all’interno di una sezione unica in Toscana. "Per loro non c’è in atto nessun tipo di progetto riabilitativo, per cui rischiano di uscire nelle stesse condizioni con cui sono entrati nel carcere. Su questo la Regione potrebbe fare qualcosa". Tra gli ambiti che vedono il carcere di Prato all’avanguardia c’è invece la formazione con il polo universitario penitenziario e i corsi di studio: il prossimo anno, in collaborazione con l’istituto Datini, si aggiungerà una sezione dell’indirizzo alberghiero alla Dogaia. In ambito artistico e culturale è oramai decennale la collaborazione con la compagnia di Teatro Metro Popolare. Tra i progetti che saranno potenziati in ambito di avviamento al lavoro c’è la creazione di una officina meccanica: i corsi tenuti gratuitamente da meccanici della zona hanno già portato a un paio di richieste di lavoro in favore dei detenuti della Dogaia. Novara: Nido Pollicino e Scuola Collodi rimessi a nuovo da detenuti e disoccupati Corriere di Novara, 19 aprile 2017 Gli interventi sono stati realizzati con il coordinamento di Assa. L’asilo nido comunale "Pollicino" e la scuola dell’infanzia "Collodi" sono stati rimessi a nuovo e domani, mercoledì 19 aprile, sarà dunque un rientro con piacevole sorpresa dalle vacanze pasquali per bambini, famiglie e insegnanti. Nella scuola dell’infanzia "Collodi" di via Spreafico a svolgere l’attività, coordinata da Assa, sono stati i detenuti usciti in permesso premio dalla Casa circondariale per prestare la loro attività volontaria nell’ambito del protocollo per le "Giornate di recupero del patrimonio ambientale" che vede coinvolti oltre ad Assa e Casa circondariale anche il Comune, la Magistratura di Sorveglianza, l’Ufficio esecuzioni penali esterne Uepe, e l’Atc. Assa ha fornito anche il supporto operativo mediante i detenuti attivi in azienda tramite i "cantieri di lavoro". Sono stati ripristinati gli intonaci interni ed esterni, imbiancati i bagni, la sala per il riposino pomeridiano, l’ingresso e la sala armadietti. Sono state ripristinate le guaine di copertura delle pensiline di ingresso che erano gravemente compromesse. È stato effettuato anche un necessario intervento sulla parte idraulica e si è provveduto alla completa pulizia delle gronde perimetrali, alla pulizia dei pozzetti, a un intervento sul pergolato per evitare l’ingresso di api e vespe nella zona gioco. È stata fatta una manutenzione anche della parte esterna in modo che possa essere fruita nelle belle giornate: in particolare sono state dipinte le fioriere, risistemati arredi e panchine con trattamento impregnante, sistemate le parti sollevate dei camminamenti, ridimensionata la vegetazione che ostruiva i canali di gronda ed effettuato il taglio e la mondatura dell’erba. L’intervento all’asilo nido comunale "Pollicino" di via Lazzarino ha visto all’opera i "cantieristi disoccupati" attivi in Assa tramite i cantieri di lavoro del Comune che hanno provveduto, sempre sotto il coordinamento tecnico e il supporto operativo di Assa, al ripristino degli intonaci, all’imbiancatura dell’ingresso, dei corridoi, degli uffici e della sala dormitorio, oltre che alla sistemazione di parte del pvc dell’ingresso che era completamente sollevato in diversi punti. Gli interventi sono durati tre giornate in entrambe le strutture (giovedì 13, venerdì 14 e martedì 18 aprile, mattina e pomeriggio) e hanno visto impiegati mediamente ogni giorno nove detenuti e sei cantieristi disoccupati. "Siamo molto soddisfatti - sottolinea il presidente Assa Giuseppe Antonio Policaro - degli ottimi risultati dei progetti sociali di Assa ottenuti grazie alle sinergiche collaborazioni che abbiamo messo in atto con il Comune e gli altri soggetti del Protocollo per l’impiego dei detenuti: ringraziamo tutti. Siamo anche contenti che, con quest’ultimo intervento, abbiamo positivamente risposto alle esigenze della comunità scolastica". Il responsabile Assa per i Progetti sociali Riccardo Basile ha dal canto suo sottolineato che "si dimostra sempre più proficua l’idea di integrare le attività svolte con i vari progetti sociali. Nello specifico, approfittando della chiusura delle scuole per le vacanze pasquali, siamo riusciti a svolgere in contemporanea due interventi, uno più impegnativo alla "Collodi", che necessitava di alcuni interventi straordinari, e uno di manutenzione ordinaria per il nido "Pollicino", utilizzando detenuti in permesso premio, detenuti beneficiari di trattamenti e disoccupati". Cagliari: detenuto malato attende da sei mesi un intervento chirurgico di Lorenzo Ena L’Unione Sarda, 19 aprile 2017 Da Tempio a Sassari, fino ad arrivare al carcere di Uta. Dopo sei mesi di trasferimenti da un penitenziario all’altro, G.P., 36enne di Napoli detenuto nella sezione di alta sicurezza, è ancora in attesa di un intervento chirurgico per risolvere i problemi legati alla sua ipercalcemia, malattia che accresce il livello di calcio nel sangue, determinando lo sviluppo esponenziale di calcoli delle vie urinarie. La denuncia arriva dalla presidente di Socialismo diritti riforme, Maria Grazia Caligaris, che ripercorre il calvario del detenuto: "È stato trasferito dalla casa di Tempio a Sassari per affrontare con maggiore rapidità l’intervento chirurgico urologico. Poi è arrivato a Uta per sottoporsi all’asportazione delle ghiandole paratiroidee: le sue condizioni destano preoccupazione". Secondo Caligaris, "lo stato di sofferenza contrasta con la possibilità di scontare la pena in modo adeguato. Il detenuto, secondo quanto riferiscono i parenti, lamenta forti dolori conseguenti a una calcolosi renale. Le liste d’attesa anche per l’asportazione delle ghiandole paratiroidee sono piuttosto lunghe ma la situazione richiede un’accelerazione in quanto c’è il rischio che l’uomo perda la funzionalità renale per atrofia dell’organo. L’auspicio è che le sollecitazioni dei familiari e degli operatori sanitari del carcere possano trovare ascolto al più presto anche perché G.P. deve subire un secondo intervento a Sassari per l’asportazione di una cannula inserita per favorire l’espulsione dei calcoli". Cagliari: pacchi meno costosi per i detenuti grazie alla convenzione con Poste italiane vaccarinews.it, 19 aprile 2017 Dietro, una convenzione con Poste italiane che utilizza il servizio "crono", nato per il commercio elettronico. Il supporto dell’associazione Socialismo diritti riforme. Da una parte il progetto "Filatelia nelle carceri", dall’altra un nuovo approccio per inoltrare i pacchi. L’ultima notizia giunge dalla Sardegna, diffusa dall’associazione Socialismo diritti riforme; riguarda la casa circondariale presente ad Uta. È "un’iniziativa partita dalla struttura imprese della filiale di Cagliari che merita di essere estesa a tutti gli istituti" dell’isola, ha detto la presidente del sodalizio, Maria Grazia Caligaris. Il progetto solidale, avviato un anno fa grazie alla sensibilità di chi è alla direzione del penitenziario, è attualmente operativo e si avvale del supporto tecnico offerto dai volontari. Secondo la convenzione, il carcere raccoglie le domande dei reclusi relative ai colli da inviare, mentre Poste italiane con i suoi addetti effettua il prelievo e l’inoltro. Il programma consente un taglio di almeno 5,00 euro per ciascuna spedizione a vantaggio dei detenuti. Molti di loro - chiarisce la rappresentante - "hanno necessità di inviare dei pacchi ai familiari con effetti personali. In prevalenza si tratta di maglioni e/o coperte nel cambio di stagione oppure di prodotti deperibili o di oggetti non ammessi che rischiano di restare nei magazzini deteriorandosi". Le vantaggiose condizioni possono essere fruite anche dal personale che opera nella sede. Alla base, il servizio "crono", nato per sostenere il commercio elettronico ma che, di fatto, può essere esteso in situazioni dove numerosi clienti omogenei vengono considerati come un interlocutore unico, permettendo appunto i risparmi. Roma: oggi il convegno "Il mondo come prigione? Carcere, diritti, giustizia" Corriere della Sera, 19 aprile 2017 Sistemi detentivi e recupero sociale. Si tiene questo pomeriggio all’Auditorium del Maxxi (Via Guido Reni 4) il convegno "Il mondo come prigione? Carcere, diritti, giustizia" con i massimi esperti italiani che si confronteranno sulle condizioni delle nostre carceri. Alle 15 il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, affronterà il problema della recidiva (che riguarda circa il 70 per cento dei detenuti) e della necessità di misure alternative, mentre il direttore artistico del Maxxi Hou Hanru presenterà la mostra "Please come back. Il mondo come prigione?". Alle 18 si parlerà dei diritti fondamentali e della salute psico-fisica dei detenuti con monsignor Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio consiglio della cultura e Luigi Manconi che preside la Commissione diritti umani del Senato. Pompei (Na): 200 detenuti si ritrovano per la II Giornata Regionale della Misericordia stabiachannel.it, 19 aprile 2017 Provenienti dai diversi istituti penitenziari della Campania, pregheranno insieme, ai piedi della Vergine, guidati da monsignor Pasquale Cascio. Saranno duecento i detenuti che, sabato 22 aprile, parteciperanno, nella città mariana, alla II Giornata Regionale della Misericordia degli Istituti Penitenziari della Campania. Ad ospitare l’incontro sarà nuovamente il Santuario di Pompei, già méta, lo scorso anno, del Giubileo delle Carceri. Provenienti dai diversi istituti di pena campani, i detenuti si ritroveranno, dunque, nella Basilica fondata dal Beato Bartolo Longo che fece della sua vita una missione a favore dei bambini poveri, soli, orfani o abbandonati, ma, in particolare, a favore dei figli e delle figlie dei carcerati del suo tempo, per i quali fondò istituti e orfanotrofi che offrissero loro accoglienza e l’amore che la società del tempo negò loro, solo perché figli di delinquenti e, dunque, a loro volta destinati a compiere illeciti. La preghiera, il silenzio, il confronto arricchito anche da alcune testimonianze, animeranno il pellegrinaggio, organizzato dal Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria, dal Centro di Giustizia Minorile di Napoli e dai Cappellani regionali delle Carceri e divenuto un appuntamento annuale grazie alla Conferenza Episcopale Campana e alla Pastorale Carceraria della Chiesa di Napoli. I detenuti si ritroveranno alle 9.00 nel Piazzale "San Giovanni XXIII" del Santuario, per dirigersi, poi, in corteo verso la Basilica. Alle 10.00, prima del momento di preghiera, i pellegrini ascolteranno le testimonianze di tre detenuti, rispettivamente di un carcere maschile, femminile e minorile. Poi, la santa Messa celebrata per loro da monsignor Pasquale Cascio, Arcivescovo della Diocesi di Sant’Angelo dei Lombardi-Conza-Nusco-Bisaccia e Delegato della Conferenza Episcopale Campana per le Carceri. L’incontro esprime il desiderio di essere vicino a chi soffre e trova conforto nella preghiera. È inoltre occasione per far conoscere il cammino che molti detenuti hanno deciso di compiere, all’interno del proprio istituto penitenziario, alla luce delle riflessioni sulla Misericordia dell’Anno Santo voluto da Papa Francesco. Cuneo: "Adotta uno scrittore", al carcere di Saluzzo lo scrittore Alessandro Leogrande targatocn.it, 19 aprile 2017 Il progetto ha coinvolto 27 autori e altrettante scuole, per immergersi con gli studenti nella lettura e nella scrittura. Quante sono le frontiere che attraversano il mondo contemporaneo? Chi le attraversa? Chi le mette in discussione? Chi vuole invece presidiarle come fossero un fortino? Queste sono alcune delle domande che lo scrittore Alessandro Leogrande, editorialista del "Corriere del Mezzogiorno" e di "Internazionale" e conduttore di trasmissioni per Radio 3, ha fatto confluire nei suoi lavori, in particolare nel suo recente La frontiera (Feltrinelli). È da questo tema fortemente attuale che prende avvio il percorso che lo scrittore ha compiuto, a partire dal 4 aprile, assieme ai detenuti della Casa Circondariale "Rodolfo Morandi" e agli studenti del Liceo Artistico Soleri-Bertoni di Saluzzo, per il progetto "Adotta uno scrittore" con cui il 30° Salone del Libro di Torino, in programma dal 18 al 22 maggio, "entra" nel corso del 2017 in 27 luoghi di formazione del territorio piemontese. Un tracciato fatto di tre incontri che si conclude il 20 aprile con l’ultimo appuntamento in programma dalle ore 12.15 alle ore 15.45 presso la Casa Circondariale "Rodolfo Morandi" di Saluzzo. Il carattere estremamente formativo dell’esperienza è riassunto nel post che Leogrande ha scritto sul Book Blog - la sezione blog di "Adotta uno Scrittore": "Ho ripensato molto all’intervento di un detenuto italiano che, a incontro finito, mi si è avvicinato chiedendomi a bruciapelo: "Perché hai citato Apocalisse 21 all’inizio del tuo libro?". E qui a rimanere sorpreso sono stato io. Non solo perché una domanda del genere - stranamente - non me l’aveva rivolta nessuno, ma soprattutto perché il mio interlocutore era stato tra i pochi a cogliere la dimensione religiosa, utopica, rivelatrice che si annida nei viaggi dei migranti ogni giorno. Religiosa nel senso che rimanda alla ricerca di una dimensione altra, della vita oltre la sua possibile dissipazione… All’incontro non hanno partecipato solo i detenuti, ma anche alcuni studenti di Saluzzo. Ed è stato proprio questo incontro, questo reciproco confrontarsi da prospettive, età, convinzioni, posizioni diverse, seduti in cerchio in una stanza, ad aver creato - per molti dei presenti, credo - quasi uno stato di sospensione". "Adotta uno scrittore" è un progetto di riferimento nel settore a livello nazionale che si concentra sul territorio di riferimento del Salone del Libro, animando tutto il Piemonte, ed è realizzato grazie al sostegno dell’Associazione delle Fondazioni di origine bancaria del Piemonte e in collaborazione con l’Ufficio Scolastico Regionale del Piemonte - Direzione Generale Regionale. Un’iniziativa riconosciuta in Italia come uno dei più originali ed efficaci progetti di promozione della lettura e della scrittura fra i giovani: in 15 anni sono state 314 le adozioni, che hanno coinvolto 9.750 ragazzi, 4 case di reclusione, 1 ospedale e ha permesso a 128.000 studenti di entrare gratuitamente al Salone Internazionale del Libro grazie all’Associazione delle Fondazioni di origine Bancaria del Piemonte. Insieme alla novità di quest’anno, rappresentata dall’allargamento alle scuole elementari e medie, viene anche confermato il lavoro degli scrittori in tre istituti carcerari: l’Istituto Penale per i Minorenni "Ferrante Aporti" di Torino, la Casa di reclusione "Rodolfo Morandi" di Saluzzo e la Sezione femminile della Casa Circondariale "Lorusso e Cotugno" di Torino, con il coinvolgimento di Shady Hamadi, Alessandro Leogrande, Valeria Parrella. Nei diciotto istituti superiori, a dialogare coi ragazzi, confrontandosi liberamente con loro, entrando nelle realtà quotidiane in cui vivono, rispondendo a quesiti talvolta personali, parlando di libri, di scrittura ma anche di emozioni, di vita, raccontandosi in un clima rilassato e creativo, saranno: Roberto Alajmo, Silvia Ballestra, Giacomo Bevilacqua, Giulia Blasi, Luigi Bolognini, Lorena Canottiere, Ugo Cornia, Domenico Dara, Gabriele Di Fronzo, Pietro Grossi, Loredana Lipperini, Giordano Meacci, Eric Minetto, Demetro Paolin, Giuliano Pesce, Romana Petri, Marco Rossari, Elena Stancanelli. Taranto: "L’altra città", un percorso partecipativo e interattivo nella realtà carceraria Corriere di Taranto, 19 aprile 2017 Prenderà il via il prossimo 6 maggio, nella Casa circondariale "Carmelo Magli", un importante evento artistico-culturale: L’altra città. Un percorso partecipativo e interattivo nella realtà carceraria italiana. L’evento è curato dal teorico e critico d’arte Achille Bonito Oliva e da Giovanni Lamarca, comandante del reparto di polizia penitenziaria della locale casa circondariale, con il contributo di detenuti, personale in servizio e in pensione (Anppe), ed esperti: Giulio De Mitri (artista e docente), Roberto Lacarbonara (giornalista e critico), Anna Paola Lacatena (sociologa e scrittrice), Giovanni Guarino (attore e animatore). Ideato e coordinato da Giovanni Lamarca, il progetto "L’altra città" rappresenta una "prima assoluta" nel panorama delle iniziative culturali e formative realizzate all’interno delle carceri italiane. Non è l’arte che entra nei luoghi di detenzione, ma è il carcere stesso che si fa opera d’arte, grazie all’apporto di quanti vivono in prima persona la reclusione, a coloro che vi operano e agli stessi visitatori. Ognuno con la propria esperienza e competenza e tutti con l’intenzione di creare, attraverso l’espressione artistica, un ponte tra vita ristretta e società civile. Come spiega Carmelo Cantone (Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria per la Puglia e la Basilicata): "L’altra Città darà infatti ai visitatori la possibilità di conoscere "ciò che sono i luoghi della pena oggi in un paese di democrazia occidentale avanzata, con le contraddizioni di questi luoghi che sono le contraddizioni del nostro sistema penitenziario, per come è stato costruito, per le sue potenzialità, per le sue criticità, ma anche per come viene vissuto da chi vive e da chi lavora in carcere". Il progetto artistico e polisensoriale site specific si articola in tre momenti. Innanzitutto un laboratorio sulla didattica dell’arte che ha coinvolto un gruppo di detenute fornendo non solo le basi conoscitive sulle pratiche artistiche dell’arte contemporanea ma anche, e soprattutto, sollecitando una riflessione personale sul proprio percorso esistenziale e sull’esperienza della detenzione. Tutti gli ambienti - trasfigurati attraverso l’intervento artistico di un gruppo di detenute guidate dall’artista Giulio De Mitri e con la partecipazione di alcuni agenti penitenziari - consentiranno al visitatore di "vivere" la reale esperienza del carcere e, nello stesso tempo, compiere un ideale e personale percorso che dalla percezione del castigo e dell’isolamento può portare al recupero e all’emancipazione. Un’opera d’arte dunque dalla forte connotazione sociale che è stata preceduta e preparata da un’attività di elaborazione alla quale hanno dato il loro contributo, oltre a Giulio De Mitri (direzione artistica e didattica), Roberto Lacarbonara (analisi critica), Anna Paola Lacatena (analisi sociologica), Giovanni Guarino (allestimento e preparazione del personale penitenziario). L’arte dimorando nella fantasia e non solo, avvia un processo di sublimazione che blocca le pulsioni negative, producendo qualcosa di socialmente positivo. Come afferma il sociologo Mario Morcellini, "l’arte, sublimando la realtà, è uno dei mezzi per trascendere la solitudine e uscire dalla fortezza dell’individualismo". In quanto spazio di libera espressione, l’arte ha stimolato nei detenuti significativi momenti relazionali e socializzanti, incanalando positivamente la loro potenziale creatività. Il successivo momento è stato caratterizzato da interventi artistici che hanno mutato la natura di quella che precedentemente era un’ordinaria sezione detentiva, realizzando con segni, scritture, simboli e immagini un’eccezionale installazione site specific. Per i detenuti è stata questa una significativa opportunità formativa ed educativa che ha contribuito alla "ricostruzione" della propria identità sociale e culturale. Il terzo momento è rappresentato dall’apertura del carcere alla società civile, rendendo fruibile, a chi ne farà domanda, l’installazione stessa. Un’occasione, unica e straordinaria, per stimolare un’ulteriore riflessione sulla condizione dei ristretti, come metafora della personale condizione di prigionia che ciascuno racchiude nel proprio vissuto. Attraverso la sfera emotiva e sensoriale, il potenziale fruitore, "incluso da libero", interagirà infatti con la realtà carceraria compiendo un reale percorso che lo condurrà dalla sensazione di detenzione e di isolamento a quella di emancipazione e condivisione della propria libertà. Ecco fondata "L’altra città" - scrive in catalogo Achille Bonito Oliva - che include esclusi e reclusi e conferma l’affermazione di Baudelaire che l’arte, la sua bellezza, è una promessa di felicità. E direi di coesistenza e convivenza, per questo "Altra città". Il catalogo de L’altra città (Gangemi, 2017), curato da Achille Bonito Oliva e Giovanni Lamarca è disponibile in libreria. Alla prefazione di Carmelo Cantone, seguono testi di Achille Bonito Oliva, Giulio De Mitri, Roberto Lacarbonara, Anna Paola Lacatena, Giovanni Lamarca, apparato iconografico (crediti fotografici di Giorgio Ciardo e Roberto Pedron) e note biografiche sugli autori. I proventi delle vendite saranno interamente destinati alla casa circondariale e all’associazione "Noi e voi" di Taranto che ha sostenuto il progetto. Quanti, a partire dall’8 maggio, volessero fare esperienza de "L’altra città", compiendo il percorso previsto all’interno della Casa Circondariale di Taranto, possono rivolgersi a Lucia Scialpi, 340.8227225 o laltracittanoievoi@gmail.com. Riceveranno istruzioni in merito. È necessario, infatti, inviare copia del documento d’identità e liberatoria compilata e firmata. In caso di minorenni è necessario che la liberatoria venga firmata dal genitore. Bologna: "Cinevasioni", lanciato il bando di partecipazione al Festival nella Dozza di Luca Giagnorio bandieragialla.it, 19 aprile 2017 Aperto il bando di partecipazione per la seconda edizione di Cinevasioni, il primo Festival di cinema organizzato e proiettato all’interno della casa circondariale di Bologna. Il festival, unico in Italia, aprirà le porte della Dozza a cineasti e studiosi di cinema, attraverso proiezioni di film che portino il linguaggio e la cultura cinematografica all’interno della realtà carceraria. Dopo il successo della prima edizione del 2016 - conclusasi con la vittoria del film rivelazione "Lo chiamavano Jeeg Robot" di Gabriele Mainetti - è stato annunciato Cinevasioni 2017, a conclusione del percorso formativo cinematografico "Ciak in carcere", che ha coinvolto una quindicina di detenuti. Il festival si svolgerà dal 9 al 14 ottobre e i detenuti del corso "Ciak in carcere" saranno i giurati di Cinevasioni. Il Direttore Artistico, Filippo Vendemmiati, e la Direttrice Scientifica, Angelita Fiore (che ha coordinato anche "Ciak in carcere") hanno lanciato il bando di partecipazione per gli autori e le case di produzione. Fino al 25 giugno è possibile iscrivere i film al festival. Possono partecipare lungometraggi (durata superiore a 50 minuti) di finzione e documentari, nazionali e internazionali, la cui prima uscita pubblica sia avvenuta negli ultimi due anni (2016-17). Come requisito obbligatorio all’ammissione è richiesta la presenza di almeno un rappresentante dell’opera alla presentazione del film stesso durante la proiezione. Le spese di viaggio e di soggiorno degli autori o rappresentanti dei film sono sostenute dal festival. Cinevasioni 2017 è organizzato dall’associazione D.E.R. - Documentaristi Emilia-Romagna, con il sostegno di Fondazione Del Monte, Rai Cinema e, da quest’anno, Gruppo Hera, con cui è in fase di definizione anche la realizzazione di una sala cinematografica polifunzionale da far gestire direttamente agli ospiti del carcere. Per informazioni sul regolamento del bando: http://www.cinevasioni.it/regolamento. "Colpevoli", viaggio nel carcere di Foggia. Volti e storie oltre le sbarre immediato.net, 19 aprile 2017 "Colpevoli", come la sentenza di condanna in Tribunale e quella - perenne - di parte della società, che non crede nella riabilitazione e nella rieducazione. "Colpevoli. Vita dietro (e oltre) le sbarre" è il titolo del libro scritto dalla giornalista foggiana Annalisa Graziano, edito da "edizioni la meridiana", che sarà presentato in Fondazione Banca del Monte mercoledì 19 aprile, alle 18:30. "È frutto di un lavoro collettivo - spiega Annalisa Graziano - e nasce da una lunga chiacchierata con il direttore della Casa Circondariale di Foggia, Mariella Affatato. Dopo l’esperienza della mostra e del volume fotografico ‘l’altra possibilità’, realizzati a quattro mani con Giovanni Rinaldi, ho pensato di raccontare la vita e le vite dentro". "Colpevoli" è un viaggio nelle sezioni dell’Istituto Penitenziario foggiano, tra le celle, le aule scolastiche, i passeggi, nella cucina e in tutti i luoghi accessibili. È, soprattutto, la rivelazione delle storie che ci sono dietro i nomi e le foto segnaletiche cui ci hanno abituati la cronaca nera e giudiziaria. Non solo rapinatori, omicidi, ladri e spacciatori, ma anche uomini, padri, figli e mariti con storie che nessuno aveva ancora raccolto. "Colpevoli" alcuni detenuti si sentono fino in fondo, altri in parte. Ma tutti si sono messi in discussione, raccontandosi e hanno scritto alcune pagine insieme a me". La prefazione del volume, realizzato con il sostegno della Fondazione Banca del Monte e in collaborazione con il Csv Foggia, porta la firma di don Luigi Ciotti. "Queste pagine - scrive il Presidente di Libera - ci aiutano a ricordare che il carcere non è una terra marginale o un mondo a parte, ma un’eventualità nella storia delle persone. Scaturita certo da scelte sbagliate, di cui è giusto rendere conto, ma anche da opportunità negate, dall’assenza di alternative". La postfazione è stata affidata a Daniela Marcone, vicepresidente di Libera e figlia di Francesco Marcone, vittima innocente di mafia. "Abbiamo chiesto a Daniela un contributo per raccontare anche l’altro punto di vista, quello della vittima - spiega Graziano - tema che ho cercato di affrontare, non senza difficoltà, anche con i detenuti che ho intervistato". "Negli ultimi anni - il commento del Presidente della Fondazione Banca del Monte, Saverio Russo - abbiamo sostenuto l’attivazione delle misure alternative al carcere, abbiamo tentato di alleviare il dramma delle famiglie dei detenuti, di fare in modo che la detenzione non sia solo segregazione vuota ed alienante o, peggio, scuola del crimine, ma sia ripensata per ricostruire legami positivi con il mondo esterno. Abbiamo finanziato nel 2016 una mostra e un testo, intitolati ‘l’altra possibilità’ e oggi il nuovo volume, scritto da Annalisa Graziano, propone una riflessione che potrà sensibilizzare sul tema e contribuire a rendere più solido il progetto di recupero e rieducazione". "Colpevoli" si compone di due parti: la prima dedicata al mondo carcere, la seconda all’esecuzione penale esterna, attraverso il racconto delle realtà del Terzo Settore segnalate da Uepe, l’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna. Annalisa Graziano ha rinunciato ai diritti d’autore. I proventi sosterranno attività nel carcere di Foggia. "Troppi soldi destinati ai migranti" di Leo Lancari Il Manifesto, 19 aprile 2017 Nel Def previsti più di 4 miliardi di euro per l’accoglienza. Centrodestra scatenato. Ma i fondi stanziati non sottraggono risorse agli italiani. Per il centrodestra la strada sembra ormai tracciata, ed è la più semplice: ritrovare l’unità persa ormai da anni soffiando sulle paure degli elettori. Tutti insieme questa volta, e non più in ordine sparso come avviene oggi. Tre, in particolare, i temi caldi su cui battere e non a caso non sono una novità: "azzeramento dei migranti, più sicurezza nelle città, un rapporto diverso con l’Europa". Il presidente dei senatori di Forza Italia Paolo Romani lo dice chiaramente in un’intervista apparsa ieri su La Stampa: "Se si ripartirà dai contenuti non sarà impossibile raggiungere una condivisione di intenti con Salvini e Meloni", spiega. A spingere in questa direzione, dopo anni di rapporti a dir poco freddi tra le varie componenti, sono soprattutto i sondaggi che indicano un eventuale centrodestra unito in testa a tutti con oltre il 32%. Tanto basta per mettere da parte divisioni, offese e diversità. "Abbiamo governato con la Lega secessionista di Bossi, figuriamoci se non possiamo farlo con la Lega di Salvini" ricorda Romani. Prepariamoci dunque a una campagna elettorale in cui sia da destra che da sinistra (vedi i decreti Minniti-Orlando su immigrazione e sicurezza) si farà a gara per offrire risposte securitarie buone solo per alimentare egoismi e timori spesso ingiustificati. Il centrodestra, che in questo campo non deve imparare niente da nessuno, ha già cominciato. L’occasione è stata la presentazione del Def, il Documento di economia e finanza varato dal governo e nel quale è previsto lo stanziamento di oltre 4 miliardi di euro per l’accoglienza dei migranti. Spesa che, a fronte dell’alto numeri di arrivi (stando ai dati del Viminale 27 mila fino al 12 aprile, il 23,8% in più rispetto all’anno scorso) potrebbe crescere fino a toccare i 4,6 miliardi di euro necessari per il soccorso e l’accoglienza. "Una scelta scandalosa se si pensa ai problemi del paese reale, alla disoccupazione dilagante, ai tanti italiani che perdono il lavoro e alle famiglie in affanno", attacca il senatore Maurizio Gasparri (Fi) dando di fatto il via alla solita polemica per cui si toglierebbero soldi agli italiani per sostenere i migranti. E infatti da Giorgia Meloni a Renato Brunetta, si accodano tutti. "Prima gli immigrati, ecco il nuovo slogan del governo", afferma la leader di Fratelli d’Italia, mente per il presidente dei deputati azzurri "non possiamo più permetterci di portare dentro il nostro paese delle bombe ad orologeria quali sono le centinaia di migliaia di disperati che in Italia non hanno la possibilità né di lavorare né di avere un’accoglienza decente". In realtà le cose stanno in maniera molto diversa. E non solo perché, come ricorda Stefano Fassina di Sinistra italiana, "i costi per l’accoglienza sono fuori obiettivo del Fiscal Compact, quindi non sottraggono risorse agli italiani". Ma anche perché si tratta di cifre note da tempo, anticipate l’anno scorso dallo stesso ministero dell’Economia sulla base delle previsioni legate al numero di arrivi nel nostro Paese. Senza contare che i soldi spesi per l’accoglienza rappresentano altrettante opportunità di lavoro per migliaia di italiani. Nei prossimi giorni intanto si comincerà a capire se il piano messo a punto dall’Unione europea per fermare le partenze dalla Libia funziona oppure no. È infatti finto l’addestramento da parte della missione europea Sophia della nuova guardia costiera del paese nordafricano alla quale il governo italiano si prepara a consegnare dieci motovedette per il controllo delle coste della Tripolitania. Oltre a fermare i barconi n partenza, i militari libici dovrebbero provvedere anche alle operazioni soccorso dei mezzi in difficoltà. Nonostante le tante rassicurazioni, non c’è però ancora nessuna certezza sulla sorte dei migranti che verranno riportati il Libia dove il rispetto dei diritti umani di chi fugge da guerre e miseria è praticamente sconosciuto. Seppure dovesse funzionare, è chiaro che lo sbarramento costituito dalla guardia costiera libica non sarà sufficiente a fermare le partenze, presumibilmente in aumento con l’arrivo della bella stagione Lo sanno bene anche a Bruxelles, tanto che ieri una portavoce dell’esecutivo comunitario ha assicurato che la Commissione Ue "si tiene pronta a sostenere l’Italia con tutti i mezzi a sua disposizione". La giungla dei migranti nella terra di nessuno di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 19 aprile 2017 A Gorizia, negli altipiani della grande guerra, la battaglia quotidiana di chi fugge dalle nuove guerre. Sulle rive dell’Isonzo rifugiati e richiedenti asilo cercano di sopravvivere come possono. I volontari: "è il fallimento di tutto il sistema di accoglienza". Durante la prima guerra mondiale esisteva un luogo, posto a metà tra le due trincee contrapposte, chiamato "terra di nessuno". Era una sottile linea di "confine" dove a volte i soldati, esausti di morte e privazioni, rimanevano come in un tempo sospeso, aspettando che ricominciassero gli assalti. Ora si combatte un’altra guerra, quella di chi fugge dai propri paesi e cerca rifugio. Anche questi uomini, donne, bambini, aspettano qualche cosa; di rimettersi in cammino, di evitare le deportazioni o semplicemente aspettano un pasto e una coperta. Uno di questi luoghi si trova sulle rive dell’Isonzo, un altro confine, tra Italia e Slovenia. Proprio lì dove vennero combattute tra le più cruente battaglie del conflitto 15-18, si trova quella che da qualche anno viene chiamata "jungle". Non è un posto popolato da animali feroci ma da migranti, richiedenti asilo accampati in attesa delle decisioni della commissione territoriale. Decine di persone che non trovano posto nel sistema di accoglienza (Hub o Centri di accoglienza straordinaria) e che devono provvedere alla loro sussistenza, cucinando con bracieri di fortuna, riparandosi alla meglio e a rischio di esondazione del fiume nei mesi invernali. Secondo le convenzioni internazionali avrebbero diritto a una sistemazione degna, non si tratta dunque di fuorilegge. Tra i pochi italiani che aiutano questi migranti c’è Mauro Chiarabba, un romano trapiantato in Friuli che si definisce "attivista volontario" e che ci racconta come vanno le cose da quelle parti. "Ho cominciato in maniera indipendente, perché per me è giusto aiutare i rifugiati e chiunque si trovi in difficoltà a causa di questo sistema di frontiere chiuse". Una posizione che, contrariamente a quanto sembri, sta diventando comune in Europa nonostante la marea xenofoba montante. "La "jungle", almeno fino agli ultimi controlli di polizia e carabinieri che hanno allontanato e disperso molte persone, era un posto dove i migranti si radunavano per passare il tempo e mangiare. Col passare degli anni - racconta Chiarabba - è diventata la loro casa, con le proprie regole di autogestione. Tutti a Gorizia sanno che i rifugiati andavano li, non è un segreto per nessuno e quando dico tutti, dico tutti, parliamo di un posto lontano 10 minuti a piedi dalla stazione". È una situazione cristallizzata nel tempo e affrontata solo come un problema di ordine pubblico. Pietismo o irredentismo straccione, atteggiamenti convenienti ad una lotta politica locale, con riflessi nazionali, che si combatte sulla pelle di questa gente ma che non mette al centro le vere cause e cioè il fallimento del sistema di accoglienza. "Ora con l’avvicinarsi delle elezioni comunali tutti dicono che la jungle si sta ripopolando a causa della primavera, come se i frequentatori ci andassero per svago e divertimento e nessuno dice che quello è l’unico posto che hanno per mangiare, perché non ci sono alternative, o si cucinano li oppure non mangiano. Che nessuno li vuole vedere in giro per la città. Che durante tutti i 12 mesi dell’anno andavano li, sempre, tutti i giorni". La prassi per un rifugiato è la seguente: va in questura per formalizzare la richiesta di asilo, viene mandato al dormitorio Caritas finché non si libera un posto in una delle due strutture di accoglienza. Mentre è nel dormitorio deve provvedere da solo al cibo e a tutto il resto, l’attesa può durare anche due mesi. Se è fortunato entra in accoglienza altrimenti "viene caricato su qualche pullman e trasferito come un pacco in un altro luogo d’Italia. Non c’è una regola precisa su queste "deportazioni", quello che vedo è che quando arrivano a circa 100 persone il Comune sollecita la Prefettura ed arriva il pullman che penso ti carichi senza molto preavviso. Quindi in jungle c’è sempre un ricambio continuo di gente con gli stessi problemi primari, cibo, scarpe, vestiti". Il numero di persone è sempre variabile, questo perché nonostante la rotta balcanica sia stata sigillata, qualcuno riesce a passare, a scavalcare i tanti muri che si stanno costruendo. Poi ci sono quelli che tornano indietro dalla Germania, diventata molto più restrittiva, dal Nord Europa o da altre parti d’Italia. "I numeri reali li sa solo la Prefettura, io so di quelli che vanno in jungle e ora sono circa 60 per la maggior parte afghani e pakistani". Su questa situazione come su altre, è calato il silenzio mediatico, a meno che non succeda qualche episodio grave, eppure ci dice Chiarabba "in jungle può capitare a volte di trovare gente che non mangia da giorni, oppure che polizia e carabinieri oltre che identificare e controllare distruggano qualche postazione, che ci vadano persone in abiti civili a rompergli i piatti, a minacciarli, a buttargli il cibo nel fiume, rimane la paura di questi ragazzi di denunciare gli abusi". Una scelta difficile vivere nella "jungle" ma che non sembra abbia alternative viste le risposte dello Stato con decreti come quello Minniti, un provvedimento che potrebbe creare altre "jungle" e che non risolve nulla. La realtà cozza contro le dichiarazioni ufficiali, basti pensare sempre in Friuli Venezia Giulia, a Pordenone, dove 70 persone sono costrette a dormire per strada in un parcheggio sotterraneo chiamato il Bronx. Anche in questo caso sono richiedenti asilo ai quali si è aggiunta una famiglia pakistana, respinta dalla Germania che per protesta si è accampata sui gradini della Prefettura. "Anche qui si è alzato il muro delle istituzioni, la Croce Rossa locale porta un pasto serale e i volontari quello che riescono a rimediare. Spesso qualche migrante va in ospedale per le sue precarie condizioni". Dicono i volontari come Mauro Chiarabba che quello che si vive è un inferno senza fine: il mondo è in guerra e loro si trovano nelle retrovie. Immigrato con problemi psichici invece delle cure rischia il rimpatrio di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 aprile 2017 La denuncia di Human Rights Youth Organization, che ha chiesto l’intervento del ministro Minniti. Il ragazzo marocchino, dopo il diploma, si era iscritto all’università. aveva sospeso la terapia per un periodo e, dopo una crisi, è stato trasferito al Cie di Caltanissetta. Prelevato forzatamente mentre era in cura all’ospedale, spedito all’interno del Centro di identificazione ed espulsione di Caltanissetta e pronto per essere rimpatriato. Si tratta di un giovane studente universitario marocchino con regolare permesso di soggiorno, ma affetto da una patologia psichiatrica. A denunciare l’accaduto è l’organizzazione non governativa Human Rights Youth Organization, la quale, assieme a una rete di associazioni umanitarie, chiede al ministero degli Interni di sospendere immediatamente il rimpatrio. Il giovane immigrato qualche giorno fa aveva dato segni di confusione mentale nella mensa universitaria di Palermo, quando, in preda a una crisi, è salito in piedi su un tavolo agitandosi e brandendo il cellulare che aveva in mano, provocando il panico generale. Un migrante, dunque, che rispetto ad altri, giunto qui ha seguito un percorso diverso: quello terapeutico, per curare la sua psicosi. Da un po’, però, aveva interrotto le cure a causa degli effetti collaterali che gli causavano i farmaci. Il ragazzo nell’ultimo periodo aveva smesso di seguire la sua terapia farmacologica, ma dopo l’accaduto si era lasciato convincere a ritornare in comunità per riprendere la sua terapia, previo ricovero in un ospedale. "In ospedale, però, è stato prelevato bruscamente dalla Digos scrive Human Rights Youth Organization - e portato in un Cie con l’obiettivo di rimpatriarlo mettendo a rischio la sua integrità psicofisica attuale e futura. Le procedure che sono state utilizzate nei suoi confronti sono quelle che vengono applicate a soggetti con piene capacità di agire, mentre il ragazzo era entrato ieri spontaneamente in clinica per riprendere il corso delle terapie. Procedere all’immediata espulsione non farebbe altro che peggiorare le condizioni psico-fisiche di questo giovane, rischiando inoltre di incentivarlo all’effettivo avvicinamento a potenziali nuclei terroristici che potrebbero sfruttare la sua patologia a favore dei loro scopi". La vicenda potrebbe infatti avere ripercussioni gravi sul ragazzo. Lo sradicamento dal contesto italiano in cui si era inserito, le evidenti difficoltà di riadattamento a cui andrebbe incontro in Marocco, l’impossibilità di avere un reale accesso ai trattamenti farmacologici nel suo paese e il trauma del rimpatrio forzato, sicuramente avranno un effetto devastante sulla sua salute psicofisica, i cui esiti sono realmente difficili da prevedere. In merito alla vicenda è intervenuto anche il professore Daniele La Barbera, psichiatra e direttore della Scuola di specializzazione in Psichiatria dell’Università di Palermo: "Espellere una persona che invece può e deve essere curata è un atto razzista, oscurantista e di una indicibile violenza; non è in alcun modo accettabile sostituire una terapia con una punizione, le cui conseguenze, per altro possono essere gravissime, proprio perché’ si tratta di un soggetto psicologicamente fragile. Addolora che un soggetto affetto da un disturbo psichico debba ancora oggi essere considerato socialmente pericoloso piuttosto che bisognevole di cure". Il ragazzo, nell’ultimo periodo, a Palermo, era riuscito a diplomarsi ed era stato accolto per la sua patologia in una comunità terapeutica assistita. Successivamente, a seguito di un percorso terapeutico assistito, supportato anche farmacologicamente, si era iscritto all’università, usufruendo dell’ospitalità del pensionato universitario. "Il giovane era inserito da tempo in alcuni progetti di inserimento sociale - scrive Marco Farina, presidente della Human Rights Youth Organization di Palermo, per noi è un esempio concreto di positiva inclusione sociale dettato anche dall’essere riuscito ad intraprendere con una borsa di studio anche gli studi in cooperazione internazionale. Sapevamo che aveva sospeso temporaneamente la terapia e cercavamo come volontari di seguirlo. Una cosa che avremo comunque modo di approfondire nelle sedi opportune è che sappiamo che l’università gli aveva rilasciato un certificato di sana e robusta costituzione per poterlo ospitare all’interno del pensionato universitario". Sabato scorso, il giudice ha convalidato il trattenimento del giovane marocchino nel Cie. L’unica speranza è l’intervento del ministro Marco Minniti per mettere fine alla criminalizzazione di un immigrato che voleva affidarsi nuovamente al servizio sanitario italiano e ne aveva diritto in quanto soggetto vulnerabile. Turchia. Pentole contro il "Sì": le piazze si animano, scattano le manette di Dimitri Bettoni Il Manifesto, 19 aprile 2017 Post referendum. Nei quartieri liberal di Istanbul e Ankara il No scende in strada. Immediata la repressione della polizia: sono già 49 gli arrestati. Esteso di altri 3 mesi lo stato di emergenza. Erdogan tuona contro l’Europa, Trump lo sostiene. Mentre il presidente Usa Trump preferiva alla cautela europea il sostegno pieno a Erdogan (espresso in una telefonata di congratulazioni lunedì sera), migliaia di turchi scendevano in strada fin da domenica, a urne chiuse e con i conteggi ufficiali che annunciavano che era andato tutto bene, il Sì aveva vinto e la nazione aveva scelto secondo coscienza. Sfidano il potere logoro e vorace che quando non vince con persuasione, intimidazione, repressione, ricorre ad altri trucchi. Sfidano i divieti imposti dallo stato di emergenza, prorogato di altri tre mesi nonostante la campagna del partito al governo Akp fosse fondata sul ritorno alla normalità. Lo stato di emergenza sospende il diritto di manifestazione e eventi non espressamente autorizzati rischiano di incontrare una dura repressione delle forze di polizia. Repressione che puntualmente è arrivata: sono circa 49 gli arresti, secondo il quotidiano Hurriyet, già condotti tra chi si oppone al risultato del referendum. Le prime reazioni erano già comparse proprio mentre il presidente Erdogan parlava alla nazione annunciando la vittoria del Sì. Nei quartieri di Istanbul hanno cominciato a risuonare pentole e coperchi battuti con mestoli e cucchiai. Giovani e anziani, donne e uomini, come ai tempi di Gezi. Ad Ankara, dove si registrano continui tentativi popolari di protestare di fronte agli uffici del Consiglio supremo per le elezioni (Yuksek Secim Kurulu, Ysk) la polizia è intervenuta per disperdere la folla con i lacrimogeni. Si segnalano dieci arresti. Quattordici persone sarebbero state fermate invece ad Adalia, nel sud, dopo che la folla si era radunata di fronte allo storico Arco di Adriano contro l’esito del referendum Ad Istanbul sono i quartieri "liberal" di Kadikoy, Besiktas e Bakirkoy a guidare la protesta. Anche ieri sera un lungo corteo ha percorso le strade del centro cittadino, inneggiando alla resistenza con messaggi come "Hayir bitmedi: daha yeni basliyor": "Il No non è finito, sta ricominciando di nuovo". Anche qui sono risuonate a lungo le pentole. Naturalmente non tutti apprezzano: i sostenitori del presidente sono tanti quanti gli oppositori e sono galvanizzati da mesi di campagna elettorale. Così qualcuno si affaccia non per battere pentole, ma per urlare il proprio disprezzo ai vicini. Nel frattempo la parlamentare austriaca Alev Korun, parte della delegazione Osce in Turchia, ha confermato quanto già ufficialmente raccontato nel rapporto preliminare: "Il sospetto è che almeno 2,5 milioni di voti siano stati manipolati", oltre ad affermare che osservatori sono stati respinti a Diyarbakir. Alla voce dell’Osce si è unita quella del sindacato dell’ordine degli avvocati turchi (Tbb), che ha dichiarato come la decisione dello Ysk sia andata "chiaramente contro la legge": "L’annuncio del Consiglio elettorale supremo ha indotto in errore presidenti e rappresentanti di seggio, facendo conteggiare come validi voti che validi non dovevano essere considerati: in questo modo ha favorito irregolarità e impedito la registrazione di eventuali irregolarità". Erdogan ha già fatto sapere che non accetterà nessuna critica proveniente dall’estero, tantomeno da quelli che ha definito "Stati crociati", in riferimento all’Europa e ai suoi organismi. "Ati alan Uskudar’i gecti", ha detto, recapitando un messaggio a tutti i suoi oppositori interni ed esterni con un detto tradizionale che somiglia all’italiano "inutile chiudere il recinto dopo che i buoi sono scappati". L’altra voce Akp è quella dell’ormai quasi ex primo ministro Yildirim, che ha cercato di veicolare un messaggio conciliatore invitando tutti a pensare al bene del paese. Difficilmente un messaggio di questo tipo riuscirà a far presa in quella parte del paese che si sente non solo defraudata, ma anche privata di quelle istituzioni in cui si identificava. L’Hdp si è unito al partito repubblicano Chp e invocato l’annullamento del referendum: "Se non ci sarà uniformità di giudizio come nel 2014, quando lo Ysk ha annullato per invalidità milioni di voti in un altro referendum, allora non sarete più un arbitro, ma un partito". E infine c’è lo strano caso dell’elicottero caduto ieri in tarda mattinata nella zona montagnosa di Tunceli, Anatolia orientale, con a bordo un giudice, Onur Alan, e otto poliziotti, tutti in servizio ai seggi per la vidimazione delle schede del referendum e il controllo delle operazioni di voto. L’elicottero si è schiantato dopo dieci minuti dall’ultimo decollo dalla pista di Pulumur. La zona era coperta da una fitta nebbia. Ma l’agenzia turca Dogan dice che sarebbe partita una chiamata di emergenza dicendo che a bordo c’erano sette feriti. La circostanza è stata smentita dall’ufficio del governatore: "Non c’è alcun fattore esterno dietro lo schianto", precisa il ministro degli Interni Soylu. La provincia di Tunceli, nota anche come Dersim, l’unica a maggioranza alevita con una forte presenza kurda, ha votato massicciamente per il No. Turchia. Gabriele Del Grande in carcere ha iniziato sciopero della fame Il Manifesto, 19 aprile 2017 Dopo nove giorni in isolamento il reporter ha potuto fare ieri solo una breve telefonata sorvegliata. "Sto bene, non mi è stato torto un capello ma non posso telefonare, hanno sequestrato il mio cellulare e le mie cose, sebbene non mi venga contestato nessun reato". La prima telefonata di Gabriele Del Grande, il giornalista italiano fermato in Turchia durante un controllo di polizia nella provincia sudorientale dell’Hatay al confine con la Siria e trattenuto in un centro di detenzione amministrativa da domenica 9 aprile fino a ieri senza possibilità di contatto con l’esterno è arrivata solo ieri. "Da stasera inizio lo sciopero della fame e invito tutti a mobilitarsi per chiedere che vengano rispettati i miei diritti", ha annunciato chiamando la sua compagna e alcuni amici. La telefonata è comunque stata concessa sotto stretta sorveglianza. "Sto parlando con quattro poliziotti che mi guardano e ascoltano", ha riferito infatti. "Mi hanno fermato al confine, e dopo avermi tenuto nel centro di identificazione e di espulsione di Hatay, sono stato trasferito a Mugla, sempre in un centro di identificazione ed espulsione, in isolamento. I miei documenti sono in regola ma non mi è permesso di nominare un avvocato, né mi è dato sapere quando finirà questo fermo - ha aggiunto - La ragione del fermo è legata al contenuto del mio lavoro. Ho subito interrogatori al riguardo. Ho potuto telefonare solo dopo giorni di protesta". Gabriele Del Grande, 35 anni, è reporter e documentarista. Fondatore dell’osservatorio sulle vittime dell’immigrazione "Fortress Europe", nel 2014, insieme ad Antonio Augugliaro e Khaled Soliman Al Nassiry, ha realizzato il documentario "Io sto con la sposa" che racconta la vera storia di cinque profughi palestinesi e siriani, sbarcati a Lampedusa, che per arrivare in Svezia mettono in scena un finto matrimonio. Finanziato con il crowdfunding, il film è stato presentato alla Mostra del cinema di Venezia, sezione Orizzonti. Sempre attraverso il crowdfunding stava realizzando un altro progetto, una serie di interviste ai profughi di guerra siriani per il libro "Un partigiano mi disse", descritto nella presentazione come un’opera "sulla guerra in Siria e la nascita dell’Isis raccontate attraverso l’epica della gente comune in un intreccio di geopolitica e storytelling". Ieri dopo l’annuncio dell’inizio dello sciopero della fame di Del Grande il presidente della Commissione per i diritti umani Luigi Manconi ha incontrato a porte chiuse per un’ora l’ambasciatore turco a Roma, mantenendo il massimo riserbo sul contenuto del colloquio. Israele. Il ministro per la sicurezza Erdan: "nessuna trattativa con i detenuti palestinesi" di Michele Giorgio Il Manifesto, 19 aprile 2017 Il ministro israeliano ribadisce la linea dura contro lo sciopero della fame attuato da circa 1.500 prigionieri palestinesi, proclamato dal leader di Fatah Marwan Barghouti. Sono state immediate le contromisure adottate dalle autorità carcerarie nei confronti del segretario generale di Fatah, Marwan Barghouti, e degli altri detenuti palestinesi, circa 1500, che da lunedì fanno lo sciopero della fame nelle carceri israeliane per ottenere migliori condizioni di vita. I palestinesi denunciano il trasferimento dei prigionieri in sezioni diverse, la sospensione delle visite dei familiari e altri provvedimenti punitivi. Barghouti lunedì era stato trasferito, insieme ad altri due prigionieri, Karim Junis e Mahmoud Abu Srour, dal carcere di Hadarim a quello di Jalama dove è stato messo in isolamento. Israele respinge l’apertura di una trattativa. Parlando ieri ai microfoni di Galei Tzahal, la radio delle forze armate, il ministro per la sicurezza interna Ghilad Erdan ha detto che l’isolamento di Barghouti "si è reso necessario perché (il leader di Fatah) incitava alla rivolta e guidava lo sciopero". Erdan definendo la protesta "uno sciopero politico ed ingiustificato", ha aggiunto che Israele ha allestito nei pressi del centro di detenzione di Ketziot, nel Neghev, un ospedale da campo dove saranno curati quanti fra gli scioperanti dovessero aver bisogno di cure mediche nei prossimi giorni. E non ha escluso che i detenuti possano essere alimentati contro la loro volontà. Dietro l’idea dell’ospedale da campo ci sarebbe proprio la possibilità dell’alimentazione forzata, vietata dal diritto internazionale. Nei nosocomi civili i medici israeliani non intendono nutrire con la forza i detenuti palestinesi malgrado il recente parere favorevole della Corte suprema. L’uso di un ospedale da campo perciò sembra offrire una scappatoia. Tuttavia Israele sa che obbligare i prigionieri ad alimentarsi finirebbe per gettare altra benzina sul fuoco della protesta delle famiglie dei detenuti e di molte migliaia di palestinesi che si stanno mobilitando in appoggio allo sciopero della fame che riceve sostegni anche in altri Paesi, arabi ed europei. Marwan Barghouti presto affronterà una corte disciplinare per la sua lettera pubblicata il 16 aprile dal New York Times in cui ha spiegato i motivi dello sciopero e rivolto pesanti accuse a Israele. Le polemiche infuriano e le proteste dello Stato ebraico hanno spaccato la redazione del Nyt dove non poche voci si sono levate contro la decisione di pubblicare la lettera di Barghouti, senza precisare le ragioni per le quali è stato condannato a cinque ergastoli. Ieri è intervenuto anche il premier israeliano Netanyahu. "Indicare Barghouti come leader politico equivale a definire Bashar Assad un pediatra", ha commentato con sarcasmo il primo ministro che poi ha descritto "terroristi e assassini" i personaggi come il dirigente di Fatah. Israele. Per i palestinesi diritti umani di serie B di Luca Cellini pressenza.com, 19 aprile 2017 Più di 1.500 prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane ieri hanno iniziato uno sciopero della fame a tempo indeterminato. Scopo di questa clamorosa forma di protesta nonviolenta, quello di richiedere delle condizioni carcerarie migliori e di porre fine alla detenzione preventiva amministrativa, una procedura che consente ai militari israeliani di imprigionare cittadini palestinesi basandosi su prove segrete, senza incriminarli, né processarli, tenendoli detenuti senza un termine prestabilito, in attesa di un processo che potrebbe non arrivare mai. Sebbene tale procedura venga usata quasi esclusivamente per i palestinesi dei Territori Occupati, comprendenti Gerusalemme Est, la West Bank e la Striscia di Gaza, talvolta anche cittadini israeliani o stranieri sono stati detenuti in via amministrativa da Israele, quasi sempre in seguito alle proteste solidali a favore della causa palestinese. È sorprendente apprendere che Israele è l’unico Stato al mondo che ha ben tre differenti leggi per poter incarcerare a tempo indefinito e senza un regolare processo. I palestinesi sottoposti alla detenzione amministrativa, così come molti altri prigionieri palestinesi, subiscono maltrattamenti e torture nel corso degli interrogatori e trattamenti crudeli e degradanti durante il periodo di carcere, talvolta come forma di punizione proprio per aver intrapreso scioperi della fame o altre forme di protesta. Inoltre, sia i palestinesi sottoposti alla detenzione amministrativa che le loro famiglie sono costretti a vivere nell’incertezza: non sanno per quanto tempo resteranno privi della libertà e nemmeno perché sono detenuti. Come altri prigionieri palestinesi, vanno incontro a divieti di visite familiari, trasferimenti forzati, espulsioni e periodi d’isolamento. Queste pratiche non solo rappresentano una palese violazione dei diritti umani fondamentali e dei principi del diritto internazionale da parte del governo d’Israele, ma violano anche ogni principio di rispetto della dignità umana. In occasione della ricorrenza della "Giornata dei prigionieri palestinesi", i prigionieri hanno iniziato lo sciopero della fame sotto il motto "Libertà e Dignità" rasandosi la testa come segno distintivo. Lunedì scorso, poco prima dell’inizio di questa clamorosa protesta, l’ufficio del Presidente palestinese Mahmoud Abbas aveva rilasciato una dichiarazione contenente l’elenco delle richieste degli scioperanti della fame. I prigionieri palestinesi, secondo il testo, chiedono attenzione ai loro "bisogni fondamentali, ai loro diritti come prigionieri, chiedono di porre fine alla pratica (israeliana) della detenzione amministrativa, alle torture, ai maltrattamenti, alla privazione di ogni forma di dignità". La nota specifica inoltre che la detenzione amministrativa ormai viene applicata da tempo persino a bambini palestinesi al di sotto dei 12 anni di età. Si arriva a negare loro il diritto alla sanità e all’istruzione, si impone l’isolamento come trattamento degradante e si impediscono persino le visite dei familiari. In quasi 50 anni di occupazione israeliana della Cisgiordania, di Gerusalemme Est e della Striscia di Gaza sono stati arrestati e detenuti più di 800.000 palestinesi, proprio tramite la pratica della detenzione amministrativa. Attualmente nelle carceri israeliane sono detenuti 6.500 prigionieri politici palestinesi, tra cui 57 donne, 300 bambini, 13 membri istituzionali, 18 giornalisti e oltre 800 prigionieri che hanno bisogno urgente di cure mediche. Vista la sua ampiezza, questa protesta nonviolenta per il rispetto dei diritti e della dignità umana quanto meno dovrebbe trovare largo spazio nei media; purtroppo invece ne danno nota solo fugacemente e marginalmente, come se i diritti umani del popolo palestinese fossero da considerare di serie B. Stati Uniti. Droga, alcol e disoccupazione: la morte dei bianchi americani di Paolo Mastrolilli La Stampa, 19 aprile 2017 La classe media non si riprende dalla crisi. Lo studio: impennata di suicidi e overdose. Fuori c’era la neve, e il freddo aveva ghiacciato il laghetto del Castleton Center di Windham, però Kim Walters aveva portato lo stesso sua madre e sua figlia a sentire Trump. Indossavano una maglietta disegnata con lo stile del manifesto "Hope" di Barack Obama, solo che sopra c’era la faccia arrabbiata di Donald che diceva: "Washington, you are fired!". Tre generazioni di donne della stessa famiglia, unite dall’angoscia: "Noi così non ce la facciamo più a vivere. Mia madre sognava un’esistenza migliore per me, ma io non credo di poter passare la stessa speranza a mia figlia. Non c’è lavoro, e quando c’è, quello che guadagni non basta per vivere. La gente è disperata e passa le giornate al pub, quando non va peggio". Era l’11 gennaio del 2016, uno dei primi comizi elettorali di Trump, e l’impulso superficiale era stato quello di liquidare le signore Walters come il campione isolato di chi aveva perso il treno della globalizzazione e del benessere. Un anno e mezzo dopo, invece, scopriamo che erano l’avanguardia malintesa del senso di disperazione tra i bianchi della classe media americana, interpretato dal miliardario di New York per conquistare la Casa Bianca. "Death of despair", come l’ha definita il premio Nobel per l’economia Angus Deaton, la morte per disperazione che affligge gli ex privilegiati Usa. I bianchi abituati a supporre che i figli avrebbero vissuto una vita migliore dei padri, nella perpetua continuazione del sogno americano. Questa illusione è svanita, secondo gli studi che Deaton aveva cominciato con la collega Anne Case nel 2015, e ha completato con il rapporto "Mortality and morbidity in the 21st century", pubblicato il 23 marzo scorso dalla Brookings Institution. Nel 1999 la mortalità tra i bianchi americani di età compresa fra 50 e 54 anni, con diploma di scuola superiore, era più bassa del 30% di quella degli afro americani: nel 2015 è diventata più alta del 30%. Dalla fine del secolo scorso, gli uomini e le donne bianche tra 45 e 54 anni d’età hanno vissuto un’impennata delle "death of despair", cioè le morti premature attribuite a droga, alcol, e suicidi. Basta leggere le cronache dei giornali, per trovare storie come quelle di Wesley e Mary Ann Landers, uccisa da una iniezione di eroina davanti al letto della figlia. Nell’ultimo decennio, in questo gruppo demografico sono morte 400.000 persone per overdose, 250.000 per alcolismo, e 400.000 per suicidio. "Il mio studio - ha detto Deaton - è la storia del collasso della classe lavoratrice bianca". Un circolo vizioso di disoccupazione, disperazione e morte. La spiegazione più superficiale che viene data al fenomeno è economica: i redditi di questa categoria hanno smesso di aumentare da quasi venti anni, e la crisi economica del 2008 ha dato il colpo di grazia. Deaton e Case però non si sono accontentati: nello stesso periodo di tempo, infatti, anche le condizioni economiche di ispanici e neri sono peggiorate, ma la mortalità non è cresciuta in proporzione. Pure in Europa la crisi del 2008 ha fatto disastri e alimentato il populismo politico, ma nessuno ha dimostrato finora una correlazione diretta fra questo fenomeno e l’aumento delle overdose o dei suicidi tra i bianchi della classe media. Deve esserci qualcosa di specifico, dunque, che ha colpito gli americani. "Non sono andate giù - ha notato Deaton - solo le carriere, ma anche le prospettive dei loro matrimoni, e la possibilità di crescere i figli. Queste sono cose che portano alla disperazione". L’ipotesi di Case e Deaton, quindi, è che il "cumulative disadvantage" nella vita, nell’occupazione, nei matrimoni, nel futuro dei figli, nella sanità, sia frutto di un peggioramento generale delle condizioni di entrata nel mondo del lavoro per i bianchi senza laurea, legate alla mancanza di istruzione e l’evoluzione della tecnologia. Dunque una crisi che tocca tutti gli aspetti dell’esistenza, inclusi quelli morali, e ha le radici in un fenomeno storico di decadenza dell’intero gruppo demografico, che non si risolve in poco tempo con qualche decreto. Una "carneficina americana", come l’ha definita Trump nel discorso della sua Inauguration, che era cominciata nelle regioni più depresse del Sud o degli Appalachi, ma ormai ha contagiato anche il New England dei padri fondatori e l’intero paese. Shannon Monnat, professore della Pennsylvania State University, ha cercato di dare un senso politico a questo disastro, e lo ha trovato facilmente nelle presidenziali del 2016. Nel New Hampshire, ad esempio, Trump ha preso più voti di Romney in 2.469 contee delle 3.106 colpite dalle "death of despair". Alla fine lo Stato lo ha vinto Hillary, ma per meno di 3.000 voti, e le contee passate da Obama ai repubblicani, come Coos, sono quelle con la più alta percentuale di morti per droga, alcol e suicidi. In un’altra era, le signore della famiglia Walters sarebbero state elettrici naturali di Hillary: donne, della classe media lavoratrice, nel New England. Però il Partito democratico, o almeno la Clinton, non si sono accorti della loro disperazione. A Windham le morti per overdose sono raddoppiate negli ultimi tre anni, e quindi Kim ha pensato di giocarsi la sopravvivenza su Donald, che almeno prometteva di costruire un muro lungo il confine col Messico per bloccare i narcos. Il problema, secondo Deaton, è che i guai veri non si risolvono con la demagogia: "Le politiche di Trump sembrano disegnate perfettamente per danneggiare le persone che hanno votato per lui". E chissà come reagiranno, se svanirà anche questa illusione di raggirare la disperazione. Egitto. Avvocato condannato a 10 anni di carcere per un post su Facebook amnesty.it, 19 aprile 2017 Il 12 aprile un tribunale di Alessandria d’Egitto ha condannato l’avvocato Mohamed Ramadan a 10 anni di carcere seguiti da cinque anni di arresti domiciliari e dal divieto, della stessa durata, di usare Internet. Ramadan è stato giudicato colpevole di offesa al presidente, uso non consentito delle piattaforme dei social media e incitamento alla violenza, ai sensi della legge anti-terrorismo del 2015. I "reati" attribuiti a Ramadan derivano da un post da lui pubblicato su Facebook, nel quale aveva criticato proprio la legge anti-terrorismo e gli abusi derivanti dalla sua applicazione. L’articolo 29 della legge anti-terrorismo prevede fino a 10 anni di carcere per chi crei un profilo sui social media allo scopo di promuovere attività "terroristiche" o danneggiare l’interesse nazionale. "È del tutto assurdo che le autorità egiziane abbiano emesso una sentenza così dura contro una persona che ha esercitato il suo diritto alla libertà d’espressione. Pubblicare un commento su Facebook non è un reato, anche se qualcuno può considerarlo offensivo", ha dichiarato Najia Bounaim, direttrice delle campagne sull’Africa del Nord di Amnesty International. "La condanna di Ramadan rappresenta un clamoroso assalto alla libertà d’espressione e un raggelante esempio dei pericoli cui l’abuso della legge antiterrorismo espone chi esprime critiche pacifiche. Invece di mandare in carcere chi esprime le sue idee sui social media, il governo egiziano dovrebbe porre fine alla sua incessante campagna di intimidazione nei confronti delle voci critiche", ha aggiunto Bounaim. I rappresentanti dello stato, compresi i loro vertici, dovrebbero essere disposti a tollerare maggiori critiche rispetto ai privati cittadini. Le leggi che impediscono di criticare i capi di governo o di stato violano la libertà d’espressione. Ramadan non era presente al processo. Il suo avvocato aveva chiesto un rinvio per motivi di salute ma il giudice ha proseguito emettendo la condanna in contumacia. Ora l’avvocato presenterà richiesta di un nuovo processo.