Lavoro, diritti, salute, dignità. Le sfide da vincere dietro le sbarre di Viviana Daloiso Avvenire, 15 aprile 2017 Il sovraffollamento, i suicidi (tra i detenuti, tra gli agenti della Polizia penitenziaria), i progetti di recupero che non decollano, o che proprio non esistono. Ma anche quello che, nelle carceri, è cambiato negli ultimi anni, pur con le problematicità che sono sotto gli occhi di tutti: la chiusura degli Opg, la detenzione dinamica (con le celle aperte e la maggiore mobilità garantita ai detenuti), le risorse che (seppure non in modo omogeneo) hanno garantito nuove posizioni negli organici. Il mondo in cui, per la seconda volta in venti giorni, è entrato Papa Francesco è ferito, stanco, arrabbiato eppure anche pieno di speranza e di entusiasmo. C’è chi in queste ore è in stato di agitazione, come la Federazione nazionale della sicurezza della Cisl, e coglie l’occasione per fare il punto su quello che dovrebbe cambiare, subito. "Mancano all’appello 5mila agenti - sottolinea il segretario generale Pompeo Mannone - e questa voragine nell’organico costringe tutti gli altri a doppi turni, uno stress da lavoro che sempre più spesso vediamo riflesso nelle problematiche psichiche del personale, nelle fratture familiari, persino nei suicidi, come quello dell’agente di Marsala appena tre giorni fa". Il giudizio della Cisl è impietoso: "Purtroppo, ad oggi gli sforzi profusi dal governo tramite apposite leggi relative al superamento del sovraffollamento e quindi alla realizzazione di migliori condizioni sia per il detenuto che per chi lavora negli istituti penitenziari, non hanno prodotto alcun risultato significativo", denuncia Marinone. Che chiede un ripensamento del sistema "in termini strutturali e non episodici". Una rivisitazione dell’intero sistema penale, "determinando tempi ragionevoli dei processi nonché certezza della pena ed investendo sulle risorse umane, formando il personale. Non serve chiedere con una circolare che la cella non venga più chiamata così, ma "luogo di pernottamento". È di concretezza che abbiamo bisogno". Un bilancio più positivo quello dell’associazione Antigone, da anni impegnata sul fronte della difesa dei diritti dei detenuti. "La verità è che veniamo da una stagione positiva di riforme, in cui tante cose sono cambiale in meglio - spiega Alessio Scandurra, responsabile dell’Osservatorio nazionale sulle condizioni di detenzione: penso alla chiusura degli Opg per esempio, alla maggior mobilità dei detenuti negli istituti, alla fiducia sulle deleghe data al governo per la riforma dell’ordinamento penitenziario che arriverà, se gli impegni presi verranno mantenuti". Anche i gesti e le parole del Papa, da questo punto di vista, sono dirompenti. "Andare fra i detenuti, nelle carceri, significa rimettere questo mondo al centro dell’attenzione, renderlo prioritario e soprattutto concreto, reale". Le ferite aperte, secondo Antigone, restano "purtroppo certi dibattiti della politica sulla sicurezza, sulla legittima difesa e l’uso delle armi che in queste ultime settimane abbiamo sentito e che ci spaventano moltissimo", continua Scandurra. Oltre al numero di detenuti (per la prima volta tornato a crescere, anche se di poco, "ed è il segnale di una tendenza che va subito fermata") e al grande problema della salute dei detenuti. "La qualità dei servizi, che dal 2008 è in carico alle Asl, è purtroppo ancora scadente. Significa che dietro alle sbarre il diritto alla salute e alle cure è meno garantito che fuori, e questo non è accettabile". Altro nodo scoperto, il lavoro. "Abbiamo capito che è fondamentale nel processo di recupero dei detenuti, abbiamo messo a fuoco gli strumenti che ci servono per renderlo possibile nelle carceri, abbiamo la grazia di 2.400 detenuti che già lavorano (e proficuamente) dietro le sbarre - spiega Nicola Boscoletto, anima del consorzio di cooperative Giotto del Due Palazzi di Padova, eppure siamo fermi. Anzi, con i tagli lineari al personale previsti nel rifinanziamento della legge Smuraglia rischiamo di veder vanificati gli sforzi compiuti negli ultimi armi, e di dover licenziare detenuti invece che assumerne di nuovi". Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, mercoledì ha assicurato più risorse per il lavoro dei detenuti. "Prendo quelle parole come un’assicurazione e un impegno - continua Boscoletto, nello stesso tempo guardo con commozione al Papa che entra di nuovo in un carcere senza troppe parole, ma con gesti straordinari. Troppo spesso, in carcere, viviamo il cortocircuito tra il dire e il fare: sentiamo dire quello che andrebbe fatto, di più, lo sappiamo, abbiamo tutti gli strumenti per farlo, ma poi i falli non ci sono. Francesco non dice, fa. Vive il carcere, prima che parlarne. È l’esempio che dobbiamo seguire". In Marcia per l’amnistia. Pronti alla "class action" sull’ergastolo e il carcere duro di Valentina Stella Il Dubbio, 15 aprile 2017 Rita Bernardini: "Dobbiamo riportare l’amministrazione della giustizia e delle carceri nei parametri costituzionali". Sergio D’Elia: "Ricorreremo al Comitato diritti umani dell’Onu e al comitato contro la tortura su 41bis e 4bis". Il Partito Radicale torna a manifestare domani per la V Marcia di Pasqua per l’Amnistia affinché, come scrivono gli organizzatori nel manifesto dell’evento, "lo Stato di Diritto possa e debba prevalere nella vita pubblica del Paese, partendo proprio dalla sofferenza in cui versa la giustizia italiana". A cinque mesi dalla IV Marcia, in concomitanza con il Giubileo dei carcerati voluto da Papa Francesco, dirigenti e militanti radicali scenderanno nuovamente tra le strade di Roma - dal carcere di Regina Coeli sino a Piazza San Pietro - volendo trasmettere il messaggio politico del loro leader Marco Pannella, scomparso lo scorso maggio: "La nostra richiesta di amnistia non è quel "gesto di clemenza" che chiede il Papa. Noi vogliamo un’amnistia "legalitaria", cioè che ripristini le condizioni di legalità costituzionale nei tribunali e nelle carceri, contrapposta a un’altra amnistia: quella strisciante, clandestina, di massa e di classe che si chiama "prescrizione". Noi vogliamo un’amnistia che sia propedeutica a una grande riforma della giustizia penale. Chiediamo anche una riforma della giustizia civile, la cui paralisi penalizza i privati e le imprese, scoraggia gli investimenti esteri e comporta costi enormi per l’economia nazionale. Chiediamo una Grande Amnistia per la Giustizia, per la Costituzione, per la Repubblica". Molte le adesioni pervenute dal mondo politico, della cultura e del giornalismo: don Luigi Ciotti, Riccardo Iacona, Lucia Annunziata, Annalisa Chirico, Adriano Sofri, Arturo Diaconale, Gianmarco Chiocci, Piero Sansonetti, Giuliano Ferrara, Flavia Fratello, Oliviero Toscani, Ilaria Cucchi, Erri De Luca, Alessandro Cecchi Paone, Gad Lerner, Alberto Matano, Giulia Bosetti, Marco Risi, Piero Pelù, Sandro Gozi, Beatrice Lorenzin, Lucio Barani, Enrico Buemi, Franco Carraro, Monica Cirinnà, Franco Corleone, Francesca Scopelliti, Loredana De Petris, Vincenzo Vita, Mario Marazziti, Valter Verini. Motore della marcia Irene Testa, segretaria dell’associazione radicale "Il Detenuto Ignoto" a cui chiediamo perché tornare a marciare a distanza di poco dall’ultima marcia. "La situazione peggiora di giorno in giorno sia sul fronte carceri che su quello della giustizia. A differenza delle altre è una marcia ancora più convinta, fatta di persone coraggiose che hanno deciso di metterci la faccia per chiedere che il Parlamento si occupi di questi temi". Però, fatta eccezione per il Partito socialista, si tratta di adesioni a livello personale da parte dei parlamentari. "La nostra classe politica ha sempre più paura del nome "amnistia". Tuttavia credo che l’intero Pd così come Forza Italia avrebbero dovuto aderire. Il problema è che manca l’informazione su questo tema e quindi i cittadini non sono messi a conoscenza dei vantaggi sociali ed economici che ci sarebbero con una riforma strutturale della giustizia. Se lo fossero, spingerebbero i loro rappresentanti politici a fare qualcosa: non necessariamente un provvedimento di amnistia ma qualcosa che ad esempio eviti le migliaia di ingiuste detenzioni e errori giudiziari, o diminuisca i tempi della custodia cautelare. Basti pensare che, come emerge dal sondaggio commissionato da Fino a prova contraria, 9 italiani su 10 ritengono che la giustizia vada riformata". In prima fila domani ci sarà ovviamente Rita Bernardini, della presidenza del Partito Radicale, che ha digiunato per 31 giorni insieme a circa 20.000 detenuti. La domanda per lei è molto semplice: anche l’ 8 aprile 2012, sempre a Pasqua, marciavate con gli stessi obiettivi, e così anche nel Natale 2005. Si sono fatti passi avanti per una giustizia giusta in tutti questi anni? "Da allora abbiamo avuto la sentenza della Corte Europea dei Diritti Umani che ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 3 della Convenzione, cioè per trattamenti inumani e degradanti nelle nostre carceri e il messaggio costituzionale - tanto voluto da Marco Pannella - del Presidente della Repubblica Napolitano alle Camere. Abbiamo contribuito in modo determinante a portare a conoscenza di fasce importanti della popolazione il problema delle infami carceri italiane e di una giustizia letteralmente fuorilegge perché non governata nelle sue irragionevoli lentezze e nei suoi macroscopici errori solo sporadicamente risarciti. Piccoli passi sono stati sicuramente fatti e cito ad esempio gli Stati Generali dell’Esecuzione Penale, ma il rischio è che non venga fatto ciò che in uno Stato democratico deve essere obbligato: riportare l’amministrazione della Giustizia e delle carceri nei parametri costituzionali". Perché è così difficile condividere politicamente il provvedimento di amnistia? "Per anni i rappresentanti del governo ci hanno detto di voler perseguire il rientro nella legalità con i più diversificati provvedimenti a patto di escludere amnistia e indulto. Il risultato è che le cosiddette norme svuota- carceri o accelera- processi si sono dimostrate del tutto inidonee a consegnare al Paese una pena e un processo "legali". Parlano di misure "strutturali" - lo stesso ministro Orlando ha seguitato a ripeterlo - ma ci fanno fare i conti con il sovraffollamento penitenziario che riprende vigore, con i suicidi e le morti in cella, con i mancati percorsi rieducativi e con dati che continuano ad essere abnormi per la custodia cautelare in carcere. Il problema serio è che la classe politica - ormai da decenni - si è auto- castrata, rinunciando al ruolo affidatogli dai padri costituenti di amministrare il sovraffollamento carcerario e quello dei processi attraverso leggi di amnistia e di indulto che ne riducano l’effetto devastante sulla vita dei cittadini. Il nostro compito, credo, sia di riportare a ragionevolezza e responsabilità i rappresentanti delle istituzioni". Un obiettivo che accomuna il Partito Radicale con Papa Francesco è l’abolizione dell’ergastolo, che il Santo Padre ha definito "una pena di morte nascosta". Sergio D’Elia, Segretario di Nessuno Tocchi Caino, sta girando l’Italia con il docu-film diretto da Ambrogio Crespi "Spes contra spem" che evidenzia le storture del fine pena mai. "Il superamento del 41 bis - dice D’Elia e l’abolizione dell’ergastolo, a partire da quello ostativo alla concessione di benefici penitenziari e misure alternative al carcere, sono nostri obiettivi prioritari, perché il carcere e la pena tornino a essere in Italia coerenti con il dettato costituzionale, volti cioè a recuperare le persone e a prepararle a un ritorno in società. L’uomo della pena non può essere pietrificato e marchiato a vita come l’uomo del delitto. Purtroppo, non nutro molta fiducia che questo Parlamento dei nominati dai partiti rimedi a leggi e armamentari speciali instaurati dal "partito unico dell’emergenza" che ha dominato in Italia per decenni e che ha alimentato e si è alimentato di ogni tipo di emergenza. Con Nessuno tocchi Caino e con il Partito Radicale stiamo operando per adire alle massime magistrature, nazionali e sovranazionali, contro le norme dell’articolo 41 bis sul carcere duro e dell’art. 4 bis sui reati ostativi, stabilite entrambe un quarto di secolo fa e mai messe in discussione se non per aggravarle. Abbiamo iniziato a raccogliere nelle sezioni di massima sicurezza le firme individuali dei detenuti che ci danno il mandato, assistiti dallo studio del professor Andrea Saccucci, di ricorrere in sede Onu al Comitato Diritti Umani e al Comitato contro la Tortura. Sarà, di fatto, la più grande "class action" che partirà dalle sezioni di alta sicurezza di Voghera, Secondigliano, Opera e Parma sul "caso Italia" relativo ai trattamenti inumani e degradanti riservati ai detenuti sottoposti al carcere duro e all’ergastolo senza speranza". Verini (Pd): detenzione umana e reinserimento per sicurezza di tutti Con queste motivazioni alla Marcia di Pasqua dei radicali. "Anche quest’anno parteciperò alla Marcia di Pasqua da Regina Coeli a San Pietro promossa dai radicali. Lo faccio perché la manifestazione tiene acceso, una volta di più, un faro sulla situazione delle carceri italiane e sulla necessità di una pena che sia giusta e certa ma tesa a recuperare chi ha sbagliato e a favorire il suo reinserimento nella società. Il lavoro fatto in questi anni dal Parlamento e dal Governo Renzi è andato in questa direzione e qualche risultato è stato ottenuto. Ma c’è ancora tanto da fare, come anche il Pontefice Francesco non si stanca di ricordare, come ha fatto ancora ieri col suo gesto al carcere di Paliano. Spazi di detenzione più civili; spazi e momenti di socializzazione; maggiori risorse per la mediazione culturale, per la formazione scolastica e l’avviamento al lavoro, migliore assistenza sanitaria: sono solo alcuni dei problemi che attendono risposte". Così il deputato Dem, Walter Verini, capogruppo in Commissione Giustizia. "I recenti Stati Generali sull’Esecuzione Penale promossi dal ministro della Giustizia Orlando e dal Dap - aggiunge Walter Verini - hanno fornito proposte importanti e di sistema. Nella legge sulla riforma del Processo Penale, che la Camera approverà nelle prossime settimane, ci sono alcune risposte davvero rilevanti. Con queste motivazioni e questo impegno parteciperò alla Marcia, ribadendo ancora una volta che investire in carceri umane e in una pena tesa al recupero significa investire anche in sicurezza per tutti i cittadini: se un detenuto, espiata la sua colpa, esce con un diploma e un mestiere in mano - conclude il capogruppo Pd in Commissione Giustizia - difficilmente torna a delinquere". La difficile libertà di Pasquale Zagari di Francesca de Carolis e Mario Arpaia laltrariva.net, 15 aprile 2017 Conversazione con Pasquale Zagari. Condannato all’ergastolo, ostativo, e ora libero per "un cavillo", si racconta per invitarci a cercare di superare i pregiudizi, a credere che le persone con il tempo possano cambiare, come lui è cambiato e ha rotto i ponti con il passato, anche scegliendo di vivere al nord, lontano dal suo paese in Calabria. E ora è alle prese con la difficile libertà di chi per anni è stato chiuso al mondo e ora, dopo tanto vuoto, si dichiara bambino… E vorrebbe che la sua testimonianza serva ad aprire il cuore e le menti di chi non sa… "La mia storia… brevemente… Mi chiamo Pasquale Zagari. La mia vita è stata segnata da quando non avevo ancora 17 da episodi di bullismo che ho subito…e ho commesso un delitto. Sono stato in seguito condannato. Sono stato latitante per 5 anni e poi arrestato. Durante la mia carcerazione, purtroppo, nel 1991 mio padre è stato ucciso. Era consigliere comunale della DC… Ucciso da innocente. Vi fu chi ordinò di ucciderlo, perché così "così si mette zizzania e si scanneranno fra di loro". Episodio che ci sconvolse tutti. Mio fratello perse la testa e commise la strage per cui è in carcere (ora si trova a Sulmona). Io ero detenuto (…) per una condanna a 17 anni e sei mesi (che sarebbero stati 14 per via di un condono), ma vengo accusato anch’io della strage, con la motivazione che "non potevo non sapere". Così, alla fine, vado definitivo con un ergastolo. Ostativo. Sono stato in carcere per 29 anni e sette mesi, e durante la mia detenzione ho lottato sempre per la libertà, ho resistito come un leone. Immaginate: trent’anni di carcere, un lungo periodo al 41 bis, otto anni e mezzo dove ho subito vessazioni per 23 ore al giorno. Mortificazioni, violenze, sputi e preservativi nel vitto… provocazioni come l’ordine di spegnere un televisore che non c’era… E se oggi sono libero è per un "cavillo giuridico". La mia condanna era illegittima perché all’epoca del processo, la scelta di essere giudicato con il rito abbreviato, da me operata, comportava la riduzione della pena a trent’anni di reclusione. La Corte Europea, con la sentenza "Scoppola" ha sancito il principio e comportato la riduzione anche della mia pena ad anni trenta. Ho scontato la mia condanna fino all’ultimo giorno, anzi, calcolando anche i giorni di liberazione anticipata concessimi per la buona condotta, ho espiato 34 anni. E infine, sono diventato un uomo libero. O meglio, pensavo di esserlo diventato… Ora sono libero, è vero. Ma mi sento libero a metà perché… è difficile da spiegare, ne parlavo in questi giorni con Yvonne Ho spesso incomprensioni con le persone alle quali mi rivolgo, perché io non sono una persona "normale". Io ho un "buco" di trent’anni che non recupererò mai. E come si può essere normali dopo aver vissuto per trent’anni la logica dell’assurdo. Un carcere che funziona deve darti una linea d’orientamento, insegnare qualcosa, a me che sono "il male" e che dovrei avere di fronte "il bene". Ma io, che compio 53 anni a giugno, non so in cosa sono stato rieducato… Io sono un alieno, nessuno mi ha aiutato. In regime di 41bis non mi era permesso neppure leggere un giornale. Non ho mai potuto sentire nemmeno il profumo di una persona, non dico una donna, ma proprio nessuno. Mai ho potuto toccare un famigliare. Poi sono passato in AS1, e la cosa un po’ si è alleggerita. Se oggi sono in queste condizioni, se devo essere preso per mano in ogni mio passo (e ci vuole la pazienza e la bontà di Yvonne, è perché trent’anni non mi hanno insegnato nulla, mi hanno solo separato dal mondo. Io non ho dimestichezza con l’esterno, non conosco niente. Questo mi ha insegnato il carcere, un vuoto totale. Io personalmente sono vittima della mafia, che ha ucciso mio padre. Il collaboratore di giustizia, che al processo ha parlato dell’omicidio, in aula mi ha chiesto scusa. "Ti chiedo scusa - mi ha detto- abbiamo fatto una grande carognata". Io oggi vivo lontano dal mio paese, e ho chiuso con la mafia. E mi chiedo e vi chiedo: perché non utilizzare le persone come me nella lotta alle mafie? Come me ci sono altre persone che hanno chiuso con il loro passato criminale, e che molto potrebbero fare. Qualche settimana fa ho incontrato qui al comune di Como, dove ora abito, sia il sindaco che l’assessore Magatti. Mi sono sentito veramente a casa mia per una cosa che mi hanno detto. Mi ha detto il sindaco Lucini: "Lei mi deve dire quello che possiamo fare per lei…" Ho risposto: " Voi mi avete già dato tanto accogliendomi a braccia aperte". E ora l’idea è di organizzare un convegno sulle pene riparative… I miei progetti… Che cosa posso fare io se non quello che conosco? Io non ho un mestiere, non ne ho avuto il tempo, ma voglio trasmettere la mia esperienza, voglio esser socialmente utile. Voglio spiegare, far capire, testimoniare. Io soprattutto sento la necessità, l’urgenza, di fare qualcosa per dare voce ai detenuti e ai loro familiari. Per far capire cos’è un carcere, per spiegare che quando si esce dopo una lunga detenzione non si è neppure capaci di prendere un bus… Ecco, mi piacerebbe poter dare la mia testimonianza e dare voce a chi non ne ha dentro le carceri, soprattutto agli ergastolani. E vorrei dire che dobbiamo dare loro non una speranza, ma un’altra possibilità, perché solo dando fiducia agli uomini se ne possono dare altre, di possibilità, altrimenti non si va da nessuna parte…. Tante persone, nonostante tutto, sono cambiate. Ma quando cambierà l’Istituzione? Ho conosciuto ragazzi entrati con i capelli neri che ora li hanno bianchi, e che dopo 20 e più anni non sono la stessa persona Come farlo capire? Io devo dire ho avuto la fortuna, in tanto buio, di incontrare qualcuno con cui ho potuto avere relazioni… È successo ad Opera, dove ci sono agenti di custodia veramente eccellenti. Ho incontrato parecchi ragazzi che lavoravano alla AS1, davvero intelligenti, onesti e umani. Voglio ricordare un educatore, Mario Leone, che dà il massimo alle persone. Ricordo anche una volontaria che mi ha quasi salvato la vita, Valentina Rovedo, una grande donna, che mi ha dato la sua spalla, che non è poco. Ho incontrato galantuomini come il direttore, Giacinto Siciliano, ed Amerigo Fusco, il commissario del carcere. Io venivo da un processo brutto, avevo tentato l’evasione, e loro mi hanno accolto. Voglio soprattutto ricordare il direttore che mi ha detto un giorno: "Lei ce l’ha una possibilità". È una parola che ti apre una porta, i sentimenti. Oggi, alla mia età, dopo un vuoto così lungo, oltre 35 anni su 53 (immaginate che buco c’è), l’ho ripeto, ho enormi difficoltà a farmi comprendere, a relazionarmi… ma non mi sento in torto. Non mi sento all’altezza di relazionarmi con le persone perché non ho vissuto, e chi non ha vissuto è come un bambino. Questa è la verità e a volte mi sento di commettere delle mancanze, ma senza volerlo, e quando me le segnalano, quando arrivo a capire, mi sento triste. Ma io non capisco non perché sono stupido, ma perché io "non ci sono stato". Sapete che è difficile essere libero? Sembra una bestemmia. Ma sapete quante volte ho pensato che stavo meglio lì… Io ho affrontato l’ergastolo come chi con morti vive… vegliando il mio corpo… Mi sentivo aggrovigliato nel cervello… sapevo che era mio, ma che non voleva accettare, che sapeva di essere lì, ma non voleva accettare quella cosa che ti mangia la carne dalla mattina alla sera. L’ergastolo ostativo è la pena della morte bianca, della morte viva… Giorno dopo giorno vedi il tuo corpo riesumato e putrefatto, sei destinato a un destino di perdizione. E come si vive senza speranza? È come vivere senza alimentarsi, come vivere senza mangiare… Per chi non lo sapesse, puoi uscire dall’ostatività se diventi collaboratore di giustizia (e devi augurarti di essere colpevole, e averla qualcosa da dire). O passare per il 58 ter… la collaborazione impossibile, che è cosa complessa e difficile da dimostrare, riconosciuta se tutti i fatti che in qualche modo arrivano a te sono stati acclarati… Ma l’ostatività, che ti trasforma in un fine pena mai (ma proprio mai) se non baratti la tua vita con quella di qualcun altro, è mettere le famiglie sotto le canne di fucile… Io dico e l’ho detto anche in sede di tribunale: io non voglio essere mafioso, io ho voluto chiudere e ho chiuso con il passato, ma qualcuno mi deve indicare il percorso che devo fare, perché io possa dimostrare concretamente che ho chiuso.. Io sono un’altra persona. Sono qui a Como per mia scelta, perché ho voluto tagliare con la Calabria, che non è terra con la quale ce l’ho…, ma quando uno vuole chiudere con il passato deve abbandonare la sua terra. Non finirò mai di ripeterlo, ma io ho chiuso, e spero e credo che le istituzioni lo recepiscano e mi aiutino, mi diano la possibilità di dare voce a chi non ne ha… e di avere una vita…. Pensate, ancora mi vengono a chiedere di cose di vent’anni fa… A parte che di quelle cose sono innocente e mi hanno dato quasi ragione, anche molti magistrati hanno creduto in me, perché voglio ricordare che 24 giudici mi avevano assolto dalle accuse per la strage seguita all’uccisione di mio padre… poi, altri 8 giudici avevano ribaltato tutto…. Ora sono libero, ma vorrei che mi sia dato atto anche del processo mio di revisione. Sì, io vorrei portare la mia testimonianza… ma non abbaiando alla luna. Facciamo qualcosa di concreto". L’Anm scarica Gratteri: no al processo a distanza di Errico Novi Il Dubbio, 15 aprile 2017 Albamonte: "Quella norma lede il diritto alla difesa". Il nuovo presidente del "sindacato" dei giudici liquida come "un economicismo inutile" la misura del ddl penale che costringe i detenuti a partecipare alle udienze "in remoto". Non piace neppure all’Anm la norma del ddl penale che impone a tutti i detenuti di partecipare alle udienze solo in "videoconferenza". La misura proposta da Nicola Gratteri e finita nella riforma del processo viene liquidata così da Eugenio Albamonte, nuovo presidente del "sindacato" dei giudici: "Con la partecipazione a distanza si determina un gap di effettività della difesa", ha detto il magistrato. Che ha poi fatto notare come l’unica ragione ispiratrice della misura si trovi "in esigenze di spesa e non di carattere processuale: c’è un disimpegno negli investimenti sulla giustizia". Resta il fatto che persino le toghe "ripudiano" una restrizione che è alla base delle proteste dei penalisti. C’è una norma del ddl penale che sembrerebbe non avere padri: la partecipazione in "videoconferenza" dei detenuti alle udienze. È il cosiddetto processo a distanza. Una novità che in realtà ha un proprio ideatore: si tratta di Nicola Gratteri, oggi procuratore di Catanzaro ma, all’epoca della prima stesura datata 2014, presidente di una commissione di studio incaricata di proporre modifiche alla legislazione antimafia. Dai lavori di quell’organismo sono venute diverse proposte, anzi un vero e proprio articolato definito nei dettagli come un disegno di legge, e non limitato certo al contrasto del crimine organizzato. Quelle proposte per la gran parte non sono state mai incardinate in Parlamento. Solo poche norme sono entrate a far parte dei testi esaminati dalle Camere, e una di queste è appunto la partecipazione "in remoto" dei detenuti ai processi che li riguardano. Su questa "sterilizzazione" delle udienze si concentra la maggior parte delle critiche rivolte dai penalisti alla riforma di Andrea Orlando. Se la settimana appena trascorsa ha visto l’astensione dalle udienze da parte dell’Ucpi è soprattutto per quel passaggio della legge, approvata in Senato e in attesa del visto definitivo di Montecitorio. A suscitare le critiche dell’Associazione magistrati sono invece altri aspetti, in primis l’avocazione obbligatoria delle Procure generali in caso di "inerzia" dei pm. Ma della norma sui processi in videoconferenza, il nuovo presidente Anm Eugenio Albamonte si è detto tutt’altro che entusiasta in un confronto radiofonico con il presidente delle Camere penali Beniamino Migliucci andato in onda giovedì sera a "Zapping", su Radio 1 Rai. "Il fatto che il detenuto segua l’udienza in carcere anziché essere presente in aula davanti al collegio giudicante è sì una norma che determina un gap di effettività della difesa", solo che non la si può considerare, ha tenuto a dire il vertice dell’Anm, "legata a esigenze di carattere processuale, ma solo a ragioni di spesa: il problema è la scarsità di investimenti nella giustizia". Che è un modo per allontanare dai magistrati la responsabilità di questa discutibile modifica. Migliucci non ha preso bene l’analisi di Albamonte. "Le ragioni dell’Anm non sono una giustificazione, l’economia non può mortificare l’esigenza di diritto e giustizia dei cittadini". In realtà il presidente dell’Associazione magistrati pensa la stessa cosa. Liquida la proposta Gratteri come un discutibile eccesso di economicismo, la ascrive a quelle distorsioni figlie di una sottovalutazione della giustizia come priorità dello Stato. Ma insomma, dal suo giudizio si comprende come Gratteri non sia certo popolarissimo, nel cosiddetto "sindacato" delle toghe. Proprio mentre il nuovo vertice dell’Associazione magistrati prendeva le distanze dalla "sua" norma, Nicola Gratteri varcava le soglie di Palazzo Chigi per una "visita di cortesia istituzionale" al presidente del Consiglio Paolo Gentiloni. Una curiosa coincidenza, che non sembra prefigurare, comunque, una riproposizione del magistrato calabrese per incarichi di governo. Non dovrebbe replicarsi la scena del febbraio 2014, quando solo le obiezioni di Giorgio Napolitano impedirono a Matteo Renzi di avere Gratteri come ministro della Giustizia. Il peso assunto in seguito dal pm e dalla sua commissione di studio è stato limitato. Eppure, il fatto che alcune sue proposte siano prossime a tradursi in legge vuol dire che persino un guardasigilli come Andrea Orlando, attento al tema delle garanzie, non ha potuto tenere del tutto fuori dalla porta le spinte giustizialiste che attraversano la maggioranza. E che in certi casi riescono a lasciare spiazzata persino la magistratura. L’Italia s’impegna ancora una volta ad istituire il delitto di tortura nel nostro ordinamento camerepenali.it, 15 aprile 2017 Ennesimo impegno a colmare il vuoto legislativo che da oltre trent’anni costituisce un inadempimento a quanto stabilito da trattati internazionali sottoscritti dal nostro Paese. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, in questi giorni, ha preso atto dell’accordo tra il Governo Italiano e sei delle sessantacinque vittime degli avvenimenti accaduti nella Caserma di Bolzaneto, il 21 e 22 luglio 2011 in occasione del G8 di Genova. Un’esplicita ammissione di colpevolezza dell’Italia, che rende oramai improcrastinabile l’inserimento nell’ordinamento del delitto di tortura nel nostro codice penale in ottemperanza, non solo agli impegni assunti a livello internazionale e alla previsione dell’art 13 della Costituzione (come del resto più volte la Corte EDU ci ha invitato a fare), ma anche e soprattutto per innalzare il livello di civiltà e di democrazia del nostro ordinamento. Più volte l’Unione delle Camere Penali Italiane ha messo il dito in quella che è divenuta una vera e propria "piaga" del nostro sistema penale, la mancanza del reato di tortura, che non consente di punire adeguatamente episodi vergognosi di violenza e di trattamenti inumani su persone sottoposte al potere coercitivo della pubblica autorità. Il "patteggiamento" dello Stato per i misfatti della caserma Bolzaneto ha certificato la verità di fatti fino a ieri considerati "una mera eventualità" o frutto di una visione vittimista dell’uso legittimo della forza, con il sottaciuto intento di obliare o denegare la deprecabile pratica di comportamenti violenti e oppressivi, commessi nei confronti del cittadino e in cui si sostanzia l’effettività del delitto di tortura. Come più volte sottolineato dall’Unione dalle Camere Penali e dall’Osservatorio Carcere, il reato di tortura, per esprimere il proprio peculiare significato di disvalore, deve essere configurato come reato proprio, commesso solo da pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio (non dunque un reato comune come prevede il testo attualmente dormiente in Parlamento), e strutturato su una condotta che ricalchi la definizione di tortura contenuta nelle convenzioni internazionali. La punibilità di queste condotte inserita nel nostro codice penale è, dunque, oggi più che mai, indifferibile, per colmare un pervicace vuoto normativo, non altrimenti surrogabile con il richiamo ai reati di abuso di autorità, lesioni o violenza privata, e per dare definitiva attuazione al principio costituzionale dell’art. 13, cuore e corpo dello Stato democratico. Una risposta di civiltà, certamente dissonante dal coro populista e giustizialista che oggi assedia il legislatore, che l’Unione delle Camere Penali chiede a gran voce, a tutela della dignità e nel rispetto dei diritti della persona. La Giunta L’Osservatorio Carcere Ucpi Il passo di Orlando su Consip: ho chiesto controlli sui carabinieri di Francesco Verderami Corriere della Sera, 15 aprile 2017 L’intervento del ministro della Giustizia, che poi aggiunge: "Mi spiace per questa vicenda e spero si risolva bene per Renzi". E ancora: "L’episodio è grave e inquietante: cambiare le carte è un’alterazione della verità commessa da chi dovrebbe invece contribuire a ricercarla". C’è lui, che è il ministro della Giustizia e corre per le primarie del Pd. C’è lei, che è l’inchiesta Consip in cui è coinvolto Tiziano Renzi. E c’è l’altro, che è Matteo Renzi, avversario del Guardasigilli per la guida del Pd. Eppure Orlando giura di non nutrire "alcun imbarazzo" in questa storia dove politica e giustizia si intrecciano. "Davvero, nessun imbarazzo", ripete il ministro-candidato: "Semmai ho notato l’insofferenza di molti pasdaran renziani per la mia partecipazione alle primarie, come potesse essere Matteo il solo a poter gareggiare. Per il resto non è la prima volta che compagni del mio partito si trovano alle prese con un’indagine". E malgrado si tratti di "compagni" eccellenti, fa mostra di non scomporsi, "non cambia il mio atteggiamento, basato sul principio di autonomia della magistratura e sul criterio di garanzia per i cittadini. Certo, mi spiace per questa vicenda. E spero possa risolversi bene per Renzi". Orlando sostiene di non aver "mai parlato" della faccenda con il suo competitor, "ci siamo solo scambiati messaggi di auguri quando ci siamo candidati alle primarie". Nonostante il tentativo di derubricare la faccenda, è però consapevole dell’impatto di un’inchiesta che - per il suo doppio ruolo politico e istituzionale - lo pone al centro dell’intreccio. Per di più dopo la scoperta che un capitano dei Carabinieri ha scambiato i protagonisti di un’intercettazione, dato rilevante ai fini della posizione di Tiziano Renzi. "Spetterà ai magistrati valutare se si tratta di errore o dolo". Ma da Guardasigilli ha deciso di intervenire chiedendo "alla procura generale di Napoli, attraverso gli uffici del mio dicastero, elementi sulle anomalie di funzionamento della polizia giudiziaria". Il primo passo - È un passo formale importante, "l’unico che posso fare. Perché un ministro della Giustizia può avviare un’ispezione solo in presenza di responsabilità dei magistrati, che a oggi non si registrano. Mentre sulla polizia giudiziaria non ho poteri di vigilanza e di intervento". A suo modo di vedere, in questa fase "non credo che nemmeno il Csm" abbia molti spazi di azione, siccome "un magistrato si è accorto della manipolazione ed è intervenuto. Certo, emergessero altri fatti si dovrebbe valutare. In ogni caso l’episodio è grave e inquietante: cambiare le carte è un’alterazione della verità commessa da chi dovrebbe invece contribuire a ricercarla". Se Orlando sfugge al gioco delle fazioni, se non accetta di schierarsi tra quanti gridano al complotto e quanti temono che si voglia minare l’inchiesta, "non è perché non mi sia fatto un’opinione ma perché qualsiasi mia parola violerebbe il confine tra potere politico e ordine giudiziario". Si esprime invece sul rischio che casi come quello della manipolazione di intercettazioni possano ulteriormente pregiudicare la fiducia verso la giustizia dell’opinione pubblica, e prende le difese del sistema processuale italiano "che è uno dei migliori modelli di garanzia nelle democrazie occidentali. Il problema è la strumentalizzazione dei vari passaggi del processo, che diventano anticipazione di un verdetto: tutto ciò si trasforma in un calvario per un cittadino anche in caso di assoluzione". Il ministro-candidato non accetta l’idea che il suo partito sia messo alla sbarra: "È vero che il caso-Consip sta destando grande attenzione mediatica, ma certe questioni riguardano tutti. C’è un problema generale di selezione della classe dirigente, e se non c’è dubbio che il Pd si sia infragilito, per via di infiltrazioni di interessi privati, anche altre forze devono farci i conti, comprese quelle appena nate". L’allusione ai Cinque Stelle è chiara, ma è sui democrat che si concentra: "Un partito in grande affanno, dove si consuma una diaspora silenziosa e perciò più pericolosa. Io penso che un altro Pd sia possibile, che l’emorragia possa essere fermata. Non a caso sono diventato il principale bersaglio degli scissionisti". Culto della personalità - Ai problemi del partito si aggiungono quelli del governo. Orlando critica la tattica di Renzi, schierandosi in difesa dei ministri tecnici, "che non solo erano stati scelti da chi oggi li attacca, ma si stanno muovendo in una logica di continuità con le scelte del precedente gabinetto". Perché allora mettere sotto pressione Padoan, "quando sappiamo che la situazione economica è ancora critica? Se uno ha la febbre non può prendersela con il termometro". E perché prendersela con Calenda, "che porta avanti un lavoro già iniziato dal ministro Guidi? Questo tentativo di smarcamento non solo è poco credibile ma può provocare danni al Paese". È il "rischio Italia" descritto da Polito sul Corriere a cui fa cenno: "Se va cambiato qualcosa bene, però le riforme vanno completate. Ci aiutano anche in Europa". Ma tra i renziani va di moda il culto della personalità, con accenti che al Guardasigilli non sono sfuggiti nel colloquio di Orfini con la Stampa: "E si capisce perché sia complicato per loro passare dall’Io al Noi", sorride. Le energie andrebbero spese in altra direzione, su una legge elettorale che eviti "larghe intese perenni": "Anche perché reggerebbero sei mesi. D’altronde il rapporto con i grillini è precluso dalla loro linea politica. E un governo con i moderati sarebbe difficile". Orlando dice "moderati" per non citare Berlusconi. Ma messo alle strette, non si esime da un giudizio: "Certo che bisogna rivalutare il suo ventennio. È stato un grande presidente del Milan". Quel "postificio" dell’Antimafia che dura almeno dal 1966 di Francesco Damato Il Dubbio, 15 aprile 2017 Per anni a Montecitorio si è ricordato un aneddoto che ebbe come protagonista Bernardo Mattarella, che Moro dovette sacrificare nella composizione del suo terzo governo. E ora Rosy Bindi potrebbe essere l’ultima presidente. Rosy Bindi, tornata sulle prime pagine dei giornali per l’annuncio di non volersi più ricandidare al Parlamento con la fine di questa legislatura, avendo peraltro già goduto di una deroga al limite dei mandati fissato nello statuto del suo partito, è la quindicesima presidente della commissione parlamentare antimafia. Quindicesima di un elenco che comprende, dal 1963, e nell’ordine in cui si sono succeduti in questi 54 anni, Paolo Rossi, Donato Pafundi, Francesco Cattanei, Luigi Carraro, Nicola Lamenta, Abdon Alinovi, Gerardo Chiaromonte, Luciano Violante, Tiziana Parenti, Ottaviano Del Turco, Giuseppe Lumia, Roberto Centaro, Francesco Forgione e Giuseppe Pisanu. La lista sarebbe più lunga, sia pure di un solo nome, se la serie delle commissioni parlamentari antimafia non fosse stata interrotta nel 1976, con la legislatura della cosiddetta "solidarietà nazionale", durata meno di tre anni, durante i quali non fu evidentemente ravvisata la necessità di ricorrervi. E non perché non si fosse trovato il tempo per proporla con la solita legge e allestirla. Una commissione antimafia fu proposta e fatta persino nella legislatura in assoluto più corta dell’intera storia repubblicana: quella fra il 1992 e il 1994. Che fu anche la legislatura di Tangentopoli, Mani pulite, delle morti per mafia di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino, delle presunte trattative fra lo Stato e la mafia delle stragi, del suicidio del deputato socialista Sergio Moroni, delle monetine contro Bettino Craxi, del referendum elettorale per il sistema maggioritario, della pur parziale abolizione dell’immunità parlamentare ed altro ancora. Fu una legislatura tanto breve quanto intensa e drammatica, durante la quale la Bindi si allenò alla segreteria regionale veneta della Dc per approdare la prima volta alla Camera nel 1994. E rimanervi ininterrottamente sino ad ora, facendo più volte anche la ministra. Ma la Bindi, sempre lei, resterà la presidente anche dell’ultima commissione parlamentare antimafia? Se lo stanno chiedendo in tanti perché proprio l’annuncio della fine della carriera politica della deputata ex democristiana ha fornito l’occasione per chiedersi se sia il caso di ricostituire nella nuova legislatura la ormai "solita" commissione antimafia. Che rischia in effetti, specie con i nuovi strumenti di cui dispone la magistratura ordinaria per contrastare questa ed altre forme di criminalità organizzata, di apparire o un banale postificio - da posti - o la certificazione non certo esaltante del carattere organico della mafia nel tessuto nazionale. Ma in questo caso il Parlamento dovrebbe provvedere non alla costituzione di una commissione d’inchiesta, che ha in sé una natura straordinaria e quindi provvisoria, ma una commissione permanente, ordinaria, da aggiungere alle altre di questo tipo esistenti alla Camera e al Senato: esteri, affari costituzionali, giustizia, affari sociali, ambiente, eccetera. I più giovani, o i meno anziani, forse non ci crederanno, ma il sospetto o la tentazione di fare della commissione parlamentare antimafia un postificio, come tanti altri, si avvertì sin dai suoi primi tempi: diciamo, già al terzo anno di vita dell’organismo d’inchiesta. E lo si avvertì per uno scherzo, un gioco, chiamatelo come volete, di cui mi capitò di essere testimone, e in qualche misura anche partecipe. Provo a raccontarvelo. Il 21 gennaio 1966 il secondo governo di centrosinistra organico presieduto da Aldo Moro si dimise per i contrasti esplosi nella coalizione, ma più in particolare all’interno della Dc, sulla istituzione della scuola materna statale. Di quel governo faceva parte come ministro del Commercio Estero Bernardo Mattarella, amico personale del presidente del Consiglio ed esponente di primissimo piano della Dc siciliana, che aveva cominciato a fare politica nel Partito Popolare di don Luigi Sturzo. Cui si era iscritto nel 1924, quando non aveva neppure vent’anni. La carriera governativa del padre dell’attuale presidente della Repubblica, Sergio, era di tutto rispetto. Bernardo Mattarella era già stato nominato ministro alla Marina Mercantile, nell’ottavo e ultimo governo di Alcide De Gasperi, nel 1953. Era poi passato alla guida del ministero dei Trasporti, fra il 1953 e il 1955, con i governi di Giuseppe Pella, di Amintore Fanfani e del corregionale Mario Scelba. Dai Trasporti egli era passato nel 1955 al Commercio Estero nel governo di Antonio Segni, quindi alle Poste e Telecomunicazioni nel governo di Adone Zoli, tornando ai Trasporti nel 1962 con Fanfani alla presidenza del Consiglio, passando all’Agricoltura nel governo cosiddetto balneare di Giovanni Leone, nell’estate del 1963, e poi di nuovo al Commercio Estero con il primo governo di Moro. Che, caduto già nell’estate successiva fra il famoso "rumore di sciabole" avvertito da Pietro Nenni, lo aveva confermato nel secondo: quello caduto per la scuola materna. Nella trattativa per la formazione del suo terzo governo, Moro trovò difficoltà a confermare, come avrebbe voluto, l’amico Mattarella perché la corrente dei "dorotei", di cui entrambi facevano ancora parte in quel momento, e che era capeggiata dall’allora segretario del partito Mariano Rumor, pose un problema di riequilibrio interno. In realtà, i dorotei di Rumor, Flaminio Piccoli ed altri, smaniosi di prenderne il posto, accusavano Moro di essere troppo accondiscendente con i socialisti, di cui peraltro egli aveva favorito il progetto di unificazione sostenendo alla fine del 1964 l’elezione di Giuseppe Saragat al Quirinale, in sostituzione del doroteissimo Antonio Segni. Che disgraziatamente era stato colto da ictus nel suo studio al Quirinale proprio durante un alterco con il leader socialdemocratico, allora ministro degli Esteri. La formazione della lista del terzo governo Moro fu pertanto l’occasione per i dorotei di ridurre il numero dei ministri più vicini al presidente del Consiglio. Il quale finì per cedere scrivendo però all’amico Mattarella di suo pugno una lettera di rammarico e di spiegazione, in cui ne elogiava l’azione svolta e gli confermava tutta la stima, ricambiata da Mattarella. Che due anni dopo, quando Moro, allontanato da Palazzo Chigi, ruppe con i dorotei allestendo una propria corrente, lo seguì all’istante. Moro volle scrivere quella lettera a Mattarella nel 1966, al termine di una crisi di governo durata un mese, anche per solidarietà contro una campagna condotta contro l’amico per presunti rapporti con esponenti mafiosi: una campagna basata su voci raccolte nella commissione parlamentare antimafia e sfociata nel 1965 in un libro del sociologo Danilo Dolci. Che Mattarella denunciò ottenendone nel 1967 la condanna a due anni di reclusione, evitati per un sopraggiunto indulto. Nella legislatura successiva l’ex ministro ricoprì la carica di presidente della Commissione Difesa della Camera rimanendovi sino alla morte, nel 1971, sopraggiunta ad un malore occorsogli a Montecitorio. Ma torniamo adesso alla crisi del secondo governo Moro e alla preparazione della lista dei ministri del terzo. Una mattina ero a Palazzzo Chigi, nella sala stampa situata al piano terra, a raccogliere voci, indiscrezioni e quant’altro proprio sulla formazione di quella lista. Eravamo in tanti giornalisti. Si aggirava fra di noi il portavoce di Bernardo Mattarella, che era il collega Enrico Benso, comprensibilmente impegnato a capire se e in che misura il suo ministro rischiasse il posto. Che significava poi anche il posto dello stesso Benso. Insofferente per le insistenze di Enrico, un collega pensò di liberarsene con una battuta che gli parve ironica ma era a dir poco infelice, vista la campagna che il ministro stava subendo e di cui - ahimè - il portavoce non tenne conto. "No, Enrico, Il tuo ministro rimane fuori, ma c’è l’accordo per farlo presidente dell’antimafia", gli disse lo sventurato. Benso si precipitò improvvidamente sul primo apparecchio telefonico libero - allora i telefonini non erano neppure immaginabili - e chiamò sul numero diretto il suo ministro dicendogli all’incirca così: "Eccellenza, per il governo niente. Ma per Lei c’è l’antimafia". Io, che gli stavo accanto, impallidii. Non immaginavo che Enrico potesse cadere in un infortunio del genere. Sentii nitidamente, tanto era forte la voce di Mattarella, un’imprecazione che oggi definiremmo grillina e il grido finale di "stronzo". Cui seguì, in verità, anche il mio, quando Benso, sgomento, abbassò il ricevitore. Poi me la presi naturalmente con il collega che aveva involontariamente provocato l’incidente per il suo scherzo, che tuttavia aveva paradossalmente segnato in qualche modo l’ingresso della commissione parlamentare antimafia nel regno politico del postificio. Il ricorso sistematico a quest’organismo d’inchiesta lo fece infatti rientrare nel mercato politico di ogni inizio di legislatura, con gli incarichi in palio di presidente, vice presidente, segretario di commissione e via discorrendo, e relativi imprevisti. Da uno dei quali ha tratto vantaggio anche la Bindi, risultata eletta al vertice della commissione nell’autunno del 2013 con una clamorosa rottura delle larghe intese ancora operanti attorno al governo di Enrico Letta. Un luogo metaforico (la musica) che fa bene all’anima di Emanuela Cimmino* Ristretti Orizzonti, 15 aprile 2017 La realtà del carcere per il detenuto è un contesto dove scontare la sua pena, il più delle volte lontano dai propri affetti, ma è anche il luogo dove, con il supporto delle opportunità trattamentali, si impegna alla ricostruzione della propria integrità personale. Ciò avviene attraverso la scuola, i corsi di formazione, la realizzazione di gruppi di ascolto, la partecipazione ad attività culturali guidate da esperti del settore, il teatro, i laboratori musicali. La musica quale linguaggio universale consente di comunicare sensazioni, emozioni che vanno al di là della parola, e che difficilmente vengono espresse attraverso altri canali. Presso la C.R San Gimignano dal mese di Novembre 2016 è stato realizzato un laboratorio musicale, che ha visto come protagoniste sedici voci ristrette del Circuito di Alta Sicurezza. Il progetto "Note da dentro" è stata un’occasione per guidare i detenuti a pensare ed esprimere sentimenti utilizzando la voce come riflesso dell’anima. Lo scopo principale è stato far avvicinare i detenuti alla musica non solo come un’attività ludica o ricreativa, ma come mezzo di rieducazione e di recupero. Il laboratorio condotto dall’associazione musicale "Il Pentagramma" di San Gimignano(Si) ha avuto tra le finalità previste quella di trovare nuovi modelli relazionali improntati alla cooperazione e alla condivisione empatica; favorire lo sviluppo armonico della personalità del detenuto/persona attraverso la conoscenza e l’utilizzo dei linguaggi musicalmente espressivi. È stata soprattutto occasione per rafforzare la struttura emotiva vivendo consapevolmente e pienamente il laboratorio come contesto che "facesse bene all’anima". Quindici gli incontri dedicati alla "scoperta della propria voce e delle proprie capacità", quindici incontri per entrare in contatto con la propria voce, quella silenziosa, quella in sordina per poi urlarla imparando a gestirla, a padroneggiarla su scala di Fa e di Mi, passando dai bassi agli alti, in chiave di violino, in chiave di basso, con pause ed a ritmo di terzine. Prove su prove migliorando sempre di più in termini di tecnica; è tutta una questione di aria, respiro, diaframma, la voce c’è in ognuno di noi, occorre solamente darle un suono, un Si chiuso, annebbiato che diventa un Do forte, sicuro, imponente. Ed al sedicesimo incontro, la voce, anzi le voci sono entrate in scena; i detenuti del Circuito di Alta Sicurezza che hanno partecipato al laboratorio, hanno cantato assieme ai coristi D’Altro Canto di Vico d’Elsa che per l’occasione hanno fatto accesso al carcere dall’esterno. Scinne cu’mmè, Tu s’ na cosa grande, Dicitencello vuie, Total praise, Turandot, e perfino un canto israeliano Hassimlà hassegulà, come la soprano Keren Davidovitch che ha guidato i cori assieme al maestro di pianoforte Ivan Morelli, le canzoni protagoniste; uno spettacolo quello del 7 aprile 2017, che alle porte della Santa Pasqua, ha fatto bene all’anima, "un momento di festa, come ha riferito la Direttrice MC Morrone, tra persone, perché non dimentichiamo che il carcere è fatto di persone". FGP dott.ssa Cimmino C.R San Gimignano Torino: un bond per i detenuti di Vitaliano D’Angerio Il Sole 24 Ore, 15 aprile 2017 Un progetto pilota di Crt e Human Foundation da 2 milioni legato all’istituto di pena Lorusso-Cutugno. "Tra fine 2017 e inizio 2018 credo che potremo lanciare l’impact social bond per i detenuti della Casa circondariale Lorusso e Cutugno di Torino. Sarà un progetto pilota di 2milioni di euro con rendimenti intorno al 3 per cento". A parlare (e a sbilanciarsi) è il segretario della Fondazione Crt di Torino, Massimo Lapucci: l’ente, attraverso il proprio braccio filantropico "Sviluppo e Crescita", e la Human Foundation di Giovanna Melandri, hanno elaborato lo studio di fattibilità per il reinserimento sociale e lavorativo delle persone detenute. Un progetto realizzato sulla falsariga di quello ormai arcinoto del penitenziario inglese di Peterborough, vero punto di riferimento mondiale per l’impact social bond: il programma britannico datato 2010 era finalizzato al la riduzione del tasso di recidiva per i detenuti con meno di 12 mesi di pena da scontare. Il progetto italiano - Lo studio di fattibilità italiano è molto interessante anche perché non si ferma alla teoria ma è stato realizzato grazie a una fattiva collaborazione del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e della direzione dell’Istituto Lorusso e Cutugno di Torino. Da segnalare anche l’apporto del Politecnico di Milano, dell’Università di Perugia e di Kpmg. Pago per il risultato - Andiamo però più nello specifico. "L’iniziativa è del tipo pay-by-result - specifica Lapucci - ed è finalizzata al reinserimento dei detenuti. Con lo strumento dell’impact social bond vogliamo generare benefici misurabili a vantaggio di una specifica popolazione target a cui possa essere associato un preciso valore finanziario". In sostanza, meno detenuti rientrano in carcere dopo il percorso di reinserimento, maggiore è il risparmio per la Pubblica Amministrazione: per esempio meno pasti da erogare, meno spese legate a garantire le misure di sicurezza dell’istituto. I benefici però devono essere appunto misurabili e verificati da una terza parte indipendente. Soltanto a quel punto la PA sarà disposta a pagare (pay-by-result appunto): pagherà i privati che con la sottoscrizione del bond hanno di fatto anticipato il finanziamento e assunto il rischio del mancato risultato. Quindi restituzione del capitale e pagamento dei rendimenti con i risparmi raggiunti e certificati (da terze parti). Benefici indiretti - Chiaramente non si parla solo di finanza. Ci saranno come ovvio dei benefici indiretti legati al fatto che la comunità godrà di un abbassamento del tasso di criminalità. Gli ex detenuti reinseriti nel tessuto sociale grazie al progetto Crt - Human Foundation, non delinqueranno più e non rientreranno quindi in carcere (con conseguente recidiva). "A tal riguardo - si legge nel documento di 116 pagine - per la Regione Piemonte l’istituto di pena Lorusso-Cutugno Le Vallette di Torino al 30 aprile 2016 registra un totale di 1.288 detenuti presenti (di cui 107 donne e 601 stranieri) a fronte di una capienza regolamentare di 1.139 posti letto". Fra i punti di forza dello studio viene segnalato da Lapucci proprio il continuo scambio di informazioni e confronto con il Dap e i vertici dell’istituto torinese: "È stato fondamentale per non far restare soltanto sulla carta queste valutazioni". La concretezza è tale che ci sarebbero già contatti in corso con potenziali investitori. L’impact social bond torinese potrebbe essere per l’Italia l’equivalente di Peterborough per l’Inghilterra. Lo speriamo un po’ tutti dopo i tanti convegni e dibatti sul tema. Treviso: il digiuno solidale dei detenuti di Santa Bona venetouno.it, 15 aprile 2017 Nel giorno di Pasqua doneranno i loro pasti alla Caritas Diocesana. Nella Pasqua cristiana i credenti accolgono il dono della Liberazione dalla Morte nella Resurrezione. Un dono che spesso viene offuscato dal dilagante consumismo che ci porta a considerare la Domenica di Pasqua festa delle uova di cioccolato e delle colombe. Ci sono però volte in cui pensare che quegli Ultimi verso cui Gesù ha riversato tutto il suo Amore, quei sconfitti dalla vita, quelli che sono, per noi, più lontani dalla Grazia ne sono invece immersi. In questa Settimana Santa vogliamo dare spazio all’iniziativa degli Uomini detenuti (Uomini con la "U" maiuscola!) cristiani ma anche mussulmani, della Casa Circondariale di Santa Bona a Treviso, che hanno deciso di donare i loro pasti pasquali alla Caritas Tarvisina perché li dia ai bisognosi. Un digiuno solidale che unisce cristiani e musulmani quando le immagini che ci sommergono dai media internazionali sono di diffidenza e odio. Questa la lettera di cui ringraziamo le Persone ristrette a Santa Bona e che speriamo abbia ampia diffusione. "In occasione della festa di Pasqua dove si festeggia la Resurrezione, noi Detenuti della Casa Circondariale S. Bona di Treviso, sia cristiani che mussulmani o di altri credi religiosi, abbiamo aderito a un digiuno per fare un’opera di solidarietà con chi ha ancor meno di noi. Tutto il cibo che normalmente sarà distribuito il giorno di Pasqua all’interno del nostro istituto, sarà interamente donato alla Caritas Diocesana della Città di Treviso affinché provveda alla distribuzione alle persone bisognose. Con questo gesto non cerchiamo nessuna gloria o redenzione, per noi la gratifica è la felicità interiore che questo gesto potrebbe creare in chi lo riceve, facendo emergere dentro di noi quella parte buona che tutti nascondiamo e che spesso e volentieri tendiamo a mascherare per orgoglio o per dimostrazione di appartenenza a una società che ci pilota verso il branco tralasciando il singolo. Ci auguriamo che questa nostra iniziativa sia resa pubblica al fine di sensibilizzare l’opinione pubblica verso le persone che normalmente non sono in primo piano quando la loro vita è oscurata dai muri che circondano questi Istituti di pena e che ledono le dignità umane". Napoli: figli di genitori detenuti, una conferenza internazionale il 19 maggio 2017 cronachedellacampania.it, 15 aprile 2017 Si terrà a il prossimo 19 maggio a Napoli la Conferenza internazionale intitolata Figli di genitori detenuti, che verterà su come tutelare il mantenimento della relazione fra figli e genitori detenuti attraverso un approccio di sistema che attivi effetti positivi non solo sui bambini, sui genitori e le loro famiglie ma anche sul sistema penitenziario e giudiziario, sui decisori politici, i media, il territorio, la scuola e la società nel suo insieme. La Conferenza internazionale indagherà su come gli "influenzatori" e i decisori possano lavorare insieme per sviluppare sistemi integrati di supporto ai bambini con genitori detenuti, sostenendo i loro diritti e la loro crescita psicoaffettiva che incide sulla responsabilizzazione dei genitori e dunque sulla riduzione della recidiva, della criminalità intergenerazionale e sui costi sociali. Durante la conferenza saranno presentate esperienze di buone pratiche multidisciplinari in Europa e giornalisti, esperti della comunicazione tradizionale, digitale e del terzo settore si confronteranno sul ruolo dei media nel percorso di sensibilizzazione pubblica sul tema dei bambini separati dai propri genitori detenuti (oltre 100mila ogni anno in Italia e più di due milioni nell’Europa del Consiglio). Sono previsti un discorso introduttivo iniziale di Mauro Palma (garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale), e quattro panel, due alla mattina e due al pomeriggio. Il primo panel affronta il tema della necessità d’un approccio olistico al problema dei figli di genitori detenuti, che coinvolga tutti i soggetti operanti perché facciano sistema con esperti, giuristi, rappresentanti del parlamento e delle istituzioni. Il secondo panel vuole disegnare un percorso concreto per l’adozione in Europa e nel mondo del Protocollo-Carta dei figli di genitori detenuti italiano. Gli speaker sono garanti dell’infanzia, ministri, commissari europei, alti rappresentanti dell’Onu. Nel pomeriggio il terzo panel da voce alle migliori pratiche in carcere e fuori, selezionate in Europa, compresa l’Italia. Conclude la conferenza un quarto panel fra i responsabili ed esperti dei media tradizionali e del web anche applicati al terzo settore. Info ed iscrizioni: bambinisenzasbarre.org. Genova: i detenuti di Marassi in Billy Budd marinaio di Laura Santini mentelocale.it, 15 aprile 2017 Teatro della Corte - 18-23 aprile 2017. Billy Budd marinaio, di Fabrizio Gambineri e Sandro Baldacci dal romanzo di Herman Melville con gli attori detenuti della Casa Circondariale di Marassi e la partecipazione di Igor Chierici e Mattia Baldacci, scene e costumi Elisa Gandelli, musica Bruno Coli, luci Clivio Cangemi. Produzione Teatro Necessario Onlus/compagnia teatrale "Scatenati"- "Un romanzo non tanto conosciuto. A lungo rimasto nel cassetto", scelto come è successo in questi anni "per l’attinenza con i temi rispetto al contesto in cui lavoriamo", afferma Sandro Baldacci ragionando intorno a Billy Budd marinaio (da Herman Melville), punto di partenza per la produzione 2017 di Teatro Necessario con la compagnia teatrale di detenuti Scatenati, del carcere di Marassi. Lo spettacolo è in scena al Teatro della Corte dal 18 al 23 aprile 2017 e in replica per le scuole al Teatro dell’Arca, all’interno della casa circondariale maschile genovese nei giorni successivi. Dopo Padiglione 40, ambientato negli spazi chiusi di un ospedale psichiatrico, quest’anno la dimensione del confinamento si realizza attraverso una vicenda che si articola sui limiti ben precisi di una nave, dove regole e gerarchie oltre alle leggi della natura e del mare dettano ritmi e costringono il movimento dentro precisi ranghi. "Con Melville ci viene offerta l’occasione di trattare un tema molto sentito in carcere: quanto la giustizia possa andare nel verso giusto o sbagliato. Ritorna il tema della nave da noi già toccato in passato e parabola dell’isolamento, dove si scontrano due forze assolute: il bene e il male. Il bene di Billy e il male di Claggart. Non ci si chiede perché uno incarni il bene e uno il male, il capitano deve solo scegliere tra il bene e il male, ma non ci riuscirà, perché alla fine il bene e il male si annientano vicendevolmente". Come in tutte le produzioni di Teatro Necessario il testo è un materiale fonte che poi subisce un importante intervento di riscrittura in corso d’opera o, per meglio dire, durante il lavoro con i detenuti e sulla sensibilità di Fabrizio Gambineri, drammaturgo della compagnia e lo stesso Baldacci, regista. "Siamo partiti, a settembre (2016, ndr), con un canovaccio del testo che è stato man mano riscritto, soprattutto per far sì che i personaggi fossero rielaborati sul materiale umano del gruppo di quest’anno. Molto è stato trasformato anche rispetto alle singole scene, ma i cardini della trama restano intatti". L’imprecisione, l’approssimazione e la fallacia della giustizia è certo tema delicato, come è stato vissuto dai detenuti-attori? "Sì, quest’anno è molto forte la partecipazione emotiva dei 24 interpreti tra cui, a parte i due attori esterni (Igor Chierici e Mattia Baldacci, diciasettenne figlio del regista), e 4 o 5 già protagonisti delle nostre produzioni, tutti gli altri sono alla loro prima esperienza sul palcoscenico". Si parte con un lungo flashback. "L’inizio è ispirato ai Pirati dei Caraibi, con la nave Indomabile, già in disarmo e il capitano sopravvissuto, ormai poco più che un’alga umana. Sarà lui a cominciare la narrazione con un lungo flash back. L’epilogo ci ha permesso di affrontare un altro tema sensibile, su come vengono trattate certe notizie. Sulla stampa infatti la versione ufficiale della storia descrive Billy Budd come un delinquente, mentre assolve del tutto Claggart. Una riflessione sui mezzi di comunicazione e sulla manipolazione delle notizia, un tema molto circoscritto che arriva solo sul finale, ma che offre molti interessanti spunti nel discorso del comandante deciso a lasciare la nave e le consegne perché non si sente più all’altezza del suo ruolo, non avendo potuto salvare il bene". All’interno del gruppo consolidato, come sempre la compagnia vive continui aggiustamenti per il va e vieni fisiologico. "Quest’anno ci sono moltissimi stranieri, così abbiamo fatto una scelta che segue l’impostazione stessa del romanzo: gli italiani interpretano gli ufficiali, mentre i marinai sono quasi tutti stranieri. La storia infatti racconta anche che c’era un arruolamento forzato (prima scena) da bettole, moli e osterie che costringeva molti ad imbarcarsi contro la loro volontà - il che li portava a vivere l’arruolamento esattamente come una forma di reclusione". Teatro di parola, ma anche teatro musicale sono sempre i due registri su cui le produzioni si appoggiano, quest’anno si vira decisi verso la dimensione musicale tanto da definire il lavoro un’opera rap. "Il genere si presta molto e questa era un’intuizione iniziale che si è poi andata consolidando. Sono quasi una ventina i brani musicali creati da Bruno Coli, in parte rappati, in parte resi in una dimensione corale. Accanto anche alcune proposte di rock melodico". Come per tutte le produzioni, non è solo la dimensione attoriale che coinvolge i detenuti in prima persona, ma c’è anche tutta la dimensione della realizzazione tecnica di scene e costumi che li impegna all’interno della falegnameria del carcere, seguito da Fuori scena. Luci e montaggio anche a carico dei detenuti-tecnici formatisi con appositi corsi professionalizzanti. E se per molti sarà un debutto sul palco, qualche giorno fa c’è stata un’altra interessante prima volta: quella delle detenute del carcere femminile di Pontedecimo, per la prima volta spettatrici al Teatro dell’Arca. "Un’esperienza molto bella. Fra l’altro da anni pensiamo che sarebbe bello coinvolgerle per i ruoli femminili, ma non abbiamo ancora tentato di mettere in piedi il progetto perché parecchio complesso in termini di permessi ma anche di fattibilità sul lungo periodo. Le problematiche non sono poche, ma non è escluso che in futuro non si riesca a farlo". Un’anticipazione: "l’anno prossimo continuiamo su questi temi, sempre al Teatro della Corte, con un adattamento di Otello, guardando sia al lavoro di Armando Punzo sia ai fratelli Taviani, con il nostro Desdemona non deve morire, per affrontare la questione del femminicidio". Pescara: al carcere di San Donato termina il corso per allenatori di calcio Il Centro, 15 aprile 2017 Nel carcere di San Donato i detenuti si preparano al ritorno in società partecipando a speciali percorsi di rieducazione alla legalità dedicati a chi ha la passione per il calcio e per l’allenamento dei giovani. Il corso "aspiranti mister scuola calcio", che ha ottenuto il patrocinio della Figc di Pescara, si è tenuto nella casa circondariale. Il progetto, fortemente voluto dal settore tecnico della Asd Pro Tirino Calcio Pescara, in collaborazione con il direttore della struttura penitenziaria, Franco Pettinelli e con l’educatrice Ylenia Di Febo, è cominciato sabato 21 gennaio e si è concluso sabato 1 Aprile. "La società Pro Tirino Calcio Pescara", spiega il presidente Luigi Di Fabio, "da anni, ha sempre dedicato passione e volontà nell’ambito del sociale e il corso è stato indirizzato ai detenuti selezionati dai responsabili della struttura carceraria". Durante le lezioni, sono stati affrontati i principali argomenti della tecnica di base, le competenze che deve avere un allenatore di scuola calcio, gli aspetti psicologici di un bambino mentre svolge le attività sportive. Inoltre, sono stati affrontati i temi del rispetto e dell’umiltà sportiva così come avviene nella vita di tutti i giorni. Una sessione pratica è stata dedicata nel campo di calcetto all’interno del carcere". Il progetto si è concluso con i quiz e la consegna degli attestati di partecipazione. Presenti una delegazione del settore tecnico della Pro Tirino Calcio Pescara formata da Antonio Di Cecco (direttore sportivo), Pino Gozzo (direttore tecnico), il direttore del carcere Pettinelli, il responsabile Figc, Luigi Campomizzi, e il consigliere comunale Adamo Scurti. "Questa, come tante altre iniziative in progetto", aggiunge il presidente Di Fabio, "rappresenta una delle occasioni per proseguire il percorso di rieducazione alla legalità per i detenuti". "Prigionieri dimenticati". Katia Anedda e il dramma degli italiani arrestati all’estero di Varo De Maria corrierenazionale.net, 15 aprile 2017 Nell’ambito del progetto di costituzione di un nuovo e forte Stato Sociale promosso dalla REA, Radiotelevisioni Europee Associate, come Sesto Bisogno Capitale viene indicata la possibilità di difendersi legalmente (gli altri Bisogni riguardano: la necessità di nutrirsi; vestirsi; avere un tetto; curarsi; istruirsi; avere una corretta informazione). Ebbene, questa tutela legale non può limitarsi a chi risiede in Italia ma deve estendersi a tutti coloro che sono di passaggio o che vivono stabilmente all’estero. Eppure dei diritti di questi italiani se ne parla molto poco, quasi per niente. Una delle pochissime persone che invece si batte da anni per i detenuti all’estero è Katia Anedda, Presidente della Onlus "Prigionieri del Silenzio" e autrice dell’importante volume "Prigionieri dimenticati" (edito da Historia) e del lavoro teatrale Legami - A morte Don Giovanni. "Le ragioni", spiega la Anedda, "che ci hanno indotto a dar vita all’associazione sono evidenti: spesso i detenuti italiani vengono sottoposti a condizioni di vita lesive dei più elementari diritti dell’uomo e assolutamente non sono compatibili con l’obiettivo della riabilitazione cui la pena deve essere finalizzata". L’autrice del libro parla sicuramente con cognizione di causa: per anni ha seguito l’assurda vicenda di Carlo Parlanti (con il quale all’epoca era legata sentimentalmente) e che negli Stati Uniti è stato condannato a 9 anni di prigione per aver, secondo l’accusa, violentato e picchiato una donna: un processo talmente iniquo e, per certi versi assurdo, che la sua esperienza è diventata col tempo un caso emblematico, alimentando numerosi articoli e libri. La sua storia è stata più volte accostata a quella di Chico Forti, altro italiano in prigione e sempre negli Stati Uniti, per un omicidio dai contorni a dir poco oscuri e dubbiosi. Attualmente gli italiani all’estero sono poco meno di 3.500. "Può sembrare un numero esiguo", dice la Anedda, "ma dietro ognuna di queste storie ci sono almeno dieci persone che soffrono, tra parenti e amici. Quindi parliamo di un fenomeno che riguarda circa 35 mila persone". Nel suo libro (che può contare su una significativa presentazione dell’ex ministro degli esteri e Ambasciatore Giulio Terzi di Sant’Agata), la Anedda racconta unidici storie emblematiche: due si sono svolte negli Stati Uniti, le altre in Canada, Messico, Colombia, Venezuela, Marocco, Mali, Filippine, Grecia e Spagna. Storie che in certi casi hanno visto come protagonisti ingenui ragazzi inclini a una qualche bravata ma anche persone preparate e colte, come l’Ambasciatore Daniele Bosio, che è stato vittima di circostanze imprevedibili e totalmente artefatte. Comunque, la Anedda non esprime mai dei giudizi sulla colpevolezza o meno degli imputati: si limita a descrivere situazioni oggettive di mancanza di ogni forma di rispetto umano e di garanzie giuridiche. "Purtroppo", conclude la scrittrice, "mancano idonei strumenti di assistenza, con la conseguenza che sovente i detenuti all’estero non ricevono neppure le cure mediche del caso, né un’appropriata difesa legale. L’Italia, non prevede infatti, per i nostri cittadini l’istituto del gratuito patrocinio e anche gli aiuti che possono essere concessi dai Consolati italiani sono solo facoltativi. In Italia si fanno tanti e giusti cortei per il sovraffollamento delle carceri ma quasi nessuno s’interessa dei nostri concittadini imprigionati all’estero, spesso innocenti". Forse l’amara consolazione finale è che probabilmente nella ‘patria del diritto’ ancora oggi il detenuto sul piano generale viene rispettato più che in tanti altri Paesi, anche del mondo occidentale e sviluppato. Otto milioni di poveri, e la metà non riesce a comprarsi il cibo di Antonio Sciotto Il Manifesto, 15 aprile 2017 Rapporto Istat. Italia fanalino di coda per occupazione e pil pro capite. E per la sanità pubblica investiamo meno di Germania e Francia. Il governo firma un memorandum che lo impegna verso chi ha meno. Camusso: "Servono più risorse". Otto milioni di poveri in Italia, di cui più della metà (4,5 milioni) è in uno stato di povertà assoluta (non può permettersi cioè neanche il minimo necessario per vivere): la fotografia di Noi Italia, ultimo rapporto Istat, è raggelante. Una serie di diapositive che ci fanno comparire agli ultimi posti in Europa per livelli di occupazione, pil pro capite e altri indicatori del benessere. I dati della povertà sono relativi al 2015: quella al livello assoluto coinvolgeva il 6,1% delle famiglie residenti (pari a 4 milioni 598 mila individui). Il 10,4% delle famiglie - in tutto 2 milioni e 678 mila - è relativamente povero, mentre le persone in povertà relativa sono 8 milioni 307 mila (pari al 13,7% della popolazione). I valori risultano stabili rispetto al 2014, ma peggiorano soprattutto le condizioni delle famiglie con quattro componenti (passano in un anno dal 6,7% al 9,5%). Male anche il lavoro: le cifre sull’occupazione ci vedono agli ultimi posti in Europa. In Italia, spiega il rapporto Istat, sono occupate poco più di 6 persone su 10 tra i 20 e i 64 anni, il dato peggiore nella Ue a eccezione della Grecia. Tra i 20 e i 64 anni nel 2016 era occupato il 61,6% della popolazione con un forte squilibrio di genere (71,7% gli uomini occupati, soltanto al 51,6% le donne). Grande anche il divario territoriale tra Centro-Nord e Mezzogiorno (69,4% contro il 47%). Nella graduatoria comunitaria sul 2015 solo la Grecia ha un tasso di occupazione inferiore, mentre la Svezia registra il valore più elevato (80,5%). Pil pro capite a terra: quello dell’Italia, misurato in standard di potere d’acquisto (per un confronto depurato dai differenti livelli dei prezzi nei vari paesi), risulta inferiore del 4,5% rispetto a quello medio della Ue, più basso di quello di Germania e Francia (rispettivamente del 23,6% e 9,2%). Il valore italiano è però superiore del 5% al pil pro capite spagnolo. La pressione fiscale risulta essere in calo. Nel 2016 in Italia è scesa al 42,9%, in riduzione di 0,7 punti percentuali dal massimo del biennio 2012-2013. Tuttavia, il nostro Paese rimane fra quelli con i valori più elevati, superato, tra i maggiori partner europei, solo dalla Francia. Per quanto riguarda la spesa pubblica, lo Stato ha speso nel 2015 circa 13,6 mila euro per abitante, un valore sostanzialmente in linea con quello medio della Ue. Tra le grandi economie dell’Unione, Germania, Regno Unito e Francia presentano però livelli più elevati, mentre la Spagna spende meno dell’Italia. Sanità pubblica, si spende meno degli altri. Nel 2014 la spesa sanitaria pubblica italiana si è attestata attesta intorno ai 2.400 dollari pro capite, a fronte degli oltre 3 mila spesi in Francia e dei 4 mila in Germania (fonte Ocse). Le famiglie italiane hanno contribuito alla spesa sanitaria complessiva per il 23,3%, e la quota è in leggero aumento. In Italia i decessi per tumori e malattie del sistema circolatorio sono stati rispettivamente 25,8 e 31 ogni 10 mila abitanti nel 2014. Nel Mezzogiorno la mortalità per tumori si conferma inferiore alla media nazionale, mentre quella per malattie del sistema circolatorio è più elevata. La mortalità per queste cause è in continua diminuzione e inferiore alla media Ue (27,4% e 38,3% nel 2013). Il tasso di mortalità infantile, importante indicatore del livello di sviluppo e benessere di un paese, continua a diminuire: nel 2014 in Italia è di 2,8 per mille nati vivi, tra i valori più bassi in Europa. Spesa per la protezione sociale: nel 2014 nel nostro Paese ha rappresentato il 30% del Pil e il suo ammontare per abitante ha sfiorato gli 8 mila euro l’anno. Memorandum: Il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, ha firmato ieri il Memorandum di intesa con l’Alleanza contro la povertà sull’attuazione della legge delega che istituisce il Rei, il reddito di inclusione, e ha spiegato che i decreti attuativi saranno pronti entro fine mese. "Siamo passati dai circa 200 milioni del Sostegno inclusione attiva a circa 2 miliardi - ha spiegato il premier - un intervento che interesserà circa 2 milioni di persone, tra cui ci sono 7-800 mila minori". Tra i firmatari anche Cgil, Cisl e Uil: "Messa una prima pietra, ma i fondi sono ancora insufficienti - ha commentato la segretaria Cgil Susanna Camusso - E oltre ai sussidi dobbiamo anche attuare politiche per l’inclusione nel lavoro". Migranti. Processo a Félix Croft. Gonnella: non si possono perseguire episodi di solidarietà Ristretti Orizzonti, 15 aprile 2017 Il Presidente di Antigone auspica che l’attivista francese sia assolto dalle accuse e che venga riconosciuta la causa di giustificazione per lo stato di necessità delle persone che stava aiutando a passare il confine tra Italia e Francia. "La richiesta di condanna per Félix Croft è totalmente sproporzionata e potrebbe aprire un precedente pericoloso". A dirlo è Patrizio Gonnella a pochi giorni dalla sentenza del Tribunale di Imperia, attesa per il prossimo 27 aprile. Il 28enne francese è sotto processo per aver tentato di portare cinque persone in Francia. Queste, tre adulti tra cui una donna incinta e due bambini di 2 e 5 anni, provenivano dal Darfur - zona del Sudan sconvolta da anni di guerra - e fino a quel momento avevano trovato riparo in una chiesa di Ventimiglia. "Ancora una volta vediamo tribunali e forze dell’ordine impegnate a perseguire reati di solidarietà. Ma utilizzare il diritto per colpire questi episodi non può trovare giustificazioni. Non si può paragonare chi è mosso da principi umanitari a chi traffica esseri umani per profitto" sottolinea Gonnella. "La richiesta di condanna a 3 anni e 4 mesi più una multa di 50.000 € è oltretutto totalmente sproporzionata rispetto al reato commesso. Giustificare tale richiesta con ragioni di sicurezza, ovvero per il fatto che qualcuna delle persone trasportate sarebbe potuta essere un foreign fighter affiliato all’ISIS, giustifica un connubio, quello tra immigrazione e terrorismo, pericoloso e alimentato spesso a solo scopo propagandistico per un tornaconto elettorale". Il reato contestato a Félix Croft è lo stesso per il quale Cédric Herrou, l’agricoltore della Val Roja, è stato condannato dal Tribunale di Nizza, il 10 febbraio scorso, ad una multa di 3 mila euro con il beneficio della condizionale a fronte di una richiesta della Procura, nel suo caso, di una pena di 8 mesi di carcere. In quel caso i migranti fatti entrare in Francia non erano 5, ma 200, tutti privi di documenti. Il Tribunale di Nizza riconobbe ad Herrou l’immunità penale che si applica agli atti umanitari. Un’altra giovane attivista italiana, Francesca Peirotti, è a processo a Nizza per aver agevolato l’ingresso nel paese di 8 migranti irregolari. Anche nel suo caso la procura ha chiesto una condanna ad 8 mesi. Richieste e pene che, ad ogni modo, benché più basse di quelle italiane, restano comunque ingiustificate. Nel caso di Croft, oltretutto, si va ben oltre alle pene previste per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare semplice - ovvero senza alcun elemento provato di profitto personale - che arrivano fino ad un massimo di 3 anni e ad una multa di 15.000 €. "Il caso di Félix - ricorda Gonnella - si lega a quello delle tre persone che, sempre a Ventimiglia, furono denunciate nei giorni scorsi per aver offerto cibo ai migranti. Anche in quel caso denunciammo l’accaduto mettendoci a disposizione per un’assistenza legale che ci vede impegnati ora nella loro difesa con uno dei nostri avvocati". "Ci auguriamo - conclude Gonnella - che il giudice riconosca la causa di giustificazione per lo stato di necessità in cui queste persone si trovavano assolvendo Félix Croft da ogni accusa". Andrea Oleandri Ufficio Stampa Associazione Antigone Così hacker di Stato e cyber-criminali usano gli stessi strumenti (o se li rubano) di Carola Frediani La Stampa, 15 aprile 2017 Hacker dell’Est riusavano un pezzo del software di Hacking Team, dice un report. Governi e truffatori usavano la stessa vulnerabilità in Word, dicono altri. Di uno spyware, un software spia, non si butta via niente. C’è sempre qualcosa che si può riutilizzare, magari con qualche modifica. Né l’utilizzo di attacchi informatici, anche dei più sofisticati, avviene sempre in esclusiva; spesso attacchi simili se non uguali sono usati nello stesso tempo da governi diversi, gruppi parastatali e criminali. Questo guazzabuglio di pratiche, strumenti e soggetti preoccupa da tempo gli esperti di sicurezza informatica. Negli ultimi giorni però sono usciti due studi che puntano il dito, in modo concreto, proprio su questo fenomeno. Il Gruppo Callisto - I ricercatori della società finlandese F-Secure hanno infatti individuato un gruppo di hacker di natura statale - soprannominato Gruppo Callisto - che ha messo in piedi, a partire dal 2015, una campagna di cyber-spionaggio in Europa orientale e nel Caucaso meridionale. Tra le vittime degli attacchi - condotti con mail di phishing, che facevano scaricare uno spware, un software spia - personale militare, ufficiali governativi, giornalisti e think tank. Ma anche il ministero degli Esteri britannico. Ora, ultimamente i report su attività di phishing e spionaggio condotte da gruppi di hacker sbucano come le primule a primavera. Tuttavia questa campagna ha due particolarità. La prima è che gli attaccanti si comportano come hacker governativi ma le loro infrastrutture a livello informatico sono collegate anche al mondo cyber-criminale, e nello specifico a siti che vendono droghe. Un legame che "suggerisce l’esistenza di connessioni tra il gruppo Callisto e attori criminali. Sebbene i target colpiti dal gruppo facciano pensare che dietro ci sia un soggetto statale con interessi specifici nell’Europa dell’Est e nel Caucaso meridionale, il legame con questi siti fa trapelare il coinvolgimento di elementi criminali", scrive il report. Il riutilizzo del software di Hacking Team - La seconda particolarità consiste nel malware usato per l’attacco, veicolato attraverso gli allegati delle mail. Si tratterebbe infatti, per F-Secure, di una variante di un modulo dello spyware RCS sviluppato dall’azienda italiana Hacking Team, venduto ad agenzie governative, e finito online dopo un attacco informatico nel luglio 2015. Nello specifico sarebbe l’agent Scout, cioè un malware che si installa all’inizio raccogliendo le prime informazioni dal sistema attaccato, e attraverso il quale sono poi scaricati i componenti aggiuntivi per una sorveglianza più approfondita. Secondo F-Secure, la versione riutilizzata sarebbe la stessa del leak. Per altro non sarebbe la prima volta che qualcuno riutilizza parte del codice di Hacking Team dopo il 2015. Qualche tempo fa un altro ricercatore aveva sostenuto che il gruppo APT28/Sofacy/Fancy Bear - ovvero i presunti hacker russi accusati dal governo Usa di aver violato il Comitato nazionale democratico, ma anche sospettati di aver bucato alcuni ministeri italiani - avrebbe copiato e riadattato parte di quel codice per il suo malware per Mac. Ma potrebbero essere gli stessi hacker? "Ci sono delle somiglianze tra i due gruppi", commenta a La Stampa Erka Koivunen, Chief Information Officer di F-Secure. "Somiglianze nelle tattiche, tecniche e procedure (in gergo TTPs), nell’uso intenso del phishing, nello stile dei finti domini usati, nei link agli stessi servizi di webmail, e in altri elementi di una infrastruttura gestita da fornitori di hosting noti per essere adoperati in operazioni criminali. Ci sono anche somiglianze nelle vittime colpite (Paesi, organizzazioni, tipi di professioni). E tuttavia riteniamo che siano distinti. Callisto ha capacità tecniche più modeste di APT28/Sofacy. È possibile che entrambi i gruppi lavorino per accondiscendere lo stesso benefattore". Proliferazione e attribuzione - Certo, resta il dubbio del perché un attore di livello parastatale dovrebbe riutilizzare pezzi di codice o malware altrui, magari perfino divenuti pubblici, col rischio di essere più facilmente individuato. "Il rischio esiste. Tuttavia anche se individuato lo strumento non rivelerebbe nulla sull’attaccante. L’attribuzione diventa più difficile se gli strumenti proliferano", prosegue Koivunen. "Inoltre sviluppare strumenti è sempre costoso e richiede tempo perfezionarli. Rubarli da altri è un modo comune per accelerare i tempi di sviluppo. Quindi c’è davvero l’impressione che anche hacker di livello statale riutilizzino codice altrui. Perfino la Cia lo faceva". Il riferimento è agli strumenti di attacco della agenzia di intelligence americana pubblicati settimane fa da Wikileaks, nell’ambito del rilascio denominato Vault 7, in cui l’unità operativa Umbrage studiava i software malevoli usati da altri gruppi, incorporandone all’occorrenza dei pezzi (tra l’altro dai documenti pubblicati sembra che anche la Cia avesse studiato con attenzione il codice fuoriuscito nel leak di Hacking Team). FinFisher, lo zeroday per Word e gli altri - A essere utilizzate da diversi gruppi sono anche le falle dei software. L’altro ieri la società di cybersicurezza Fireeye e il ricercatore di Amnesty International Claudio Guarnieri hanno rilevato che una vulnerabilità di Microsoft Word era usata in contemporanea sia da un attore statale per colpire vittime russe, sia da cybercriminali. E il gruppo di hacker governativi usava la falla in questione - che è stata chiusa da Microsoft nei giorni scorsi - per infettare i target con uno spyware di nome FinSpy, prodotto dall’azienda FinFisher, venduto a una trentina di governi. I criminali invece usavano la vulnerabilità Word per diffondere un malware di nome Latentbot, usato per rubare credenziali o cancellare l’hard drive delle vittime. La stessa FireEye, in un diverso report uscito qualche settimana fa, metteva in guardia dal fatto che i cybercriminali si starebbero avvicinando sempre di più alle capacità di alcuni attori statali, lanciando attacchi più sofisticati. Ma anche spostandosi da un mondo all’altro, al punto che i ricercatori non sempre riescono a tracciare una linea netta. E c’è chi nota come, d’altro canto, gruppi statali stiano saccheggiando sempre di più strumenti di attacco open source. Uno scorcio di questa commistione si è intravisto nell’aggressione a Yahoo del 2014, per la quale recentemente il governo americano ha incriminato due noti cybercriminali e due funzionari dell’Fsb, i servizi segreti interni russi. Una vicenda bizzarra che, qualora le accuse statunitensi venissero confermate, aggiungerebbe una tessera illuminante nel mosaico complicato delle relazioni digitali (e non) fra Russia e Stati Uniti. E della zona grigia che specie in alcuni Stati avvicina attività cyber statali e criminali. Turchia. La volontà di potenza del sultano Erdogan di Franco Venturini Corriere della Sera, 15 aprile 2017 L’Europa (con l’appoggio della Nato) dovrebbe mettere in essere una politica migratoria europea, più attenta al nostro fronte sud, più lucida sugli investimenti da fare, pragmatica come la politica impone ma non più alla mercé di un dittatore. La Turchia di Tayyip Erdogan si troverà a scegliere, nel referendum di domani, tra una dittatura ancora peggiore di quella attuale e la minaccia di una instabilità ancora più insanguinata di quella degli ultimi due anni. Il diabolico dilemma è stato costruito con totale assenza di scrupoli dall’uomo che secondo le illusioni occidentali doveva restare fedele alla Nato e portare la Turchia nell’Unione Europea, dal leader islamico ma democratico che sarebbe servito da modello per tutto il mondo musulmano, da colui che, pur con tutte le diversità del caso, prometteva di diventare per la Turchia un nuovo grande modernizzatore, un nuovo Kemal Ataturk. Ma su Tayyip Erdogan l’Occidente ha sbagliato. E ha sbagliato in particolare l’Europa, che non riuscendo più a contenere i migranti incautamente invitati da Angela Merkel si rassegnò, un anno fa, a coprire Erdogan di denaro e di promesse in cambio di un "muro" turco che impedisse ai fuggiaschi siriani di raggiungere la Grecia e di rimanervi. L’azzardo ha funzionato, gli arrivi in Grecia sono fortemente diminuiti e la rotta balcanica verso il centro Europa è stata nel frattempo bloccata da successivi confini fortificati. Ma se l’obbiettivo immediato è stato in buona parte raggiunto, oggi torna prepotentemente ad affiorare la cattiva coscienza che guidò quel patto in nome del pragmatismo elettorale. Il nostro "partner", che ora vuole modificare la Costituzione per diventare davvero Sultano, si è tolto quel che restava della sua maschera quando, nella notte tra il 15 e il 16 luglio scorsi, l’ingenuità di alcuni comandi militari gli fecero dono di un tentativo di golpe. Poco importa, oggi, se Erdogan sapeva e ha lasciato fare, o se addirittura fu lui l’ispiratore del fallito putsch come sostiene l’opposizione. Conta piuttosto che il Presidente, ancora privo dei pieni poteri che ora pretende, ha utilizzato il trampolino della sovversione militare per mettere in atto una repressione talmente vasta e talmente violenta da autorizzare fondati interrogativi sui valori comuni che dovrebbero ispirare, nei loro diversi ruoli, la Nato e l’Europa. In otto mesi Erdogan ha fatto arrestare quarantamila persone i cui processi sono appena cominciati, centomila dipendenti pubblici sono stati licenziati perché accusati di "simpatizzare" con il rivale e nemico giurato Fatullah Gulen, scuole e università sono state chiuse per lo stesso motivo, televisioni e giornali non allineati sono stati ridotti al silenzio e i loro responsabili arrestati, nella campagna elettorale per il referendum di domani lo spazio televisivo residuo è stato occupato al novanta per cento dai governativi, la censura ha colpito persino il premio Nobel Orhan Pamuk che voleva invitare a votare No, gli oppositori sono stati ripetutamente minacciati, e, a conferma della involontaria comicità che spesso caratterizza gli autoritarismi, un film cileno è stato proibito perché narrava la vicenda del referendum perso nel 1988 da Augusto Pinochet. Sappiamo, beninteso, che la Turchia è indispensabile alla Nato per coprire il fianco sud-orientale dell’Alleanza(compito che i militari turchi hanno svolto sempre egregiamente). E abbiamo ricordato quanto la Turchia sia indispensabile all’Europa nel suo anno elettorale, benché tra rotta balcanica che porta alla Germania e rotta mediterranea che porta all’Italia siano stati evidentemente usati due pesi e due misure. Ma se il pragmatismo è da sempre ben noto alla politica, se né la Nato né la Ue hanno sin qui avuto voglia di litigare con la Turchia, dove e quando si raggiungerà quel limite invalicabile che per parte sua Erdogan ha superato da tempo? Gli emendamenti costituzionali sottoposti a referendum cancellano di fatto la funzione di primo ministro, e consentono al presidente di sciogliere il Parlamento, di legiferare per decreto, di nominare gli alti funzionari e i magistrati, di introdurre lo stato di emergenza (peraltro vigente da luglio), di comandare le forze armate. Se volete avere un Capo in grado di porre termine agli attacchi terroristici degli ultimi due anni, suggerisce Erdogan, votate Sì. Ma la sua vittoria non è sicura, i sondaggi gli attribuiscono un leggero vantaggio che potrebbe essere annullato dagli indecisi o dai turchi residenti all’estero. Residenti, cioè, presso quei "nazisti" e quei "fascisti" che sono stati provocati e insultati ad arte per mobilitare i nazionalisti, anche se a profittarne sono stati sin qui gli anti-populisti olandesi. E non basta la sfrontatezza delle pretese istituzionali e dei modi politici di Erdogan, perché alla vigilia del voto è arrivato anche un avvertimento ricattatorio diretto all’Europa: vi presenteremo presto una proposta finale sui negoziati di adesione e sull’abolizione dei visti, e se non sarete d’accordo con noi salterà l’intesa sui migranti. Come dire "attenta Merkel, noi teniamo in ostaggio le tue elezioni di settembre". Che vinca o no il referendum, e tanto più se lo vincerà, Erdogan va fermato. Gli va strappato il coltello che da un anno lui stringe dalla parte del manico, e questo può essere fatto in un solo modo: nell’ambito delle riflessioni europee sulle "diverse velocità" l’Europa (con l’appoggio della Nato) metta in essere una politica migratoria europea, più attenta al nostro fronte sud, più lucida sugli investimenti da fare, pragmatica come la politica impone ma non più alla mercé di un piccolo dittatore che vuole diventare grande. Turchia. Erdogan si gioca il paese, l’opposizione la sopravvivenza di Dimitri Bettoni Il Manifesto, 15 aprile 2017 Referendum in Turchia. Domani si vota sulla riforma costituzionale voluta dall’Akp. Campagna elettorale a senso unico ma tra sì e no è testa a testa. Se le modifiche passeranno, il presidente controllerà giudici e parlamento. Alla vigilia dell’apertura dei seggi in tutta la Turchia per il referendum costituzionale, i sondaggi vedono un serratissimo testa a testa tra i due schieramenti, con pochi punti percentuali a separarli. Si voterà sulla modifica alla costituzione approvata dal parlamento lo scorso gennaio. I voti favorevoli dei parlamentari si sono rivelati insufficienti per un’approvazione diretta, ma abbastanza per convocare le urne e passare dunque la parola ai cittadini. Se approvata, la Turchia assumerà una forma presidenziale centralizzata, che ha destato preoccupazioni circa la tenuta delle istituzioni democratiche del paese. Con la riforma il presidente della Repubblica assume il potere esecutivo e allunga le mani verso i poteri legislativo e giudiziario: governa tramite decreti legge, sceglie i ministri, nomina le alte cariche della burocrazia statale, abbandona il ruolo super partes e mantiene appartenenza e leadership del partito, elegge sia la maggioranza dei membri della corte costituzionale chiamata eventualmente a giudicarlo, sia quelli del consiglio superiore della magistratura che distribuisce giudici e procuratori sul territorio. Inoltre è al comando delle forze armate. Resistono ancora alcune prerogative del parlamento. Ma con la perenne presenza della spada di Damocle dello scioglimento dell’assemblea, altro potere presidenziale, quanta dialettica ci si può attendere e quanta subordinazione? I fautori della riforma ne invocano i benefici facendo affidamento sulla necessità di una Turchia forte, governata da un partito forte e da un uomo forte. Recep Tayyip Erdogan si appresta a coronare il suo sogno politico personale e quello di almeno tre generazioni di militanza politica islamica. Largo alla nuova Turchia, fondata su un legame senza intermediari tra il leader e il suo popolo, che non è però tutto il popolo, perché chi non accetta e condivide questo legame non ha patria. Verrà marginalizzato, come sta accadendo alla decadente vecchia élite, rinchiusa nei club e nelle ville ad ammirare il proprio declino. Oppure verrà spazzato via, come le opposizioni kurde, come i vecchi amici e alleati oggi considerati traditori, come chi si batte e deve scegliere tra il carcere o l’esilio. Un cambiamento di tale dimensione storica verrà votato in un clima sociale arroventato e traumatizzato: dalla guerra in molte regioni del sud est a maggioranza kurda, da un’operazione di sradicamento dallo Stato di uno scomodo ex alleato che non poteva essere indolore, l’imam Gülen, da uno stato di emergenza che ha annullato la certezza del diritto e dato spazio all’arbitrarietà e all’abuso di potere di chi obbedisce, per sincero timore o per desiderio di compiacenza. L’Akp fonda la sua campagna sulla propria capacità organizzativa, attraverso le sue organizzazioni di quartiere e la sua mobilitazione dal basso, nonché su una vasta disponibilità economica grazie ai legami con una borghesia rampante cresciuta in simbiosi con chi è al governo ormai da quindici anni. Accanto a tutto ciò c’è l’ostruzione delle opposizioni, a cominciare da quella interna. Rarissimi i No che si sentono nell’Akp, con gli avversari di Erdogan preferiscono trincerarsi dietro una silenziosa marginalizzazione. Vincesse il sì, probabilmente pagheranno la loro mancata militanza a fianco del leader, ma assai meno che con un’esplicita presa di posizione. L’ostruzione avviene anche negli spazi pubblicitari, nei canali delle tv dominati dall’Evet (Sì in turco), dove la timida comparsa una tantum di due esponenti dell’Hdp martedì scorso sul canale statale Trt1 viene vissuta come un’inspiegabile eccezione, o forse un blando tentativo di apparente pluralismo. L’ostruzione è nel caos di almeno 500mila sfollati del sud est, tra quartieri distrutti e seggi continuamente spostati, dove ci si deve legittimamente chiedere come possano convivere bombe e urne elettorali. Ed è anche nelle decine di migliaia di epurati che languono in carcere o ci muoiono, etichettati nemici dello Stato e difficilmente potranno votare. Il referendum di domenica avviene nelle peggiori condizioni possibili, eppure i popoli di Turchia sono chiamati a dare una risposta: evet o hayir. Turchia. Il referendum di domani senza garanzie democratiche di Ezio Menzione* Il Dubbio, 15 aprile 2017 Numerose organizzazioni stanno mandando osservatori internazionali, ma la situazione appare già compromessa. Domani, il 16 aprile, in Turchia si voterà per il referendum che, ove vincano i "sì", approverà definitivamente la nuova legge costituzionale, votata in tutta fretta dal parlamento turco e ancor più speditamente sottoposta al vaglio referendario in poco più di un mese. Le norme in questione affidano enormi poteri al Presidente Erdogan in una visione presidenzialista e autoritaria tenacemente perseguita dall’attuale presidente fino dal 2008, e soprattutto negli ultimi tre anni. Al presidente viene dato il potere, di sciogliere il parlamento, di controllare la magistratura in tutte le sue articolazioni e molto altro. Si passerebbe insomma da un assetto parlamentare ad uno francamente presidenziale ed autoritario: una dittatura, per dirla schietta. Per di più, Erdogan potrebbe rimanere nella posizione di presidente fino al 2029. La votazione del 16 aprile, dunque, è cruciale sia per il partito del presidente, lo Akp, sia per la opposi- zione e tutto il paese. Poiché i sondaggi danno un testa a testa fra i sì e i no, vi è un concreto e facilmente prevedibile rischio di brogli o almeno di inquinare le votazioni stesse. È per questo che numerose organizzazioni stanno mandando in queste ore osservatori internazionali per la giornata del voto e quella dello spoglio delle schede: organizzazioni per i diritti umani, per la difesa della democrazia. Fra queste anche il Consiglio Nazionale Ma cosa troveranno da osservare questi osservatori? La situazione appare purtroppo già compromessa e le carte sono state truccate da parecchio tempo. Come ha rilevato già nel marzo scorso anche il Comitato di Venezia (praticamente un osservatorio del Consiglio d’Europa sulla crescita - e la decrescita - della democrazia sui paesi facenti capo al Consiglio) il voto referendario è già falsato da almeno due elementi fondamentali. Primo, una votazione che si svolge in un periodo in cui è dichiarato lo stato di emergenza e in cui sono vietate manifestazioni e riunioni non garantisce affatto il dispiegamento delle ragioni dei due campi avversi. Il peso che hanno le ragioni governative (quelle del sì), infatti, non può non essere preminente. Del resto, salta agli occhi che in 22 giorni radio e tv di stato hanno concesso al partito di governo Akp 4.113 minuti (di cui a Erdogan personalmente 1.309); all’opposizione, in totale, 265 minuti (di cui allo Hdp, il partito curdo e di sinistra, un solo minuto!). La rilevazione è stata fatta dal quotidiano Giumurriet (l’unico giornale di opposizione sopravvissuto alle purghe del dopo- tentato golpe) quando non eravamo ancora alla stretta finale della campagna referendaria. Secondo il Comitato di Venezia, o si aspettava a fare il referendum che fosse cessato lo stato di emergenza o si revocava quest’ultimo per poi fare il referendum. Secondo, sempre secondo il Comitato: la stessa approvazione della legge costituzionale è stata inficiata dal fatto che molti parlamentari (11 solo dell’Hdp) sono attualmente in carcere da molti mesi e dunque su tutto il parlamento (o almeno sull’opposizione) gravava l’ipoteca di come comportarsi nelle votazioni. Anche perché durante le operazioni di voto in parlamento non è stata garantita alcuna segretezza. A tutto ciò si aggiunga la fretta con cui la legge ha passato la doppia lettura e, oggi, affronta il voto referendario: tre mesi per passare a un regime autoritario, lontano dagli standard di democrazia degli altri paesi europei. Dunque, di fronte a questa situazione, gli osservatori internazionali rischiano di fare un viaggio a vuoto? Non proprio del tutto, poiché non c’è mai limite al peggio, soprattutto quando il governo vuole fortissimamente che passi la "sua" legge e, per ottenere tale risultato, sembra disposto a mettere in opera ogni tipo di imbrogli. Gli osservatori, non essendo poi molti, andranno soprattutto nei seggi del Sud Est della Turchia (il Kurdistan turco, per intenderci) dove l’opposizione è più forte e qui troveranno, per esempio, che i seggi sono stati falcidiati: non uno almeno ogni villaggio, ma più villaggi raggruppati in uno, con difficoltà per la popolazione curda di spostarsi per uno o più giorni per poter votare. Ed essere intercettati dalle forze di polizia nel loro cammino. La segretezza del voto è tutt’altro che garantita. Il trasbordo delle schede votate ha lasciato molti dubbi anche nelle ultime elezioni politiche. Dunque gli osservatori dovranno, con intelligenza e fermezza, cercare di evitare almeno questi tentativi di brogli materiali evidenti. Ma certo, il panorama politico in cui si iscrive questa scadenza referendaria non è caratterizzato né da trasparenza né da democrazia. Per dirla con il Comitato di Venezia: "Lo stato attuale di emergenza non garantisce una vera cornice democratica per un voto così importante come un referendum costituzionale". *Avvocato, osservatore internazionale per l’Unione Camere Penali Italiane Da 16 anni l’Afghanistan è ridotto a poligono di tiro per gli sceriffi di Massimo Fini Il Fatto Quotidiano, 15 aprile 2017 Per non farsi mancar nulla gli americani hanno gettato sull’Afghanistan, terra di sperimenti militari, come fosse un poligono di tiro o il deserto del Nevada, la GBU 43-B detta anche Moab, "la madre di tutte le bombe", la Mega bomba, la Bombissima, l’arma più potente dopo l’Atomica con le sue undici tonnellate di esplosivo. Se l’obbiettivo dichiarato, come dicono gli Usa, era colpire alcuni uomini dell’Isis nascosti sulle montagne di Nangarhar, la Moab pare vagamente sproporzionata e un tantino criminale. È chiaro che una bomba che devasta intorno a sé centinaia di metri non può che avere "effetti collaterali" altrettanto devastanti. Naturalmente la Casa Bianca, attraverso uno dei suoi portavoce Sean Spicer, si è premurata di avvertire che "sono state prese tutte le precauzioni per evitare vittime e danni civili collaterali". Insomma anche la Moab è una bomba "intelligente". Le bombe americane sono sempre "intelligenti". Lo abbiamo già visto nei bombardamenti su Baghdad e Bassora del 1990 (157.971 vittime civili), nei bombardamenti su Belgrado del 1999 (5.500 morti), nei bombardamenti indiscriminati sull’Iraq nel 2003. Nessuno piange quelle vittime Naturalmente nessuno si fermerà a contare e a piangere i morti afgani della "madre di tutte le bombe", perché gli afgani hanno il grave torto di non essere arabi, o cristiani propriamente detti oppure copti, o ebrei e nemmeno yazidi. E quindi dei loro uomini, delle loro donne, dei loro bambini si può fare carne di porco come sta avvenendo da 16 anni nella più lunga, insensata e disgustosa guerra dei tempi moderni. Ma la Moab, ci dicono gli esperti, era solo un avvertimento come le atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki lo furono nei confronti dell’Unione Sovietica. Chi è adesso il pericolosissimo avversario da "avvertire"? È la Corea del Nord che ha sottratto la primazia nell’Asse del Male all’Iran che ora è stato anzi accolto nel salotto buono perché dei pasdaran, come dei peshmerga curdi (per inciso: ieri o l’altro ieri i bombardieri americani ne hanno uccisi una ventina in Siria, "fuoco amico") abbiamo estremo bisogno - perché vigliacchi come siamo diventati non osiamo più scendere sul terreno - per piegare la resistenza di 2.000 guerriglieri dell’Isis che a Mosul, benché accerchiati, bombardati dall’alto, spiati dai droni, e impegnati, oltre che a combattere, a mantenere l’ordine, il loro ordine, nella città e a stuprar yazide in gran quantità, si ostinano a non arretrare di un passo. Gli americani dopo aver incendiato il Medio Oriente con quattro guerre disastrose si apprestano adesso a far la stessa cosa con l’Estremo Oriente che finora era stato relativamente tranquillo. Questa volta il pretesto per colpire la Corea del Nord (la portaerei Carl Vinson, sommergibili nucleari, droni, commandos dei Navy Seals sono già in zona) è che il dittatore Kim Jong-un sta effettuando dei suoi esperimenti nucleari. E per questo deve essere punito come lo fu l’Iran con 35 anni di durissimo embargo economico. Fra l’Iran degli Ayatollah e la Corea di Kim Jong-un c’è certamente una differenza in favore del primo. Se Saddam avesse avuto l’atomica L’Iran ha firmato il Trattato di non proliferazione nucleare e ha sempre accettato le ispezioni dell’Aiea (Agenzia internazionale per l’energia atomica) che non hanno mai rilevato che nelle centrali nucleari iraniane l’arricchimento dell’uranio superasse quel 20% che serve agli usi civili e medici (per l’Atomica l’arricchimento deve arrivare al 90%). Che volesse farsi la Bomba era una pura ipotesi, un classico processo alle intenzioni derivante da una mera avversione ideologica. Invece la Corea del Nord, paese poverissimo, due bombette atomiche ce l’ha e sta cercando di allungare la portata dei suoi missili. Nonostante ciò non costituisce un pericolo per nessuno, sia perché i suoi missili non hanno la gittata necessaria per colpire obbiettivi "sensibili", tantomeno negli Stati Uniti, sia, e soprattutto, perché nessuno, nemmeno Kim Jong-un, sarebbe così pazzo da gettare un’Atomica. Verrebbe infatti investito nel giro di pochi minuti da decine di atomiche. L’Atomica serve solo, è arcinoto, come deterrente e giustamente Kim Jong-un ha detto che il bombardamento americano in Siria, del tutto illegittimo dal punto di vista del diritto internazionale, giustificava i suoi esperimenti nucleari. E ancor più li giustificherà la criminale Moab gettata, come esperimento, sull’innocente Afghanistan. Se Saddam Hussein e Gheddafi avessero avuto l’Atomica sarebbero ancora al loro posto. In questa gara di Potenze per soddisfare i propri appetiti, con guerre condotte per interposta persona, la più rassicurante sembra essere la Cina. A differenza dell’America di Trump e dei suoi predecessori, della Russia di Putin e dei suoi predecessori, della Turchia e persino dell’Arabia Saudita, la Cina, con il suo miliardo e 400 milioni di abitanti, non ha assunto alcun atteggiamento muscolare, non fa il muso duro militare a nessuno. Si limita a conquistare, silenziosamente e astutamente, il mondo intero attraverso l’economia, mentre gli altri perdono il tempo con le loro stupide e criminali guerre. Ammettiamolo una volta per tutte: la vera "cultura superiore" è quella made in China. E non solo perché la cinesina sotto casa ci fa con maestria tutti quei lavoretti, modesti quanto indispensabili, che noi superbiosi occidentali ci rifiutiamo o non siamo più capaci di fare. Stati Uniti. In Arkansas giudice blocca l’esecuzione di sei condannati a morte di Francesca Caferri La Repubblica, 15 aprile 2017 Il fermo temporaneo è motivato dall’utilizzo di un farmaco per le iniezioni letali dopo l’esposto di un’azienda farmaceutica che si era opposta in quanto il prodotto non era stato venduto per questo scopo. Quello che era nato come un braccio di ferro fra lo Stato dell’Arkansas e le associazioni per i diritti civili sulla legittimità della pena di morte si è trasformato in una guerra aperta fra Little Rock e Big Pharma: è stato infatti il ricorso di una casa farmaceutica a fermare - per ora - la corsa alla pena del governatore dello Stato del Sud degli Usa, Asa Hutchinson che aveva programmato di mettere a morte sette persone entro la fine del mese. L’Arkansas non esegue pene capitali dal 2005, ma la scadenza della validità del midazolam, una delle tre sostanze usate, aveva spinto Hutchinson ad dare una spinta alle esecuzioni. Per mettere a morte i condannati l’Arkansas usa tre medicinali diversi: lo sdegno nato intorno alla vicenda aveva spinto i produttori dei tre farmaci a fare ricorso contro lo Stato, perché non avrebbe dichiarato l’uso che intendeva fare delle sostanze al momento dell’acquisto. Un giudice ha oggi accolto il ricorso, bloccando sei esecuzioni. La settima era stata fermata qualche ora prima per l’infermità mentale del condannato. I sette uomini condannati hanno fra i 38 e i 60 anni e sono stati giudicati colpevoli di crimini compiuti negli anni 90: stupri e omicidi, principalmente, con una grande maggioranza di donne come vittime. Se la loro esecuzione verrà confermata stabilirà un record di orrore: dal 1976, quando la Corte Suprema ha autorizzato il ritorno della pena di morte, nessuno Stato americano ha giustiziato tanti detenuti in un arco di tempo così limitato. Una prospettiva che ha fatto scattare l’indignazione di chi si batte contro la pena di morte come Amnesty International e Human Rights Watch. Lo scrittore John Grisham, che nello Stato è nato, ha scritto un articolo durissimo su Usa Today: "Siamo di fronte a uno spettacolare deragliamento della legge". La polemica è arrivata anche su Twitter: l’hashtag #8in10 (otto prigionieri in 10 giorni) è diventato virale. Ma la battaglia per ora resta più virtuale che reale: secondo gli ultimi studi in Arkansas il numero di persone favorevoli alla pena di morte è di molto superiore a quello dei contrari. La Pfizer: "Prodotti consegnati al carcere a nostra insaputa" Case farmaceutiche contro Arkansas per uso farmaci letali per condannati a morte. La Fresienus Kabi e la West-Ward Pharmaceutical hanno chiesto alla giustizia di inibire l’utilizzo dei loro prodotti per sette detenuti che si trovano nel braccio della morte. La Pfizer denuncia invece che alcuni suoi farmaci sono stati venduti, all’insaputa del colosso farmaceutico, alle autorità dello Stato per analoghe condanne alla pena capitale. Due società farmaceutiche chiedono alla giustizia americana di impedire allo stato dell’Arkansas dall’usare i loro farmaci per l’esecuzione di sette detenuti nel braccio della morte. Fresienus Kabi e West-Ward Pharmaceutical hanno presentato la documentazione in tribunale. Le esecuzioni dovrebbero avvenire nelle prossime settimane. Dal canto suo la Pfizer denuncia: alcuni dei suoi farmaci che possono essere usati per le condanne a morte sono stati venduti alle autorità dell’Arkansas all’insaputa del colosso farmaceutico. Lo riporta la stampa americana. A venderle sarebbe stato uno dei distributori di Pfizer, McKesson. La vendita è contraria alla politica di Pfizer. Cecenia. 50 i morti nei lager per gay. Fatwa contro chi denunciò di Delia Vaccarello L’Unità, 15 aprile 2017 Giornalisti minacciati e uomini gay torturati in Cecenia. Dopo le denunce è partita la Fatwa. L’inchiesta che ha rivelato l’orrore è considerata "un insulto alla secolare cultura cecena". In un comunicato stampa i giornalisti della Novaya Gazeta dicono che 241eader religiosi dinanzi a 15mila fedeli hanno dichiarato vendetta contro i reporter. Il direttore del giornale ha chiesto l’intervento delle autorità russe per far rispettare la legge, mentre il Cremlino ha fatto sapere che "segue la vicenda". In un’intervista esclusiva all’Huffington Post Elena Milashina, che ha rivelato su Novaya Gazeta le sevizie, parla di cinque prigioni segrete dove la polizia tortura e uccide i gay. Milashina dà le dimensioni della persecuzione: "Cento persone sono state arrestate illegalmente all’interno della campagna contro la comunità Lgbt della Cecenia". Alcune di queste sfuggite a una seconda cattura stanno cercando rifugio in Europa. Mentre i morti potrebbero essere cinquanta. La prima denuncia è partita dal collettivo Russian Lgbt Network che hanno lavorato insieme ai militanti per i diritti umani e ai giornalisti. È stata attivata una linea di emergenza (kavkaz@lgbtnetorg) diffusa attraverso i sociale sulla Novaya Gazeta. Numerose le denunce arrivate. Gli scampati alla morte sarebbero più di ottanta, detenuti perché gay e torturati sono riusciti ad arrivare in Russia. La repressione anti-gay è iniziata il 9 marzo quando Alexey, un rappresentante della comunità Llgbt, ha iniziato la protesta contro le autorità che non permettono il gay pride in una cittadina del Caucaso. Molte persone sono state messe in libertà sotto cauzione. Quando l’attivista ha ottenuto il via libera a organizzare il Aride è iniziatala seconda ondata di arresti, e alcuni gay che erano stati rilasciati sono stati incarcerati di nuovo. Chi è stato arrestato due volte è ancora dentro. Chi è sfuggito alla seconda cattura è uscito dalla Cecenia e adesso cerca protezione anche in Europa. II Russian Lgbt Network, riportano i radicali di Certi diritti, ha organizzato un Piano d’emergenza per evacuare gli omosessuali ceceni che rischiano di essere catturati o che sono sopravvissuti alle detenzioni di massa e, in collaborazione con il movimento per i diritti Lgbt All Out, ha lanciato una campagna per raccogliere i fondi necessari a mettere in salvo le persone a rischio (allout.org/chechnya). Denunciare significa attirarsi la vendetta. Novaya Gazeta, in un editoriale firmato dalla redazione, ha scritto che il 3 aprile scorso, a tre giorni dalla pubblicazione del primo articolo, a Grozny si è tenuta una riunione nella moschea centrale. Tra i leader religiosi c’era anche Adam Shakhidov, consulente del boss ceceno Ramzan Kadyroy. Per Shakhidov i reporter di Novaya Gazeta sono "nemici della nostra fede e della madrepatria". Al termine dell’adunata, una "risoluzione del Consiglio", "in virtù dell’insulto alla cultura secolare della Cecenia e alla dignità dei suoi uomini", ha promesso "la rappresaglia" contro i responsabili, "dovunque essi siano, chiunque essi siano, non importa quanto ci vorrà". La reazione, dicono alla Novaya Gazeta, ha fomentato l’odio Sui social network. Da qui la richiesta d’intervento da parte delle autorità e una lettera indirizzata al muftì in persona, Salah Mejiev, scritta dal direttore del giornale, Dmitri Muratov. "Il nostro giornale si batterà sempre per la difesa dei diritti umani in Cecenia e in altre regioni della Russia", sostiene Muratov. Diritti umani in Cecenia? "Qui le leggi non esistono", dichiara la reporter Milashina. "Siamo contro la violenza nei confronti dei giornalisti e se qualcuno si sente diffamato agisca secondo i canali che la legge mette a disposizione", così il portavoce di Putin. Cremlino dice di non essere in possesso di "alcuna informazione attendibile" sulle violenze anti-gay in Cecenia.