Amnistia. Aderenti alla marcia di Pasqua… onorevoli e senatori, che cosa farete ora? di Valter Vecellio Il Dubbio, 18 aprile 2017 Anche voi chiedete che le massime istituzioni della Repubblica facciano sentire la loro voce; che Governo e parlamento affrontino finalmente in modo organico le questioni del carcere e della giustizia. le parole del papa sono chiare: "ponti di dialogo"; e "pieno rispetto dello stato di diritto". Mi rivolgo direttamente, nominalmente, a voi, che avete aderito alla Quinta Marcia di Pasqua per l’Amnistia, la Giustizia, il Diritto. Ai senatori Lucio Barani, Enrico Buemi, Franco Carraro, Monica Cirinnà, Luigi Compagna, Loredana De Petris, Luigi Manconi, Maria Mussini, Alessia Petraglia, Luciano Uris; ai deputati Tiziano Arlotti, Brando Benifei, Enza Bruno Bossi, Sandro Gozi, Luigi Lacquaniti, Danilo Leva, Beatrice Lorenzin, Mario Marazziti, Gianni Melilla, Marisa Nicchi, Giovanni Paglia, Sergio Pizzicante, Gea Schirò, Walter Verini; a Barbara Alessandrini, Lucia Annunziata, Alessandro Cecchi Paone, Ascanio Celestini, Franca Chiaromonte, Gianmarco Chiocci, Erri De Luca, Arturo Diaconale, Giuliano Ferrara, Flavia Fratello, Riccardo Iacona, Gad Lerner, Alberto Matano, Andrea Pamparana, Letizia Paolozzi, Sandro Provvisionato, Maurizio Tortorella, Vincenzo Vita; a Fulvio Abbate, Piero Pelú, Marco Risi, Sandro Veronesi, Marco Vichi… tutti voi, e quanti hanno partecipato fisicamente alla Marcia, a chi idealmente è stato presente. È stato, quello di papa Bergoglio, un messaggio non lungo, ma denso: un messaggio dove ha trovato spazio per parlare delle guerre in corso, le tragedie in Siria, Medio Oriente, Irak, Congo, Somalia, Sudan, Yemen, Ucraina, America Latina; della disoccupazione giovanile; la denuncia del complesso militare- industriale, del traffico di armi; la schiavitù e le tragedie le- gate alle migrazioni di massa. A un certo punto, cercatelo, un passaggio che sembra un niente, ed è invece l’essenza del tutto: "Si possano costruire ponti di dialogo, perseverando nella lotta contro la piaga della corruzione e nella ricerca di valide soluzioni pacifiche alle controversie, per il progresso e il consolidamento delle istituzioni democratiche, nel pieno rispetto dello stato di diritto". "Ponti di dialogo"; e "pieno rispetto dello stato di diritto". Nove parole. È su queste nove parole, cari aderenti alla Quinta Marcia per l’Amnistia, la Giustizia, il Diritto, che siete chiamati a dare risposte. A voi ora spetta il dovere di una coerenza. Spiegare, spiegarci, in cosa deve consistere, nel concreto, questo "appello" al "pieno rispetto dello stato di diritto". Magari, a cominciare dall’articolo 27 della Costituzione, che dovrebbe essere scolpito in tutti i palazzi di Giustizia e in tutti i penitenziari: "La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte". Aver aderito alla Marcia del Partito Radicale significa che anche voi chiedete che le massime istituzioni della Repubblica facciano sentire la loro voce; che Governo e Parlamento affrontino finalmente in modo organico le questioni del carcere e quelle, più generali, della giustizia. La vostra adesione significa che ribadite la necessità di un’amnistia perché le nostre istituzioni fuoriescano dalla condizione criminale in cui si trovano rispetto alla nostra Costituzione, alla giurisdizione europea, ai diritti umani universalmente riconosciuti, e alla coscienza civile del Paese. Significa che ricordate, e volete ricordate a tutti noi, che al 30 giugno del 2016 i processi pendenti erano 3.800.000 nella giustizia civile, e 3.230.000 in quella penale, un totale di 7.030.000 processi che sommergono le scrivanie dei magistrati, ai quali vanno aggiunti circa un milione di procedimenti nei confronti di ignoti. Significa che fate vostre le parole di Marco Pannella: "Noi vogliamo un’amnistia "legalitaria", che ripristini le condizioni di legalità costituzionale nei tribunali e nelle carceri, contrapposta a un’altra amnistia: quella strisciante, clandestina, di massa e di classe che si chiama "prescrizione"". In concreto, significa che chiedete un’amnistia che sia propedeutica a una grande riforma della giustizia penale. Una riforma della giustizia civile, la cui paralisi penalizza i privati e le imprese, scoraggia gli investimenti esteri e comporta costi enormi per l’economia nazionale. Chiedete una Grande Amnistia per la Giustizia, per la Costituzione, per la Repubblica in luogo della silenziosa, sotterranea, quotidiana amnistia di classe, costituita dalla prescrizione, incontrollata e incontrollabile, che nel solo 2016 ha cancellato 132 mila processi. Significa, la vostra adesione, che dite basta ai circa mille casi di ingiusta detenzione ed errori giudiziari che ogni anno sono riconosciuti in seguito a sentenza di revisione. Nel solo 2016 la cifra spesa dallo Stato per risarcimento delle ingiuste detenzioni ammonta a 42 milioni di euro. Per quanto riguarda le carceri le cose non vanno meglio: al 31 gennaio 2017, dai dati forniti dal ministero della Giustizia, risultano oltre 55 mila detenuti, rispetto a una capienza ottimale di 50.174 posti cella. Sono numeri che testimoniano il perdurare di uno stato di sovraffollamento delle strutture che noi riteniamo essere persino più grave, poiché i dati delle "capienze regolamentari" non tengono conto delle numerose celle chiuse, inagibili o in fase di ristrutturazione che si trovano pressoché in ogni struttura. Questo senza dimenticare l’alta percentuale di detenuti in attesa di giudizio (35 per cento), e la promiscuità tra detenuti in attesa di giudizio e condannati definitivi. Ecco, queste sono le ragioni alla base della Marcia radicale per l’amnistia cui avete aderito, e molti di voi marciato. Queste ragioni sono misconosciute, ignorate, spesso travisate. Cosa intendete, cosa volete fare, ora, perché siano conosciute, dibattute, confrontate con le ragioni di chi all’amnistia è contrario? Per dare attuazione a quell’invocazione venuta da Città del Vaticano: "Ponti di dialogo… pieno rispetto dello Stato di diritto". "Amnistia!". I Radicali in marcia da Regina Coeli a San Pietro (agora24.it) In 700 hanno raccolto l’appello dei radicali e dietro lo striscione "Amnistia per la repubblica" hanno marciato da Regina Coeli a piazza San Pietro per chiedere di mettere fine all’emergenza carceri. Alla marcia organizzata dai radicali c’erano semplici cittadini, ex detenuti, cappellani delle carceri e alcuni politici sensibili al tema delle condizioni di vita negli istituti di pena: oltre all’organizzatrice Irene Testa, c’erano Emma Bonino, Rita Bernardini, i parlamentari Pd Walter Verini e Roberto Giachetti. Presente anche Ilaria Cucchi, a chiedere che il Senato approvi rapidamente il ddl che istituisce il reato di tortura. Prima di raggiungere San Pietro, il corteo si è fermato alcuni minuti sotto il ministero di Giustizia in via Arenula. Lì i promotori della manifestazione hanno detto che "il lavoro del ministro Orlando, per quanto sia stato positivo, non è ancora sufficiente a risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri italiane". I dati che hanno fornito i radicali sono da loro giudicati "allarmanti": 8 milioni di processi pendenti, 1180 casi di ingiusta detenzione all’anno (detenuti in attesa di giudizio che poi vengono assolti) e una popolazione carceraria che nel 2017 dovrebbe arrivare a 60mila unità. "Di questo passo - spiega Irene Testa - si tornerò rapidamente alla situazione di qualche anno fa, quando nelle carceri si trovavano 68mila persone, e le condizioni di vita erano spaventose. A questo punto - aggiunge - non basta prendere misure provvisorie. Serve un provvedimento di amnistia, altrimenti in pochi mesi si tornerà alla casella iniziale. E poi bisognerà mettersi in testa di risolvere il problema in modo strutturale. Occorre coraggio, speriamo che le forze politiche siano capaci di affrontare questa sfida" A Piazza San Pietro il Vaticano ha dato il permesso ai radicali di mostrare i loro striscioni per l’amnistia durante l’angelus del Papa. Poi la manifestazione si è sciolta, in attesa che la politica e le istituzioni raccolgano l’appello della marcia. La richiesta dei detenuti: "carceri umane e riumanizzate" (Ansa) Accompagnata dalle note di un’orchestra jazz, la marcia per l’amnistia promossa dal Partito radicale Nonviolento è partita intorno alle ore 10 da Lungotevere, di fronte al carcere di Regina Coeli, diretta a San Pietro. "Andiamo dal Papa perché la giustizia possa tornare ad essere democratica nel nostro Paese", ha spiegato Rita Bernardini, coordinatrice della presidenza del Partito Radicale, "andiamo ad ascoltare la testimonianza cristiana di chi ha il coraggio di dire le cose. Non abbiamo molti alleati ma con il Papa pensiamo di poter fare un cammino assieme. Chiediamo l’indulto, l’amnistia e la riforma della giustizia". "La marcia non è una tradizione pasquale ma è la dimostrazione della cocciutaggine dei radicali", ha sottolineato Emma Bonino, "è da tanti anni che facciamo questa battaglia, ma siamo abituati a essere cocciuti. La gravità della situazione delle carceri non può essere taciuta". Gli striscioni presenti al corteo chiedono l’amnistia e "carceri umane e riumanizzate"; "La pena - recita un cartellone - non può consistere in trattamenti contrari all’umanità"; "Ergastolo e 41 bis tortura democratica e di Stato", si legge in un altro. "Stop tortura" chiede anche l’Associazione Stefano Cucchi: "Siamo a fianco dei radicali", spiegano, "perché finalmente anche l’Italia si doti di una legge che introduca il reato di tortura; da anni si preferisce prendere sanzioni piuttosto che dotarsi di una legge seria ed efficace". A sfilare anche il vicepresidente della Camera dei Deputati, il dem Roberto Giachetti: "L’amnistia è una misura necessaria e va fatta insieme ad una riforma della giustizia a tutto campo. Basta entrare in un carcere e vedere come vivono i detenuti per capire che bisogna intervenire al più presto" Abrignani (Ala): giusto pensare a un’amnistia (Ansa) "Se lo Stato non è in grado di garantire ai detenuti condizioni umane e degne di un Paese civile è giusto che vengano prese in considerazione misure come l’amnistia. Ovviamente si tratta di una misura eccezionale a cui non si dovrebbe mai arrivare, perché è abbastanza innaturale che un detenuto sia esentato anzitempo dalla sua pena solo perché lo Stato non è in grado di garantirgli condizioni umane dignitose. Guardo quindi di buon occhio la marcia organizzata dai Radicali che si è svolta questa mattina a Roma, non a caso ospitata da Papa Francesco a piazza San Pietro per un breve tratto, ma è bene sottolineare che una volta approvato un provvedimento di amnistia bisognerebbe poi concentrarsi sulle criticità del sistema, così che non si renda più necessaria l’adozione di misure d’urgenza". Lo dice il deputato di Ala Ignazio Abrignani. Magistrati in politica sfiduciati dagli italiani di Sara Menafra Il Messaggero, 18 aprile 2017 Swg: da Mani Pulite perso il 22% dei consensi. Cos’è rimasto di Tangentopoli, delle fiaccolate pro pm di Milano, delle scritte sui muri "Di Pietro facci sognare"‘ Poco nei comportamenti della politica, dicono le cronache quotidiane. E neppure un grammo di quella polvere di stelle è rimasto attaccato alle toghe dei magistrati. Guardati con diffidenza persino dalla parte dei cittadini italiani più decisa "contro la casta", specie se la diffusa idea che giudici e pm abbiano "obiettivi politici" viene confermata da una candidatura. La fotografia confezionata da Swg con un sondaggio su 1.500 italiani raggiunti via internet (il margine di errore è del 0,3%, specifica l’istituto di ricerca) non fa sconti. Oggi solo il 44% degli italiani ha "molta" (5%) o "abbastanza" (39%) fiducia nei magistrati. Un vero e proprio crollo rispetto al 66% registrato nel 1994, rimasto al 54% nel 2011: "È un dato particolarmente significativo, perché per quasi venticinque anni abbiamo fatto agli italiani la stessa domanda con i medesimi termini, questi numeri parlano di una vera e propria frattura in atto", spiega Enzo Risso, direttore scientifico di Swg che ha raccolto i dati in collaborazione con l’associazione "Fino a prova contraria". Si fidano ancora, al 69%, gli elettori Pd, ma guardano con diffidenza alle toghe tanto quelli di Forza Italia (67%) quanto gli M5S (52%). Soprattutto, gli italiani sembrano credere che buona parte dei magistrati giochi su due tavoli. Da un lato l’aula di giustizia, dall’altro la politica. Il 69% degli intervistati dice che "certi settori della magistratura italiana perseguono obiettivi politici" e il 68% che "il rapporto tra certi magistrati e certi giornalisti è dannoso per la giustizia". Numeri confermati dal fatto che il 72% dice che i giudici non dovrebbero fare politica e il 62% che, comunque, sarebbe meglio se a a fine mandato non indossassero nuovamente la toga. Poca fiducia anche per i giornalisti che raccontano le inchieste. Il 50% degli italiani dice che la pubblicazione delle intercettazioni telefoniche andrebbe "vietata", anche se il 70% si spinge a dire che gli ascolti vanno usati anche a costo di sacrificare la privacy di chi finisce intercettato. Probabilmente, a risultati tanto negativi contribuisce la diffusa idea che dagli anni 90 ad oggi la corruzione in Italia sia cresciuta invece di declinare. La pensano così (con un vistoso peso sull’aumento "sostanziale" del malcostume) tre italiani su quattro e cifre da plebiscito chiedono normative drastiche: l’81% vuole che contro i corrotti si usino le stesse leggi applicate nella lotta alla mafia e addirittura il 90% chiede che il politico corrotto sia interdetto da qualunque carica pubblica per 20 anni. Intervista a Cosimo Ferri: "il sistema giudiziario funziona male e ne fanno le spese anche le toghe di Sara Menafra Il Messaggero, 18 aprile 2017 "Abbiamo una magistratura professionale e preparata. Purtroppo, però, gli italiani sono colpiti dal lento funzionamento della macchina della giustizia, che spesso li danneggia anche quando hanno ragione. E quando la giustizia vince alcune battaglie, come quelle contro le mafie o il traffico di droga, quell’immagine non si riverbera sul lavoro delle toghe", difende i colleghi e un mondo che conosce molto bene, il sottosegretario presso il ministero della Giustizia Cosimo Maria Ferri, anche lui magistrato. Conscio di come molto spesso l’immagine delle aule in cui si svolgono i processi arrivi agli italiani con tinte fosche. Sottosegretario Ferri, la stupisce il risultato del sondaggio Swg? Stiamo parlando di una tendenza negativa costante nel tempo, di un lento declino. Che cosa è successo? "Io credo che la magistratura sia ancora un corpo fondamentalmente sano, fatto di persone preparate e qualificate. Certo, i risultati di questo sondaggio devono far riflettere, soprattutto perché spesso è la macchina della giustizia a non funzionare. La decisione giusta magari arriva, ma decisamente in ritardo e a quel punto la percezione è comunque negativa. Non a caso, il governo ha valutato di rivedere i meccanismi di rimborso delle spese nei processi civili. Potremmo valutare di estendere questo ragionamento anche al penale". Perché gli italiani non si fidano? "Mi pare di capire che è soprattutto nella lotta alla corruzione che il ruolo della magistratura è stato valutato inefficace. Non a caso per le forze di polizia, che appaiono in prima linea nel combattere mafia o traffico di droga ma in realtà lavorano fianco a fianco con i pm, il giudizio è diverso". Mercoledì il parlamento torna a discutere di riforma della legittima difesa. Anche in quel campo gli italiani si sentono in balia di decisioni diverse secondo lei? "Ancora una volta, è u problema di percezione. Le decisioni sono state in realtà omogenee e generalmente favorevoli alla vittima che si difende. In ogni caso, è necessario chiarire ulteriormente la norma, soprattutto facendo in modo che gli italiani sappiano che, in condizioni di particolare pressione, il giudice considererà non punibile anche l’errore di valutazione". Al momento questa legge non sembra essere prioritaria per il governo, però. "La nostra priorità, come governo, è dare sicurezza ai cittadini, ma ricordiamo che la responsabilità di difendere la loro incolumità è affidata alle forze dell’ordine. Questa materia chiama in causa sensibilità diverse che potrebbero trovare un equilibrio nel dibattito parlamentare, con l’obiettivo di trovare soluzioni normative soddisfacenti, ma aderenti ai principi costituzionali". Stupefacenti: per il fatto di lieve entità vanno valutati tutti gli elementi dall’azione al fatto materiale di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 18 aprile 2017 Ai fini della configurabilità dell’ipotesi di cui all’articolo 73, comma 5, del Dpr n. 309 del 1990, il giudice è tenuto a valutare, secondo una visione unitaria e globale, tutti gli elementi normativamente indicati. Lo ha stabilito la Cassazione con la sentenza n. 17061 del 5 aprile 2017. Quindi, sia quelli concernenti l’azione (mezzi, modalità e circostanze della stessa), sia quelli attinenti all’oggetto materiale del reato (quantità e qualità delle sostanze stupefacenti oggetto della condotta criminosa) come manifestatisi nel peculiare caso di specie, senza nessun automatismo o preclusione derivante dalla natura delle sostanze, anche se eterogenea, né dalle modalità organizzate della condotta, potendo escludere il riconoscimento della fattispecie attenuata in ragione del mero dato quantitativo ovvero dei soli connotati dell’azione soltanto qualora possano ritenersi dimostrativi di una significativa, concreta e non virtuale potenzialità offensiva e, dunque, di un pericolo non circoscritto di diffusività della sostanza, incompatibile con la fattispecie incriminatrice in questione (fattispecie in cui la Corte ha ritenuto corretto e congruamente motivato il diniego dell’ipotesi attenuata effettuata valorizzando negativamente il dato quantitativo considerevole della sostanza - grammi 266,70 di canapa indiana - ritenuto dimostrativo della significativa potenzialità offensiva della condotta). Quando scatta l’ipotesi attenuata - È assunto pacifico quello secondo cui, in tema di sostanze stupefacenti, l’ipotesi attenuata del fatto di lieve entità (articolo 73, comma 5, del Dpr 9 ottobre 1990 n. 309) può essere riconosciuta solo in ipotesi di minima offensività penale della condotta, deducibile sia dal dato qualitativo e quantitativo, sia dagli altri parametri richiamati dalla norma (mezzi, modalità e circostanze dell’azione), con la conseguenza che, ove venga meno anche uno soltanto degli indici previsti dalla legge, diviene irrilevante l’eventuale presenza degli altri (sezioni Unite, 21 giugno 2000, Primavera e altri; di recente, tra le tante, sezione IV, 8 giugno 2016, Agnesse). Ciò in quanto la finalità dell’ipotesi attenuata si ricollega al criterio di ragionevolezza derivante dall’articolo 3 della Costituzione, che impone - tanto al legislatore, quanto all’interprete - la proporzione tra la quantità e la qualità della pena e l’offensività del fatto. In proposito, dovendosi solo ricordare che nessuna conseguenza, sotto questo specifico profilo, deriva dal novum normativo introdotto dal decreto legge 23 dicembre 2013 n. 146, convertito dalla legge 21 febbraio 2014 n. 10, che ha trasformato l’ipotesi di cui al comma 5 dell’articolo 73 del Dpr n. 309 del 1990 in fattispecie autonoma di reato (scelta normativa ribadita anche a seguito dell’ulteriore modifica introdotta dal decreto legge n. 36 del 2014, convertito dalla legge n. 79 del 2014), giacché i presupposti del reato sono rimasti gli stessi che potevano giustificare (o, per converso, negare) la concessione dell’attenuante. Va così affermato con chiarezza, infatti, che nella ricostruzione della nuova fattispecie autonoma di reato sono utilizzabili gli stessi parametri che caratterizzavano la previgente previsione di circostanza attenuante. Il fatto di lieve entità, cioè, deve essere apprezzato considerando i mezzi, le modalità e le circostanze dell’azione nonché la qualità e quantità delle sostanze stupefacenti, riproponendo l’ormai consolidato orientamento della giurisprudenza, che vale tuttora per cogliere il proprium anche della nuova fattispecie di reato. I principi cardine, in proposito, sono quelli della valutazione congiunta dei parametri normativi e della rilevanza ostativa anche di un solo parametro quando risulti esorbitante e cioè chiaramente dimostrativo della non lievità del fatto. La valutazione congiunta, infatti, consente di apprezzare, in modo equilibrato, il fatto in tutte le sue componenti, senza peraltro trascurare le connotazioni particolari che assumono, nel concreto, i singoli parametri di riferimento. Stalking in due "tranche"? Non è un unico reato ma scatta la recidiva Il Sole 24 Ore, 18 aprile 2017 Corte di cassazione - Sezione V - Sentenza 14 aprile 2017 n. 18629. Non può "contare" sul riconoscimento di un unico reato il marito che fa stalking nei confronti della moglie in due tranche: prima della riconciliazione con convivenza e dopo una nuova rottura del rapporto: la ripresa per gli atti persecutori fa scattare la recidiva. Lo ha precisato la Cassazione con la sentenza 18629del 14 aprile scorso. I giudici della V sezione respingono il ricorso di un ex marito che, non rassegnandosi alla fine del rapporto aveva messo in atto il classico "repertorio" dello stalker: appostamenti, con scenate sul posto di lavoro dell’ ex, telefonate continue e messaggi, a contenuto ingiurioso a tutte le ore del giorno e della notte, oltre a minacce estese anche al suocero. Il tutto gli era valso una condanna per stalking su patteggiamento. Ma come a volte, purtroppo, accade la moglie aveva "perdonato" si era rappacificata con l’ex e aveva instaurato con lui una nuova convivenza durata 15 mesi. Alla nuova rottura l’uomo aveva reagito nello stesso modo violento rinnovando le azioni persecutorie. Per lui era scattata l’aggravante della recidiva. Una condanna più severa che la difesa considera ingiusta. Secondo il ricorrente, infatti, la mera ricaduta per un reato della stessa indole andava considerato unito dal vincolo della continuazione in quanto espressione di uno stesso disegno criminoso, che si era manifestato in tutte le sue condotte illecite: convincere la moglie a evitare la separazione e il distacco dal figlio minore di lei. La Corte d’Appello, invece, aveva letto il suo comportamento reiterato come l’espressione di una più intensa capacità criminale, piuttosto che come la manifestazione di un momento di particolare instabilità "emozionale e psicologica". Per la Suprema corte però hanno ragione i giudici di merito il cui accertamento, riguardo all’ esclusione di un unico reato non è censurabile. Corretta la recidiva dunque in virtù della straordinaria serie di condotte persecutorie poste in essere in due diversi periodi, segnali della recrudescenza di una capacità criminale specifica e di una determinazione persecutoria allarmante perché "insensibile anche agli effetti deterrenti dei precedenti interventi giudiziari". Entrare nel cortile altrui è violazione di domicilio di Luana Tagliolini Il Sole 24 Ore, 18 aprile 2017 Corte di cassazione - Sezione V - Sentenza 22 marzo 2017 n. 13912. Un disatteso provvedimento d’urgenza che ordini la rimozione delle tende non giustifica lo smontaggio delle stesse attraverso l’irruzione clandestina all’interno della corte privata. Rimuovere le tende altrui introducendosi in casa comporta la condanna per violazione di domicilio. La Corte di Cassazione (sentenza numero 13912/2017) ha dichiarato inammissibile il ricorso di un condominio avverso la sentenza della Corte di appello che, in parziale riforma della sentenza del locale Tribunale, aveva confermato la sua condanna per il delitto di violazione di domicilio per essersi introdotto, clandestinamente, nel cortile dell’abitazione di una condomina. La stessa Corte aveva, inoltre, affermato la sussistenza della violenza sulle cose perché l’imputato aveva smontato le tende e le aveva appoggiate a terra, così mutando lo stato di fatto durante la sua illecita permanenza nelle pertinenze del domicilio. Il condannato si era rivolto alla Cassazione sostenendo che i giudici di merito avevano sbagliato nel qualificare il fatto come violazione di domicilio, dato che era penetrato nel cortile dell’abitazione privata solo per smontare le tende ("esercizio arbitrario" delle proprie ragioni", articolo 393 del Codice penale). Ma per la Cassazione il ricorrente, introducendosi clandestinamente nelle pertinenze del domicilio della condomina, non aveva compiuto "una condotta tutta sussumibile nell’ipotesi astratta prevista dall’articolo 393 Codice penale (l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni, con violenza sulle cose)" posto che il ricorrente aveva dovuto attendere che la condomina fosse assente da casa in modo da potersi introdurre clandestinamente nel suo domicilio, "così realizzando un’ulteriore condotta rispetto al mero esercizio arbitrario del proprio diritto consistito nel distacco delle tende dal suo balcone". Per tali motivi il comportamento del condomino era stato inquadrato nel reato di "violazione di domicilio" (articolo 614 del Codice penale). Il difensore "ricusante" deve opporsi in concreto alle notifiche per l’imputato. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 18 aprile 2017 Processo penale - Udienza dibattimentale - Imputato assente per legittimo impedimento - Rinvio udienza - Notificazione al difensore ricusante - Legittimità. Nel caso di assoluta impossibilità di comparire all’udienza da parte dell’imputato, legittimamente impedito per documentati motivi di salute, la dichiarazione con la quale il suo difensore di fiducia eserciti la facoltà di ricusare la ricezione delle comunicazioni e notificazioni destinate al proprio assistito deve intendersi implicitamente revocata quando il professionista abbia poi accettato gli atti destinati all’imputato senza nulla eccepire. Nella fattispecie, il giudice ha reso edotto l’imputato, legittimamente assente, del rinvio dell’udienza mediante avviso al suo difensore presente che, nonostante avesse dichiarato contestualmente alla nomina di non accettare le notificazioni indirizzate al proprio assistito, nulla ha opposto in merito. Peraltro, alla stessa conclusione deve pervenirsi anche nelle ipotesi in cui il difensore riceva le notifiche e comunicazioni rivolte all’assistito per facta concludentia. • Corte cassazione, sezione III penale, sentenza 16 febbraio 2017 n. 7371. Notificazioni - All’imputato - In genere - Imputato non detenuto - Notifica al difensore di fiducia degli atti successivi al primo del procedimento - Dichiarazione di rifiuto - Revoca per fatti concludenti. In materia di notificazioni all’imputato non detenuto eseguite ai sensi dell’art. 157, comma 8-bis, c.p.p., la dichiarazione con la quale il difensore di fiducia abbia esercitato la facoltà di ricusare la ricezione delle comunicazioni e delle notifiche destinate al suo assistito deve intendersi implicitamente revocata quando il professionista abbia poi accettato l’atto senza nulla opporre. • Corte cassazione, sezione III penale, sentenza 11 settembre 2013 n. 37264. Notificazioni - All’imputato - In genere - Notifica presso il difensore di fiducia ex art. 157, comma ottavo bis, c.p.p.- Rifiuto di accettazione della notifica - Modalità e tempi - Indicazione. In tema di notificazioni, il rifiuto del difensore di accettare la notifica degli atti diretti al proprio assistito deve essere enunciato, per produrre effetti, o contestualmente all’atto di nomina o, con comunicazione diretta all’autorità procedente, subito dopo quest’ultima, ma sempre prima della notifica di un atto. • Corte cassazione, sezione I penale, sentenza 12 aprile 2013 n. 16615. Notificazioni - All’imputato - In genere - Notificazione nelle forme dell’art. 157, comma ottavo bis, c.p.p. - Dichiarazione di non accettazione della notifica - Accettazione tacita e sopravvenuta per "facta concludentia" - Validità della notifica - Fattispecie. È valida la notifica del decreto di citazione eseguita ai sensi dell’art. 157, comma ottavo bis, c.p.p. al difensore che in precedenza aveva dichiarato di non accettare le notificazioni per conto dell’assistito, qualora per "facta concludentia" risulti l’accettazione tacita e sopravvenuta della notifica stessa. (Nel caso di specie, la S.C. ha evidenziato l’esercizio reiterato del ministero difensivo e della rappresentanza dell’imputato da parte del difensore nel giudizio instaurato a seguito della notificazione eseguita ai sensi dell’art. 157, comma 8-bis, c.p.p., senza alcun rilievo o rimostranza in ordine alla notificazione stessa). • Corte cassazione, sezione I penale, sentenza 4 dicembre 2007 n. 44993. Sassari: celle troppo piccole, detenuti risarciti La Nuova Sardegna, 18 aprile 2017 Prima che nel mese di luglio del 2013 - dopo 140 anni - chiudesse per sempre i battenti, era considerato il peggior carcere d’Italia. La conferma che San Sebastiano con i muri scrostati, i suoi spazi angusti, i suoi bagni alla turca e le sue docce nei sotterranei, non rispettasse la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, è arrivata dalla Corte di Cassazione che di recente ha dato ragione a nove detenuti che avevano chiesto di poter beneficiare del rimedio compensativo. Introdotto dal decreto legge 92 del 26 giugno 2014 da parte della Corte Europea dei diritti dell’uomo, il decreto indica in tre metri quadrati per detenuto lo spazio minimo sotto cui la detenzione diventa "trattamento disumano e degradante". E in molte celle del vecchio carcere di San Sebastiano capitava evidentemente che spesso i metri quadrati per detenuto fossero meno di tre. Il trasferimento nel nuovo e più comodo istituto di Bancali non aveva cancellato nei detenuti il ricordo delle sofferenze patite tra le vecchie mura ottocentesche, così in tanti si erano rivolti al magistrato di sorveglianza che aveva accolto l’istanza. La casa circondariale e il Ministero della Giustizia avevano presentato ricorso con tutta una serie di motivazioni che la Corte di Cassazione non ha condiviso. Anche la Corte Europea dopo diversi ricorsi si era pronunciata sull’argomento e aveva imposto all’Italia di eliminare la condizione di sovraffollamento delle carceri e di prevedere una norma che consentisse, a chi avesse subito il trattamento disumano, di ottenere un risarcimento. È entrata così in vigore la legge 117/2014 che, recependo l’imposizione di Strasburgo, ha introdotto l’articolo 35 ter della legge 354/1975. La norma prevede che il magistrato di Sorveglianza, accertata l’eventuale violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, risarcisca con lo sconto di un giorno di pena (ogni 10 espiati) i detenuti. Se il soggetto che ha subìto il danno al momento della pronuncia è già in libertà, invece, gli spetteranno 8 euro al giorno. In questo secondo caso, quando il detenuto è libero, l’istanza deve essere proposta al Tribunale civile che deve accertare la violazione dell’articolo 3 e quindi risarcire nella misura indicata. Un anno prima della chiusura definitiva era stata l’allora garante dei detenuti Cecilia Sechi a lanciare l’allarme sulle condizioni disumane dei detenuti di San Sebastiano. "Celle che hanno ormai un colore verde dovuto umidità delle pareti - aveva riferito in Consiglio comunale - per i detenuti è impossibile stare in tre contemporaneamente in piedi dentro la cella per mancanza di spazio. Dentro le celle, ci sono spesso tre letti a castello, l’ultimo dei quali ad una altezza da brivido, che impedisce al detenuto di stare seduto. C’è poi un piano di cemento dove è poggiato un cucinino con pochi alimenti e attaccato allo stesso piano uno spago dal quale pende un asciugamano o uno straccio che copre la turca". Bologna: al carcere della Dozza liste d’attesa per studiare di Daniela Corneo Corriere di Bologna, 18 aprile 2017 Alla Dozza continua a crescere la lista d’attesa delle persone che vorrebbero partecipare ai corsi "Ma ogni volta ne restano fuori 20". Tra scuole superiori e università sono 450 i frequentanti. Dai corsi di alfabetizzazione fino a quelli universitari, passando per le lezioni di scuola media e ragioneria. Il reinserimento dei detenuti del carcere della Dozza si sperimenta anche attraverso l’istruzione. E la grande sorpresa sono i numeri di quanti vogliono provare a ottenere un titolo di studio, visto come occasione di riscatto e di crescita personale. Tanti i detenuti, in media 450, che chiedono di poter studiare. E tanti quelli che si mettono in lista d’attesa anche per mesi. Il viaggio nelle scuole della Dozza. Dai corsi di alfabetizzazione (per stranieri, ma non solo) fino a quelli universitari, passando per le lezioni di scuola media e ragioneria. Il reinserimento dei detenuti del carcere della Dozza si sperimenta non solo attraverso il lavoro, ma anche attraverso l’istruzione. Di tutti i gradi. E la grande sorpresa sono i numeri di quanti vogliono provare a ottenere un titolo di studio, visto come un’occasione di riscatto e di crescita personale. Tanti i detenuti che chiedono di poter studiare. E tanti addirittura che si mettono in lista d’attesa per mesi. I numeri sono per forza di cosa fluidi, legati ai nuovi arrivi, ai trasferimenti in corso d’anno, ma pur sempre significativi. Nell’anno scolastico 2016/2017 si sono iscritti in totale 343 detenuti (dato rilevato il 31 gennaio 2017): 100 ai corsi scolastici di scuola media superiore (ragioneria) organizzati dal Keynes di Castel Maggiore; 243 ai corsi di alfabetizzazione e di scuola media inferiore organizzati dal Centro per l’istruzione adulti di Bologna. E poi c’è il fiore all’occhiello della Dozza: il polo universitario attivato grazie alla convenzione con l’Alma Mater che garantisce l’accesso gratuito dei detenuti a tutti i corsi universitari. A dicembre 2016 risultavano essere 25 i detenuti ancora presenti in carcere iscritti a un corso di laurea: 8 iscritti a Giurisprudenza, 5 a Scienze Politiche, 8 a Lettere (Storia, Filosofia, Beni culturali, Dams) e 4 ad Agraria, già diventati 6 nell’anno 2016/2017 anche grazie a una docente particolarmente attiva che entra in carcere tutti i giorni a fare lezione ai suoi allievi. "In un anno - spiega Massimo Ziccone, dal 1991 direttore dell’area educativa della Dozza - sono circa 450 i detenuti che frequentano i corsi scolastici e 35 gli studenti universitari, un numero significativo, se si pensa che il numero totale dei detenuti è di circa 750 persone. Il turn over è molto alto, perché qui sono detenuti principalmente per condanne brevi o sono in attesa di giudizio, anche se negli ultimi anni sono aumentati quelli con pene lunghe da scontare". Insomma, l’istruzione resta una scommessa all’interno di un carcere, visto il turn over così alto. Ma non è questa l’unica criticità: "Le difficoltà sono tantissime - spiega Ziccone - a partire da una struttura che non è nata per finalità educative, abbiamo dovuto strappare gli spazi per fare scuola e università". E poi c’è, neanche a dirlo, il problema delle risorse. "Vengono tagliate continuamente: nel ‘91 avevamo 14 educatori per 650 detenuti, adesso ce ne sono 6 per 750 detenuti. Se non fossimo in un contesto come quello bolognese ed emiliano, dove l’esterno contribuisce molto in termini di collaborazione e solidarietà, non saremmo in grado di fare tante attività e avere gli strumenti che abbiamo", ammette Ziccone. Che, nonostante la "battaglia" quotidiana con la mancanza di personale e risorse sempre più risicate, crede ancora nel valore dell’istruzione (e del lavoro) in carcere. "Vogliamo e dobbiamo dare - spiega - un’opportunità a chi è arrivato qui principalmente perché di opportunità non ne aveva nella propria vita. A queste persone, che rappresentano il 30% dei detenuti, basta dare una scuola o un lavoro perché non ci pensino più a delinquere, quando escono da qui". Eppure non a tutti quelli che vorrebbero frequentare la scuola si riesce a dare una possibilità. Lo spiega Anna Grazia Zampiccinini, docente del Keynes, che da dieci anni insegna diritto e materie giuridiche agli studenti iscritti alle superiori della Dozza. "Il Miur - spiega la docente - dice che le classi dovrebbero essere di 20-25 persone, ma per ragioni di sicurezza l’ordinamento penitenziario non consente classi superiori ai 15-18 detenuti, quindi abbiamo il problema di garantire l’iscrizione a tutti quelli che lo desiderano. Tra le 10 e le 20 persone restano sempre fuori e non è poco, perché la scuola superiore fa proprio un servizio che garantisce la riabilitazione, essendoci un rapporto quotidiano con gli insegnanti". Secondo la docente del Keynes "basterebbero più classi, garantite in modo fisso ogni anno a prescindere dagli iscritti dell’anno prima, e la certezza che i detenuti non vengano trasferiti durante l’anno scolastico". E invece le classi vengono formate in base al numero di alunni che hanno frequentato l’anno prima, "cosa che non ha senso, perché la situazione in carcere è molto fluida: c’è chi arriva durante l’anno, così come c’è chi se ne va improvvisamente". Ugualmente c’è una criticità rispetto alla continuità d’insegnamento: "C’è una prevalenza di docenti precari - conclude Zampiccinini - e ogni anno si riparte a costruire il gruppo di insegnanti da capo, situazione che non aiuta di certo". Bologna: carcere della Dozza, dal corso in cura del verde alla serra di erbe bio Corriere di Bologna, 18 aprile 2017 "È un momento libero che mi consente di uscire dalla cella". "Quando studio non penso a niente" Le storie dei detenuti. C’è un corso dell’Alma Mater che ha molto successo alla Dozza: Cura del verde ornamentale. Questo anche grazie alla docente di Agraria, Anna Speranza, che da 4 anni segue i suoi studenti. E ora con loro rimetterà in uso la serra del carcere per produrre erbe aromatiche. "Qui arriva il sole". Iniziano quasi sempre così la scuola le detenute e i detenuti del carcere della Dozza: perché nelle aule dove si fa lezione arriva la luce del sole. Niente a che vedere con la loro cella. Escono qualche ora al giorno, "annusano" il mondo che c’è fuori grazie al rapporto con i loro insegnanti, migliorano l’italiano (scritto se italiani, parlato se stranieri) e imparano qualche nozione di storia e geografia con cui riescono a interpretare meglio le notizie che sentono al telegiornale. Iniziano così. Ma poi capita in molti casi che lo studio diventi qualcosa di più e venga colto come un’opportunità per recuperare il tempo perso e per costruirsi un futuro con basi più solide. "Per me la scuola è un momento libero. Mi consente di uscire dalla mia cella due o tre ore al giorno". Mercedes ha origini sudamericane, è arrivata che non sapeva una parola d’italiano e adesso lo parla con chiarezza. Inizia da lei e dalla sua compagna di banco, Giuseppina, il nostro viaggio dentro la scuola (o meglio, le scuole) del carcere della Dozza. Nel braccio femminile le aule dedicate allo studio sono state ricavate al secondo piano, completamente ristrutturato e dedicato alla scuola media e superiore. In un’aula si fa istruzione superiore con i docenti del Keynes, nell’altra c’è la scuola media e in una, allestita con una quindicina di computer donati da una grande azienda, si fa informatica. Qualche minuto prima delle 10 entrano nella classe della scuola media l’insegnante, Valeria Palazzolo, e le uniche due alunne di un giovedì qualunque, Mercedes e Giuseppina. Entrambe si avvicinano alla professoressa, la abbracciano e si siedono nel loro banco. "È bellissimo venire a scuola - dice Giuseppina, 66 anni: abbiamo delle prof meravigliose. Io vengo qui per stare un po’ fuori dalla mia cella e per studiare. Mi piacciono molto matematica, storia e geografia, meno il francese". Ma le materie passano quasi in secondo piano. "Il lato umano - spiega la professoressa Palazzolo, docente sia nel braccio femminile che in quello maschile da due anni - è forte in questa esperienza, si scoprono cose che non ci si aspettava. Il carcere è come una Babele dove ci si deve incontrare per forza e i detenuti più che nozioni chiedono delle relazioni. Spesso qualcuno si perde, intervengono depressioni e difficoltà, ma c’è anche chi, pur venendo inizialmente a scuola pensando di trarne qualche vantaggio, poi si incuriosisce per qualche materia e continua per passione". Insomma, capita che le materie passino quasi in secondo piano. "Il rapporto umano con i detenuti - spiega anche Raffaele Moles, docente d’informatica del Keynes - è in continua evoluzione, noi docenti siamo il contatto dei detenuti con l’esterno". Ad accompagnarci nel più affollato braccio maschile della Dozza, oltre al responsabile dell’area educativa Massimo Ziccone, è Stefania Armati, responsabile del Cpia, il Centro provinciale per l’Istruzione degli adulti di Bologna. Tocca a lei coordinare i 17 corsi attivati di alfabetizzazione e scuola media e i 9 insegnanti che se ne occupano. "In questo momento - spiega Armati - abbiamo 197 iscritti per questi corsi, ma ogni mese dobbiamo rifare gli elenchi, perché la situazione è in continuo cambiamento". Stefania Armati ha scelto di insegnare nel carcere della Dozza sei anni fa. "Ho iniziato per curiosità - racconta - e poi ho scelto di restare qui, perché credevo nel percorso di riabilitazione. C’è uno scambio continuo con i detenuti, non siamo solo A lezione Le classi di scuola superiore nel braccio maschile raggruppano studenti di anni diversi e con livelli diversi noi a insegnare a loro". Gli insegnanti imparano a conoscere le persone che hanno davanti e pensano per ciascuno di loro un percorso individuale. "Noi evitiamo - spiega Armati - che i detenuti siano trasferiti a scuola iniziata, se non c’è una stretta necessità. Comunque noi del Cpia inseriamo i detenuti nei corsi fino a maggio, cosa che non è possibile per le superiori per cui si deve avere una frequenza del 70%". Le classi, sia del Cpia che delle superiori, del braccio maschile sono più numerose. Ma, contrariamente a quel che si potrebbe pensare, non ci sono solo stranieri che imparano l’italiano. E lo conferma la stessa Armati: "Per i corsi di alfabetizzazione e di scuola media non si può dire che è la scuola degli stranieri, ma di chi, anche se italiano, vuole ritornare a imparare". Entriamo in una classe media dove l’insegnante sta facendo un dettato d’italiano. In classe sono in 4; tra di loro c’è Federico, 29 anni: "La scuola è un’opportunità per recuperare il tempo che ho perso da giovane". Alle superiori l’organizzazione è più complessa. La prima e la seconda superiore frequentano insieme e c’è una classe unica che riunisce gli studenti di terza, quarta e quinta. "Abbiamo 5 classi dove sono presenti studenti di anni diversi - dice Anna Grazia Zampiccinini, docente di diritto del Keynes - e in prima e seconda abbiamo una lunga lista d’attesa". Perché i detenuti, quando iniziano la scuola, poi riferiscono ai vicini di cella che l’esperienza li fa star meglio. "Per me è stata una scoperta dei miei limiti - racconta Gabriele, i primi anni è stato un modo per distogliermi, poi ho scoperto che la costanza nello studio mi fa star meglio". "La scuola è un impegno per se stessi - dice anche Michele -, la frequento da due anni, ma si potrebbe fare di più, almeno avere le classi divise. Ma in questa situazione si allenano molto la pazienza e la tolleranza, perché si aspettano quelli più indietro". Fouad è rimasto in lista d’attesa per mesi, poi a gennaio è riuscito a iscriversi alla prima superiore: "Quando studi, per 5 ore non pensi a nulla. È un sollievo". Dal fondo della classe arriva la risposta di un altro detenuto, una frase che racchiude tutto il senso: "Per noi questo è un altro mondo". Sondrio: nasce in carcere la pasta senza glutine dello chef celiaco di Barbara Cottavoz La Stampa, 18 aprile 2017 Lo chef Marcello Ferrarini ha insegnato ai detenuti del carcere di Sondrio l’arte di fare la pasta senza glutine. La vecchia autorimessa del carcere è diventata un pastificio specializzato nella produzione senza glutine con un vero marchio, un packaging ricercato e un corso di formazione tenuto da uno chef, che è celiaco e conosce bene i segreti del gluten free. È nata così la pasta "1908", anno di fondazione della casa circondariale della Valtellina: non è il solito laboratorio del carcere ma un luogo di lavoro con macchine professionali e cura artigianale. Partito da pochi giorni, per ora rifornisce solo i negozi della zona però sogna in grande. Dai pc alla farina - L’idea è stata di Stefania Mussio, nuova direttrice del carcere di Sondrio (prima è stata a Opera e Lodi): i detenuti sono 35, soprattutto giovani, stranieri e già condannati con pena definitiva al di sotto dei tre anni. Non senza polemiche, Mussio ha deciso di trasformare il progetto di un’aula di informatica nell’ex autorimessa sistemata con un contributo di Provincia, Provveditorato di Milano e associazioni locali: "Io ho voluto creare uno spazio dove i ragazzi potessero imparare un lavoro spendibile nel territorio, una zona turistica di eccellenza anche gastronomica - commenta Mussio. Il lavoro al computer mi sembrava lungo da imparare, e qui le condanne sono brevi, e anche complicato per i molti stranieri che conoscono poco l’italiano. Il pastificio è la soluzione giusta per creare lavoro e quindi reinserimento sociale, unico deterrente alla recidiva. Ma non volevo il solito laboratorio del carcere, volevo qualcosa di davvero serio e produttivo e in questo è stato determinante l’apporto di tanti attori del territorio come la Fondazione Pro Valtellina e Confartigianato". La proposta della direttrice è stata accolta con entusiasmo da Alberto Fabani, della cooperativa sociale "L’ippogrifo" che da 25 anni è attiva a Sondrio e lavora nella casa circondariale. Tutto è stato pianificato con cura: prima Fabani si è rivolto all’Associazione italiana celiachia, poi allo chef Marcello Ferrarini che a gennaio in carcere ha tenuto un corso di una settimana destinato a sette detenuti e tre operatori della coop spiegando come produrre pasta senza glutine. Ma anche l’occhio vuole la sua parte e quindi sono stati contattati a Novara, la grafica Antonella Trevisan per "disegnare" logo e pacchetti e il fotografo Mario Finotti per le immagini pubblicitarie e del depliant informativo. Poi l’acquisto, importante, delle macchine costate 60 mila euro per due tipi di pasta secca più altri tre di "fresca" all’uovo: "Abbiamo scelto un’attrezzatura in grado di produrre senza nessun additivo chimico, perciò usiamo solo farine di mais e riso - dice Fabani. Abbiamo cominciato a lavorare e riforniamo i negozi della zona di Sondrio: vogliamo allargarci, perché il mercato dei prodotti senza glutine è in crescita, ma non nella grande distribuzione. Noi siamo un prodotto artigianale e tale vogliamo rimanere. Sono state fondamentali, infatti, la parte così approfondita e curata della formazione sul gluten free con lo chef e quella del packaging che ha dato le basi solide a un progetto di lavoro vero". Milano: Pagano "detenuti evasi da Bollate? rischio da correre per reinserirli" di Mario Consani Il Giorno, 18 aprile 2017 Per il Provveditore alle carceri rimane l’obiettivo da perseguire. Un detenuto in permesso non rientra (è già successo sei volte quest’anno) e il carcere di Bollate torna al centro della polemica. Un sindacato autonomo di polizia penitenziaria attacca ("Sta diventando un carcere troppo autoreferenziale, le istituzioni intervengano") ma Cgil, Cisl, Uil e le altre sigle difendono il "modello": "La vicenda delle evasioni - dicono - non può e non deve rappresentare il mirino per qualche "cecchino" pronto a sparare addosso ad un istituto che è stato realizzato per promuovere progetti avanzati di reinserimento dei detenuti". Luigi Pagano, provveditore regionale alle carceri: sei evasioni dall’inizio dell’anno, che succede a Bollate? "Non è un buon momento, questo mi sembra del tutto evidente ed è chiaro che, come sempre abbiamo fatto, analizzeremo ogni singolo caso per accertare se ci siano stati o meno errori e se qualcuno di quegli eventi fosse prevedibile. Ma eventi del genere non possono portare a mettere in discussione la serietà, la professionalità di chi opera a Bollate". Ma i sei evasi quest’anno sono ancora liberi? "Due si sono costituiti quasi subito, uno è stato arrestato dai nostri agenti. Due di quelli non rientrati erano in permesso premio e fra l’altro non era la prima volta che ne usufruivano". Chi attacca sostiene che Bollate sia un "trampolino di lancio verso la libertà anticipata". È davvero così? "Accusa gratuita, mi permetto di dire. Il trattamento in carcere non è fine a se stesso ma deve porsi come mezzo utile a favorire il reinserimento sociale del condannato, per cui, ove concorrano le condizioni giuridiche previste dall’ordinamento, prosegue con attività che si svolgono al di fuori del carcere e che costituiscono una sorta di messa alla prova. Appunto per questo, parliamo di uomini non dimentichiamolo e non di macchine, è naturale che, nonostante tutte le cautele adottate, permanga sempre un pur minimo margine di rischio". Ma è altrettanto chiaro, lo dicono gli studi di ricerca, che chi resta in cella per l’intera durata della pena, una volta fuori ha molte probabilità in più di tornare a delinquere. Non è così? "Certamente, altrimenti il nostro lavoro non avrebbe senso. Diverse ricerche hanno provato che coloro i quali partecipano ad attività trattamentali o usufruiscono di misure alternative, terminata la pena delinquono 70 volte di meno rispetto a chi ha scontato tutt’altra pena in stato detentivo. Vorrei che questo dato si tenesse presente quando si imbastisce l’ennesima, ricorrente polemica sui regimi alternativi al carcere, perché questi numeri certificano una riduzione netta della recidiva. Tradotto, significa che vi saranno meno delitti, ovvero maggiore sicurezza sociale e migliore protezione per tutti i cittadini". Si parla degli evasi, ma quante persone a Bollate sono impegnate in attività? "A Bollate abbiamo oltre 1.200 detenuti e cerchiamo di impegnarne quanti più possibili in attività lavorative: 150 sono assunti da ditte private che hanno istituito all’interno postazioni di call center, riparazione di elettrodomestici, falegnameria; altri 244, invece, lavorano alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria. Sono presenti in istituto, poi, corsi di formazione professionale, scolastici, teatrali. In regime extra murario, invece, 190 sono gli ammessi al lavoro esterno (in cento, per esempio, hanno lavorato per Expo 2015, mentre una decina, gratuitamente, di recente a risistemare la vegetazione dell’Idroscalo); 23 sono in semilibertà e tornano a dormire dentro la sera. E infine, nel 2016 sono stati ben 320 quelli a cui la magistratura di sorveglianza ha concesso una misura alternativa alla detenzione". Di fronte a questi numeri, possibili evasioni sono un rischio accettabile? "L’evasione rimane un dato negativo, un insuccesso, sarebbe pericoloso e ipocrita ignorarlo, e nessuno di noi è così superficiale da farlo, ma, ribadisco, se è necessario tentare con tutti i mezzi di ridurre ogni rischio, nessuno potrà mai garantire che lo si possa azzerare. Però sulle base delle considerazioni fatte in precedenza rimango convinto che siano di gran lunga maggiori i risultati positivi in termini di umanizzazione della pena e di sicurezza sociale che grazie a queste misure si determinano". Reggio Calabria: detenuto tenta il suicidio, salvato dagli agenti della Polizia penitenziaria quotidianodelsud.it, 18 aprile 2017 Un detenuto che si trovava nel reparto psichiatrico del carcere di Reggio Calabria ha tentato il suicidio impiccandosi nella sua stanza. L’uomo, di origini straniere, è stato salvato dall’intervento degli agenti della polizia penitenziaria. A darne notizia è il Sindacato autonomo di polizia penitenziaria (Sappe) che attraverso i suoi responsabili, Giovanni Battista Durante e Samiano Bellucci, rispettivamente segretario generale aggiunto e segretario nazionale, ha commentato che "ancora una volta nonostante le gravi carenze di personale, la polizia penitenziaria è riuscita a salvare una vita umana. Ogni anno, infatti, sono più di mille i detenuti che vengono salvati dagli agenti. In Calabria esistono gravi carenze di personale di polizia penitenziaria, carenze che ammontano a circa il doppio di quelle di altre regioni. Nonostante ciò la direzione generale del personale non fa nulla per migliorare la situazione. L’attuale direttore generale del personale non ha posto in essere nessuna concreta iniziativa per risolvere gli annosi problemi di istituti come Reggio, Palmi, Crotone e Rossano". Torino: "Il sapore della libertà", tavolette di cioccolata realizzate dai giovani detenuti quotidianocanavese.it, 18 aprile 2017 A partire da metà aprile 2017 saranno in vendita le tavolette di cioccolato "Il sapore della Libertà" - iniziativa promossa da Murialdofor onlus, Gruppo Spes e Parco Nazionale Gran Paradiso, realizzate dai giovani detenuti dell’Istituto Penitenziario Minorile Ferrante Aporti di Torino coinvolti nel progetto Spes@Labor. Sono tre le varianti di tavolette di cioccolato prodotte, latte, fondente e fondente gentile con granella di nocciola tostata caramellata, facilmente riconoscibili dal packaging realizzato ad hoc con le immagini del Parco Nazionale Gran Paradiso. L’Ente ha sposato il progetto e lo slogan "Il Sapore della libertà", espressione del legame simbolico tra la sensazione di libertà che è possibile vivere nell’area protetta, e l’indipendenza dei giovani detenuti che tramite il lavoro godono di una piccola forma di autonomia all’interno del carcere. Spes@Labor è un progetto di Comunità Murialdo Piemonte e Gruppo Spes iniziato nel 2013 in collaborazione con l’Istituto Penale per Minorenni Ferrante Aporti di Torino, che mira al reinserimento di giovani detenuti all’interno del tessuto sociale, mediante interventi di inclusione lavorativa e professionale. Il programma prevede l’apprendimento delle competenze dell’addetto alla produzione del cioccolato attraverso la formazione teorica e la pratica nel laboratorio allestito all’interno del carcere. In parallelo l’attività educativa fa sì che l’esperienza pratica diventi per il giovane anche occasione per relazionarsi e imparare a "fare bene insieme" in un luogo, il laboratorio del cioccolato, dove vengono privilegiati ascolto e condivisione. In questi anni il progetto si è evoluto dando priorità al percorso teorico ed educativo per formare i giovani ad essere realmente pronti all’esterno, nel lavoro e nei rapporti con il prossimo. I ragazzi coinvolti vengono anche in piccolo retribuiti attraverso le borse lavoro di cui beneficiano sia i detenuti al Ferrante Aporti, sia i ragazzi in penale esterna che svolgono la pratica presso la Fabbrica del Cioccolato del Gruppo Spes s.c.s. in via Saorgio 139/b a Torino. Ad oggi hanno partecipato al progetto più di 32 ragazzi; in questi anni, tre ragazzi che hanno partecipato al progetto in Istituto hanno proseguito la loro esperienza nella Fabbrica di Cioccolato del Gruppo Spes s.c.s. e ben cinque ragazzi, concluso il percorso, hanno continuato a collaborare con il Gruppo Spes. Nei locali commerciali che vorranno aderire all’iniziativa "Il Sapore della Libertà", saranno disponibili le tavolette, all’interno delle quali si potrà trovare un segnalibro con alcune immagini scattate all’interno del parco dal fotografo Francesco Sisti. Il prezzo consigliato di vendita al pubblico è di 3 euro per le tavolette al latte e fondente; 3,50 euro per la tavoletta con granella di nocciola. Decidere di acquistare queste tavolette è un importante gesto di solidarietà, nessuno dei tre enti coinvolti ricaverà qualcosa dalla vendita del prodotto, ma tutto l’incasso sarà destinato esclusivamente al sostegno del progetto Spes@Labor. Roma: libri e tirocinio per bibliotecari a Rebibbia per il reinserimento nella società di Milena Castigli interris.it, 18 aprile 2017 La Cultura come strumento di reinserimento dopo il carcere. La Biblioteca Nazionale centrale di Roma donerà decine di libri al carcere di Rebibbia; ma non si tratterà di una - pur lodevole - semplice donazione. Saranno infatti gli stessi detenuti a scegliere i volumi da leggere all’interno di un percorso che li porterà ad avviare una carriera come bibliotecari. Il direttore della Biblioteca Nazionale Andrea De Pasquale, la professoressa Marina Formica dell’Università di Tor Vergata e Rossella Santoro - direttore del carcere di Rebibbia - hanno firmato un protocollo d’intesa - siglato nel teatro della casa circondariale romana - per la promozione di un tirocinio che potrà essere frequentato da detenuti in permesso, regime di semilibertà o appena liberi con lezioni che si terranno nella sede della biblioteca. L’obiettivo è il reinserimento nella società di chi ha scontato la pena, attraverso un lavoro - il bibliotecario - che richiede un apprendistato specifico. I partecipanti impareranno infatti non solo la catalogazione dei libri, ma anche l’organizzazione di mostre ed eventi, come spiega il direttore De Pasquale. Durante il primo step del percorso - quello della catalogazione - sarà possibile individuare con quali volumi arricchire la biblioteca del carcere scegliendo gli argomenti di maggior interesse per i reclusi. In tal modo - spiega il direttore Pasquale - si cerca di mettere "il valore della cultura e del libro in opposizione alla mentalità criminale" e di "promuovere il valore della cultura come strumento per il recupero sociale di chi è sottoposto ad esecuzione di pena". De Pasquale - riporta l’Ansa - parla anche dell’intenzione di "portare avanti progetti che oltrepassino i confini della Biblioteca per incontrare tipologie di utenze altrimenti difficilmente raggiungibili". "Il Manifesto Unesco - spiega - sottolinea l’importanza di sviluppare percorsi utili ad entrare in contatto con fasce di lettori svantaggiate o difficilmente raggiungibili dalla Biblioteca, in senso tradizionale". "Affermare la centralità del ruolo della Biblioteca Nazionale - conclude - nella vita e nelle attività della comunità e allo stesso tempo riaffermarne il suo valore identitario, significa anche proporre progetti di collaborazione con realtà complesse come quella delle istituzioni carcerarie". Napoli: chiusura nel carcere di Poggioreale dell’iniziativa "Liberi di pensare" linkabile.it, 18 aprile 2017 L’Associazione "La Mansarda Onlus" presieduta da Samuele Ciambriello, propone, nel carcere di Poggioreale, un progetto a doppia finalità educativa: "Liberi di pensare" che ha come scopo quello di invogliare i detenuti nella lettura libera, coinvolgendoli con i testi preposti, alternando questa alla visione di alcuni cortometraggi. Il giorno 18 Aprile 2017 con il testo di Stefano Piedimonte "L’Innamoratore" (Rizzoli) nei Padiglioni Avellino e Firenze si concluderà questa esperienza durata tre mesi. Stefano Piedimonte è nato a Napoli nel 1980 e si è laureato all’università L’Orientale. Ha lavorato per giornali e trasmissioni televisive occupandosi principalmente di cronaca nera. Il testo proposto narra la storia di Ivan Sciarrino un killer molto particolare. Forse il più spietato. Perché alle sue vittime non toglie la vita, toglie l’amore. I suoi committenti sono uomini senza scrupoli disposti, pur di rovinare i nemici, a ricorrere alle armi non convenzionali dell’innamoratore, colpendo le loro mogli e distruggendo il loro sentimenti. Si pensa ad un gigolò? Oppure ad un truffatore? Nessuno dei due. Si tratta invece di un uomo dotato di una capacità fuori dal comune, ascolta, osserva e comprende le donne come nessuno lo sa fare, riuscendo a cogliere ciò che davvero desiderano e facendole innamorare, ma ad un prezzo molto alto, innamorandosene a sua volta. L’unico metodo per rapire il cuore di una donna, è che devi prima aprire il tuo e donarglielo senza mezze misure. Ma a quale prezzo? Questa è l’avvincente storia scritta da Piedimonte che fa catapultare i lettori nelle emozioni nude e crude di un amore non convenzionale. Il giorno 18 Aprile 2017 alle ore 15:30 si terrà all’ interno dell’istituto penitenziario di Poggioreale, la presentazione del testo, coinvolgendo l’autore del libro in un dibattito vivo con i detenuti dei Padiglioni Avellino e Firenze. Per l’occasione saranno presenti Luca Sorrentino, presidente della Cooperativa Aleph Service, Samuele Ciambriello, presidente dell’associazione La Mansarda e Antonio Fullone, direttore del carcere di Poggioreale. Salerno: i ceri di detenuti e homeless illuminano gli altari di Pasqua Il Mattino, 18 aprile 2017 La Pasqua di quest’anno è vissuta tra preghiera e solidarietà. Durante le veglie della notte, affollate in ogni chiesa di Salerno e provincia, sono stati accesi i ceri pasquali durante la cosiddetta "liturgia della luce". I sacerdoti li hanno segnati con una croce, l’alfa e l’omega, e le cifre dell’anno. I ceri sono talvolta delle vere e proprie opere d’arte, su cui sono dipinte immagini sacre legate alla Pasqua. Quest’anno, sei parrocchie della diocesi di Salerno-Campagna-Acerno e sessanta di Nocera inferiore-Sarno hanno fatto una scelta solidale, aderendo al progetto d’inclusione sociale (dal tema "Misericordia e luce di perdono") lanciato da don Rosario Petrone, cappellano della casa circondariale di Fuorni e mostrando attenzione e sensibilità per chi vive alle "periferie" dell’umanità. Hanno voluto infatti acquistare i ceri non da laboratori rinomati, ma dai detenuti soggetti a misure alternative alla pena detentiva, soprattutto senza fissa dimora e stranieri, ospitati nella Domus Misericordiae, la struttura di accoglienza di Brignano inaugurata l’8 novembre 2016. "Questo è un segno verso i nostri fratelli che sono realmente nelle carceri - spiega il vescovo di Nocera-Sarno, monsignor Giuseppe Giudice - dove c’è il buio, dove c’è una cella, arriva la luce del Signore. Mai dobbiamo dimenticare che c’è una dignità anche quando c’è il peccato, anche quando siamo lontani". "Il cuore di chi ha sbagliato - continua don Alessandro Cirillo, direttore della Caritas nocerina - può essere vinto dall’amore che sconfigge ogni forma di male. La luce del Risorto brilli nei cuori di quanti desiderano luce e perdono". Ha una valore doppio l’iniziativa della Mensa dei poveri di San Francesco, in via D’Avossa, nel rione Carmine. A ora di pranzo, nel giorno di festa così come in ogni altro, saranno servizi duecento pasti ai bisognosi. Oggi, però, a servire ai tavoli e a dare una mano in cucina saranno gli studenti dell’Istituto professionale alberghiero Roberto Virtuoso di Salerno, che nelle ultime settimane hanno anche raccolto gli alimenti da preparare. Da un lato si fa carità, dall’altro si educa i ragazzi alla solidarietà, un ingranaggio che non può permettersi alcun blocco nemmeno nei giorni dedicati di solito al riposo. Intanto, don Marco Russo fa ancora appello alla generosità dei salernitani, anche nel giorno di Pasqua. C’è sempre bisogno d’aiuto. Nell’ultimo anno l’organismo della carità, nel territorio della sola diocesi, ha provveduto alle necessità di 551 famiglie e di 2200 persone. A qualcuno sono stati pagati affitti ed utenze, ad altri sono stati assicurati abiti, alimenti e farmaci, altri ancora sono stati salvati dallo sfratto, supportati nell’inserimento sociale, accompagnati nell’affrontare problemi di dipendenza. L’augurio è che possa esservi risurrezione, e dunque liberazione dal bisogno, anche per loro. Per quanto riguarda le celebrazioni, l’arcivescovo Luigi Moretti presiederà la messa solenne nella cattedrale di Salerno alle 12. La funzione sarà animata dal coro dell’arcidiocesi, diretto dal maestro Remo Grimaldi. Nel duomo di San Prisco, a Nocera inferiore, il vescovo Giudice officerà il solenne pontificale alle 10.30; nella cattedrale di Amalfi, l’arcivescovo Orazio Soricelli celebrerà messa alle 11.15; nel duomo di Santa Maria Assunta a Policastro Bussentino, il vescovo Antonio De Luca presiederà alle 11; nella Badia della Santissima Trinità, a Cava dei Tirreni, la messa dell’abate Michele Petruzzelli comincerà alle 11; nella cattedrale di San Pantaleone a Vallo della Lucania celebrerà il vescovo Ciro Miniero. L’iniziativa di 60 parrocchie nel segno dell’accoglienza "È il tempo del perdono". Televisione. "Sorelle", la fiction che ha acceso una luce sulla vita degli orfani dei femminicidi di Anna Costanza Baldry Corriere della Sera, 18 aprile 2017 Una donna uccisa dall’ex marito, padre di due dei suoi tre figli. Questa, in sintesi, la trama della fiction "Sorelle", trasmessa in sei puntate su Raiuno, che ha incollato allo schermo milioni di persone, fino a superare il 27 per cento di share, nell’ultima serata, con quasi 6 milioni e 200mila spettatori. Tanti gli aspetti della vita, che spesso nella realtà (purtroppo) supera la fantasia, raccontati dalla sceneggiatura di Ivan Cotroneo e Monica Rametta, con un alone di mistero che si è sciolto soltanto alla fine. Cosa mi ha colpito? Il fatto che una miniserie televisiva parlasse, oltre che del femminicidio, degli orfani del femminicidio. Attirare l’attenzione sul dramma dei figli che restano: credo sia stato questo lo scopo primario della miniserie diretta da Cinzia TH Torrini e prodotta da Rai Fiction, ancor più della denuncia sociale dei tantissimi uomini che uccidono le donne che dicono di amare. Uomini che, come racconta la cronaca prima ancora della fiction, sostengono di non essere capaci di toccare la loro donna neanche con un dito e, soprattutto, giurano di non poter neanche immaginare di fare del male ai loro figli. La fiction della Rai, entrando in milioni di case, ha dato agli italiani la possibilità di riflettere, anche solo per un attimo, sulla donna uccisa per vigliaccheria da un uomo capace di mentire a tutti, in primis ai suoi figli, e anche sui bambini che, per quanto ostentino forza e coraggio, vivono lo stigma della comunità e devono fare i conti, non solo con la perdita della madre, ma anche con la vera identità del padre a cui vogliono bene. Una produzione che ha ottenuto un enorme successo. Credo che questa sia una piccola grande rivoluzione. Un segno di civiltà. Arrivato proprio adesso che la Camera ha approvato all’unanimità, nei primi giorni di marzo, la proposta di legge sugli orfani di crimini domestici, con il disegno di legge 2719, trasmesso al Senato e assegnato alla Commissione Giustizia. È una proposta di legge sicuramente migliorabile, ma la sua approvazione in via definitiva non è rimandabile. Certo, gli "orfani speciali", quei bambini e ragazzi costretti a privarsi dei loro legami per motivi diversi (la mamma uccisa, il padre assassino) non dovrebbero rimanere orfani, perché quei femminicidi non dovrebbero accadere. Invece in solo giorno, quello dell’ultima puntata di "Sorelle" (giovedì 13 aprile), tre donne sono state uccise. E una volta che bambini, adolescenti o giovani adulti subiscono la perdita della madre per mano del padre, è lo Stato a dovergli garantire un sostegno efficace e duraturo, senza far gravare su di loro e su chi se ne prende cura, i costi, oltre alle sofferenze e all’isolamento provocato dall’ignoranza, dalla prevenzione e dai pregiudizi della gente. I tre figli di Elena, la ragazza interpretata da Ana Caterina Morariu, forse non sono rappresentativi delle molteplici situazioni vissute dai cosiddetti "orfani speciali". Quella è una fiction. Il giallo televisivo non voleva, e non poteva certo essere lo specchio esatto di quel che accade nella realtà ai bambini e ragazzi sopravvissuti. Molti di loro sono talmente traumatizzati, spaesati e soli, che non riescono a continuare una vita tranquilla. Non tutti hanno una zia premurosa come Chiara, il personaggio di Anna Valle. E non hanno neanche la fortuna o la possibilità di continuare a stare nelle loro casa, come accade invece nella fiction. "Sorelle" è stata un’occasione, ci ha aiutato a non dimenticare che la politica deve dare priorità a quei bambini e ragazzi. Ci auguriamo quindi che il decreto legge venga presto portato in Assemblea e possa diventare legge dello Stato. Nel frattempo, il dipartimento di Psicologia dell’Università degli studi della Campania Luigi Vanvitelli continua a monitorare le situazioni degli orfani di crimini domestici, per fornire risposte, attraverso l’osservatorio del progetto internazionale Switch-Off, Supporting WITness Children Orphans From Feminicide in Europe (da me coordinato) che, in collaborazione con i centri antiviolenza Di.Re, coinvolge anche altri Stati. Da ormai tre anni stiamo contattando coloro che da bambini o da adolescenti hanno perso entrambi i genitori in circostanze tragiche e violente (in dodici anni sono stati circa 1500 anni i minori sopravvissuti alla morte della madre per femminicidio, e otto volte su dieci a ucciderle è stato loro padre, finito in carcere o suicida). Raccogliamo le loro testimonianze. Perché è importante tenere accesa la luce sulla loro vita e su quella di chi gli sta intorno, per ridurre il più possibile il danno procurato dalla morte della madre per mano del padre. Cinema. "Noi, che fuggiamo dal carcere grazie al rugby" di Chiara Pizzimenti Vanity Fair, 18 aprile 2017 "L’ultima meta" è un documentario che racconta della squadra della Dozza di Bologna. Lo sport è momento di riscatto per chi è in prigione, occasione di conoscere il mondo dentro per chi viene da fuori. "L’unico rancore ce l’ho nei confronti di mio padre che non mi ha fatto conoscere il rugby, magari non facevo certi errori. Imparavo prima a "mandare giù qualche merdina", a mantenere la calma e il rispetto e ad aspettare il momento giusto per la rivincita". Gli errori di cui parla lo hanno portato in carcere. Non diremo il suo nome di questo omone tutta forza perché in carcere non c’è più, ora è fuori, ha un lavoro, fa una vita normale dopo gli anni passati nel penitenziario bolognese della Dozza. Gli anni che gli hanno insegnato il rugby. È uno dei protagonisti del documentario "La prima meta" di Enza Negroni che racconta le partite, sempre casalinghe perché i giocatori non possono uscire, del Giallo Dozza, la squadra di rugby della Casa Circondariale di Bologna. Una squadra che ha un turn over obbligato. Quando esci, sei fuori, e ne sei felice. Quando sei dentro far parte della squadra è uscire dall’isolamento. Chi è ancora dentro non ne può fare a meno. "Nel brutto - spiega un giocatore che ancora è detenuto e che ha un permesso speciale per essere in un cinema a raccontare la sua storia - c’è qualcosa di bello. Io mi sono innamorato di questo sport che mi ha cambiato fisicamente e mentalmente". Sono 40 detenuti di nazionalità diverse, con pene da 4 anni all’ergastolo, senza precedenti esperienze rugbistiche, a formare la squadra che è iscritta al campionato ufficiale F.I.R. di serie C2 sotto la guida di Max Zancuoghi. Qui non si può dire che si aprono i cancelli quando c’è la partita. Perché i cancelli si aprono certo, ma subito si chiudono. Il pubblico, quando c’è, deve fare domanda con settimane di anticipo, gli avversari devono essere controllati uno per uno. "Per entrare - dice il coach Zancuoghi - passi 11 cancelli. A ognuno lasci qualcosa. Ti rendi conto che fuori hai tutto, hai troppo. Ti passano per la mente i pensieri più strani e, uscendo, speri che i giovani che vedi non prendano quella strada". Non solo un percorso sportivo quello del rugby in carcere, ma, come dice la direttrice del carcere bolognese Claudia Clementi, "un modo per dare le ali del cambiamento, un guardarsi indietro (la palla nel rugby si passa sempre all’indietro n.d.r.) per guardare avanti". Il rugby è fra le attività proposte per i detenuti, è sport fisico, ma anche mentale. "È aprire finestre in un luogo dove tutto è chiuso, dove per le persone è difficile fare squadra. In carcere si vive in trincea, ognuno solo". Per i detenuti è persino difficile spostarsi di cella quando vengono messi tutti nello stesso braccio per fare squadra. Per chi entra, lo hanno fatto per mesi la regista Enza Negroni e la sua troupe, c’è il rumore del ferro ogni volta che un cancello si chiude dietro di te. "La prima volta è disturbante, poi ci si abitua e si scopre che dentro c’è una vita. Nel film abbiamo lasciato spazio all’azione, agli allenamenti, alle partite, ma abbiamo conosciuto anche le storie dei detenuti. Ascoltarli fa capire quanto alcune cose possano capitare in un attimo". Teatro. "Toghe Rosso Sangue", un omaggio alla memoria dei magistrati uccisi di Michele Alinovi recensito.net, 18 aprile 2017 Fra il 1969 e il 2015 in Italia 28 magistrati sono stati uccisi per mano della malavita. La mafia, la ‘ndrangheta, il terrorismo nero e rosso. Sono morti per la loro professione e perché spesso Toghe Rosso Sangue Sala Vignoli Teatro Argentina erano un simbolo da colpire, un nemico da distruggere in nome di presunti ideali. Quello che a volte non si ricorda è che ognuno di loro non era solo un giudice ma, soprattutto, una persona. Un uomo che mangiava, dormiva, faceva l’amore e cercava di vivere la sua vita al meglio delle sue possibilità. Molti di loro avevano figli piccoli, che dopo quel giorno si sono chiesti perché papà non tornava più. Il primissimo è stato Antonino Giannola, ucciso il 26 gennaio del 1960, nel Palazzo di Giustizia di Nicosia, seguito da Agostino Pianta, assassinato il 17 marzo 1969 a Brescia da un detenuto. L’ultimo di questa lista nera è Fernando Ciampi, freddato il 9 aprile 2015 nel Palazzo di Giustizia di Milano. Poi c’è Paolo Adinolfi, scomparso a Roma il 2 luglio 1994 e mai più ritrovato: il suo nome alza il numero di vittime a 29. Certo, alcuni di loro sono ancora vivi nella memoria collettiva, come Giovanni Falcone, ucciso da Cosa Nostra nella Strage di Capaci il 23 maggio 1992, e Paolo Borsellino, vittima della Strage di Amelio il 19 luglio dello stesso anno. Invece, quasi tutti gli altri magistrati, oltre all’assassinio decretato dai mandanti e attuato dagli esecutori, hanno subito una nuova morte: l’oblio. "Toghe Rosso Sangue: La vita e la morte dei magistrati italiani assassinati nel nome della giustizia", patrocinato dall’Associazione Nazionale Magistrati e portato in scena qualche giorno fa a Roma alla Sala Vignoli e al Teatro Argentina di Roma, è nato proprio con l’intento di preservare la loro memoria. Lo spettacolo, diretto da Francesco Marino e tratto dal libro omonimo del giornalista e scrittore Paride Leporace, vuole far conoscere quella parte di storia italiana troppe volte dimenticata e messa da parte. Con esso si vogliono ribadire i nomi e i cognomi dei magistrati morti perché lavoravano per un’Italia più giusta e più libera: sono stati degli esempi della lotta contro la criminalità organizzata e per questo bisogna mantenerne vivo il ricordo, anche per rammentarci che questa battaglia non è ancora finita. L’opera ripercorre buona parte della storia d’Italia degli ultimi Sessant’anni. Quattro attori, quattro voci, tre uomini e una donna, in un palcoscenico vuoto, rievocano le vite di quei giudici e insieme le vicende nere di quei tempi. Dagli errori giudiziari verso i singoli cittadini ai processi sommari dei Nuclei Armati Rivoluzionari, dagli attentati delle Brigate Rosse e di Prima Linea durante gli Anni di Piombo alle micce corte di Prima Linea; il sangue in Via Capaci e in Via d’Amelio, le stragi di Stato e i singoli omicidi, fino al mistero mai risolto del corpo del magistrato Paolo Adinolfi, l’unico di essi che ancora non ha ricevuto nemmeno una degna sepoltura. Sebastiano Gavasso, Diego Migeni, Francesco Polizzi ed Emanuela Valiante sembrano quattro testimoni dell’epoca, circondati da un’atmosfera fra il realismo e il noir, in grado di dividersi fra i fatti e la rappresentazione delle emozioni delle persone che li hanno vissuti, o subiti: la rabbia, lo sdegno, il rimorso, l’amore, la disperazione. La pièce non spettacolarizza, non scende nel pietismo né emette condanne o valutazioni politiche: grida, silenziosamente, un omaggio a uomini morti nell’adempimento del loro dovere, al loro senso dello Stato. Come uno sparo nel buio, ribadisce il loro coraggio, la loro scelta di essere coerenti fino alla fine, e malgrado la loro fine. Un insegnamento pagato con la vita che vale più di mille parole e che merita di essere tramandato alle nuove generazioni. La lista completa dei magistrati uccisi fra il 1969 e il 2015: Agostino Pianta ucciso il 17 marzo 1969 a Brescia da un detenuto vittima di un errore giudiziario. Pietro Scaglione ucciso il 5 maggio 1971 a Palermo dalla mafia. Francesco Ferlaino ucciso il 3 luglio 1975 a Lamezia Terme dalla ‘ndrangheta. Francesco Coco ucciso l’8 giugno 1976 a Genova dalle Brigate Rosse. Vittorio Occorsio ucciso il 10 luglio del 1976 a Roma da Ordine Nuovo. Riccardo Palma ucciso il 14 febbraio 1978 a Roma dalle Brigate Rosse. Girolamo Tartaglione ucciso il 10 ottobre 1978 a Roma dalle Brigate Rosse. Fedele Calvosa ucciso l’8 novembre del 1978 a Frosinone dalle Unità combattenti comuniste. Emilio Alessandrini ucciso il 29 gennaio 1979 a Milano da Prima Linea. Cesare Terranova ucciso il 25 settembre 1979 a Palermo dalla mafia. Nicola Giacumbi ucciso il 16 marzo 1980 a Salerno dalla colonna delle Brigate Rosse "F. Pelli". Girolamo Minervini ucciso il 18 marzo 1980 a Roma dalle Brigate Rosse. Guido Galli ucciso il 19 marzo 1980 a Milano da Prima Linea. Mario Amato ucciso il 23 giugno 1980 a Roma dai Nar. Gaetano Costa ucciso il 6 agosto 1980 a Palermo dalla mafia. Gian Giacomo Ciaccio Montalto ucciso il 25 gennaio 1983 a Trapani dalla mafia. Bruno Caccia ucciso il 26 giugno 1983 a Torino dalla ‘ndrangheta. Rocco Chinnici ucciso il 29 luglio 1983 a Palermo dalla mafia. Alberto Giacomelli ucciso il 14 settembre 1988 a Trapani dalla mafia. Antonino Saetta ucciso il 25 settembre 1988 a Canicattì dalla mafia. Rosario Angelo Livatino ucciso il 21 settembre 1990 ad Agrigento dalla mafia. Antonio Scopelliti ucciso il 9 agosto 1991 a Campo Calabro dalla ‘ndrangheta e dalla mafia. Giovanni Falcone e Francesca Morvillo uccisi a Capaci il 23 maggio del 1992 dalla mafia. Paolo Borsellino ucciso a Palermo il 19 luglio del 1992 dalla mafia. Luigi Daga vittima di un attentato al Cairo il 26 ottobre 1993 effettuato da un terrorista del Gruppo islamico. Il giudice morirà successivamente a Roma il 17 novembre. Paolo Adinolfi scomparso a Roma il 2 luglio 1994. Fernando Ciampi ucciso a Milano il 9 aprile 2015 da un imputato. Libri. "Non ho visto niente", di Angela Giordano. Edito da "Sensibili alle foglie" prefazione di Nicoletta Dosio notav.info, 18 aprile 2017 Angela racconta… se racconto si può chiamare la lucida, inesorabile denuncia del carcere, istituzione dell’arbitrio totale "casa dell’abuso dove tutto può avvenire, ma niente è mai successo". Quello dove Angela, prima di essere licenziata perché indisponibile a connivenze ed omertà, ha prestato per quattro anni il proprio impegno di educatrice, è il carcere delle Vallette di Torino. Le sue mura e le sue torri di reclusione te le trovi davanti quando, dalla Valle di Susa, arrivi alla periferia Nord; un non-luogo emblematico tra la discarica della Barricalla, la centrale Iren ed il mattatoio comunale: rifiuti e sangue, vite da usare e gettare. Qui un tempo c’erano campi e cascine, un paesaggio rurale di cui sopravvivono qua e là ruderi e scampoli di verde polveroso, assediato da capannoni e centri commerciali. Più oltre i falansteri delle case popolari, quelle costruite in fretta e furia negli anni del boom economico e riempite a forza dei novelli schiavi Fiat e poi degli sfrattati per liberare il centro storico e renderlo disponibile a banche, boutique e studi professionali. Dalle pagine di questa lunga testimonianza emerge una situazione che, nelle istituzioni carcerarie, non è eccezione, ma regola. Cancelli, camminamenti, perquisizioni, violenza anche nei modi di comunicare: "anche questo ho appreso: in carcere o si tace o si urla ed entrambe queste possibilità rimandano a significati che è bene imparare in fretta". E l’arbitrio quotidiano dei responsabili penitenziari e dei secondini, qualcuno dei quali può permettersi, impunito, di gridare ai detenuti " 10, 100, 1000 Cucchi!" oppure di proporre urlando, quale " regalo giusto per i detenuti" a Natale, "più corde e sgabelli per tutti". Anche se inaccettabile, tutto questo, per l’universo concentrazionario, diventa consuetudine, una normalità a cui si adeguano tutti, anche i dirigenti e i colleghi di Angela che la lasceranno sola, a combattere una giusta ma scomoda battaglia, perché "qui funziona così, prendere o lasciare". L’ingiustizia quotidiana che si respira in ogni angolo di quel mondo subdolo e violento non è mascherabile dalla foglia di fico dei "progetti innovativi" che il carcere sfodera: "fumo gettato negli occhi di un’opinione pubblica che così può mettere a tacere la propria coscienza". Se qualcosa di vivo e umano sopravvive in tanta impotente ineluttabilità sono loro, i reclusi, i loro gesti di solidarietà che, pur nella inevitabile rassegnazione, li salvano dal farsi pietra, insensibile strumento di repressione. Sono loro e solo loro, per affetto e dignità, a schierarsi dalla parte di Angela ed a chiederne il reintegro, quando vengono a sapere del suo licenziamento. Sì, perché Angela è stata licenziata - previo divieto di accesso al carcere - così, su due piedi, con la singolare imputazione di essere No Tav, come dimostrerebbero una maglietta da lei indossata, un saluto ad una presidiante No Tav all’uscita dal carcere, parole di solidarietà postate su Facebook. A questo proposito, davvero significativo è il carteggio-documentazione, un vero e proprio atto di accusa alla lotta No Tav, in perfetta sintonia con il clima di caccia alle streghe che si respira nelle aule della procura e del tribunale di Torino. Così si vive e si muore in questo mondo alla rovescia dove l’ingiustizia si fa legge, la lotta generosa per il bene comune diventa reato, la libertà di pensiero ed il senso di responsabilità verso il futuro sono puniti come crimine pericoloso. Ma - ce lo insegna in queste pagine la caparbia, responsabile dolcezza di Angela - non è il caso di arrendersi, ma di sapere e di agire: contro il potere ingiusto, la resistenza è non solo un diritto, ma più che mai un dovere. Come le catene della schiavitù e le camicie di forza dei manicomi, anche il carcere, luogo di repressione e di controllo sociale, non è ineluttabile; lo ricordano le voci solidali dei manifestanti davanti alle carceri : fuori i compagni dalle galere; dentro nessuno, solo macerie. Omicidi in diretta su internet per divertire il pubblico di Giordano Tedoldi Libero, 18 aprile 2017 Negli Usa un folle uccide un passante a caso e posta il video su Facebook In Argentina un ragazzo scaraventato giù dagli spalti, e gli altri riprendono. Viviamo in un’epoca non più feroce di quelle passate. Solo che questa, come diceva il compianto Giovanni Sartori, segna il passaggio da homo sapiens a homo videns. Homo videns vuole vedere tutto e, da quando la tecnologia l’ha reso possibile, anche fotografare e filmare tutto, e poi mandare in onda lo spettacolo sul suo canale personale - i vari social Facebook, Twitter, Instagram - dove immediatamente, dal numero delle reazioni e dei like, saprà se avrà avuto successo, se avrà soddisfatto il pubblico. Il suo tema preferito? La morte. E l’ultimo grado di questa involuzione è l’homo videns che, se non trova una morte in una strada, in una piazza, in uno stadio, da filmare, la fabbrica lui stesso. Così ha fatto il 37enne Steve Stephens di Cleveland, che ha postato su Facebook il video della sua caccia all’uomo, la domenica di Pasqua, alle due del pomeriggio. Il film comincia: Stephens gira in auto per una strada periferica della città, incontra un disgraziato di 74 anni, di colore come lui ma evidentemente l’epoca della solidarietà tra "fratelli" è un ricordo sepolto con gli anni Settanta - che si trascina con una busta in cui raccoglie lattine di alluminio. Il killer scende dall’auto, va incontro al vecchio, gli chiede di ripetere un nome che per quello non avrà significato nulla, Joy Lane. Il vecchio, incerto e confuso lo fa, e intuisce che qualcosa non va nell’insistenza con cui l’altro continua a chiedergli Qui sopra, le immagini postate su Facebook da Steve Stephens, 37enne di Cleveland, nello Stato americano dell’Ohio: Stephens ha ucciso un uomo a caso (il 74enne Robert Godwin, nella foto in mezzo). A destra, il momento in cui Emanuel Balbo, 22 anni, è stato buttato giù dalla balaustra dello stadio durante la partita Belgrano-Talleres, in Argentina di ripetere quel nome. Infine la vittima alza un braccio in un disperato tentativo di proteggersi - l’altro, il cameraman, avrà estratto la pistola - grida terrorizzato, e quell’altro, come da copione, gli spara. Finite le riprese, per Stephens arriva il momento davvero eccitante, al cui confronto l’assassinio sarà stata solo un noioso prequel: pubblicare su Facebook il video, dove è rimasto per tre ore prima che il social lo cancellasse. Mentre scriviamo l’assassino è ancora in libertà, e la madre si è premurata di fornire una "motivazione" al suo gesto: il figliolo "uccide perché è molto arrabbiato con la sua ex fidanzata", la Joy Lane di cui sopra. Una spiegazione in linea con la demenza imperante all’epoca di homo videns. Il forsennato, che tra l’altro lavora in una struttura di assistenza per giovani disagiati, ha usato Facebook anche per dichiarare che avrebbe già ucciso un’altra dozzina di sconosciuti, anche se la polizia conferma solo l’omicidio del vecchio raccoglitore di latte, che si chiamava Robert Godwin senior. E aggiunge che si fermerà solo se riceverà una telefonata da Joy Lane, o almeno dalla madre. Ripetiamo: a questo tipo era stato dato l’incarico di gestire i problemi dei giovani, con la qualifica rilevante di "case manager". Homo videns, comunque, può anche assumere una forma più passiva, meno inquietante di Stephens. Senza spingersi a procurarsi la vittima per il suo show, può essere l’occhio indifferente, cinico, insensibilizzato che col telefonino riprende un linciaggio. Come quello di cui è stato oggetto, nella serata di sabato, un ragazzo di 22 anni, Emanuel Balbo, tifoso del Belgrano, squadra della prima divisione argentina della città di Cordoba. Era allo stadio per la partita finita 1 a 1 col Talleres, e ha avuto la sfortuna, entrando, di riconoscere l’uomo che, in una corsa clandestina, investì e uccise suo fratello. L’uomo, che è in libertà perché il fatto venne considerato un incidente, accortosi di essere stato notato, avrebbe aizzato la tifoseria contro Balbo, dicendo che era un sostenitore del Talleres infiltrato negli spalti del Belgrano. La folla assassina ha cominciato a spintonare il nemico, che evidentemente terrorizzato e forse già non lucido di suo, sotto i colpi degli ultras, ha scavalcato un parapetto piombando per dieci metri. Ora è cerebralmente morto. Degli spintoni, della fuga, della caduta mortale abbiamo ovviamente il video, girato dagli altri spettatori, che al prezzo del biglietto di un incontro di calcio hanno assistito anche a questo succulento fuori programma. In questo caso, perlomeno, il video è stato utile a arrestare tre persone, che hanno costretto il poveretto a scaraventarsi di là dal parapetto. Ma certamente non è stato girato per senso di giustizia, ma solo perché l’istinto di homo videns l’aveva sentito, che c’era una morte in diretta. Un tempo si sacrificavano bambini alla divinità Moloch, oggi vari disgraziati sono dati in pasto al video e ai social. Senza nemmeno l’attenuante di una sia pur crudele, primitiva religione. Solo il piacere di un occhio sadico. Norbert Feher sarebbe stato visto anche in Veneto: la sera dell’11 aprile, ancora dalle parti di Chioggia. E poi: "Ho visto Igor", giura più di un testimone anche della Bassa Modenese. Tutto, finora, senza fondamento. Come il falso allarme, a Vergiano di Rimini, che tre giorni fa ha fatto scattare un inutile blitz. I corpi speciali, piuttosto, avrebbero elementi robusti per ritenerlo ancora nella zona dell’Oasi di Marmorta, tra Molinella e Campotto. Dove ha ammazzato. E qui si continuano a cercare, senza trascurare che il pluriassassino potrebbe avere l’appoggio di qualcuno. Ai raggi X tutte le sue conoscenza, anche femminili. Mentre gli abitanti si dividono fra chi assicura: "Se lo incontro gli offro un piatto di minestra, da bere e gli consegno quello che vuole. Non voglio rischiare di morire"; e chi invece non ne può più: "Questa sarebbe la zona che ha scelto per nascondersi? Spero che si sposti. Ogni volta in cui prendo la macchina per uscire di casa, mi fermano. E perquisiscono". Come si può finanziare il reddito di inclusione di Roberto Sommella Corriere della Sera, 18 aprile 2017 I soldi, in un bilancio pubblico di circa 700 miliardi di euro, si possono trovare. Perché non ripartire allora dal rapporto di Francesco Giavazzi sugli incentivi alle imprese? Considerato che in Italia sono nati meno figli che nel terribile anno dopo la prima guerra mondiale e che aumentano sempre più i giovani che vanno all’estero, c’è da chiedersi cosa offrire a chi resta. Quasi tutti gli economisti concordano ormai che l’economia digitale non stia creando nuovi posti stabili, tutt’altro. Robert Solow, già trent’anni fa sosteneva come "l’età dei computer si può scorgere ovunque tranne che nella crescita della produttività". Un caso emblematico oggi gli dà ancora ragione: la globalizzazione internettiana, l’utilizzo delle piattaforme di servizi di vario genere scuote i vecchi lavori e rende già precari quelli nuovi e a poco servirebbe una tassa sui robot. Questo genere di rivoluzioni o si vietano del tutto o è inutile se non impossibile fermarle, che si tratti di una macchina a vapore, di un calcolatore o di un’applicazione. Dove non arriva il mercato, l’emergenza andrebbe quindi affrontata dallo stato. L’approvazione delle legge delega sulla povertà, che dovrebbe permettere un sostegno economico a 1,8 milioni di italiani in difficoltà, riporta in auge la fattibilità o meno del reddito di cittadinanza, quel riconoscimento che, declinato con modi e nomi diversi, numerose società stanno cercando di sperimentare e che lo stesso governo Gentiloni vorrebbe varare in chiave "inclusiva" e non meramente di sussidio. Il problema è peraltro planetario. Lo staff di Thomas Piketty ha recentemente lanciato l’idea di un assegno mondiale per chi è rimasto sotto i livelli minimi di povertà. Costerebbe 400 miliardi di euro. Una somma immensa per qualsiasi Tesoro. Esperimenti pilota non di questo taglio sono in corso in India, in Finlandia, mentre in Cina c’è un sostegno alla povertà rurale e urbana, il Dibao. In Europa, invece, nessuno ci ha ancora pensato, nel momento in cui la Commissione guidata da Mario Monti si accinge a rivedere i criteri di Bilancio Ue. Eppure decidere di destinare una quota dei 1.000 miliardi complessivi ad una forma di integrazione al reddito per i disoccupati forse fa tremare le vene, ma sarebbe un magnifico programma per chi vuole dimostrare coi fatti che a Bruxelles e Francoforte non si pensa solo alle banche. In questo quadro continentale desolante, almeno in Italia, da Matteo Renzi (lavoro di cittadinanza) al Movimento 5 Stelle (reddito di cittadinanza) per finire appunto all’esecutivo in carica (reddito di inclusione) si confrontano idee alternative per cercare delle risposte alla dittatura del capitale senza lavoro. Il movimento grillino ha il merito di averne parlato per primo, redigendo una proposta di legge per un reddito integrato di 9.630 euro annui lordi, che è rimasta ferma in Parlamento. Rivedendo le coperture individuate dal M5S (tagli alle pensioni alte, alla spesa pubblica e tassazione del gioco d’azzardo, per citarne solo alcune) l’allora viceministro all’Economia Stefano Fassina stimò i costi in almeno 30 miliardi di euro l’anno. Qualcosa però si può fare. I soldi, in un bilancio pubblico di circa 700 miliardi di euro, si possono trovare. Perché non ripartire allora dal rapporto di Francesco Giavazzi sugli incentivi alle imprese? Il piano dell’economista fu redatto su incarico del governo Monti ed aveva come obiettivo quello di fare un censimento dei tanti incentivi pubblici alle aziende, individuando quelli che non fossero stati necessari. Giavazzi indicò in 10 miliardi di euro i sostegni statali che sarebbero potuti essere cancellati senza il minimo danno, anzi generando una crescita nel biennio di un punto e mezzo di Pil. Il piano di Giavazzi era di ridurre per un pari importo la pressione fiscale sulle imprese, visto che gli stessi imprenditori nella sua ricerca si erano detti per il 74% favorevoli a perdere incentivi agli investimenti, perché comunque li avrebbero fatti lo stesso anche senza aiuti. Quel documento restò nel cassetto, anche se il Presidente di Confindustria non si disse sfavorevole. Stabilito che non ci sono scorciatoie per la crescita ma che esiste pur tuttavia un grande problema sociale con sei milioni di famiglie sotto la soglia di povertà, il governo Gentiloni, alla ricerca di fondi per la riedizione della social card e il reddito di inclusione, dopo aver individuato con precisione gli aventi diritto, potrebbe riprendere in mano quel dossier nella prossima manovra, destinando eventuali risparmi direttamente a quegli italiani che sono senza lavoro e non godrebbero di eventuali riduzioni fiscali. L’emergenza migranti e una (buona) legge da far funzionare di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 18 aprile 2017 Quanto sta accadendo in queste ore dimostra che, al di là delle buone intenzioni, il governo libico non è in grado di rispettare l’accordo siglato con quello italiano. Oltre 5.000 migranti sono giunti in Italia nelle ultime 48 ore, altre migliaia sono sulle coste africane pronti a mettersi in viaggio. Questa settimana ci sono stati centinaia di morti nel Mediterraneo, vittime di trafficanti senza scrupoli che continuano ad utilizzare mezzi di fortuna pur di imbarcare il maggior numero di persone. Qualche giorno fa il Parlamento ha approvato in via definitiva le nuove norme per gestire l’accoglienza degli stranieri, accelerare le procedure per i richiedenti asilo, rimpatriare chi non ha diritto di rimanere nel nostro Paese. Ci sono ancora delle criticità, ma complessivamente si tratta di una buona legge perché dimostra la volontà di affrontare l’emergenza legata ai flussi migratori in maniera organica. Adesso però c’è il problema di farla funzionare. Quanto sta accadendo in queste ore dimostra che, al di là delle buone intenzioni, il governo libico non è in grado di rispettare l’accordo siglato con quello italiano. Appare evidente che il premier Fayez al-Sarraj non ha il controllo del territorio e dunque la capacità di fermare gli scafisti. A ciò si aggiunge la minaccia che arriva dalla Turchia. Il ministro degli Esteri Mevlut Cavusoglu, è stato fin troppo esplicito: "Ankara potrebbe rivedere o sospendere tutte le intese previste dall’accordo sui migranti con l’Unione europea, se il blocco comunitario non darà una risposta positiva alla liberalizzazione dei visti per i cittadini turchi". Dunque l’altra rotta, quella balcanica, potrebbe riaprirsi facendo arrivare in Europa decine di migliaia di profughi. L’Italia rischia di rimanere schiacciata tra i due fronti, meta di un’invasione certamente complicata da gestire. Ecco perché è necessario che le misure per fronteggiare una simile eventualità vengano pianificate con urgenza dal ministero dell’Interno in modo da evitare che i Centri attualmente in funzione arrivino al collasso; è indispensabile che Regioni e Comuni mettano subito a disposizione le strutture per l’accoglienza e quelle per chi deve essere espulso. Bisogna evitare di trovarsi ancora una volta incapaci di governare una situazione ben evidente che dunque può e deve essere affrontata senza ritardi o esitazioni. Consapevoli che né l’Unione europea né altri Stati - nonostante le rassicurazioni ufficiali - sono disponibili a collaborare. A Tripoli, nella prigione dei migranti: "lasciateci salpare per l’Italia" di Francesco Semprini La Stampa, 18 aprile 2017 Il sindaco di Sebha: con Minniti costruiamo il nuovo esercito di confine. Sono circa le undici, e dal minareto i versi del corano scivolano nel cortile del centro migranti di Bou Slim, periferia popolare di Tripoli, cadenzati dal rumore gracchiante delle cancellate ai varchi degli hangar, i dormitori dove disperati all’inseguimento di una vita meno dannata vengono rinchiusi in attesa di rimpatrio. Quell’intreccio di rumori tra sacro e profano segna il momento della preghiera e dell’ora d’aria prima del pranzo. Chi si trova a Bou Slim proviene da Mali, Niger, Nigeria, Costa d’Avorio, Burkina Faso, Gambia, Guinea, Senegal, ma anche da Sudan e Chad, e in misura minore dal Corno d’Africa. Sono stati fermati nelle acque territoriali al momento dell’imbarco, durante le traversate desertiche, oppure sono stati venduti dai loro stessi aguzzini. Nel centro lavorano circa 60 persone, mentre la struttura, una delle poche create nel 2013 con questa specifica finalità d’uso, può ospitare sino a 150 migranti, anche se al momento al suo interno si trovano meno di una cinquantina di persone. Sono per lo più uomini, ma ci sono anche donne e una decina di bambini che vivono assieme alle loro mamme. C’è un ambulatorio dove operano i dottori dell’International Medical Doctors, e una cucina attrezzata. I dormitori sono hangar - le foto sono vietate - dove vengono sistemati a terra materassi e coperte. Aver avuto accesso alla struttura, grazie all’aiuto di "Agenfor International", Ong attiva in campo umanitario, ci induce a pensare che si tratti di uno dei centri di "punta" in territorio libico. Altrove le cose sono peggiori. Ad accoglierci è il sovrintendente della struttura, Farah Gherushi: "Una volta arrivati i migranti vengono schedati in base alla nazionalità, divisi tra uomini, donne e bambini, quindi sottoposti a controlli medici e in caso di condizioni precarie si danno loro cure e nutrizione. Si inizia a cooperare con lo Iom per il rimpatrio". Il tempo di permanenza è dai due ai tre mesi, ma a rendere i rimpatri più complicati è spesso la mancanza di rappresentanze diplomatiche dei Paesi di provenienza in territorio libico. "Abbiamo bisogno di aiuti, - afferma Gherushi - spesso riceviamo gli stipendi dopo due o tre mesi, e anche il centro avrebbe bisogno di manutenzione e di un’ambulanza nuova". Conosciamo Ali, 24 enne nigeriano che assieme al fratello Mokhtar ha lasciato la Nigeria. "Facevo diversi lavori ma c’è molta povertà, mia mamma è morta e io volevo andare in Italia o in Europa per garantire un futuro migliore al resto della famiglia". In Nigeria poi c’è la guerra e Boko Haram, tanto che il viaggio di Ali e Mokhtar è quello di altre migliaia di persone, prima verso Agades in Niger, l’hub della migrazione clandestina, poi sino a Tripoli, attraversando montagne e deserti per 600 dinari, circa 500 euro al cambio ufficiale. Altri mille servono per imbarcarsi alla volta dell’Italia, da Garabouli ad est della capitale. Ancora prima di mettere piede sul gommone Ali e gli altri compagni vengono fermati dalle milizie locali, arrestati e portati a Bou Slim. Ci riproveresti? "Assolutamente no". Cosa chiedi? "Chiedo che ci sia dato aiuto a vivere una vita migliore nel nostro Paese". A raccontarci l’altro volto della lotta al traffico di esseri umani è il sindaco di Sebha, Hamed Al-Khayali, reduce dal recente round di incontri col ministro degli Interni Marco Minniti. "Il progetto che stiamo portando avanti con l’Italia - dice - riguarda lo sviluppo e la crescita del sud della Libia nel quadro della lotta all’immigrazione clandestina". Il primo punto è la messa in sicurezza dei confini attraverso mezzi tecnologici, poi ci sono le destinazioni sociali, sviluppo di università locali attraverso coordinamento con atenei europei, dell’insegnamento locale. E ancora supporto all’occupazione e alla condizione giovanile, appoggio ai comuni su infrastrutture ed energia elettrica. Quindi il sostegno alla guardia di confine e ai gruppi dediti alla sicurezza, al fine di assicurare l’ordine pubblico. Poi c’è l’idea di dar corso alla formazione di unità militari professionali opportunamente selezionate e addestrate al fine di creare un esercito legato al governo legittimo della Libia, ma specializzato in operazioni nel sud del Paese. "L’Italia si è impegnata a contribuire con una prima tranche di aiuti per la stabilizzazione del sud della Libia, per cui l’accordo di pace fra le diverse tribù ed etnie è stato propedeutico - spiega Al-Khayali. Il coordinamento tra i vari comuni, in prima fase, sarà per capitoli, sino ad arrivare a trattare il Sud come entità unica". Stati Uniti. Pena di morte, la corte d’appello dell’Arkansas autorizza il farmaco per le iniezioni letali La Stampa, 18 aprile 2017 Una corte d’appello federale ha ribaltato l’ordine di un giudice dell’Arkansas che sospendeva l’utilizzo del midazolam, uno dei farmaci usati per le iniezioni letali nelle esecuzioni della pena capitale, a causa della sua sospetta fornitura illecita. L’Arkansas ha programmato otto esecuzione entro la fine di aprile, quando il farmaco scade. Nel frattempo la corte suprema dell’Arkansas ha bloccato le esecuzioni di due condannati a morte in attesa di esaminare i ricorsi della difesa: in un caso perché il detenuto non sarebbe stato esaminato da psichiatri indipendenti, nell’altro perché il prigioniero è ritenuto troppo mentalmente malato per essere soppresso. L’attorney general dell’Arkansas ha annunciato che farà appello contro la decisione della Corte suprema Turchia. Referendum, Erdogan vince di misura. L’opposizione denuncia brogli di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 18 aprile 2017 I "Sì" al 51,2%. Affluenza record all’86 per cento. L’opposizione denuncia irregolarità. Il "No" prevale a Istanbul, Ankara e Smirne. Erdogan: "Alleati rispettino il voto" e propone la reintroduzione della pena di morte. Austria: "Stop ad adesione". E vittoria è stata. Dopo aver percorso in lungo e largo la Turchia, Recep Tayyip Erdogan ha raggiunto il suo scopo: vincere il referendum costituzionale che porterà il Paese al presidenzialismo. Una vittoria che lascia l’amaro in bocca. I "Sì" al 51,2% e i "No" al 48,7%. Un vantaggio di circa un milione e mezzo di voti che rappresenta una semi sconfitta secondo le prime analisi del voto. L’Akp perde voti nelle principali città. A Istanbul il "No" ha prevalso con il 50,96 mentre alle ultime elezioni nel 2015 Erdogan aveva ottenuto il 57%. Ad Ankara vince di misura il "No" mentre a Smirne, come era previsto, oltre il 68% ha detto "Hayir". Per Ertugrul Ozkok, editorialista di Hurriyet: "Questa è una non vittoria per il governo perché mostra un’erosione di voti all’interno del suo stesso elettorato. Significa che molti elettori conservatori nel segreto dell’urna hanno voltato le spalle al leader. La campagna elettorale non è stata condotta ad armi pari, eppure il vantaggio è minimo". Erdogan: "Adesso ridiscutiamo la pena di morte" - Il tono dimesso di Recep Tayyip Erdogan sembra confermare la mezza vittoria. Il presidente ha parlato a Istanbul di "risultati non ufficiali" e di una vittoria per "un milione e trecentomila voti", il suo è stato un appello all’unità della nazione "a chi ha votato sì ma anche a chi ha votato no" e ha invitato il mondo a rispettare il risultato elettorale. Poi, incalzato dalle domande dei giornalisti, si è congedato dicendo: "La gente mi aspetta fuori, non voglio farli aspettare". E proprio all’esterno, però, davanti ai suoi sostenitori ha promesso un referendum sulla reintroduzione della pena di morte: "Lo discuteremo presto con gli altri leader politici", ha specificato. Questa eventuale legge (nel caso passasse) sarebbe incompatibile con la candidatura del Paese per l’entrata nell’Unione. Le relazioni con l’Europa - Il risultato cambierà anche le relazioni con l’Europa che già erano diventate burrascose durante la campagna elettorale. Parole grosse sono volate tra l’Olanda e la Turchia. Con Erdogan che ha senza mezzi termini accusato Berlino e l’Aja di "pratiche naziste". La Ue, però, è legata a doppio filo ad Ankara dall’accordo sui migranti che permette di ridurre il flusso di siriani e iracheni sulle nostre coste. Negli ultimi giorni l’Akp ha minacciato di rompere l’accordo se ai cittadini turchi non sarà garantita l’entrata nell’Unione senza il visto come era stato promesso. Ancora più duro il ministro degli Esteri austriaco, Sebastian Kurz che ha chiesto di interrompere le trattative per l’ingresso di Ankara nella Ue. "La Turchia non può essere un membro", ha detto Kurz all’agenzia Apa. Bisogna porre fine alla "finzione" dell’adesione, ha aggiunto, sollecitando piuttosto un accordo di vicinato. La nota di Berlino - "Il governo tedesco prende atto del risultato provvisorio" del referendum sul presidenzialismo in Turchia, hanno scritto la cancelliera Angela Merkel e il ministro degli Esteri tedesco Sigmar Gabriel in una nota congiunta. Secondo Berlino "non bisogna anticipare la valutazione finale degli osservatori dell’Osce attesa per oggi, alla quale "il governo tedesco attribuisce una particolare importanza", prosegue il comunicato. Già la scorsa settimana il direttore dell’Ufficio Osce per le istituzioni democratiche e i diritti dell’uomo, Michael Link, aveva espresso dubbi sulla garanzia di condizioni eque per lo svolgimento del voto, continua la nota. Merkel e Gabriel ricordano che la Commissione di Venezia del Consiglio d’Europa ha manifestato grossi dubbi sulle procedure e i contenuti della riforma presidenziale. In quanto membro del Consiglio d’Europa, dell’Osce e candidato Ue, "il governo turco deve tener conto di questi dubbi". Su questo occorrono quanto prima dei colloqui politici, sia a livello bilaterale che tra le istituzioni europee e la Turchia, conclude la nota. Protesta a Istanbul a suon di pentole - Intanto dopo l’annuncio del risultato, alcuni residenti in diversi quartieri di Istanbul hanno iniziato a sbattere alla finestra pentole e coperchi facendo rumore: una già usata forma di protesta cittadina, mutuata dalla tradizione argentina. È successo in almeno quattro distretti, come testimoniano video e immagini pubblicati sui social media. Le tre maggiori città turche, tra cui Istanbul, hanno votato "no". Le prime reazioni di chi ha votato "no" sono state di rabbia. Siamo a Cihangir, un quartiere di Istanbul a maggioranza laica. Gumus, 26 anni, impiegato, con un perfetto accendo inglese ci spiega che lui e la famiglia lasceranno il Paese: "La Turchia è diventata una monarchia, qui sarà peggio che vivere in Siria quindi io la mia famiglia la porterò via". La moglie Nida fa cenno di approvare. Ancora più sconsolato appare il figlio Ugurbey, 18 anni, che ha votato per la prima volta: "Ero certo che i "no" avrebbero vinto". Plaudono, invece, al risultato, tutti quelli che considerano Erdogan il salvatore della patria. I festeggiamenti - Gli elettori dell’Akp sono scesi subito in piazza. A Istanbul si sono radunati davanti alla residenza di Erdogan nel quartiere Uskudar, dove però hanno vinto i "no", ad Ankara, sotto una pioggia fitta, erano in tanti ad aspettare il loro leader davanti al quartier generale del partito. Il premier Binali Yildirim è arrivato tra gli applausi con una vistosa sciarpa bianca e rossa intorno al collo: "Siamo fratelli, siamo una nazione, grazie al nostro popolo. Voglio ringraziarvi. Grazie per i voti all’estero, grazie all’Mhp, al Bbp, grazie ad Erdogan. Questi risultati sono la nostra corona. Non ci sono perdenti, solo un vincitore: la Turchia. Ora guardiamo avanti e sconfiggiamo il terrorismo". In diverse città le automobili hanno suonato il clacson in segno di vittoria e mostrato le bandiere con su scritto "Evet" ("sì" in turco). Sulla tv filogovernativa Haber vengono riprese famiglie che da casa fanno il segno delle quattro dita che simboleggia la lotta contro i golpisti ma anche "un Paese, una lingua, una bandiera e un popolo". L’affluenza - Il voto ha veramente appassionato i cittadini che si sono recati in gran massa alle urne: ha votato l’86% dei 55 milioni di turchi che avevano diritto al voto. La campagna elettorale è andata avanti fino a tarda sera ieri con accese discussioni anche per le strade. Su cosa si votava - I 18 articoli di modifica alla Costituzione varata dai militari dopo il golpe del 1980 daranno a Erdogan il potere di governare per decreto: il presidente assumerà i compiti del primo ministro, nominerà il governo, gli alti comandi militari, i rettori delle università, il capo del servizio di sicurezza, alcuni alti funzionari e magistrati, i giudici della Corte Costituzionale. Non ci sarà più una vera divisione tra il potere esecutivo, legislativo e giudiziario. Il Parlamento avrà un ruolo secondario e non potrà più votare mozioni di sfiducia. Erdogan potrebbe correre per altri due mandati di 5 anni, l’uno a partire dal 2019, il che gli darà la possibilità di rimanere al comando fino al 2029. La contestazione - E subito scoppiano le prime polemiche. La decisione dell’ultimo minuto della commissione elettorale di accettare schede non stampigliate come voti validi ha scatenato la reazione del vicepresidente del Chp, il partito secolare all’opposizione, Bulent Tezcan: "Così si ammette la frode elettorale", ha detto annunciando ricorso. Ma la commissione sostiene che "i voti sono da considerare validi a meno che non si possa provare la contraffazione delle schede". Per tutto il giorno sui social media si sono susseguite denunce per possibili brogli. Gli internauti hanno postato foto di militari che costringevano la gente a votare "sì" o video di schede con il "sì" già barrato. All’indomani del voto il capo della commissione elettorale ha ribadito che le schede sono valide. Gli osservatori - Gli osservatori dell’Osce stanno controllando la validità del voto. Tana De Zulueta, a capo della missione, ha detto di aver visitato 12 seggi elettorali domenica per completare l’analisi del voto. Il presidente Erdogan aveva criticato gli osservatori venerdì scorso: "Chi siete voi? Che volete? Non immischiatevi". Lunedì il gruppo terrà una conferenza stampa sull’elezione. Il voto dei detenuti - Nelle prigioni si è andati in controtendenza e i detenuti hanno votato in maggioranza "No". Avevano diritto al voto 89mila persone e i "sì" sono stati il 19,61% con i "no" all’80%. A mettere la scheda nell’urna anche i 47mila cittadini arrestati dopo il golpe del 15 luglio. Israele. Politiche illegali e crudeli contro i prigionieri palestinesi di Riccardo Noury Corriere della Sera, 18 aprile 2017 Da ieri, Giornata del prigioniero palestinese, oltre 1.000 prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane hanno intrapreso uno sciopero della fame. Chiedono la fine delle limitazioni alle visite e ai contatti con i familiari, un migliore accesso alle cure mediche, l’aumento della durata delle visite da 45 a 90 minuti; la rimozione della lastra di vetro per le detenute madri in modo che durante le visite possano prendere in braccio i loro figli, la fine delle restrizioni all’ingresso di libri, vestiti, cibo e regali da parte delle famiglie, il ripristino di alcune attività educative e l’installazione di più telefoni. Trattenere nelle prigioni israeliane palestinesi arrestati nei Territori occupati e a Gaza, ha ricordato Amnesty International, costituisce una violazione della Quarta Convenzione di Ginevra che prevede che la detenzione di persone dei territori occupati debba svolgersi nel territorio occupato e non in quello della potenza occupante. Si tratta di una politica crudele, oltre che illegale, nei confronti sia dei detenuti che delle loro famiglie, che spesso non possono incontrarsi per mesi e in alcuni casi per anni. Secondo l’organizzazione non governativa "Associazione dei prigionieri palestinesi", 6.500 prigionieri palestinesi sono attualmente detenuti in 17 prigioni e centri di detenzione gestiti dalle autorità israeliane. Tra i 6.500 detenuti, le donne sono 57. I minori di 18 anni sono 300, tra cui 13 ragazze. Della popolazione carceraria fanno parte anche 13 componenti del Consiglio legislativo palestinese. Almeno 500 palestinesi si trovano in detenzione amministrativa senza accusa né processo, una prassi contraria al diritto internazionale. Secondo Hasan Abed Rebbo, portavoce della Commissione che si occupa dei prigionieri palestinesi, almeno 1000 di loro non possono ricevere visite dei familiari per "motivi di sicurezza". Da 15 a 20 sarebbe il numero dei prigionieri tenuti in isolamento, ossia senza poter incontrare neanche altri detenuti. I regolamenti del Servizio israeliano delle prigioni prevedono che tutti i prigionieri possano ricevere visite familiari ogni due settimane. In realtà, poiché le famiglie dei Territori occupati devono chiedere il permesso alle autorità israeliane per entrare in Israele e questo può essere negato, le visite sono assai meno frequenti. Inoltre, possono essere annullate per motivi di sicurezza. Per raggiungere i detenuti, le famiglie impiegano dalle otto alle 15 ore a seconda di dove sia la prigione e del luogo dei Territori occupati in cui risiedono. Prima della visita, sono sottoposte a estenuanti perquisizioni corporali che possono comprendere anche l’obbligo di denudarsi. Il trattamento riservato ai detenuti di Gaza, attualmente 365, è più duro. Le famiglie della Striscia di Gaza possono effettuare visite solo ogni due mesi. Israele. Oltre mille palestinesi detenuti iniziano lo sciopero della fame La Repubblica, 18 aprile 2017 Hanno risposto ad un appello lanciato da Marwan Barghouthi, leader della seconda intifada condannato a vita: "Sottoposti a trattamenti degradanti e inumani". Il ministro della Sicurezza interna annuncia sanzioni per chi partecipa alla protesta. Oltre mille detenuti palestinesi hanno iniziato stamattina uno sciopero della fame nelle carceri israeliane. "Circa 1.300 detenuti palestinesi hanno iniziato uno sciopero della fame e questo numero potrebbe aumentare nelle prossime ore", ha detto un funzionario palestinese spiegando che i detenuti hanno risposto ad un appello lanciato da Marwan Barghouthi, leader della seconda intifada condannato all’ergastolo con accuse di omicidio e richiuso dal 2002 in una prigione di massima sicurezza. La protesta è stata indetta per denunciare le condizioni di detenzione, ha spiegato Sarahneh Amani, portavoce del Club des prisonniers palestiniens, l’ong che nei Territori occupati si occupa dei detenuti. Secondo il Club, "l’amministrazione penitenziaria ha confiscato tutti i beni che erano nelle celle dei detenuti che hanno aderito alla protesta e ha iniziato a trasferirli in altre prigioni". Questo sciopero della fame a tempo indeterminato viene lanciato durante la celebrazione della "Giornata dei prigionieri", celebrata ogni anno dai palestinesi da oltre 40 anni. Anche ieri in molte città della Palestina migliaia di persone sono scese in piazza con cartelli che riproducevano foto dei parenti detenuti. Più di 6.500 palestinesi, tra cui 62 donne e 300 minori (ragazzi e ragazze) sono rinchiusi attualmente nelle carceri di Israele. Circa 500 di loro sono sotto il sistema extragiudiziale di detenzione, che consente la detenzione senza processo o incriminazione. Anche 13 deputati palestinesi di diversi partiti sono imprigionati. Marwan Barghouthi, rivale del presidente palestinese Mahmoud Abbas in seno ad al-Fatah, in un articolo inviato al New York Times dalla sua prigione di Hadarim nel nord di Israele, ha denunciato il "sistema giudiziario a due livelli" istituito da Tel Aviv, una sorta di "apartheid giudiziaria, che garantisce l’impunità per gli israeliani che hanno commesso crimini contro i palestinesi e criminalizza la presenza e la resistenza palestinese". Barghouthi scrive che "i prigionieri palestinesi stanno soffrendo torture, trattamenti degradanti e inumani e negligenza medica, alcuni sono stati uccisi in custodia". Il portavoce del servizio penitenziario israeliano, Assaf Librati, si è limitato a confermare, precisando che i detenuti che ieri hanno annunciato l’intenzione di partecipare allo sciopero sono 700. "Stiamo verificando il numero di prigionieri che sta davvero scioperando. Daremo un aggiornamento in seguito" ha aggiunto. Il ministro israeliano per la sicurezza interna, Ghilad Erdan, ha invece anticipato che serie misure disciplinari saranno adottate verso chi sciopera. Pakistan. Asia Bibi, appello a Papa Francesco: prega per me Avvenire, 18 aprile 2017 Da 8 anni in carcere, condannata a morte per blasfemia, la donna pakistana ha celebrato la festa della Resurrezione in cella con il marito. Asia Bibi, la donna cristiana pakistana accusata di blasfemia e condannata a morte, ha trascorso anche questa Pasqua nel carcere di Multan. Al suo tutore Joseph Nadeem ha affidato una preghiera accorata in cui risuona forte un appello a Papa Francesco. La notizia viene riportata dalla Radio Vaticana. "Ti prego Gesù di donarmi la libertà, spezza le mie catene, fà che il mio cuore possa librarsi al di là di queste sbarre". È un passaggio della preghiera scritta da Asia Bibi, dal carcere di Multan dove è rinchiusa da otto anni per l’accusa di blasfemia. Nella sua cella, giovedì scorso, ha celebrato la Pasqua in compagnia di suo marito Ashiq e del tutore della sua famiglia, Joseph Nadeem: una cena frugale, lo scambio di auguri e poi Asia ha voluto scrivere la sua supplica a Dio su un pezzo di carta dove invoca la resurrezione e chiede al Padre di rimuovere gli ostacoli, alleviando le sue sofferenze indicibili. Poi prega di nuovo, come aveva fatto già a Natale, per i suoi nemici e perdona coloro che le hanno fatto del male. Infine rivolge un appello al Papa chiedendogli di non dimenticarsi di pregare per lei. Paul Bhatti, ex ministro federale pakistano per l’Armonia Nazionale e fratello del ministro cattolico Shahbaz Bhatti ucciso nel 2011 da un estremista islamico, dice: "Questo, il Papa lo fa sempre, non solo per Asia Bibi ma per tutti i cristiani, anche per i musulmani che sono vittime di ingiustizia. Perché Papa Francesco più volte ha detto che la nostra fede onora la dignità dell’uomo. Quando un uomo soffre, per noi non conta che sia cristiano o musulmano; quello che conta è la giustizia per quell’uomo e la sua libertà. Per questo io credo che il Vaticano e il Santo Padre abbiano fatto il possibile: è sempre stato aperto al dialogo, lo ha promosso e appoggia anche noi, in tutti i sensi; e poi il Papa appoggia quelle persone, in maniera particolare i cristiani, che sono perseguitati per la loro fede". 2.860 giorni in cella, alcuni in isolamento in attesa del giudizio finale della Corte Suprema pachistana che tra rinvii e dimissioni dei giudici sembra non arrivare più mentre la fondazione che cura il caso di Asia sta finendo i soldi per le spese legali. "Nessuno purtroppo può interferire finché la Corte non lo decide - dice ancora Paul Bhatti -, anche se noi siamo convinti che prima o poi la decisione sarà favorevole. Purtroppo è ancora in carcere e soffre ancora persino in questa Santa Pasqua. Questo caso si è complicato per vari motivi, nazionali, internazionali e di conseguenza lei non ha trovato giustizia. Ma noi siamo convinti che prima o poi la troverà". Ancora omicidi nel nome della blasfemia - Intanto in Pakistan si allunga la lista delle esecuzioni extragiudiziali motivate da presunta blasfemia: 66 negli ultimi 27 anni. L’ultimo sconcertante episodio è avvento all’Università di Mardan dove, nei giorni scorsi, Mashal Khan, studente musulmano di giornalismo, è stato torturato e ucciso a colpi d’arma da fuoco da compagni che lo accusavano di aver offeso Maometto. Il governo del premier Nawaz Sharif, ha promesso una revisione della legge, tirata in ballo per risolvere le controversie private o per colpire le minoranze religiose ma nel frattempo continua a lanciare segnali contrastanti, ordinando di rimuovere i contenuti "blasfemi" su siti web e social media e di punire duramente chi pubblica tale materiale, siano aziende o privati. "Purtroppo in Pakistan - spiega ancora Bhatti alla Radio Vaticana -esiste ancora quella mentalità estrema, di chiusura e violazioni dei diritti umani. Questa restrizione sui media, su Youtube, su Internet, non è altro che un modo per portare il Pakistan indietro, da molti anni. La gente però capisce questo. Alcune cose si dicono, poi si fanno ma il governo attualmente sta affrontando una serie di problemi di stabilità, di continuità perciò ci sono alcune cose che non si riescono a capire. Ma questo è dovuto all’instabilità del potere". "Non è lontano il tempo in cui il Pakistan sarà riconosciuto come un Paese amico delle minoranze" ha detto Sharif, ribadendo che i credenti di tutte le religioni, dovrebbero avere pari diritti, e che il suo primo obiettivo è salvaguardare l’unità nazionale, ma intanto la legge sulla blasfemia continua a mietere vittime. L’augurio di Paul Bhatti: "Io faccio tantissimi auguri ad Asia Bibi e a tutti quelli che sono stati perseguitati per la stessa situazione. Noi tutti crediamo che la nostra fede cattolica, cristiana considera che sia che siamo in Pakistan, in Africa o in qualunque altra parte, siamo una famiglia. E una famiglia, chiaramente, prima di tutto, si unisce in particolare in questo momento della nostra attesa di Pasqua. Inoltre lancia questo messaggio di pace perché il nostro obiettivo è che tutti quelli che sono nel mondo possano vivere in pace senza avere timore di un’altra religione, di un’altra persona e possono professare. Per noi non è importante che qualcuno sia cristiano o cattolico, è importante che sia libero di professare che non danneggi gli altri, che non minacci gli altri.