Una marcia per l’amnistia, il diritto, la giustizia di Valter Vecellio articolo21.org, 16 aprile 2017 Forse è don Luigi Ciotti, l’infaticabile animatore del Gruppo Abele, che ha saputo cogliere con maggiore intensità e "semplicità" il senso della Quinta Marcia per l’Amnistia, la Giustizia, il Diritto, indetta dal Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito e da "Nessuno tocchi Caino". Una Marcia che ancora una volta parte da uno dei luoghi simbolo della sofferenza umana, il carcere romano di Regina Coeli, per poi "sfociare" e confondersi tra quanti il giorno di Pasqua, vanno ad ascoltare la parola di papa Francesco. Una "resurrezione" laica che si mescola con quella dei "credenti", come è già accaduto altre volte: che per tutti, vale il Discorso del Nazareno sulla Montagna, e quel "Non fare ad altri quello che non vorresti fosse fatto a te", che riassume tutti i codici, canonici o laici che siano. Don Ciotti, si diceva: "Cari amici", scrive agli organizzatori della Marcia, "è importante tenere alta l’attenzione - e in questo voi siete da sempre un punto di riferimento - su problemi come quelli del carcere e più in generale della giustizia. Problemi che, se trascurati o strumentalizzati, possono distruggere la base stessa di una convivenza basata sui diritti e sulla dignità, nella quale ci riconosciamo diversi come persone e uguali come cittadini. Come è importante farlo con il metodo e lo " Stile" che vi contraddistinguono: partendo dalla vita e dalla storia delle persone, dai loro bisogni e dalle loro speranze, in quella relazione stretta che è premessa di una giustizia più giusta e di una democrazia più vera. Grazie ancora il vostro impegno, continuiamo a camminare insieme". Si diceva dei "luoghi": Regina Coeli, carcere per eccellenza di Roma: luogo di sofferenza per tanti che sofferenze hanno procurato, e di troppo poco recupero: uno dei tanti penitenziari italiani dove non ha alcun senso l’articolo 27 della Costituzione, che giova recuperare alla nostra memoria: "La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte". Si concluderà, la marcia, a piazza San Pietro: luogo simbolo del cattolicesimo, ma anche "luogo" di quella "spes contra spem" che vuole essere speranza e non si limita ad attenderla. È quel papa mezzo francescano mezzo gesuita, venuto da "quasi la fine del mondo" che sono arrivati gesti concreti da cui ancora la classe politica italiana non sa (e soprattutto non vuole) recepire, pur proclamandosi a ogni piè sospinto credente e "obbediente" al magistero che viene dal Vaticano. I primi provvedimenti adottati da papa Francesco sono stati introdurre nella legislazione del Vaticano il reato di tortura; abolire la pena di morte e l’ergastolo. I nostri politici, e i parlamentari in particolare, anche quelli più pii e devoti, da questo orecchio non ci sentono: da decenni si attende una legge che punisca la tortura; quanto all’ergastolo e alle altre battaglie di civiltà giuridica, lo spettacolo offerto è sotto gli occhi di tutti. I promotori della Marcia si ritrovano pienamente nelle parole di Francesco quando definisce l’ergastolo "una pena di morte nascosta", o quando si esprime contro l’abuso della carcerazione preventiva o dell’isolamento praticato nelle carceri di massima sicurezza (è accaduto il 23 ottobre 2014, alla sala dei Papi, durante un incontro con una delegazione di giuristi cattolici). Con la Marcia si chiede che le massime istituzioni della Repubblica facciano sentire la loro voce, che il Governo e il Parlamento affrontino finalmente in modo organico le questioni del carcere e quelle, più generali, della giustizia. A questo punto, una doverosa notazione: non è finora mai capitato di poter ascoltare i promotori dell’iniziativa, di vederli ospitati in un qualche programma di approfondimento politico, di poter giudicare e valutare le loro ragioni. Eppure probabilmente sarebbe più interessante poter ascoltare, una volta, don Ciotti o Rita Bernardini, Ascanio Celestini o Irene Testa, in luogo della solita compagnia di giro che affolla i talk show e i cosiddetti programmi di approfondimento politico. "È una nuova straordinaria mobilitazione", dicono Rita Bernardini e Irene Testa, le principali animatrici dell’iniziativa, "per ribadire la necessità di un’amnistia perché le nostre istituzioni fuoriescano dalla condizione criminale in cui si trovano rispetto alla nostra Costituzione, alla giurisdizione europea, ai diritti umani universalmente riconosciuti e alla coscienza civile del Paese". Perché in Vaticano? "Perché da papa Francesco ci attendiamo, come in passato, un segnale di sollecitazione rivolto alla classe politica italiana, che tanto dice, poco fa". Con la Marcia si vuole anche "ricordare che al 30 giugno del 2016 i processi pendenti erano 3.800.000 nella giustizia civile e 3.230.000 in quella penale, per un totale di 7.030.000 processi che affollano le scrivanie dei magistrati, ai quali vanno aggiunti circa un milione di procedimenti nei confronti di ignoti". Inoltre, sono circa 20.000 i detenuti che devono scontare in carcere meno di tre anni. Bernardini ricorda poi le parole di Marco Pannella: "La nostra richiesta di amnistia non è quel "gesto di clemenza" che chiede il Papa. Noi vogliamo un’amnistia "legalitaria", che ripristini le condizioni di legalità costituzionale nei tribunali e nelle carceri, contrapposta a un’altra amnistia: quella strisciante, clandestina, di massa e di classe che si chiama "prescrizione". In concreto? "Vogliamo un’amnistia", spiega Testa, "che sia propedeutica a una grande riforma della giustizia penale. Quello che si chiede è una riforma della giustizia civile, la cui paralisi penalizza i privati e le imprese, scoraggia gli investimenti esteri e comporta costi enormi per l’economia nazionale. Chiediamo una Grande Amnistia per la Giustizia, per la Costituzione, per la Repubblica. L’amnistia di classe, arbitrio nelle mani della magistratura, anche nell’anno 2016 ha cancellato 132 mila processi". Accade infatti che ogni giorno con la prescrizione si consuma una vera amnistia "sommersa", indiscriminata, che negli ultimi dieci anni, ha mandato al macero oltre 1,5 milioni di processi. È l’amnistia dei potenti, di chi si può permettere la migliore difesa; quell’amnistia di cui non possono "beneficiare" i più poveri e indifesi, che non per caso riempiono le celle delle nostre carceri per scontare pene relative a reati bagatellari, che in altro modo, per loro e per noi potrebbero essere scontate. Non solo. Sono circa mille ogni anno i casi di ingiusta detenzione ed errori giudiziari riconosciuti in seguito a sentenza di revisione. Nel solo 2016 la cifra spesa dallo Stato per risarcimento delle ingiuste detenzioni ammonta a 42 milioni di euro. Per quanto riguarda le carceri le cose non vanno meglio: al 31 gennaio 2017, dai dati forniti dal Ministero della giustizia, nei 191 istituti di pena della Penisola risultavano presenti oltre 55.381 detenuti, rispetto a una capienza ottimale di 50.174. Sono numeri che testimoniano il perdurare di uno stato di sovraffollamento delle strutture che noi riteniamo essere persino più grave, poiché i dati delle "capienze regolamentari" non tengono conto delle numerose celle chiuse, inagibili o in fase di ristrutturazione che si trovano pressoché in ogni struttura. A tutto questo vanno aggiunti gli annosi problemi che affliggono la maggior parte della popolazione detenuta: celle fatiscenti e insalubrità delle strutture, malfunzionamento dell’assistenza sanitaria, carenza cronica di attività trattamentali (lavoro, studio, sport), difficoltà per i detenuti fino all’impossibilità di mantenere rapporti affettivi con i propri familiari, mancate risposte alle istanze presentate ai magistrati di sorveglianza i quali risultano pochi in pianta organica rispetto ai compiti che ogni singolo magistrato deve svolgere (solo 204 in tutta Italia e ne mancano 14), inoltre risultano essere mal distribuiti, difficile accesso alle pene alternative, mentre per i detenuti stranieri continua a rimanere un miraggio poter incontrare e ricevere l’assistenza di un mediatore culturale. Il 78 per cento dei ristretti è affetto almeno da una condizione patologica, di cui almeno per il 40 per cento da una patologia psichiatrica. Resta alta la percentuale dei detenuti in attesa di giudizio (35 per cento), e assieme a questo dato si registra anche la promiscuità tra detenuti in attesa di giudizio e condannati definitivi. Sono circa 20.000 i detenuti che devono scontare meno di tre anni. Ecco, queste sono le ragioni alla base della Marcia radicale per l’amnistia. Le si condivano o meno, non avrebbero diritto di essere conosciute, dibattute, confrontate con le ragioni di chi all’amnistia è contrario? Amnistia e riforma della giustizia. Oggi la marcia del Partito Radicale di Eleonora Martini Il Manifesto, 16 aprile 2017 In molti, e di diverse culture politiche, marceranno oggi dal carcere di Regina Coeli (ore 9,30) fino a Piazza San Pietro, dove si fermeranno in ascolto dell’angelus, forse anche perché Papa Francesco è rimasto ormai una delle poche sponde solide nella richiesta di amnistia, che è lo scopo della V Marcia di Pasqua organizzata dal Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito. Anche se senso e finalità del pontefice sono molto differenti da quelle che ispiravano Marco Pannella, che nell’amnistia non vedeva un atto di clemenza per il condannato ma un provvedimento necessario allo Stato italiano per tornare subito in una condizione di legalità nazionale e internazionale, violata nelle carceri sovraffollate come nelle aule di tribunale intasate dalla immensa mole di procedimenti pendenti. Senza con questo affievolire o evitare il processo di riforma della giustizia. Eppure il legame con Bergoglio di quei Radicali che si vogliono principali eredi della cultura pannelliana è sempre più saldo. Spiega Maurizio Turco, plenipotenziario del Prntt: "Vogliamo ricordare che al 30 giugno 2016 i processi pendenti erano 3.800.000 nella giustizia civile e 3.230.000 in quella penale. E la situazione nelle carceri italiane è sempre più critica. Al 31 gennaio 2017, nei 191 istituti di pena della Penisola risultavano presenti oltre 55.381 detenuti, rispetto a una capienza ottimale di 50.174. Nel giro di un anno le carceri conteranno circa 60.000 detenuti e non mi sembra che questo governo, contrariamente a quanto dichiarato, abbia adottato misure efficaci per fare fronte al sovraffollamento". L’amnistia, ricorda Turco, "che non viene applicata dal 1990, ha visto alternare gli appelli, se non altro di clemenza, da parte di tre pontefici, e l’unico messaggio al Parlamento inviato dal Presidente Napolitano in cui parlava di "prepotente urgenza"". Alla marcia hanno aderito decine di personalità provenienti dalle più disparate culture politiche, oltre ai militanti della galassia radicale: da Beatrice Lorenzin a Erri De Luca e Ilaria Cucchi, da Giuliano Ferrara a Franco Corleone, da Don Luigi Ciotti a Piero Pelù… Con in prima fila Rita Bernardini, che per 31 giorni è stata in sciopero della fame e che ieri si rallegrava con il nuovo segretario dell’Anm, Eugenio Albamonte: "La sua richiesta al governo - ha detto Bernardini - di "stralciare e approvare le norme condivise da tutti (nella riforma del processo penale, ndr), come quelle sulle carceri e sulla Cassazione, e lasciare indietro i temi più spinosi per riscriverli" è stata promossa dal Partito Radicale attraverso uno sciopero della fame che ha coinvolto oltre 20.000 detenuti che hanno scelto la nonviolenza quale forma di dialogo con le istituzioni". "Caro direttore ti scrivo": dalla tartaruga in cella alla piscina, ecco cosa chiedono i detenuti La Repubblica, 16 aprile 2017 "Reclusi" è il titolo del libro della sociologa Anna Paola Lacatena e del comandante della polizia penitenziaria del carcere di Taranto, Giovanni Lamarca, con le ‘domandinè contenute nelle lettere. "Il sottoscritto chiede di poter parlare urgentemente col comandante per il motivo che mi vengono strani pensieri per la testa. La ringrazio anticipatamente". Firmato: un detenuto. Il modulo, con l’intestazione Dipartimento amministrazione penitenziaria, è riprodotto nel libro Reclusi, nel capitolo dedicato al suicidio in carcere, e la testimonianza è una delle più toccanti raccolte nel volume. Il testo, scritto dalla sociologa Anna Paola Lacatena e dal comandante della polizia penitenziaria del carcere di Taranto, Giovanni Lamarca, si autodefinisce "la prima guida completa al mondo delle carceri". Uno dei modi più diretti per entrare in quel mondo sono proprio le "domandine", come vengono definite nel gergo carcerario, indirizzate al direttore. Alcune sono ingenue, anche per gli errori (a fine 2014, si legge nel libro, il 2 per cento dei detenuti era analfabeta, il 4,4 senza titolo di studio, il 20,5 aveva soltanto la licenza elementare), altre tenere, altre ironiche, anche al limite della presa in giro. Come nella richiesta di fare uno corso di nuoto in piscina o in quella di avere "una bambola di gomma", che con una provocazione va dritta al problema dell’affettività e della sessualità dietro le sbarre. Questi scritti, raccolti nel libro, sono un spaccato del carcere. Un passaggio per la mamma. "Mia madre per venire a fare due colloqui settimanali prende due autobus, e avendo problemi di salute, sta male tutto il tempo che trascorre in carcere". Di qui la richiesta di essere spostato nella sezione dove "c’è mio padre", così "facendo anche io il colloquio lo stesso giorno, mia madre viene una sola volta alla settimana". Il lavoro. "Il sottoscritto chiede di poter lavorare in barberia in quanto esperto al 100x100". Una detenuta scrive invece: "La prego, non mi faccia perdere il lavoro che avevo avuto: ho tutta la volontà di ottenerlo. Ho bisogno di quel lavoro per far vedere la mia bravura nel pulire il carcere". Ladri in cella. "Circa 6 mesi orsono ricevo da casa mia generi alimentari consentiti dall’istituto, ma ogni volta mi sparisce della roba. L’ultima mi manca una salsiccia piccante intera, l’altra salsiccia e provolone, un altra volta 200 grammi di mortadella..." e così via. La lista è lunga. "Entrato qui pesavo kg 77,2, ora ne peso 67". La sedia a rate. "Essendo che sono abbastanza grosso il mio peso è elevato, giocando a carte la sedia dove ero seduto non ha retto. Sono caduto a terra e la sedia si è rotta. Ho avuto l’avviso che la devo pagare io e io voglio pagare la cifra totale di euro 7,14: vi chiedo di poter pagare a rate di un euro alla settimana". Animali da compagnia. "Chiedo di voler autorizzare l’entrata di una piccola tartaruga acquatica, come previsto dal ministero di Grazia e giustizia nell’ambito del generale principio di umanizzazione della pena". E un altro: "Il sottoscritto chiede di voler autorizzare l’entrata in visita del proprio cane precisando che oltre ad avere dimensioni molto ridotte è anche munito di regolare certificato medico". Il donatore di organi. "Essendo donatore di organi chiedo che i miei organi vengano donati a ragazzi poveri senza denaro e il cervello a centri di sperimentazione scientifica". Detenuti e "co-detenuti" ringraziano. Molte "domandine" sono ringraziamenti al direttore. "Scopo di questa nota positiva (detenzione-attiva) - riporta una di queste - è la presa d’atto immediata da parte mia e di molti "co-detenuti" della vostra dedizione alle comuni necessità. Il dialogo secondo me è l’unico strumento utile per far incontrare le persone, anche quando le situazioni, come quella del carcere, sono tese e complicate". Teatro in carcere, cresce la partecipazione: 41 istituti coinvolti in 16 regioni di Teresa Valiani Redattore Sociale, 16 aprile 2017 I numeri dell’edizione 2017 della Giornata nazionale parlano di un successo che si consolida di anno in anno: 40 giorni (dal 20 marzo al 30 aprile) in cui detenuti e migliaia di spettatori comunicano attraverso il linguaggio del teatro. "Strumento prezioso di crescita personale". Dal Piemonte alla Sicilia, dalla Lombardia al Molise passando per la Puglia, le Marche, l’Abruzzo, il Lazio e la Campania: 16 regioni italiane coinvolte fino a oggi, 41 istituti penitenziari impegnati negli eventi insieme ad altre 17 istituzioni tra università, scuole, uffici di esecuzione penale esterna, teatri ed enti locali, per un totale di 55 rappresentazioni. Quaranta giorni, dal 20 marzo al 30 aprile, in cui centinaia di detenuti e migliaia di spettatori stanno comunicando attraverso un solo linguaggio: quello del teatro, rompendo schemi e muri, costruendo legami e ponti. Si candida a superare i numeri della terza edizione, seguendo le orme di un successo che si consolida di anno in anno, la IV giornata nazionale del teatro in carcere, promossa, in concomitanza con il World Theatre Day 2017 (Giornata Mondiale del Teatro giunta alla 55ma edizione), dal Coordinamento nazionale Teatro in carcere, un organismo costituito da oltre 40 esperienze teatrali diffuse su tutto il territorio nazionale, con il sostegno del ministero di Giustizia - Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e la collaborazione dell’università Roma Tre. I dati aggiornati sugli istituti che stanno aderendo con i propri eventi e l’elenco delle rappresentazioni sono disponibili sul sito www.teatrocarcere.it. "I dati che compaiono sul nostro sito - spiega Vito Minoia, presidente del Comitato nazionale - sono aggiornati, ma sappiamo che stanno arrivando nuove adesioni". Una delle più recenti è quella del carcere di Ascoli Piceno. "Il nostro laboratorio teatrale è attivo da tempo - spiega la direttrice dell’istituto di pena, Lucia Di Feliciantonio - e quest’anno ha aderito alla giornata nazionale. Il prossimo 21 aprile sarà messa in scena la Fedra di Racine, ambiziosa tragedia interamente in rima. Gli attori Danilo, Francesco, Antonio, Tony e Karim, preparati con il consueto rigore da Claudio Pizzingrilli, hanno realizzato anche una scenografia molto suggestiva". E dopo la prima, si replica il 28 aprile con un evento a cui parteciperanno anche due scolaresche della città. "Il teatro - commenta la direttrice del Marino - è uno strumento prezioso di crescita personale e di grande valenza rieducativa per ogni detenuto che vi si cimenta". Nelle Marche un’altra rappresentazione di successo in questa quarta edizione, quella che il 27 marzo ha visto a Pesaro Carlo Formigoni, maestro del teatro italiano che si è formato al Berliner Ensemble negli anni Sessanta e che con la Compagnia dell’Altopiano ha presentato lo spettacolo ‘Amleto dei bassi’. "Trattandosi di un Maestro del Teatro Contemporaneo - racconta Vito Minoia -, erede e prosecutore della tradizione del Teatro Epico di Bertolt Brecht, quello di Pesaro è destinato a rimanere un evento per la storia delle scene penitenziarie: uno spettacolo ispirato a un testo autobiografico di un giovane detenuto che trova il riscatto attraverso la recitazione. Una storia che è arrivata dritta al cuore ed alla grande intelligenza del pubblico dei detenuti e delle detenute che hanno assistito, raggiungendo in pieno l’obiettivo dell’effetto straniante auspicato da Brecht". Isabelle Huppert, l’attrice a cui è stato affidato il messaggio della 55ma giornata mondiale del teatro a cui si agganciano gli eventi nelle carceri, nelle sue righe sottolinea che "le nostre 24 ore ci portano dalla Francia alla Russia, da Racine e Molière a Cechov, e poi attraversano l’Atlantico per finire in un campus della California, dove forse dei giovani reinventano il teatro. Perché il teatro risorge sempre dalle proprie ceneri. Non c’è convenzione che non si debba instancabilmente abolire. È così che il teatro resta vivo. Il teatro ha una vita rigogliosa che sfida lo spazio e il tempo, le opere teatrali più contemporanee si nutrono dei secoli passati, i repertori più classici diventano moderni ogni volta che li si mette in scena di nuovo". Niente di più vero, quando il palcoscenico è nel teatro di un carcere. Il messaggio della Pasqua contro il mondo delle paure di Andrea Riccardi Corriere della Sera, 16 aprile 2017 Nell’intreccio tra il cristianesimo e l’umanesimo laico in Europa s’è sviluppata tanta lotta all’arbitrio della violenza. La Settimana Santa si è aperta con due terribili attentati in Egitto contro i copti. I terroristi volevano una Pasqua di sangue. Puntavano all’esplosione di un terrorista-suicida nella cattedrale di San Marco, dove il papa copto Tawadros celebrava la liturgia delle Palme. Se Tawadros fosse stato colpito, la protesta facilmente sarebbe degenerata nello scontro tra i copti, straziati dal dolore, e i musulmani. Così i terroristi sarebbero riusciti a innalzare il livello del conflitto tra islam e cristianesimo. E i morti sarebbero stati tanti. La triste Domenica delle Palme ha mostrato però come una parte importante dei musulmani respinga il terrorismo: lo s’è visto nelle manifestazioni di solidarietà in Egitto. Il grande imam di Al Azhar ha colto l’obiettivo terroristico: rompere l’"unità" del popolo egiziano. Del resto, sono stati alcuni musulmani a evitare la tragedia: i poliziotti che hanno impedito al suicida l’ingresso nella cattedrale e sono esplosi con lui. Questa Domenica ha provocato un soprassalto tra i cristiani del mondo, scopertisi vicini ai copti, oltre le distanze ereditate dalla storia. Papa Francesco osserva come i persecutori non chiedano ai cristiani, prima di colpirli, quale sia la loro confessione. Appaiono allora insensate le divisioni tra le Chiese e la celebrazione della Pasqua in giorni distinti (non quest’anno per coincidenza dei calendari liturgici). Forse, dopo questa dolorosa Settimana Santa, ci sarà un nuovo impulso alle Chiese per far coincidere sempre la data pasquale. L’ecumenismo del sangue ravviva la passione ecumenica, un po’ stanca e spenta nella diplomazia tra Chiese e nel culto dell’identità. La Settimana Santa è stata carica di tensioni, anche per i riti pasquali, come si vede in una Roma ben presidiata. In Europa, dopo gli attentati terroristici, il clima è poco sereno. La settimana prossima, le elezioni francesi diranno la consistenza elettorale delle posizioni antieuropee e antislamiche di Marine Le Pen, ora dichiaratasi "estremamente cattolica", ma "molto contraria" alla Chiesa e al papa sui migranti. La Le Pen ha detto quello che vari cattolici europei pensano, specie nell’Est. Come difendere l’identità europea dagli attacchi e dalla presenza massiccia di gente estranea al nostro retaggio storico? Non è solo questione di fede. Interessa anche i laici. Benedetto Croce, da laico, parlava del comune retaggio cristiano europeo: "non possiamo non dirci "cristiani"". Riguarda un mondo più vasto dei credenti. Tuttavia, a ben leggere il saggio di Croce, si scopre un’ammirazione per la figura di Gesù, tanto che - egli nota - la polemica contro la Chiesa "si è sempre arrestata e ha taciuto riverente al ricordo della persona di Gesù". Gesù esercita un fascino oltre il perimetro delle Chiese. Ed esse l’hanno spesso sottovalutato. Gandhi non dubitava che "Gesù appartenga non solo al cristianesimo, ma al mondo intero". In realtà, la Settimana Santa, più che rimeditare le strategie di difesa dell’eredità cristiana, ripropone con il Vangelo la figura di Gesù. Lo fa Francesco con le parole, ma anche con i gesti, come la lavanda dei piedi nel carcere di Paliano, il pellegrinaggio, sabato prossimo, nel santuario dei "nuovi martiri" a San Bartolomeo a Roma, e soprattutto il viaggio in Egitto, nonostante i rischi, per sostenere i cristiani. I cristiani perseguitati e i martiri rinviano a Gesù, ricordato - a Pasqua - crocifisso e risorto. Con Gesù - scrivono Bruno Maggioni e Ezio Prato - , si rivela un "Dio capovolto": non più l’uomo che muore per Dio, ma Dio muore per l’uomo. Nel Vangelo, Gesù chiede a chi lo arresta che i discepoli siano lasciati incolumi: "Se dunque cercate me, lasciate che questi se ne vadano" (Gv 18, 8). Vuole che l’ultimo sangue sparso sia il suo e non dei discepoli. E intima al discepolo armatosi per difenderlo: "Rimetti la spada nel fodero, perché quelli che mettono mano alla spada periranno di spada" (Mt 26,52). Il Dio di Gesù non è guerriero, ma muore per l’uomo. Messaggio sorprendente in un tempo in cui si uccide e ci si uccide per Dio. E i terroristi suicidi si dichiarano martiri. Il martire cristiano invece non cerca la morte e non usa la violenza: "Coloro che fanno vivere sono quelli che offrono la vita, non quelli che la tolgono agli altri…" - scriveva padre André Jarlan, un nuovo martire caduto in Cile anni fa. Le Chiese, a Pasqua, proclamano la resurrezione di Gesù, fondamento di fede e speranza. In questa luce, la fede non è un retaggio da difendere, eroso dal tempo e dai marosi della storia. Crede che il cristianesimo sia speranza per il futuro e debba ancora sviluppare potenzialità profonde. Scriveva padre Men, prete russo e ultima vittima del Kgb: "il cristianesimo non ha fatto che i suoi primi passi, timidi passi nella storia del genere umano. La storia del cristianesimo non fa che cominciare". Il cristianesimo non è esaurito nelle sue forme storiche, ma vive e risorge con nuova fiducia. Il messaggio pasquale afferma che il male non è così forte da essere eterno: può essere vinto, anzi è colpito in radice. La speranza di Pasqua apre alla visione del futuro, che oggi sembra oscurato o smarrito per tanti. Il cristianesimo non è un passato da difendere o preservare, ma una ferma speranza per il domani, più forte del male. Così lo sentono, prima di tutto, i cristiani egiziani, nigeriani o pakistani che rischiano la vita per andare a pregare in chiesa. La Pasqua, più che il momento per pensarci assediati, è l’occasione di credere nella "forza debole" della fede, dell’amore e delle convinzioni. C’è un evidente cuore religioso del messaggio. In qualche modo però, si congiunge alla coscienza dell’umanesimo laico, che rifiuta il ricatto dalla paura. Perché, nell’intreccio tra cristianesimo e umanesimo laico in Europa, s’è sviluppata tanta lotta al mondo delle paure e all’arbitrio della violenza. Croce conclude laicamente: "alimentare il sentimento cristiano è il nostro ricorrente bisogno, oggi più che non mai acuto e tormentoso, tra dolore e speranza". Il pericoloso declino della tolleranza di Danilo Taino Corriere della Sera, 16 aprile 2017 In Europa tra il 2014 e l’anno successivo, i Paesi nei quali i governi hanno usato intimidazioni o molestie religiose sono saliti da 17 a 27 e quelli in cui hanno utilizzato qualche forma di forza contro le comunità sono passati da 15 a 24. La questione religiosa sta diventando drammatica nel mondo. Persino in Europa. Su 198 Paesi considerati da un nuovo studio del Pew Research Center, nel 2015 il 25% aveva in essere restrizioni governative elevate o molto elevate a qualche religione: nel 2007 la quota era il 20%. Le Nazioni che presentavano invece livelli alti o molto alti di ostilità sociale nei confronti di alcune confessioni sono salite, nello stesso periodo, dal 20 al 27%. Nel complesso, se si calcolano tutti i livelli di limitazione religiosa - leggi, politiche, atti di individui o organizzazioni o gruppi sociali - Pew calcola che il 40% dei Paesi ne fosse afflitto nel 2015 in modo significativo o molto significativo, in netto peggioramento rispetto a un anno prima, quando la quota era al 36%. Sempre sul totale dei 198 Paesi, in 105 di essi alcune comunità religiose hanno sperimentato molestie da parte del governo nel 2015, in salita dagli 85 dell’anno prima. Preoccupante la tendenza in Europa: tra il 2014 e l’anno successivo, i Paesi nei quali i governi hanno usato intimidazioni o molestie religiose sono saliti da 17 a 27 e quelli in cui hanno utilizzato qualche forma di forza contro le comunità sono passati da 15 a 24. In particolare, Francia e Russia hanno avuto ciascuna più di 200 casi di interventi di forza: per la violazione del divieto di coprire il volto in luoghi e uffici pubblici nel caso francese, per avere esercitato la religione in luoghi vietati in quello russo. Pew nota che l’arrivo di un grande numero di rifugiati ha acutizzato il problema in Europa, soprattutto in alcuni Paesi dell’Est. E ha creato tensioni sociali. In 32 Paesi europei ci sono state ostilità (non legate all’attività dei governi) contro i musulmani rispetto ai 26 del 2014. Quelle contro gli ebrei sono rimaste diffuse in 33 Paesi (32 un anno prima). A livello globale, nel 2015 i cristiani sono stati molestati dai governi o a livello sociale in 128 Paesi (107 nel 2007); i musulmani in 125 Paesi (97); gli ebrei in 74 (51). Nel complesso, le Nazioni nelle quali si sono registrate limitazioni o intimidazioni alla libertà religiosa sono passate da 152 a 169 tra il 2007 e il 2015. I governi più repressivi sono nell’ordine quelli di Egitto, Cina, Iran, Russia, Uzbekistan. I Paesi che presentano la maggiore ostilità sociale sono invece Siria, Nigeria, Iraq, India, Israele. I numeri dicono che la tolleranza è pericolosamente in caduta. Viareggio. Lo "spiacevole incidente" e dopo sette anni non è finita di Angelo Ferracuti Il Manifesto, 16 aprile 2017 Le tappe della lotta per la verità dei famigliari delle 32 vittime della strage. Come per il rogo della Thyssen Krupp, i morti per eternit a Casale Monferrato, quelli uccisi dall’amianto di Stato a Monfalcone, gli operai dell’Isochimica di Avellino, quelli della Moby Prince, così come per le vittime della motonave Elisabetta Montanari a Ravenna, anche per i famigliari delle vittime della strage di Viareggio il rapporto tra mobilitazione popolare, conflitto e attività processuale, è stato molto forte. A sei mesi dalla tragedia, il 29 dicembre 2009 l’associazione dei parenti delle vittime insieme a molti cittadini bloccarono due treni per attirare l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica, un intercity diretto a Livorno e un Eurostar con destinazione Genova; mentre nel febbraio dell’anno successivo si recarono a protestare fino al Parlamento europeo, e per scongiurare che l’approvazione del processo breve potesse impedire l’accertamento della verità, pochi giorni dopo sostarono davanti alla procura della Repubblica di Lucca per 32 ore, 60 minuti per ogni persona rimasta uccisa dall’incidente ferroviario. Il 21 aprile 2010 la Procura di Lucca rende noto che ci sono degli indagati, mentre il 21 giugno dello stesso anno comunica i nomi delle 18 persone già iscritte nel registro degli indagati, tra i quali i tedeschi Joachim Lehamann 42 anni, Andreas Schroter 44 anni, Uwe Kriebal 46 anni dell’officina Jungenthal di Hannover ed il mantovano Paolo Pizzadini, 44 anni, della Cima riparazioni, mentre il 16 dicembre 2010 emette 38 avvisi di garanzia, e il 18 luglio 2013 il Gup Alessandro Dal Torrione decide per il rinvio a giudizio di 33 imputati, e fissa al 13 novembre 2013 la data di inizio della prima udienza del processo per la strage. Finiscono tra gli indagati manager del gruppo Ferrovie dello Stato come Mauro Moretti, insieme a dirigenti di tre diverse aziende: la Gatx Rail proprietaria del convoglio; l’officina tedesca Jugenthal che ne fece la revisione; e la Cima riparazioni che si occupò del montaggio. I reati contestati vanno da disastro ferroviario, incendio colposo, omicidio colposo plurimo, lesioni personali, illecito amministrativo e violazione delle norme per la sicurezza sul lavoro. Il presidente del Consiglio dei ministri Enrico Letta accetta la transizione economica e rinuncia a costituirsi parte civile al processo. Il 31 gennaio 2017, dopo sette anni e sette mesi e un giorno dalla tragedia, e 140 udienze, il tribunale di Lucca emette la sentenza di primo grado condannando, tra gli imputati, a 7 anni e 6 mesi di carcere Michele Mario Elia, nel 2009 ad di Rete Ferroviaria Italiana, a 7 anni di carcere Mauro Moretti per il ruolo di ex amministratore delegato di Rete Ferroviaria Italiana (l’accusa aveva chiesto 16 anni), e a 7 anni e 6 mesi Vincenzo Soprano, ex ad di Trenitalia e di Fs Logistica. Nove anni e sei mesi, invece la pena inflitta a Rainer Kogelheide, amministratore di Gatx Rail Germania, ed a Peter Linowski, responsabile sistemi di manutenzione di Gatx Rail Germania. Nove anni per Johannes Mansbarth, amministratore delegato di Gatx Rail Austria, e Uwe Konnecke, responsabile delle Officine Jungenthal di Hannover. Otto per Andreas Schroter delle Officine Jungenthal, Helmut Brodel, Uwe Kriebel, anche lui della Jungenthal. I 23 condannati sono accusati a vario titolo di disastro ferroviario, incendio colposo, omicidio colposo plurimo, lesioni personali. Daniela Rombi, che ha perso la figlia Emanuela, è una donna bionda dentro un corpo sofferente visibilmente toccata da questa tragedia, ma che non ha perso mai il coraggio e la lucidità che servono per lottare e difendersi. "È vero - mi ha detto -, dopo niente è stato più come prima. Quanto abbiamo dovuto sopportare, di brutte parole durante i processi, sono caduti molto in basso", dice con un tono addolorato. Mi racconta che nel corso dei dibattimenti gli avvocati degli imputati si lamentavano: "Quelli in fondo non mi salutano ha detto uno di loro", mi fa. "Ma chi difende chi ha ucciso mia figlia credo che possa decidere di non salutarli". La sentenza di primo grado li ha delusi, ma ora dovranno affrontare l’appello, non c’è tempo da perdere. "La grande mobilitazione è stata decisiva, abbiamo fatto quello che c’era da fare, siamo sereni - continua a raccontare scandendo con le lentezza le frasi - e di questo sono orgogliosa, altrimenti non saprei come poter continuare a vivere. Perché niente è davvero più come prima, siamo cambiati, abbiamo dovuto conoscere dei mondi non conoscevamo", dice inquieta. Cittadini che si sono dovuti difendere dalla Stato, dagli stessi partiti politici che hanno votato, dalle istituzioni in cui avevano sempre creduto. "Sono fortunata ad avere incontrato altre persone, quelli del comitato, ma sono costretta a continuare a vivere questa vita che mi è stata imposta". La mobilitazione non si ferma. L’associazione dei parenti delle vittime "Il mondo che vorrei" e quello dei cittadini e ferrovieri riunito nel comitato "Assemblea 29 giugno", intanto, un risultato importante l’hanno ottenuto. Mauro Moretti, uomo dei poteri italiani con un passato da sindacalista nella Filt-Cgil come segretario generale, ruolo che ha ricoperto dal 1986 al 1991, poi amministratore delegato di Ferrovie dello Stato e di Finmeccanica, non è stato riconfermato alla guida dell’azienda oggi denominata Leonardo proprio a causa della condanna subita, nonostante dopo la strage di Viareggio la sua carriera sia continuata inarrestabile. L’anno dopo l’inizio del processo, infatti, nel 2014, diventa amministratore delegato di Finmeccanica designato dal governo Renzi, mentre il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano il 31 maggio 2010, a meno di un anno dalla strage, gli conferisce l’onorificenza di Cavaliere del lavoro. Cose che fanno non poco indignare e riflettere. Resterà celebre la sua frase, che fece il giro del mondo, pronunciata durante un’audizione al Senato sei mesi dopo la tragedia: "Vi prego di considerare che quest’anno, per la sicurezza - a parte questo spiacevolissimo episodio di Viareggio - abbiamo ulteriormente migliorato: siamo i primi in Europa". Taranto: sciopero della fame di un detenuto cardiopatico di Nazareno Dinoi Quotidiano di Puglia, 16 aprile 2017 "Sono cardiopatico, mi rifiuto di prendere le medicine ma nessuno si preoccupa del mio stato di salute". È quanto scrive su un foglio che ha consegnato ad una sua parente, il manduriano Salvatore Urbano, sessantatreenne, detenuto nel carcere di Taranto dove sta scontando gli ultimi scampoli di una pena di sei anni e quattro mesi di reclusione per estorsione, danneggiamento ed evasione dai domiciliari. "Due detenuti che avevano il mio stesso problema cardiaco - scrive ancora Urbano sono già morti poco tempo fa, ma purtroppo il tribunale di sorveglianza a cui mi sono rivolto lamentando il mio precario stato di salute, non se ne frega niente". Secondo quanto scrive nella lettera fatta recapitare anche ai giornali, il pluripregiudicato, Salvatore Urbano, detto "Bionda" (in passato tra i personaggi di spicco della criminalità Messapica), avrebbe così iniziato lo sciopero delle cure decidendo di sospendere la somministrazione di otto medicinali diversi che dovrebbe assumere ogni giorno. Oltre alle compresse, si legge nella lettera, "Bionda" avrebbe anche iniziano a ridurre l’alimentazione. "Mi mettono in condizione di fare anche lo sciopero della fame", scrive il detenuto che se la prende anche con i medici del carcere i quali, sostiene, "non si prodigano ad informare chi di dovere". Il suo avvocato, Alessandro Cavallo, del foro di Taranto, già informato della lettera fatta circolare dai familiari del recluso, ha già inoltrato un’istanza per chiedere il riconoscimento dello stato di incompatibilità con il regime carcerario per ragioni di salute del suo assistito. Il legale fa sapere in proposito che il Tribunale di sorveglianza ha chiesto al penitenziario di Taranto, dove è detenuto Urbano da più di un anno, la documentazione medica relativa all’attuale stato di salute ed anche la storia clinica delle patologie pregresse. L’udienza del Riesame è fissata per il prossimo 8 maggio. Già in passato "Bionda" aveva beneficiato degli arresti domiciliari che stava scontando nella sua abitazione manduriana quando, il 26 febbraio del 2016, si fece nuovamente sorprendere fuori dal domicilio perdendo così il beneficio precedentemente concesso. "Ora le sue condizioni di salute sono peggiorate", fa sapere l’avvocato Cavallo rifacendosi soprattutto ad un recente intervento chirurgico al cuore a cui Urbano è stato sottoposto per una ischemia cardiaca che lo aveva colpito. Taranto: conferenza stampa e inaugurazione del progetto "L’altra città", di Daniela Rubino corrierenazionale.net, 16 aprile 2017 Un percorso partecipativo e interattivo nella realtà carceraria italiana, a cura di Achille Bonito Oliva e Giovanni Lamarca, presso la Casa circondariale Carmelo Magli a Taranto, dal 6 maggio al 15 giugno 2017. Prenderà il via il prossimo 6 maggio, nella casa circondariale "Carmelo Magli" di Taranto, un importante evento artistico-culturale: L’altra città. Un percorso partecipativo e interattivo nella realtà carceraria italiana. L’evento è curato dal teorico e critico d’arte Achille Bonito Oliva e da Giovanni Lamarca, comandante del reparto di polizia penitenziaria della locale casa circondariale, con il contributo di detenuti, personale in servizio e in pensione (Anppe), ed esperti: Giulio De Mitri (artista e docente), Roberto Lacarbonara (giornalista e critico), Anna Paola Lacatena (sociologa e scrittrice), Giovanni Guarino (attore e animatore). Ideato e coordinato da Giovanni Lamarca, comandante del reparto di polizia penitenziaria della Casa circondariale di Taranto, il progetto "L’altra città" rappresenta una "prima assoluta" nel panorama delle iniziative culturali e formative realizzate all’interno delle carceri italiane. Non è l’arte che entra nei luoghi di detenzione, ma è il carcere stesso che si fa opera d’arte, grazie all’apporto di quanti vivono in prima persona la reclusione, a coloro che vi operano e agli stessi visitatori. Ognuno con la propria esperienza e competenza e tutti con l’intenzione di creare, attraverso l’espressione artistica, un ponte tra vita ristretta e società civile. Come spiega Carmelo Cantone (Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria per la Puglia e la Basilicata): "L’altra città" darà infatti ai visitatori la possibilità di conoscere "ciò che sono i luoghi della pena oggi in un paese di democrazia occidentale avanzata, con le contraddizioni di questi luoghi che sono le contraddizioni del nostro sistema penitenziario, per come è stato costruito, per le sue potenzialità, per le sue criticità, ma anche per come viene vissuto da chi vive e da chi lavora in carcere". Il progetto artistico e poli-sensoriale site specific si articola in tre momenti. Innanzitutto un laboratorio sulla didattica dell’arte che ha coinvolto un gruppo di detenute fornendo non solo le basi conoscitive sulle pratiche artistiche dell’arte contemporanea ma anche, e soprattutto, sollecitando una riflessione personale sul proprio percorso esistenziale e sull’esperienza della detenzione. Tutti gli ambienti - trasfigurati attraverso l’intervento artistico di un gruppo di detenute guidate dall’artista Giulio De Mitri e con la partecipazione di alcuni agenti penitenziari - consentiranno al visitatore di "vivere" la reale esperienza del carcere e, nello stesso tempo, compiere un ideale e personale percorso che dalla percezione del castigo e dell’isolamento può portare al recupero e all’emancipazione. Un’opera d’arte dunque dalla forte connotazione sociale che è stata preceduta e preparata da un’attività di elaborazione alla quale hanno dato il loro contributo, oltre a Giulio De Mitri (direzione artistica e didattica), Roberto Lacarbonara (analisi critica), Anna Paola Lacatena (analisi sociologica), Giovanni Guarino (allestimento e preparazione del personale penitenziario). L’arte dimorando nella fantasia e non solo, avvia un processo di sublimazione che blocca le pulsioni negative, producendo qualcosa di socialmente positivo. Come afferma il sociologo Mario Morcellini, "l’arte, sublimando la realtà, è uno dei mezzi per trascendere la solitudine e uscire dalla fortezza dell’individualismo". In quanto spazio di libera espressione, l’arte ha stimolato nei detenuti significativi momenti relazionali e socializzanti, incanalando positivamente la loro potenziale creatività. Il successivo momento è stato caratterizzato da interventi artistici che hanno mutato la natura di quella che precedentemente era un’ordinaria sezione detentiva, realizzando con segni, scritture, simboli e immagini un’eccezionale installazione site specific. Per i detenuti è stata questa una significativa opportunità formativa ed educativa che ha contribuito alla "ricostruzione" della propria identità sociale e culturale. Il terzo momento è rappresentato dall’apertura del carcere alla società civile, rendendo fruibile, a chi ne farà domanda, l’installazione stessa. Un’occasione, unica e straordinaria, per stimolare un’ulteriore riflessione sulla condizione dei ristretti, come metafora della personale condizione di prigionia che ciascuno racchiude nel proprio vissuto. Attraverso la sfera emotiva e sensoriale, il potenziale fruitore, "incluso da libero", interagirà infatti con la realtà carceraria compiendo un reale percorso che lo condurrà dalla sensazione di detenzione e di isolamento a quella di emancipazione e condivisione della propria libertà. Ecco fondata "L’altra città" - scrive in catalogo Achille Bonito Oliva - che include esclusi e reclusi e conferma l’affermazione di Baudelaire che l’arte, la sua bellezza, è una promessa di felicità. E direi di coesistenza e convivenza, per questo "Altra città". Il catalogo de L’altra città (Gangemi, 2017), curato da Achille Bonito Oliva e Giovanni Lamarca è disponibile in libreria. Alla prefazione di Carmelo Cantone, seguono testi di Achille Bonito Oliva, Giulio De Mitri, Roberto Lacarbonara, Anna Paola Lacatena, Giovanni Lamarca, apparato iconografico (crediti fotografici di Giorgio Ciardo e Roberto Pedron) e note biografiche sugli autori. I proventi delle vendite saranno interamente destinati alla casa circondariale e all’associazione "Noi e voi" di Taranto che ha sostenuto il progetto. Reggio Calabria: il Garante dei detenuti visita le carceri di Arghillà e "G.Panzera" ildispaccio.it, 16 aprile 2017 In corrispondenza della festività della Pasqua, l’Ufficio del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Reggio Calabria si è recato in visita in entrambi gli istituti penitenziari reggini di Arghillà e del "Panzera". Insieme al Garante, Agostino Siviglia, erano presenti i componenti dell’Ufficio del Garante Antonia Belgio, Teresa Ciccone, Fabio Lorenzini e Roberta Travia. Dopo i saluti alla Direttrice, Patrizia Delfino, i comandanti di Polizia Penitenziaria Domenico Paino e Stefano La Cava, unitamente al Sovrintendente Musarella, hanno accompagnato il garante ed i suoi collaboratori durante la visita nei rispettivi istituti. Non era questa la giornata per affrontare le complesse problematiche carcerarie che affliggono la dimensione detentiva dei reclusi anche se, per vero, vanno segnalate importanti progressioni in termini di vivibilità carceraria in entrambe le realtà penitenziarie reggine. Questa giornata ha voluto, nelle intenzioni del Garante e del suo Ufficio, informarsi di senso nella precipua dimensione costituzionale della pena e del "senso di umanità" ad essa connessa nell’ottica della sua funzione rieducativa. Certo, "l’umanità reclusa" è situata sempre come in bilico fra la speranza di una vita futura diversa e libera e l’angoscia per una condizione che si ritiene ingiusta ed immutabile. Mano per mano, detenuto per detenuto, cella per cella, un augurio pasquale, una presenza istituzionale e fisica, volontaria ed esterna alla comunità carceraria, suscita in chi è recluso un senso di attenzione, di compassione, di umanità che non può che far bene, a chi il gesto lo riceve ed a chi il gesto lo compie. Come sempre, un’attenzione particolare è stata dedicata alle donne detenute dell’istituto "Panzera" di Reggio Calabria, perché la detenzione femminile costituisce davvero una realtà detentiva a sé stante, di estrema complessità, sia in termini di attività trattamentale che in termini di specificità delle problematiche connesse alla detenzione femminile. La sezione di Reggio Calabria, peraltro, insieme a quella di Castrovillari è una delle due uniche sezioni femminili di tutta la Regione Calabria. L’accompagnamento della comunità esterna, dunque, per il più positivo reinserimento sociale di chi ha delinquito è cruciale e qualifica la compiutezza delle istituzioni democratiche. C’è ancora molta strada da fare in quest’ottica, eppure non dimenticarsi, ascoltare, visitare i carcerati è un passo ufficiale ed inevitabile che le istituzioni preposte, come la nostra, hanno il dovere morale di compiere sul lungo e difficile cammino del recupero e del reinserimento sociale". Roma: il 19 aprile al Maxxi convegno nazionale su "Il mondo come prigione" Askanews, 16 aprile 2017 Da monsignor Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura a Luigi Manconi, presidente della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato; da Luca Zevi, architetto e consulente del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria per gli spazi della pena a Giancarlo Paba, presidente Fondazione Michelucci; da Mauro Palma, garante nazionale delle persone detenute e private della libertà personale a Stefano Anastasia, garante dei detenuti della Regione Lazio; e poi docenti universitari, architetti e urbanisti, rappresentanti di associazioni. Sono alcuni dei partecipanti alla giornata di studio dal titolo Il mondo come prigione? Carcere, diritti, giustizia, mercoledì 19 aprile, a partire dalle 15 (Auditorium del Maxxi, ingresso libero fino a esaurimento posti). Il convegno - introdotto dai saluti istituzionali di Giovanna Melandri, presidente Fondazione Maxxi, e Antimo Cesaro, sottosegretario ai Beni e alle Attività Culturali, e al quale è stato invitato il ministro della Giustizia Andrea Orlando - è stato organizzato in occasione della mostra "Please Come Back. Il mondo come prigione?" (al Maxxi fino al 31 maggio 2017), di cui approfondisce alcuni i temi. Nella mostra, 26 artisti di tutto il mondo raccontano attraverso 50 opere il carcere come metafora del mondo contemporaneo e il mondo contemporaneo come metafora del carcere: tecnologico, iper-connesso, condiviso e sempre più controllato. Il tema del carcere come luogo fisico sarà al centro del convegno del 19 aprile. "Non si crea sicurezza alzando i muri", aveva detto il Ministro Orlando in occasione della presentazione della mostra al Maxxi, l’8 febbraio. E se il sistema penitenziario italiano produce oggi una recidiva che riguarda il 70% dei detenuti, questo significa che il carcere così com’è non mette al sicuro la società. Gli spazi del carcere vanno configurati come sorta di protesi della società esterna, dal cui contesto il detenuto deve considerarsi solo temporaneamente sospeso, per tornarvi quanto prima a pieno titolo. Il carcere non deve essere più la risposta univoca alla molteplicità di comportamenti che caratterizza il mondo della devianza, ma "extrema ratio". Maggior sviluppo va dato alle misure alternative alla detenzione, in modo che la maggior parte dei reati non venga più scontata nella segregazione del carcere, ma dentro la società e al servizio di essa. Migranti. Accoglienza, un simbolo per la Pasqua di speranza di Agnese Moro La Stampa, 16 aprile 2017 La Pasqua cristiana non è una festa tranquillizzante. Niente buoni sentimenti, niente armonia, ma la lotta concreta e perenne tra bene e male; tra morte e vita. Dove il bene e la vita sembrano sempre uscire sconfitti; eppure sono ancora qui, fragili, a influenzare le nostre scelte e a mostrare nuove speranze. Ci servono nuove speranze, in un mondo così segnato dalla violenza e dalla guerra, e da troppe vite innocenti spezzate o ferite. Molte di quelle vite ferite arrivano qui da noi, in cerca di protezione e di pace. Nel 2016 sono stati 181.436 gli arrivi in Italia di richiedenti asilo e di rifugiati; quelli arrivati via mare in Europa sono stati 362.376 (1.015.078 nel 2015); mentre nel mondo sono 65 milioni. Sono persone che scappano dalla violenza, dalla guerra, dalle torture, dalla morte. Sono 1 ogni 334 di noi, eppure li consideriamo un pericolo. Per fortuna c’è chi li accoglie, come il Centro Astalli, sede italiana del Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati. Loro vogliono "accompagnare persone" non limitarsi a erogare servizi. Come agiscono si può vede nel Rapporto 2017 (www.centroastalli.it), che non presenta solo cifre, ma anche la lettura critica di "quanto accaduto nel mondo dei rifugiati con l’aiuto di dati… anche qualitativi, frutto del contatto quotidiano con le persone". E di persone ne incontrano: nelle loro varie sedi hanno cercato di rispondere ai bisogni di 30.000 persone (metà a Roma). Le loro strutture di accoglienza hanno ospitato 900 persone (a Roma 234). I problemi segnalati non sono pochi, e molti derivano dalle scelte legislative e burocratiche che vengono fatte, rendendo più difficile, ad esempio, l’accesso al riconoscimento dello status di rifugiati e richiedenti asilo e alle prestazioni del Servizio sanitario nazionale. In altri casi, come quello dei minori non accompagnati, invece, l’intervento legislativo ha aperto le porte a una migliore protezione per questa fascia così importante. Attorno a loro, anche grazie all’impegno del Centro con le scuole e i giovani, crescono i volontari: 634 per la precisione, di cui 200 nuovi. Persone che, evidentemente, non hanno paura che il futuro sia diverso dal passato, né di perdere un pizzico di identità in favore della creazione di un Paese più colorato, coraggioso e capace di difendere con convinzione e orgoglio vite e persone. Dimostrando che la Pasqua non è stata vana. Migranti. Colpire le Ong per attaccare i salvataggi in mare di Nino Sergi* La Repubblica, 16 aprile 2017 I cinquemila morti nei naufragi all’anno stanno diventando una normalità, così come l’assuefazione a queste tragedie. Intanto va crescendo una ostilità verso le Ong impegnate nel Mediterraneo centrale in operazioni di salvataggio di persone in grave pericolo. Da qualche mese è andato crescendo, su più fronti, un attacco alle Ong impegnate nel Mediterraneo centrale in operazioni di salvataggio di persone in grave pericolo di affondamento. I cinquemila morti nei naufragi all’anno stanno diventando una normalità, così come l’assuefazione a queste tragedie. Ma c’è chi nella società, nella politica e nei media non accetta questo tipo di "normalità": sono molti, anche se il loro rumore è meno forte di quello sguaiato e grossolano di tanti che, senza avere alcun progetto realizzabile e soprattutto senza alcuna visone e strategia politica, riesce ad esprimere solo il rifiuto di guardare la realtà e di affrontarla salvaguardando i valori cristiani e illuministici, di giustizia, solidarietà, umanità che sono alla base della nostra convivenza. Una dozzina di navi delle Ong in mare. In particolare, alcune Ong hanno voluto esserci, di fronte al ritiro delle istituzioni e alle scelte securitarie e di corto respiro dell’Unione europea e dei suoi Stati membri. Sono Ong italiane, tedesche e spagnole che hanno messo in mare una dozzina di navi alla ricerca, talvolta disperata, di bambini, donne e uomini in balia delle onde. È un’azione che sta dando fastidio a chi, pur di limitare gli arrivi, è disposto a chiudere gli occhi sulle morti e, in definitiva, sul destino della nostra civiltà e dei suoi valori; a chi vorrebbe le Ong totalmente subalterne a scelte politiche disumane e embedded nel loro agire. Ecco perché l’attacco viene soprattutto da istituzioni, da partiti politici e da media sempre pronti a cavalcare la sensazione senza mai procedere alle necessarie verifiche. Ma vediamo di riprendere le tappe principali di questi ultimi mesi. Le insinuazioni di una Fondazione olandese. La Fondazione olandese Gefira pubblica un articolo, il 15 novembre 2016, in cui sostiene che "Ong, scafisti e mafia, in accordo con l’Unione europea, hanno trasportato migliaia di migranti illegali in Europa con il pretesto di salvare vite umane, assistiti dalla Guardia Costiera italiana che ne coordinava le attività". Le 15 navi monitorate per due mesi (utilizzate da MOAS, Jugend Rettet, Stichting Bootvluchting, Medici senza Frontiere, Save the Children, Proactiva Open Arms, Sea-Watch, Sea-Eye e Life Boat) "sono state viste regolarmente lasciare i porti italiani, dirigersi a Sud, fermarsi a poca distanza dalla costa libica, prelevare il loro carico umano e ripercorrere le 260 miglia verso l’Italia, benché il porto di Zarzis in Tunisia distasse solo 60 miglia … Le reali intenzioni di chi sta dietro alle Ong non sono chiare. Non ci sorprenderebbe se la loro motivazione fosse il denaro". Mentre il Financial Times rivela che... Il quotidiano britannico il 15 dicembre 2016, scrive di essere in possesso di un rapporto interno di Frontex nel quale l’Agenzia europea che gestisce e controlla le frontiere dell’Ue lamenta collusioni con i trafficanti di esseri umani sulle rotte migratorie tra Libia e Italia. I migranti riceverebbero "chiare indicazioni prima della partenza sulla direzione precisa da seguire, per raggiungere le imbarcazioni delle Ong". Frontex affermava inoltre che è stato perfino registrato un "primo caso in cui le reti criminali hanno trasportato i migranti direttamente sull’imbarcazione di una Ong" (senza però mai specificare quale) e che in generale le Ong non collaborano nella raccolta delle prove per le indagini sui trafficanti. L’accusa di fare "i taxi" dei migranti. Il rapporto Risk Analysis for 2017 di Frontex, pubblicato il 15 febbraio 2017, riprende la costruzione di Gefira e i contenuti del rapporto interno rivelati dal Finacial Times, affermando che le navi delle Ong, spingendosi fino alle acque territoriali libiche, si prestano a fare da taxi per i migranti, "inducono i trafficanti a una pianificazione e agiscono da pull factor (fattore di richiamo), aggravando le difficoltà inerenti al controllo delle frontiere e al salvataggio in mare … La presenza e l’attività delle Ong in prossimità e occasionalmente all’interno delle 12 miglia di acqua territoriali libiche è raddoppiata in confronto all’anno precedente. Frontex: "Così è difficile il controllo e l’indagine". Il direttore di Frontex Fabrice Leggeri, il 27 febbraio, in un’intervista a "Die Welt" afferma che è proprio il fatto che il 40% delle operazioni di salvataggio siano ormai condotte da Ong a rendere difficoltose le operazioni di indagine e di controllo. Il giorno successivo il Viceministro Mario Giro replica al direttore di Frontex: "Accusare le Ong che si prodigano a salvare vite nel mare significa accusare la scelta italiana che, fin dall’operazione Mare nostrum - e ora con Mare sicuro - non ha mai smesso di fare search and rescue. Dare la colpa all’ultimo anello della catena è non solo ingiusto ma anche miope: si tratta del solo anello di umanità in una catena di terribili ingiustizie. L’immancabile post che diventa virale. Il 6 marzo il blogger Luca Donadel posta un video sulla sua pagina Facebook titolato "La verità sui migranti", che è subito diventato virale ed è stato ripreso in varie trasmissioni televisive. Monitorando l’area in cui avvengono i salvataggi, si domanda se tali operazioni siano ancora definibili tali o non piuttosto un servizio taxi che fa risparmiare gli scafisti e agevola implicitamente i trafficanti, se la presenza delle Ong sia effetto o causa dell’altissimo numero di immigrati che arrivano in Italia e, infine, da dove vengono i soldi per finanziare tali operazioni. Le analisi della Procura di Catania. Il procuratore capo di Catania, Carmelo Zuccaro, che ha avviato un’indagine conoscitiva sulle Ong che operano nei salvataggi, nell’audizione del 22 marzo presso il Comitato parlamentare Shengen, ha dichiarato la volontà di "capire chi c’è dietro le associazioni umanitarie proliferate negli ultimi anni, da dove vengono tutti i soldi che hanno a disposizione e soprattutto che gioco fanno. Assieme a Frontex e alla Marina Militare, stiamo cercando di monitorare queste Ong che hanno dimostrato di avere una grande disponibilità finanziaria". Ma non c’è nessun fascicolo aperto. "L’altra cosa che vogliamo cercare di capire- dice ancora il procuratore Zaccaro - è se da parte di queste Ong vi è comunque quella doverosa collaborazione che si deve prestare alle autorità di polizia e alle autorità giudiziarie al momento in cui si pongono in contatto con l’autorità giudiziaria italiana". In ogni caso non c’è "nessun fascicolo aperto, ma soltanto un’analisi su un fenomeno che stiamo studiando da tempo", il procuratore Zuccaro non ha lesinato dichiarazioni, quanto meno imprudenti, alla stampa, senza soppesarne l’inevitabile strumentalizzazione e le chiacchiere a cui politica e media sembrano molto attenti, dato che sembra non interessare la ricerca della verità ma solo la captazione di "notizie" utili a giustificare le proprie predefinite posizioni politiche. La maggiore prudenza del Procuratore di Palermo. Il procuratore aggiunto di Palermo, Maurizio Scalia, che si occupa da anni di migranti e tratta di esseri umani, in una recente intervista si mostra più prudente. "Ipotizzare un reato è tutt’altro che semplice … Ad oggi non sono comunque emersi reati da giustificare l’adozione di provvedimenti da parte nostra … Se qualcuno va a soccorrere in mare un barcone di migranti, lo fa nello stato di necessità di salvare centinaia di vite umane … in che modo si potrebbe configurare un reato di favoreggiamento quando c’è qualcuno da soccorrere? … Concorso esterno? Entriamo nel fanta-giuridico, perché si dovrebbe ricollegare all’agire di chi viene chiamato a soccorrere persone in pericolo di vita". Lo stravagante rovesciamento di Frontex. Anche Frontex, con metodi comunicativi basati si indiscrezioni, fughe di notizie e dichiarazioni, e riuscita ad operare uno stravagante rovesciamento, ripreso alla grande dai media senza alcuna valutazione critica. Eccolo: le morti in mare, mai così alte come nel 2016, non sarebbero da imputare alla progressiva scomparsa delle attività di ricerca e soccorso degli Stati membri Ue ma alla presenza delle navi umanitarie nel Mediterraneo centrale. L’evidente obiettivo è quello di creare un’immagine negativa di tutto ciò che ostacola lo stretto controllo delle frontiere, divenuto prioritario rispetto alla stessa salvezza delle vite umane. D’altra parte l’accusa di fungere da pull factor era stata mossa perfino a Mare nostrum quando, il 4 settembre 2014, l’allora direttore esecutivo di Frontex Gil Arias-Fernandéz, durante un’audizione alla Commissione Libertà Civili del Parlamento europeo, affermò: "Con Mare nostrum il numero degli attraversamenti e degli arrivi era drasticamente aumentati". "Lo sguardo indipendente sulla Libia da fastidio". Ruben Neugebauer, portavoce di Sea Watch, accusa la politica europea: "Non ci vogliono in mare - ha denunciato a Lettera 43 - perché sanno che non solo salviamo vite umane, ma siamo anche un occhio libero e indipendente che monitora quanto sta accadendo in Libia. Mentre all’Ue vogliono eliminare il problema immigrazione facendo in modo che i migranti restino in Libia in condizioni disumane". È aumentata la retorica e la maldicenza. Arjan Hehenkamp, direttore generale di MSF, ha spiegato al Guardian come sia "aumentata la retorica e la maldicenza sul ruolo svolto dalle organizzazioni non governative in prima linea nella crisi migratoria, e come questo sia un tentativo di intimidire e screditare questo lavoro e di ridurre anche finanziariamente il supporto in loro sostegno … Se non fossimo presenti, non abbiamo alcun dubbio che il flusso di migranti sarebbe comunque continuato, comportando però un numero maggiore di morti in mare o molti più incidenti causati in operazioni di salvataggio delle navi commerciali". "La verità è che noi in mare non dovremmo proprio esserci - aggiunge Marco Bertotto di MSF Italia, ricordando i cinquemila morti del 2016 nel Mediterraneo - perché toccherebbe all’Europa, ai governi, alla politica creare un meccanismo di soccorso efficiente". Le operazioni di concerto con autorità italiane. Di dovere parla anche Moas, Migrant Offshore Aid Station, tramite il portavoce Giulio Marostica: "Finché ci sarà gente talmente disperata da tentare di attraversare il mare sui barconi della morte, noi faremo il possibile per essere in mare e salvare loro la vita, indipendentemente da quali siano le ragioni che spingono queste persone a rischiare la vita. Tutte le nostre operazioni sono condotte sotto l’egida del Centro di Coordinamento del Soccorso Marittimo di Roma, Imrcc, e seguono le istruzioni delle autorità italiane". Si agisce rispettando le convenzioni internazionali. Valeria Calandra, presidente della sezione italiana di Sos Méditerranée è sorpresa che "la nostra missione, salvare vite, possa essere considerata un ostacolo al contrasto di questo orrendo traffico di vite umane. Noi siamo esclusivamente un’organizzazione umanitaria … Agiamo sulla base delle convenzioni internazionali che prescrivono l’obbligo di soccorrere imbarcazioni in pericolo. Ancora una volta vogliamo sottolineare che non è compito nostro esaminare la posizione dei singoli, stabilire chi abbia diritto di rimanere nel nostro paese perché titolare di protezione internazionale e chi non ne abbia invece i requisiti … Le attività di soccorso in mare sono la risposta della società civile al disastro umanitario che si consuma nel Mediterraneo". Non si vogliono testimoni scomodi. Chiaro il dossier dell’Associazione Diritti e Frontiere (Adif): "Perché danno fastidio le Ong che salvano i migranti in mare?" "Dopo il sostanziale ritiro dell’operazione Triton di Frontex, in un mare sempre più militarizzato, pattugliato dalla Nato e da Eunavfor Med, a fare search and rescue sono rimaste quasi soltanto le navi umanitarie, insieme alla Guardia Costiera italiana ed alla Marina Militare italiana con l’operazione Mare Sicuro. É forte l’impressione che si voglia evitare di avere testimoni scomodi. Desta meraviglia quanto affermato dal senatore La Torre. Una certa meraviglia hanno destato le parole del presidente della Commissione Difesa del Senato Nicola Latorre dopo la testimonianza resa dal Procuratore Carmelo Zuccaro il 22 marzo. Annunciando l’avvio di un’indagine conoscitiva, ha affermato che "ci sono troppi punti interrogativi e vogliamo chiarirci, rispondere a qualche curiosità… e chissà che non aiuteranno a svelare qualche magagna". Strano dichiarazioni, in un presidente di Commissione parlamentare. Le Ong sono lì, ben visibili, operano in stretto coordinamento e secondo le indicazioni della Guardia Costiera. Per fare chiarezza basta chiedere alle Ong. Nell’audizione del 6 aprile, l’ammiraglio Enrico Credendino, comandante dell’operazione Sophia che ha il compito di smantellare i traffici, ha confermato che "il coordinamento con Triton, la Nato e le Ong funziona" e che periodicamente sono organizzati forum di tutti gli attori, comprese le Ong, per migliorare le operazioni e coordinare meglio gli interventi. Ci sarebbe voluto poco, quindi, a chiedere alle Ong (magistratura, parlamento, istituzioni) tutte le informazioni che possono fornire chiarezze e certezze: sono ben felici di fornirle, dato che la trasparenza è una componente essenziale della loro esistenza. Finalmente ciò sarà fatto nel ciclo di audizioni della Commissione Difesa: tra il 12 e il 26 aprile i senatori sentiranno Proactiva Open Arms, Medici senza Frontiere, Save the Children, Life Boat, Moas. Aspettiamo di conoscere i presunti "misfatti" dei loro salvataggi in mare. La collaborazione con le istituzioni. Una riflessione finale va ripresa, sulla collaborazione con le istituzioni. Nelle azioni umanitarie, come in quelle di sviluppo, le Ong sono abituate ad interrogarsi e a valutare le situazioni. Lo fanno in modo indipendente, per evitare errori e per migliorare e rendere più efficaci i loro interventi. Anche in questo caso una riflessione e un’attenta analisi deve essere fatta, più di quanto già non si stia facendo, pur partendo dalla inderogabilità dei principi umanitari. Come si fa a salvare vite e a non aiutare i trafficanti. Come far sì che i doverosi soccorsi in mare non producano l’effetto negativo di un involontario aiuto ai trafficanti di esseri umani che possono approfittarne per aumentare le loro azioni criminali, organizzando l’arrivo massiccio di migranti lungo le coste nordafricane e in definitiva aumentando i morti in mare? Più di tredicimila, da quel terribile 3 ottobre 2013 al largo di Lampedusa, rappresentano una carneficina che deve interrogarci quotidianamente, farci riflettere, anche perché cresce di anno in anno. Se questo è il tema e non la subalternità ai diktat di scelte disumane o ad obiettivi a loro estranei, allora le Ong sono aperte alla collaborazione, come dimostrato anche in passato. *Nino Sergi, presidente emerito di Intersos e policy advisor di Link 2007 Turchia. Erdogan, il calciatore dilettante che volle farsi Reis di Alberto Negri Il Sole 24 Ore, 16 aprile 2017 A Kasimpasa anche lo stadio è intitolato a suo nome e per l’ultimo comizio elettorale i suoi sostenitori lo attendono sul Bosforo scaldando l’atmosfera come una tifoseria da curva sud, con un repertorio di inni e di cori che non finisce mai. Al suo arrivo esplodono. Le sue foto compaiono ovunque: gigantografie sui palazzi ma anche ritratti più modesti nelle botteghe del quartiere e per chi non ne avesse abbastanza al cinema proiettano "Reis", la sua biografia, una mega produzione da otto milione di dollari dell’imprenditore Temel Kankiran, che però al botteghino non ha reso quanto ci si aspettava. Ma il culto della personalità è salvo: solo l’immagine di Ataturk nella Turchia contemporanea può fare concorrenza a quella del presidente che con il referendum sulla riforma costituzionale vuole i pieni poteri. L’attesa per il suo arrivo si fa sempre più fremente e l’organizzazione del partito, l’Akp, non lascia nulla al caso: distribuzione di cibo, bevande e bandiere a volontà, con una sola scritta d’obbligo "Evet", cioè "si". Sul megaschermo si possono seguire in diretta gli altri comizi di Erdogan a Istanbul: cinque in una giornata. Un presenzialismo che unito al predominio assoluto sui media - al fronte del No restano solo briciole di propaganda - denuncia però qualche nervosismo sul risultato, ancora in bilico negli ultimi sondaggi. Il film Reis comincia proprio qui a Kasimpasa dove è nato 63 anni fa. L’uscita del film, con lunghi piani sequenza e musica altamente emotiva, era prevista a ottobre ma è stata anticipata a marzo, nel pieno della campagna referendaria. Cresciuto in una famiglia tradizionale originaria di Rize sul Mar Nero, è proprio a Kasimpasa che Tayyip Erdogan nuove i primi passi da calciatore per arrivare a giocare nei semiprofessionisti. Ma le modeste condizioni della famiglia lo obbligano per mantenersi a vendere ciambelle e limonate. È qui che entra in politica nella sezione locale dell’Unione nazionale degli studenti, un gruppo di azione anti-comunista e nel 1974, tra l’altro, scrive e interpreta il ruolo di protagonista nella commedia "Maskomya", che presenta giudaismo e comunismo come il male assoluto. Ma il vero salto avviene con l’ingresso nel movimento islamista di Necmettin Erbakan: nel 1991 viene eletto in Parlamento e tre anni più tardi sindaco di Istanbul, rivelandosi un leader pragmatico, impegnato a risolvere problemi concreti come il traffico, l’inquinamento e l’approvvigionamento di acqua. Nel 1998 viene arrestato per aver pubblicamente declamato alcuni versi del poeta Ziya Gokalp in cui tra l’altro si legge che "le moschee sono le nostre caserme e i minareti le nostre baionette". Uscito dal carcere, Erdogan fonda l’Adalet ve Kalkinma Partisi (Akp), il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo, il partito islamico che nel 2002 vince le elezioni. Riabilitato nel 2003 assume la carica di premier e nel 2014 va alla presidenza sostituendo il compagno di strada Abdullah Gul. Di quel gruppo dirigente che diede vita all’Akp ai vertici del partito o nel governo non c’è più nessuno: Erdogan ha fatto fuori tutti i possibili concorrenti o anche soltanto quelli che osavano criticarlo. Qui a Kasimpasa trova però soltanto sostenitori fedeli ed entusiasti: il suo quartiere e l’intera città sono il suo grande palcoscenico. Figlio di una modesta famiglia di immigrati è diventato un capo ricco, potente e con il referendum vuole dal suo popolo l’investitura finale: potrà restare in carica fino al 2034. Per metà del Paese è il simbolo di quei cittadini della Turchia profonda che sono arrivati a farsi strada nella metropoli, per l’altra metà è soltanto un altro detestabile "Reis" mediorientale. Siria. Autobomba contro i pullman dei civili in fuga: 100 morti di Chiara Cruciati Il Manifesto, 16 aprile 2017 Attacco contro l’accordo delle "quattro città": tra le vittime donne, anziani e malati colpiti durante l’evacuazione dalle comunità assediate. Faida interna alle milizie anti-Assad: già a dicembre altri assalti bloccarono il trasferimento. Avevano quasi raggiunto Aleppo dopo giorni di attese e rinvii quando l’autobomba è saltata in aria. L’esplosione ha investito in pieno la testa del convoglio di 70 autobus e 20 ambulanze nella zona di Rashidin: si parla di morti, decine di feriti. Una carneficina di donne, bambini e malati, i primi ad essere evacuati sulla base dell’accordo stipulato dal governo di Damasco e i gruppi di opposizione con la mediazione di Iran e Qatar. Ad essere coinvolte nell’evacuazione sono quattro cittadine, sotto assedio da maggio-giugno 2015: due dal governo, Madaya e Zabadani, villaggi sunniti al confine con il Libano; e due dalle opposizioni islamiste, Fua e Kefraya, comunità sciite nella provincia di Idlib. Ad unirli lo stesso dramma: assedio, fame, assenza di acqua e medicinali. Fino all’accordo di pochi giorni fa, ribattezzato "delle quattro città": gli abitanti di Fua e Kefraya dovevano raggiungere Aleppo, quelli di Zabadani e Madaya Idlib. 30mila le persone coinvolte nel trasferimento, da molti criticato perché visto come un modo per modificare la demografia della Siria. Damasco rassicura i civili: una volta che le aree saranno pacificate (ovvero ripulite dai gruppi armati) potrete tornare a casa. Ma i dubbi restano visti i tempi dilatati (Idlib è quasi del tutto in mano a islamisti e salafiti, con a capo i qaedisti dell’ex al-Nusra) e gli interessi geografici in capo ai due fronti. Le immagini che ieri arrivavano dal luogo dell’attacco, perpetrato da milizie contrarie all’accordo, mostravano i bus con a bordo le famiglie sciite da Fua e Kefraya completamente distrutti, il fumo che si alzava dai resti accartocciati. Vetri infranti, ma soprattutto decine di corpi massacrati. Si vedrà se il trasferimento proseguirà: quelli di ieri erano i primi bus dalle città assediate, per un totale previsto di 8mila persone (di cui 2mila miliziani). Una situazione molto simile a quella del 18 dicembre: gruppi di opposizione diedero fuoco a sei autobus in partenza da Fua e Kefraya, bloccando di fatto l’evacuazione di 1.200 persone, per lo più anziani e malati. Tali attacchi svelano le faide interne al fronte anti-Assad: a provocare le fratture più serie è stata a fine dicembre la tregua di Aleppo e la decisione di alcuni gruppi, sia laici che salafiti, di aderire al processo di Astana. Decisione che ha aizzato l’ex al-Nusra che in pochi giorni ha completamente cancellato un’intera unità dell’Esercito Libero Siriano, prima di rivolgersi contro gli alleati di Ahrar al-Sham (confronto poi rientrato). La guerra prosegue, invisibile, eccezion fatta per gli attacchi sfruttabili dagli incendiari (vedi i 59 missili lanciati da Trump) prima di inchieste indipendenti. Un copione conosciuto. Ieri sull’indagine è tornata la Russia, dopo aver messo il veto alla risoluzione Onu che chiedeva l’intervento dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche: secondo Mosca, la risoluzione era limitata perché non prevedeva la visita alla base colpita dall’aviazione Usa, da dove secondo i pro-Assad sarebbero partiti i raid a base di gas contro Khan Sheikun, il 4 aprile. Ieri il ministro degli Esteri Lavrov ha annunciato pressioni all’Onu perché invii con urgenza suoi ispettori nella base, richiesta appoggiata stavolta anche dalla Turchia del piede in due staffe: un giorno plaude alle bombe in solitaria di Trump, quello dopo segue la scia russa. Iran: Sette anni di incertezza e di mancanza di cure mediche per un prigioniero di coscienza ncr-iran.org, 16 aprile 2017 Nonostante la Corte Suprema del regime abbia revocato la condanna a morte per il prigioniero di coscienza Anwar Khezri, egli continua ad essere detenuto nell’incertezza nel carcere di Rajai Shahr. Questo prigioniero di coscienza è stato in carcere per 7 anni dal 2009. Soffre di diverse malattie, ma le autorità del carcere gli impediscono il ricovero e le cure. Anwar Khezri è stato in carcere per un lungo periodo e qui ha subito tremende torture. Soffre di dolori al torace e anche di asma. Oltre a negargli le cure mediche, è stata anche smarrita la sua cartella clinica. Durante la sua detenzione nel carcere del Ministero dell’Intelligence ad Urmia, Anwar Khezri è stato torturato per estorcergli una confessione. Nel corso delle torture, i suoi aguzzini usavano un ferro da un chilo per colpirlo sul petto e questo gli ha provocato ferite gravissime. Sottoposto a tremende pressioni, nel 2015 è stato ricoverato nell’ospedale di Rajai Shahr a Karaj. Dopo diversi esami fisici, i medici hanno diagnosticato che il suo malessere era il risultato di un grave trauma e che, in base agli esami, hanno confermato che doveva essere ricoverato in ospedale con urgenza per essere curato. Ma proprio allora la sua cartella clinica è scomparsa misteriosamente in carcere. Una fonte vicina a Khezri ha detto: "Anwar non è in buone condizioni di salute e aveva chiesto un’attenzione immediata per i suoi problemi. Ha definito la privazione delle cure mediche e la perdita della sua cartella clinica ‘un omicidio bianco da parte delle autorità carcerariè". La fonte ha aggiunto che dopo diversi mesi di controlli, i medici dell’infermeria del carcere finalmente hanno ordinato la ripetizione degli esami e dei test già fatti ad Anwar, che dovranno essere eseguiti in un ospedale al di fuori del carcere. Ma pur avendo sottolineato l’urgenza di questi esami, nessun provvedimento è stato ancora preso a riguardo. Anwar Khezri, insieme ad altri sei suoi compagni di cella, si trova in carcere dal 16 Dicembre 2009. Alla fine di Marzo 2015, si è tenuto il processo dei sette detenuti presso la Sezione 28 del Tribunale Rivoluzionario di Teheran presieduto dal giudice Moqaiseh, per i reati di "atti contro la sicurezza nazionale", "propaganda contro il sistema", "appartenenza a gruppi salafiti" e "corruzione della terra". Il 5 Giugno 2016, la loro condanna al carcere è stata ufficialmente annunciata. Dopo che l’avvocato ha presentato ricorso contro questa sentenza, il caso è stato portato di fronte alla Corte Suprema che l’ha revocata alla fine dell’anno scorso. Colombia. Nel villaggio dove le Farc imparano la pace: "Ora combattiamo con le parole" di Filippo Femia La Stampa, 16 aprile 2017 Viaggio nell’accampamento dei guerriglieri nella giungla. Fra lezioni e assemblee, così si preparano alla vita civile: "Non ci siamo arresi, lotteremo come partito politico". La pace, per i guerriglieri delle Farc, ha il sapore di una sigaretta dopo il tramonto. Un piacere vietato durante la guerra, quando gli aerei dell’esercito setacciavano la giungla al buio: qualsiasi fonte luminosa era bersaglio di un bombardamento. Lo scorso novembre - dopo 52 anni di guerra e 260 mila morti - è stato firmato lo storico accordo di pace. A gennaio 7 mila guerriglieri hanno compiuto a ritroso il percorso che li aveva portati nella giungla: ora sono concentrati in 26 zone di "transizione e normalizzazione", accampamenti in cui si preparano al reinserimento nella vita civile. La zona "Antonio Nariño" ospita 350 guerriglieri. Si trova nel dipartimento di Tolima, culla delle Farc, quattro ore di auto a Sud-Ovest di Bogotà. Bisogna avventurarsi nella fitta vegetazione della selva e imboccare una mulattiera che si arrampica tra alberi di guayaba, palme e banani. Icononzo, la città più vicina, è a un’ora di distanza. Un ripido sentiero conduce all’ingresso, una zona di ricezione dove alcuni ragazzi guardano una partita del Real Madrid. Altri lavano piatti e tazze della colazione. La vita scorre con una normalità inimmaginabile fino a qualche mese fa. Alex Lopez siede a un tavolo di legno. Ha 21 anni ma i baffetti di un adolescente. Indossa una bandana del Frente Carbonero, di cui faceva parte. Si è arruolato a 13 anni, anche se lo statuto della Farc proibiva il reclutamento fino ai 15. Ha da poco riabbracciato la mamma. "Non la vedevo da otto anni. Le ho telefonato una sola volta, cinque anni fa. Mi credeva morto: ho dovuto dirle il numero del documento per convincerla". Una storia come tante. Giovanissimi arrivati da zone rurali poverissime e abbandonate dallo Stato. Contadini senza speranza, che hanno lasciato casa a caccia di un riscatto con la guerriglia. Per raggiungere l’accampamento vero e proprio bisogna attendere il via libera dei comandanti. Poi si sale, scortati da un guerrigliero, verso un sentiero che si apre su una radura. Le uniformi sono scomparse. Qualcuno indossa bandane o camicie mimetiche, ma sono più numerose le magliette da calcio di squadre europee. Anche le armi non ci sono più: tutte catalogate, verranno affidate a delegati dell’Onu. Ma non ci saranno immagini della consegna: evocherebbero una resa che le Farc vogliono evitare. "Qui non ci sono vincitori né vinti", è il refrain ripetuto dai comandanti. Fucili e pistole saranno fusi e usati per creare monumenti da installare in Norvegia, Cuba e Colombia. Qui tutti indossano abiti civili - gli stivali, simbolo delle Farc, sono l’unico retaggio dell’equipaggiamento da guerriglieri - ma la disciplina militare è intatta. Sveglia alle 4,50, alle 5 tutti sull’attenti in attesa degli ordini: niente più missioni o turni di guardia. Si pianifica la giornata tra studio e laboratori formativi. La 33enne Mireya Suarez, nelle Farc da quando aveva 19 anni, fissa alcune frasi scritte su una lavagna. È da questa aula improvvisata che passa la reintegrazione nella vita civile dei guerriglieri. Là fuori li attende un mondo sconosciuto dopo decenni trascorsi nella giungla. "Sono ottimista per il futuro - racconta Mireya -. Non ho mai vissuto in città, dovranno essere gli altri colombiani a insegnarmi". Il primo passo sarà disfarsi del nome di battaglia, che tutti continuano a usare, e riappropriarsi dell’identità perduta. La "nuova" vita è piena di incognite. Quando si domanda ai guerriglieri cosa li spaventa, le risposte sono due. "Ho paura del rifiuto dalla società", spiega Carolina, 33 anni. "Mi terrorizza la vendetta dei paramilitari", dice sottovoce il 36enne Abram. Presto le Farc diventeranno un partito politico e molti temono rappresaglie degli squadroni della morte di estrema destra. Nella storia colombiana aleggia un precedente macabro: l’Union Patriotica, partito di sinistra sterminato (5 mila morti tra candidati e militanti) dai paramilitari negli Anni 90. A vederli così, mentre cucinano e ti offrono un piatto di platano fritto, riesce difficile immaginare che questa guerriglia - la più longeva dell’America Latina - ha tenuto sotto scacco il governo colombiano con attentati e sequestri. Ma nei loro racconti c’è tutto l’orrore della guerra. Una spirale di violenza di oltre mezzo secolo, dove le vere vittime sono stati civili: l’80% del totale. "Riconosciamo i nostri errori - dice Vladimir, 27 anni, da 12 anni nelle Farc -. In guerra salta ogni regola. Ma bisogna capire che anche noi siamo vittime. L’esercito ha ucciso mia mamma e i paramilitari mi hanno portato via molti amici. Per la riconciliazione in Colombia sarà fondamentale capire le radici di questo conflitto", dice mentre taglia alcuni fagiolini, ascoltando un brano di Laura Pausini. Poco più in là Daniel si lava vicino a una cisterna. La mano con cui impugnava l’arma non c’è più, cancellata dalla mitragliata di un paramilitare: "Nell’imboscata ho perso tutti i compagni, io mi sono nascosto. Mi hanno trovato tre giorni dopo, ma il mio braccio destro era andato: me lo hanno amputato nel campo". Sul fianco ripido della collina sorgono decine di tende rudimentali, teloni di plastica sorretti da pali di bambù, al cui interno i guerriglieri dormono. Delle 26 zone transitorie, "Antonio Nariño" è quella che ha subito più ritardi: mancano l’elettricità, il sistema fognario e molte strutture. "Tutto quello che vedi, l’abbiamo costruito noi", dice Fernando Ordoñez, ex comandante del Bloque Oriental, con ampi gesti delle braccia. "Il governo di Santos non ha mantenuto le promesse, ma noi andiamo avanti. Abbiamo sempre lottato per lasciare i fucili e combattere con le parole". La situazione sanitaria è preoccupante. Ci sono solo 8 bagni per 350 persone (gli accordi ne prevedevano uno ogni cinque). L’acqua arriva da un fiume e ci si lava con scodelle che attingono da una maxi cisterna di acqua fredda. Lo scorso mese è stato scoperto un batterio nell’acqua e 90 persone si sono ammalate. Ma il governo non ha preso provvedimenti. L’indottrinamento marxista ha lasciato segni. Il sogno di Lieber, un giovane con i baffi da bandolero, è viaggiare all’estero. Dove? "In uno di quei Paesi poveri e oppressi dall’imperialismo Usa, come la Cina o la Russia". Poco più in là una ragazza con il piercing al naso rincorre il cucciolo di una cagnolina: "L’ho chiamata Siria, in onore della resistenza del popolo siriano all’invasione yankee". È il risultato di decenni di retorica anti statunitense. "La pace è stata firmata, ora bisogna costruirla". È una frase che molti ripetono. La situazione va ora completata con un accordo tra governo ed Eln (Esercito di liberazione nazionale), l’altro gruppo guerrigliero colombiano di ispirazione maoista. Ma le elezioni del 2018 sono un ostacolo in un Paese fortemente polarizzato. "Difficilmente si arriverà a un’intesa prima del voto", dice Eamon Gilmore, inviato speciale dell’Ue per la pace in Colombia. "Ma il processo di pace difficilmente sarà reversibile". Per l’implementazione sarà fondamentale la riforma agricola, in uno dei Paesi più diseguali al mondo (due terzi delle terre in mano allo 0,4% della popolazione). Bisognerà restituire casa e speranza a 8 milioni di sfollati. Ma è cruciale l’educazione, per evitare che si ripeta il fallimento della smobilitazione dei paramilitari negli anni 2000. Privi di opportunità lavorative, sono tornati a imbracciare le armi. E ora terrorizzano la popolazione nei territori da cui le Farc si sono ritirate.