Le 2mila detenute invisibili rinchiuse nelle prigioni italiane di Marco Sarti linkiesta.it, 14 aprile 2017 Le donne rappresentano solo il 4 per cento della popolazione carceraria italiana. "Rischiano di diventare invisibili e insignificanti" spiega il garante. Mancano i ginecologi, ci sono pochi spazi a disposizione, minori opportunità. Senza dimenticare il dramma dei 40 bambini reclusi con le loro madri. Rappresentano una realtà piccola, quasi marginale. Su 55mila detenuti nelle galere italiane, le donne sono solo 2.338. Il 4,2 per cento della popolazione carceraria. E questo le rende vittime di un paradosso. La minore capacità criminale si rivela un fattore penalizzante. "La detenzione da sempre è pensata al maschile e applicata alle donne che, proprio per la loro scarsa rilevanza numerica, rischiano di diventare invisibili e insignificanti per il sistema penale". A chiarire il concetto è il garante per i detenuti, che poche settimane fa ha presentato la sua relazione annuale in Parlamento. Le donne in carcere non sono molte, con tutte le difficoltà che questo comporta. Nel Paese ci sono solo quattro istituti penitenziari femminili: a Trani, Pozzuoli, Rebibbia e Venezia-Giudecca. Quattro strutture che potrebbero ospitare 537 detenute, ma ne accolgono 589. La gran parte delle donne, così, sono distribuite nei 46 reparti femminili che si trovano all’interno di istituti maschili. È così per 1.749 recluse. Per loro la detenzione rischia di essere ancora più dura. "Le sezioni femminili negli istituti maschili - spiega il garante - rischiano di essere, ancora una volta per la loro esiguità numerica, dei reparti marginali, in cui le donne hanno meno spazio vitale, meno locali comuni, meno strutture e minori opportunità rispetto agli uomini". Qualche esempio? Nella casa di reclusione di Genova-Pontedecimo i detenuti di sesso maschile possono usufruire di una palestra, spazio precluso alle donne. Per gli uomini sono previste salette di socialità in ogni piano? "Nelle sezioni femminili la socialità si fa in corridoio". Il tutto permeato da una vecchia concezione sociale che limita le attività femminili ad antichi stereotipi: se i detenuti possono partecipare a programmi di informatica e tipografia, le detenute possono lavorare solo in cucina e sartoria. Con evidenti ripercussioni in termini di reinserimento sociale. Pur riconoscendo gli sforzi dell’amministrazione penitenziaria, così, il garante auspica un nuovo approccio che riconosca le differenze di genere, introducendo "una specificità della detenzione femminile rispetto a quella maschile". Il motivo è semplice: "Lo stesso trattamento per donne e uomini non produce risultati equi". Gran parte delle recluse sono distribuite nei 46 reparti femminili che si trovano all’interno di istituti maschili. Per loro la detenzione rischia di essere ancora più dura. "Sono dei reparti marginali, in cui le donne hanno meno spazio vitale, meno locali comuni, meno strutture e minori opportunità rispetto agli uomini" Un’interrogazione depositata pochi giorni fa dal senatore Francesco Campanella descrive una realtà ancora più drammatica. Citando il noto programma di Radio Radicale "Radio carcere", di Riccardo Arena, il documento denuncia: "All’interno delle carceri italiane, oltre agli spazi carenti, poca igiene e sovraffollamento, le donne sono costrette a vivere la detenzione con l’assenza di ginecologi o pediatri spesso irreperibili, difficoltà a procurarsi assorbenti e saponi per l’igiene intima". A volte per una donna la detenzione rappresenta una doppia pena. L’interrogazione parlamentare cita un intervento di Donatella Zoia, medico dell’unità operativa per le tossicodipendenze a San Vittore. "Nella società sono solitamente le donne a portare il maggior peso di responsabilità affettiva. Quando una donna finisce in carcere, fuori ci sono sempre i figli, una madre, un padre, a volte anche un marito che contavano su di lei e che restano abbandonati e senza sostegni. E così la detenuta, oltre al peso della carcerazione, si sente colpevole di averli lasciati soli, si sente responsabile per non poter far nulla per loro e somatizza il suo malessere". Non di rado ne derivano conseguenze fisiche. Dai disturbi al ciclo mestruale, all’ansia, ma anche depressione, anoressia e bulimia. "All’interno delle carceri italiane, oltre agli spazi carenti, poca igiene e sovraffollamento, le donne sono costrette a vivere la detenzione con l’assenza di ginecologi o pediatri spesso irreperibili, difficoltà a procurarsi assorbenti e saponi per l’igiene intima". E poi ci sono le madri. Al 31 gennaio scorso le donne detenute con i loro bambini erano 35, per un totale di 40 minori rinchiusi. Diciannove recluse erano nelle sezioni nido degli Istituti di pena, sedici negli Istituti a custodia attenuata per detenute madri (Icam). La vicenda di queste donne rappresenta ancora "una criticità che chiede soluzioni" ammonisce il garante. La situazione penitenziaria italiana mostra situazioni molto diverse tra loro. Alcune sezioni nido sono realtà virtuose: non mancano "reparti attrezzati, accoglienti e ben collegati con il territorio". Altri sono del tutto inidonei. La relazione al Parlamento evidenzia la situazione della sezione nido della Casa circondariale di Avellino. La cella nido dedicata alle madri con bambini è, di fatto, una stanza detentiva a due "priva di qualsiasi attrezzatura necessaria per ospitare bambini così piccoli". L’Istituto, si legge ancora, non ha mai attivato una collaborazione con l’asilo nido del territorio. E a pagarne le spese sono soprattutto i bambini, costretti a vivere una detenzione a tutti gli effetti senza aver commesso alcuna colpa. "Di fatto i bambini vivono nella sezione detentiva comune, in celle prive delle dotazioni necessarie, in un contesto difficile anche per gli adulti, senza rapporti con le scuole o le organizzazioni locali". La maternità dietro le sbarre rappresenta uno dei capitoli più dolorosi. E non solo durante la difficile convivenza in cella con i propri figli. "Lo choc maggiore - si legge nell’interrogazione del senatore Campanella - arriva quando il bimbo compie tre anni: è il momento in cui la legge prevede che il minore debba uscire e la maternità si interrompe". Eppure nelle carceri italiane non mancano casi positivi. Nella casa circondariale di Venezia-Giudecca, una delle poche dedicata alle donne, le madri detenute riescono a mantenere significativi rapporti con i figli che vivono all’esterno. Ad esempio seguendo via Skype i bambini al momento di fare i compiti. A Roma, altro esempio virtuoso, è stata recentemente aperta una casa famiglia protetta per accogliere genitori agli arresti domiciliari e in misura alternativa. Realtà da valorizzare, ma ancora poco diffuse. Morire di carcere, la storia di Valerio di Paola Sarno linkiesta.it, 14 aprile 2017 Il carcere è un amplificatore dei disturbi mentali e può alimentare una sorta di circolo vizioso della sofferenza psichica. All’ordine del giorno i tentativi di suicidio. Valerio, 22 anni e una storia assurda di mala psichiatria alle spalle, non ce l’ha fatta. Si è tolto la vita lo scorso 24 febbraio nel carcere romano di Regina Coeli. In uno dei tanti istituti di pena italiani dove i suicidi sono quasi all’ordine del giorno, oltre 20 nel nostro Paese dall’inizio dell’anno. Si è impiccato con un lenzuolo alle grate della finestra del bagno. Aveva 22 anni e si chiamava Valerio. Valerio però in carcere "non ci doveva stare", come ha detto "forte e chiaro" il garante del detenuti Stefano Anastasia e come hanno stigmatizzato con decisione anche due storici esponenti di Psichiatria Democratica, Emilio Lupo e Cesare Bondioli. Ma torniamo a Valerio, che in carcere "non ci doveva stare", perché le sue condizioni psichiche lo rendevano incompatibile alla vita in cella. La sua storia, raccontata dalla madre a The Post Internazionale, è un doloroso susseguirsi di soprusi. Valerio fin dall’età di cinque anni aveva manifestato problemi psicologici: un motivo che è stato ritenuto valido perché venisse affidato a una casa famiglia per stare in un ambiente protetto e seguito da persone qualificate per la sua riabilitazione. "A 12 anni", racconta la mamma, Ester Moratti, a TPI, "all’ospedale Umberto I gli fu diagnosticato il disturbo borderline, poi fu mandato in un’altra casa di cura a Pescara, dove trascorse nove mesi. Lì subì abusi e maltrattamenti". Tanto che la casa famiglia, una delle tante dove - purtroppo e sempre troppo tardi - vengono scoperte violenze sui minori, venne chiusa. "Valerio è passato da un centro all’altro", continua la madre, "finendo anche nell’Opg di Napoli. Tutte strutture che non aiutavano nessuno, che creano degli zombie che girano in tondo. Valerio non voleva fare lo zombie e non poteva sopportare di stare in cella". Soprattutto, non avrebbe proprio dovuto stare in una cella di un carcere: viene stabilito così dal magistrato quando Valerio, scappato per la terza volta dalla Rems di Ceccano (FR), viene riacciuffato dai Carabinieri. Ne segue - si presume - una colluttazione, in quanto il ragazzo viene accusato di resistenza a pubblico ufficiale e di lesioni. Reati tutto sommato lievi. Ma Valerio non viene riportato a Ceccano, né tantomeno si dispone per lui un progetto riabilitativo diverso che coinvolga anche i Dipartimenti di Salute Mentale e le strutture territoriali. Non c’è più posto per lui nella Rems, che - ricordiamo - è una struttura sanitaria. Così il magistrato decide per il carcere e Valerio, forse per "un’esemplare punizione" viene trasportato a Roma. Destinazione: Regina Coeli. Il giudice decide per la custodia cautelare in carcere, nonostante lo spirito della legge sia quello di favorire misure non detentive. Sono diverse le certificazioni che testimonino che Valerio non era abile al regime carcerario ed era ad alto rischio suicidio. Una settimana prima di uccidersi aveva inviato una lettera al fratello - resa pubblica dall’associazione Antigone - dove scriveva "Io qui sto impazzendo, non ce la faccio più". Valerio diceva di essere stato lasciato "dall’unica ragazza che amavo veramente", e aggiungeva "sono stanco di mangiare, di fare qualunque cosa, scappare, basta". Una situazione che era già emersa chiaramente anche in sede giudiziaria nel processo del 14 febbraio 2017. "Valerio supplicava per andare a casa, prometteva di fare il bravo. Non voleva assolutamente stare in carcere. Qualunque tipologia di reato commessa in passato, Valerio è sempre stato scagionato per infermità mentale", ricorda ancora la mamma a TPI. "Proprio in quella sede [processuale, ndr] venne predisposta la scarcerazione per Valerio, che però non fu mandato a casa, né inviato in un’altra Rems. Ma al Regina Coeli". Si chiede ancora la madre: "Perché Valerio non era controllato, non era guardato a vista; dati i precedenti, perché non gli erano state fornite lenzuola di carta? Dato che aveva già tentato in passato di togliersi la vita perché nessuno lo sorvegliava?". Sono tanti gli interrogativi che non trovano risposta in questa storia che inquieta, addolora e indigna. Scrive Damiano Aliprandi su Il Dubbio: "Un fatto questo che avviene a pochi giorni dalla chiusura definitiva degli Ospedali psichiatrici giudiziari e che dimostra quanto siano motivate le preoccupazioni di chi mette in discussione le misure di sicurezza". Misure che, anche secondo i Radicali Italiani, non dovrebbero esistere e che non sono altro che "lo strumento attraverso il quale il malato psichiatrico continua a essere oggetto di segregazione ed esclusione sociale". In maniera molto tranchant si potrebbe dire, insomma, che chiusi i manicomi, chiusi gli Opg, ora è indispensabile agire sul sistema carcerario. Il problema dei detenuti psichiatrici è enorme. Il carcere è, infatti, un amplificatore dei disturbi mentali e può alimentare una sorta di circolo vizioso della sofferenza psichica: l’isolamento e la mancanza di contatto con l’esterno, insieme allo shock della detenzione, possono facilitare la comparsa o l’aggravarsi di un disagio psichico che può essere già diagnosticato o ancora latente. La patologia psichiatrica riguarda 1 detenuto su 7, l’abuso di sostanze interessa il 10-50% dei detenuti, il suicidio resta una delle prime cause di morte in carcere. I numeri, diffusi nell’ottobre scorso dalla Società Italiana di Psichiatria, dalla Società Italiana di Psichiatria delle Dipendenze e dalla Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria, si riferiscono ad un contesto internazionale. Purtroppo l’Italia manca di dati epidemiologici propri, ma come specificano gli esperti si ritengono validi anche per il nostro Paese. Ciononostante a intraprendere una battaglia solitaria in parlamento è la senatrice Maria Mussini, vicepresidente del Gruppo misto e membro della commissione Giustizia. È lei a dichiarare a Il Dubbio che "questa ennesima tragedia evidenzia in tutta la sua crudezza la complessità del percorso di superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari", per loro natura contenitori spersonalizzanti di individui "scartati" dalla società. "Una vera cura potrà realizzarsi solo se e quando si terrà conto della varietà delle situazioni fatte di persone in carne e ossa, con profili clinici differenti ed esigenze specifiche… Questo episodio dimostra una volta di più come le carceri non siano attrezzate adeguatamente per la tutela della salute, né tantomeno strutturate per garantire i trattamenti terapeutico-riabilitativi necessari a chi resta escluso dalle Rems". Potenzialmente i suicidi potrebbero essere molto di più". L’ultimo caso è quello di un altro ragazzo nel carcere minorile di Potenza che ha tentato di togliersi la vita esattamente come Valerio. Anche lui soffre di problemi psichiatrici. Perché erano in carcere? "Made in carcere" quando la cella produce lavoro di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 aprile 2017 Il coinvolgimento dei detenuti nei laboratori artigianali in vari Istituti penitenziari rientra nel percorso di riabilitazione previsto dalla legge 354 del 1975. Dolci, pane, borse, cravatte, birra, sartoria e tanti altri prodotti "made in carcere" vengono realizzati in molti istituti penitenziari. Non sono destinati alla grande produzione e il ministero della Giustizia ha messo da tempo a disposizione una vetrina on line per conoscere le creazioni e dove acquistarli. I detenuti che lavorano remunerati con una paga adeguata, hanno una possibilità di attuare un percorso costruttivo e riabilitarsi. La legge 354 del 1975, infatti, dice che il lavoro nelle carceri è uno dei fattori fondamentali per la riabilitazione dei detenuti. Studi empirici attestano che la recidiva si abbassa notevolmente per i detenuti che intraprendono un percorso lavorativo in carcere. Parliamo, infatti, del 60- 70% di diminuzione di ricadute in comportamenti scorretti dal punto di vista legislativo una volta usciti dal carcere. I dati sono diversi laddove questo percorso di riabilitazione non avviene e la recidiva aumenta vertiginosamente. Anche per questo motivo il carcere diventa una "porta girevole" dove si esce per poi ritornare. Dai dati del Dipartimento di amministrazione penitenziaria, aggiornati al 31 dicembre del 2016, si evince che la percentuale dei detenuti lavoranti non supera il 30 per cento dei reclusi presenti. Ciò significa che ancora c’è tanto da fare. Sono diverse, comunque, le realtà virtuose dove serie cooperative entrano in carcere e fanno lavorare i detenuti per la produzione di prodotti artigianali, nella ristorazione e nella sartoria. Non mancano i primi store dove si vendono unicamente i prodotti del carcere. Da un anno esiste il "Freedhome", un ampio spazio espositivo a Torino, in via Milano, 2/ C, nel quale è possibile acquistare prodotti e servizi realizzati all’interno delle carceri italiane. Sono tredici le cooperative che vi partecipano e al negozio si possono trovare variegati prodotti che vanno dal design all’abbigliamento. Ma a fare da padrone sono i prodotti alimentari. Si va infatti dalle lingue di gatto sfornate dalla "Banda Biscotti" di Verbania alle paste di mandorla di "Dolci Evasioni" a Siracusa, per poi passare al pane di "Farina nel Sacco" prodotto dai tre panettieri del carcere di Torino, regolarmente assunti dalla Cooperativa Liberamensa che gestisce inoltre, sempre all’interno del medesimo contesto detentivo, il ristorante aperto al pubblico. In questo modo non solo danno l’opportunità di riabilitare i detenuti, ma creano un ponte tra i reclusi e la società esterna. Altra importante realtà, questa volta nata in sud Italia, è il progetto "Made in carcere". Si tratta di un’opportunità che l’imprenditrice Luciana Delle Donne ha voluto dare alle detenute del carcere pugliese di Lecce. Un passato nel mondo della finanza, poi il ritorno nel suo Salento e dal 2008 "grazie alla collaborazione della direttrice del carcere di Lecce Rita Russo - ha spiegato Delle Donne a Vita - abbiamo avviato i laboratori di cucito". Oggi sono circa quindici le donne impegnate a cucire i prodotti di "Made in carcere", ma soprattutto "le donne coinvolte - continua Delle Donne - nel giro di due tre mesi imparano un mestiere, la responsabilità delle consegne, i vantaggi che vengono fuori da un modello di lavoro semplice". Le sarte del progetto realizzano borse e gadget con tessuti che la moda scarta: "Noi - racconta ancora l’ideatrice di Made in carcere - raccogliamo e diamo una seconda vita a tessuti che altrimenti andrebbero al macero". Recentemente "made in carcere" ha conquistato "l’Oreal Italia", la multinazionale dei prodotti di bellezza, che ha fornito ai propri avventori una capientissima borsa realizzata con tessuto di recupero e manodopera delle detenute. Made in carcere è uno dei numerosi progetti di cucito che, da Nord a Sud, coinvolgono le detenute. Come quello ormai storico della Sartoria San Vittore a Milano che ripara anche le toghe dei giudici. Venticinque detenute cuciono nei tre laboratori sartoriali, due dei quali a San Vittore e a Bollate. A Venezia il "Banco Lotto n. 10" è l’unico punto vendita dove acquistare gli abiti realizzati nel carcere femminile della Giudecca. Qui sette detenute, affiancate da una sarta e da una cartamodellista, imparano a cucire e creano vestiti, giacche, borse e accessori di moda. Prende il nome dalla via dove si trova il carcere bolognese il laboratorio sartoriale "Gomito a Gomito". Attivo dal 2010, il laboratorio coinvolge detenute che hanno seguito un percorso di formazione e dove possono acquisire una nuova competenza professionale. La parola d’ordine del laboratorio bolognese è riciclare: le sarte recuperano materiali di scarto e danno ad essi una seconda vita. Un laboratorio di sartoria artigianale per il confezionamento di cravatte in dotazione al corpo di polizia penitenziaria si aprirà a breve all’interno della casa circondariale femminile di Pozzuoli, grazie al protocollo d’intesa tra la "Struttura organizzativa di coordinamento delle attività lavorative dell’Ufficio del Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria" e gli amministratori unici di E. Marinella srl e Maumari srl, Maurizio Marinella e Dario dal Verme. Il prestigioso marchio - eccellenza mondiale nella produzione delle cravatte e accessori di sartoria - mette a disposizione gratuitamente e ai soli fini sociali oltre al proprio know how personale specializzato per la realizzazione e la supervisione del design del prodotto realizzato dalle detenute di Pozzuoli. L’accordo prevede la progettazione del laboratorio, la definizione dei cicli e dei tempi di produzione e un percorso finalizzato a formare nel tempo un numero di persone qualificate per l’intera lavorazione. Non mancano poi i prodotti alimentari come il "Caffè Galeotto" che viene prodotto all’interno dell" istituto penitenziario Rebibbia Nuovo Complesso, nel carcere di Padova c’è la pasticceria Giotto che produce ogni giorno dal 2005 panettoni, colombe, veneziane, biscotti. I ragazzi dell’Istituto per minori Nisida a Napoli realizzano il "ciortino", un biscotto portafortuna. Oppure c’è l’olio extravergine d’oliva prodotto - tramite la molitura in loco di olive Leccino e Gentile di Chieti dall’azienda agricola Casa Lavoro con annessa Sezione Circondariale di Vasto (Chieti). Lunedì scorso, presso la terza casa circondariale di Rebibbia, è stato inaugurato l’apertura nuovo punto vendita "Il Pane dalla Terza Bottega". Quest’ultimo nasce nel 2012 grazie al progetto dei Panifici Lariano srl, nato per aumentate l’attività produttiva e lavorativa intramuraria dei detenuti. Sono tutte realtà virtuose per un ripensamento in toto della vita dei detenuti e del sistema carcerario. È l’amnistia la medicina giusta per curare la giustizia? di Piero Sansonetti Il Dubbio, 14 aprile 2017 A Pasqua la marcia organizzata dai Radicali da Regina Coeli a San Pietro. Nel giorno di Pasqua, a Roma, sfilerà la marcia per l’amnistia, come succede ormai da qualche anno. La volle Marco Pannella che la convocò con il suo tipico linguaggio aspro, poco mediato: disse che serviva a interrompere "la flagranza di reato nella quale si trova lo Stato italiano per la sua politica carceraria". I radicali la ripropongono, con un corteo che partirà dalla vecchia prigione di Regina Coeli e si concluderà a San Pietro. Ci saranno esponenti politici di vari partiti liberali, ci saranno i cristiani e parecchi sacerdoti. Il Vaticano spesso ha chiesto allo Stato di varare un provvedimento di clemenza. Lo fece papa Wojtyla, nel 2000 e negli anni successivi, ma prese la porta in faccia. E così è successo anche a Bergoglio, che ha chiesto l’amnistia l’anno scorso, in occasione del giubileo del perdono. Non c’è da stupirsi: quella italiana è una società molto cristiana, quasi devota, però in genere piuttosto restia ad accettare le idee i valori del cristianesimo... La domanda, ora, è questa: l’amnistia è la medicina giusta per risolvere, o attenuare, i problemi giganteschi dei quali soffre la giustizia italiana? Molti giuristi sostengono che è la misura giusta. Dicono che può fornire alla politica la spinta per affrontare i temi della giustizia, senza farsi condizionare dai giustizialisti, e dicono che può dare un po’ di ossigeno alla magistratura, oppressa dal lavoro arretrato, dai processi abbandonati, dalle carceri che traboccano. Molti latri giuristi pensano esattamente il contrario, e temono addirittura che essendo l’amnistia solo un palliativo, possa finire per diventare l’alibi per chi non vuole affrontare le questioni strutturali: la revisione del codice penale, la depenalizzazione di alcuni reati, la fine dell’obbligatorietà dell’azione penale, la riforma della carcerazione preventiva, una normativa più severa sulla responsabilità civile dei magistrati, la separazione delle carriere, una politica seria di investimenti e di assunzioni. Personalmente - ma questo conta molto poco - mi convince più la prima tesi. Penso che comunque l’amnistia possa servire ad alleggerire i problemi, e che - soprattutto - possa essere un segnale quasi rivoluzionario, di inversione di tendenza dello spirito pubblico che da troppi anni è oppresso da campagne politiche e mediatiche che spingono a consideraste la pena, la moltiplicazione della pena, il rito dell’espiazione, come i moloch dai quali dipende la sopravvivenza di una società messa a dura prova dal dilagare della delinquenza. Il problema di fondo - a me sembra - è proprio questo: come si riesce a rompere l’incantesimo di una opinione pubblica che di fronte al crollo verticale del numero dei reati vede sempre di più aumentare il senso di insicurezza e la richiesta di mano dura, di punizioni esemplari, di sospensione dello Stato di diritto? I dati oggettivi sono davvero impressionanti. Tutti i reati sono il calo, più o meno dal 1997. Nell’intero territorio dell’Occidente e in particolare in Italia. Nella storia dell’Europa, da quando è comparso l’essere umano, non è mai esistito un secolo meno illegale e meno violento di quello che stiamo vivendo. Gli omicidi sono un quarto rispetto a 15 anni fa. Anche le rapine a mano armata sono diminuite. Eppure le carceri sono piene. Nel 1990 erano circa 30 mila i detenuti. 20 anni prima erano ancora meno: 25 mila. Ora sono più del doppio. Eppure quelli errano anni violenti. Gli anni settanta sono gli anni di piombo. E sono gli anni della grande criminalità: la banda della Magliana, Vallanzasca, Turatello, i sequestri di persona. Gli anni novanta sono gli anni della offensiva della mafia. Dei grandi delitti, delle stragi. L’opinione pubblica era impressionata, assisteva a un assalto condotto con mezzi molto potenti. Eppure è proprio a cavallo di quei due decenni che si susseguirono le amnistie, e che il Parlamento varò le leggi carcerarie più liberali della sua storia - per esempio la riforma Gozzini - che prevedevano i permessi, la semilibertà, gli sconti di pena. L’opinione pubblica non si oppose. Era convinta che l’avanzamento della civiltà e dello Stato di diritto fosse una garanzia per tutti. La legge Gozzini fu presentata da un parlamentare dell’opposizione di sinistra, e incontrò un consenso vastissimo. Fu varata per dare attuazione all’articolo 27 della Costituzione, quello che prevede il valore rieducativo della pena e stabilisce la sua superiorità rispetto al valore punitivo. In Parlamento votarono contro soltanto i neofascisti del Msi, che rappresentavano più o meno il 7 per cento dell’elettorato. I grandi giornali applaudirono. L’intellettualità diede il suo sostegno. Oggi l’Italia vive una stagione tranquilla, eppure persino i giornali più progressisti - citavamo ieri il caso di Repubblica - conducono campagne ossessive per spiegare che il problema dei problemi è la "certezza della pena". Non parliamo nemmeno dei programmi televisivi. L’idea che le prigioni siano diventate più o meno alberghi dove la gente entra ed esce a suo piacimento è l’idea che prevale. E i giudici vengono accusati di buonismo, di lassismo, di menefreghismo. La possibilità di aprire una discussione seria sulla necessità di ridurre le misure penali, aumentare le garanzie, porre un freno al dilagare della carcerazione preventiva (che spesso viene usata come strumento di indagine) è praticamente zero. E l’intellettualità? In gran parte è schierata nel campo di chi chiede più pene e meno perdono. In piccola parte, forse, dissente, ma sta zitta. La stessa avvocatura è cinta d’assedio. Perché l’idea che prevale è che un avvocato comunque è schierato dalla parte dell’imputato, e questo non va bene, non depone a favore della sua moralità. I principi essenziali del diritto moderno, compreso quello che pone difesa e accusa sullo steso piano, vengono additati come "sterco del diavolo", piedi di porco che servono a scassinare la "società dei giusti". Ecco, è in questo clima che a me sembra che la marcia per l’amnistia sia una ottima cosa. E mi piacerebbe che partecipassero persino quelli che magari pensano che l’amnistia, come misura di legge, non sia la strada giusta. Conta schierarsi, fare sentire un po’ la propria voce, uscire dalla timidezza. Dire che il diritto è il pilastro della civiltà, oggi è quasi pericoloso. Però va detto, va gridato, va ripetuto. E la marcia di Pasqua, credo, può essere una buona occasione. Storia dell’amnistia, da Togliatti ai giorni di Di Pietro e Borrelli di Massimo Lensi Il Dubbio, 14 aprile 2017 I Papi l’hanno chiesta, Marco Pannella ne ha fatto per anni il campo della sua battaglia, ma dal 1990 è scomparsa dall’orizzonte. A Pasqua si terrà a Roma la Quinta marcia per l’Amnistia, organizzata dal Partito Radicale. Marco Pannella coniò un’efficace espressione per spiegare l’importanza della clemenza. Egli la invocava per la Repubblica, per rientrare nella legalità e porre fine alle violazioni della Costituzione nella gestione del sistema penitenziario, nella durata dei processi, nell’utilizzo della prescrizione nascosta conseguente all’applicazione discrezionale dell’obbligatorietà dell’azione penale da parte dei magistrati. "Amnistia per la Repubblica" era lo slogan di Pannella. La storia dei provvedimenti di clemenza di un Paese racconta, infatti, più cose di quanto si possa immaginare. L’amnistia e l’indulto - a volte anche il provvedimento di grazia - sono atti politici a tutto tondo. La clemenza porta sempre con sé un’attenzione particolare ai rapporti tra Stato e magistratura, tra esecuzione della pena e reinserimento sociale, tra eventi di particolare rilievo e opinione pubblica, ed è accompagnata sempre da una tendenza a un particolare intento di riscrittura della storia, riscontrabile nei dispositivi legislativi: accertare la verità, farla dimenticare o renderla del tutto illeggibile. Stéphane Gacon nel suo libro "L’Amnistie" (2002) classificava la clemenza di Stato in tre tipologie differenti: l’amnistia-perdono, atto di generosità tipico dei regimi totalitari; l’amnistia- rifondazione, che interviene per riunificare un Paese diviso; l’amnistia- riconciliazione che segue la fine dei regimi dittatoriali. L’Italia repubblicana ha concesso una trentina di provvedimenti di clemenza, tra amnistie e indulti. L’ultima amnistia è del 1990, mentre nel 2006 fu approvato l’ultimo indulto. Terminate le drammatiche vicende politiche e militari che portarono alla caduta del regime fascista, lo strumento dell’amnistia fu utilizzato tra il 1944 e il 1948 per vanificare la vigenza della normativa penale del regime, il codice Rocco, nei confronti dei delitti politici commessi durante la Resistenza, o nel periodo successivo. È interessante notare come, all’epoca, il tentativo del legislatore fu di chiudere con il periodo dittatoriale e la sua legislazione penale, al fine di far nascere lo stato "nuovo" e far sì che questo trovasse in sé la propria legittimità giuridica e non nelle leggi dello Stato precedente. Un tentativo che, però, rimase tale. Per Piero Calamandrei, infatti, mancò sul terreno giuridico della forma "lo stabile riconoscimento della nuova legalità uscita dalla Rivoluzione". Ed è altrettanto vero che i provvedimenti di amnistia di quel periodo ebbero in comune una natura delegittimante nei confronti della Resistenza, in quanto le azioni commesse durante la lotta antifascista vennero considerate alla stregua di reati comuni, anche se motivati da eccezionali contingenze. Si restava a tutti gli effetti all’interno del recinto dell’art. 8 del codice penale, che definisce come delitto politico: "ogni delitto, che offende un interesse politico dello Stato, ovvero un diritto politico del cittadino. È altresì considerato politico il delitto comune determinato in tutto o in parte da motivi politici". Il decreto presidenziale n. 4/1946, conosciuto con il nome di "amnistia Togliatti", all’epoca guardasigilli della Repubblica, tentò di consegnare all’oblio non solo i reati connessi all’attività partigiana, ma anche i reati legati alla collaborazione con l’esercito tedesco di occupazione, pur con numerose eccezioni e sollevando numerose polemiche. L’uomo dalla stilografica con l’inchiostro verde (cioè Togliatti) scommise sul futuro per mettere fine a un possibile ciclo di rese dei conti, ma fu accusato, in nome della sua proverbiale "doppiezza", di aver aperto le porte del carcere ai fascisti e ai repubblichini imprigionati subito dopo la Liberazione. Sta di fatto che, forse anche a causa di un’interpretazione distorta del testo del decreto (scritto, invero, con un linguaggio giuridico assai poco limpido), tra i 7061 amnistiati, 153 erano partigiani, e 6.908 fascisti. Negli anni 50 e 60 i provvedimenti di clemenza furono nove, di cui cinque strettamente connessi sia a fatti politici legati alla scia lunga del dopo- guerra, sia ai movimenti della fine degli anni 60, con l’attribuzione di reati commessi in occasione di agitazioni e manifestazioni studentesche e sindacali (amnistia del 1968). Tutti e cinque questi provvedimenti comportarono la concessione sia di amnistia, sia di indulto. Il primo fu nel 1953 (7.833 amnistiati) e l’ultimo nel 1970 (11.961 amnistiati); gli altri furono concessi nel 1959 (7.084 amnistiati), nel 1966 (11.982 amnistiati) e nel 1968 (315 amnistiati). Dopo il 1970 non ci furono più amnistie per fatti politici. L’amnistia del 1968 fu particolarmente importante perché ebbe come oggetto esclusivamente reati politici e sociali. Il senatore Tristano Codignola del Partito Socialista nel presentare il provvedimento al Senato disse: "Appare quindi evidente che, nell’interesse stesso della democrazia, nell’accezione aperta e progressiva voluta dalla nostra Costituzione, occorre procedere di pari passo alla realizzazione di profonde riforme strutturali e alla creazione di un clima maggiormente democratico ed antiautoritario nel Paese". Con l’amnistia del 1968, si chiuse finalmente il ciclo legato alla guerra di Liberazione, si aprì però il capitolo che precedette gli anni di piombo. E per la prima volta nel 1970 fecero capolino nell’amnistia il riferimento ai reati in materia tributaria e nell’indulto il riferimento a reati in materia di dogane, di imposta di fabbricazione e di monopolio. La giovane Italia del primo dopo- guerra diventava maggiorenne e i reati comuni, al posto di quelli politici, iniziarono a catturare sempre più l’attenzione del legislatore: un’attenzione che, come vedremo, costerà cara. Nel 1982 e 1983 furono approvati due provvedimenti di sola amnistia ed esclusivamente per reati finanziari. Il clima iniziò a farsi pesante e il parlamento venne accusato di difendere corrotti e concussi tanto che, dopo qualche anno, il 6 marzo del 1992, il Parlamento operò una revisione costituzionale modificando profondamente la ratio dell’articolo 79 della Costituzione in materia di concessione di amnistia e indulto. Nel testo voluto dai Padri Costituenti amnistia e indulto erano concessi dal Presidente della Repubblica, previa legge di delegazione da parte delle Camere, approvata a maggioranza semplice. La modifica introdotta nel 1992 fece sì che questi provvedimenti di clemenza potessero essere concessi solo con una legge deliberata in ogni articolo e nella votazione finale dalla maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera. L’innalzamento del quorum necessario all’approvazione del provvedimento fu deciso sull’onda dell’emotività suscitata nella piazza dallo scandalo di "Mani Pulite" per evitare il ripetersi di amnistie "concesse a cuor leggero". Erano i tempi del lancio delle monetine davanti all’Hotel Raphael e la piazza esigeva una svolta nel rispetto della penalità. Fu in quel periodo che prese il via una prima trasformazione dei modelli istituzionali che lentamente portò al trasferimento dei sistemi di controllo sociale dalle forme di protezione a quelle della punizione. La grande crisi economica degli anni successivi portò a compimento questa operazione di trasformazione. L’insicurezza sociale che ne è scaturita si è, infatti, rivolta al sistema penale, nella forma dell’esercizio delle funzioni repressive. Il numero dei reati inseriti del codice penale ha continuato a crescere insieme alla domanda di penalità, portando in pochi anni a raddoppiare il numero di detenuti delle carceri italiane: dai 30mila degli anni Novanta ai quasi 60mila dei nostri giorni. Il mutamento delle relazioni sociali e di potere e il tramonto di un certo tipo di welfare hanno condannato qualsiasi progetto di amnistia in fondo al cassetto delle priorità. Le carceri italiane hanno così cominciato a conoscere il sistematico sovraffollamento e i trattamenti inumani e degradanti riservati alla popolazione detenuta. A ben vedere, quindi, la richiesta di amnistia (e indulto) sostenuta con forza dal Partito Radicale non è per un provvedimento clemenza. Quella che si chiede non è la amnistia- amnesia; è, invece, la richiesta di una amnistia politica per porre fine al sovraffollamento cronico e inumano delle nostre carceri e alla intollerabile lentezza dei processi, che hanno fatto meritare allo stato italiano plurime condanne dalle Corti europee. In altre parole, un’amnistia per porre le radici di una Giustizia (più) Giusta. La gaffe di Di Maio sui criminali romeni viene da un dato sbagliato (e interpretato male) Agi, 14 aprile 2017 In un post su Facebook del 10 aprile scorso, Luigi Di Maio ha scritto: "L’Italia ha importato dalla Romania il 40% dei loro criminali. Mentre la Romania sta importando dall’Italia le nostre imprese e i nostri capitali. Che affare questa Ue!". Le sue parole prendono spunto da dichiarazioni del Procuratore aggiunto di Messina Sebastiano Ardita, in un video incorporato nello status di Di Maio. Ardita si riferiva però a un dato molto più preciso (anche se di dubbia provenienza). Ha detto precisamente, parlando di "importazione di criminalità": "Qualche tempo fa - qualche anno, ma la situazione non è cambiata - il ministro rumeno, degli Interni se non sbaglio, ci comunicò che di tutti i mandati di cattura europei che riguardavano cittadini rumeni il 40% proveniva dall’Italia. Quindi questo significa che quattro rumeni su dieci che avevano deciso di andare a delinquere avevano scelto il nostro paese come luogo nel quale andare a delinquere". Il magistrato ha detto insomma che, tra i criminali rumeni che avevano "deciso" di farlo in un altro paese, quattro su dieci avevano "scelto" l’Italia. Di Maio ha preso questa affermazione, l’ha ampliata e l’ha in qualche modo invertita: non è stata la minoranza dei criminali "in trasferta" ad avere scelto in quattro casi su dieci l’Italia, ma c’è stata addirittura un’importazione di quattro persone su dieci tra chi faceva già il criminale in Romania. Il "40%" di Ardita - Ardita parlava, nello specifico, dei mandati di cattura europei. Per dare un ordine di grandezza, nel 2014 ne sono stati emessi 14.700 in tutta l’Unione europea. Il 40 per cento di quelli che riguardano rumeni, dice Ardita, vengono dall’Italia. Si tratta davvero di una percentuale particolarmente inattesa? In Italia risiedono oltre un milione di cittadini rumeni (secondo l’Istat 1.131.839 nel 2015) a fronte dei quasi 3 milioni totali di cittadini rumeni che vivono abitualmente all’estero in Paesi Ue. Cioè il 38% della popolazione emigrata nell’Ue. Insomma, come ha già notato Luca Sofri in un post sul suo blog, è perfettamente ragionevole che il 40% di richieste di mandato di cattura europeo interessi un Paese, l’Italia, dove risiede quasi il 40% della popolazione rumena emigrata nell’Ue. Con una dimostrazione per assurdo potremmo dire che se in Italia risiedesse il 100% della popolazione emigrata rumena sarebbe ovvio che il 100% delle richieste di mandato di cattura europeo pervenute a Bucarest provenissero dall’Italia. Quella di Ardita è insomma una "non-notizia". Le vaghe affermazioni di Ardita - Ad ogni modo, le frasi di partenza di Ardita erano già problematiche per conto loro. Ad esempio, come essere sicuri che la situazione non sia cambiata negli ultimi anni, per quanto riguarda la criminalità rumena? Come dimostrano i dati citati da Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone, in un articolo per Open Migration, quella rumena è stata l’etnia straniera più rappresentata nelle carceri italiane fino al 2015, ma nel 2016 la situazione è cambiata, con un calo sia nei numeri assoluti (da 2.893 a 2.825 detenuti) sia in percentuale (dal 16,8% del totale dei detenuti stranieri, al 15,6%). Nel 2016, così, l’etnia straniera maggiormente presente nelle carceri italiane è divenuta quella marocchina. Non è chiaro poi, nelle frasi di Ardita, chi sia l’autorità pubblica rumena ad aver dato l’informazione, a chi fosse diretta e quando sia stata trasmessa. Il parere dell’esperto - Secondo Marco Dugato, ricercatore di Transcrime, quelli dati da Ardita e Di Maio "sono numeri un po’ a caso. La vera questione è l’incidenza della criminalità rumena ed è una questione difficile da analizzare, già solo per il fatto che gli unici numeri certi che abbiamo sono sugli autori di reato che vengono arrestati e identificati come tali. Le denunce non fanno testo. Spesso abbiamo visto nella cronaca che vengono denunciati ladri appartenenti a una determinata etnia, ma poi questo non è nei fatti vero". "Tanto premesso non si può negare - prosegue Dugato - che una maggior libertà di spostamento garantita dall’allargamento dell’Unione europea, e anche la diffusione dei voli low-cost, sia stata sfruttata anche da bande criminali provenienti dall’Est Europa. Ma se vogliamo guardare ai dati, noi avevamo verificato ad esempio che riguardo ai furti in abitazione, a fronte di una crescita del fenomeno negli ultimi 12 anni la proporzione tra criminali italiani e stranieri colpevoli di tale reato era rimasta immutata. Quindi non è vero che l’aumento dei furti in abitazione è imputabile all’arrivo di più stranieri in Italia". Il fraintendimento di Di Maio - Questo per quanto riguarda quanto affermato da Ardita. Ma Di Maio ha scritto una cosa ancora più sbagliata, cioè che "l’Italia ha importato dalla Romania il 40% dei loro criminali". Cioè che per ogni 10 criminali rumeni, 4 sono venuti a delinquere in Italia. Come dicevamo, nel 2016 nelle carceri italiane sono presenti 2.825 detenuti rumeni (a fronte di un numero di residenti, è bene ricordarlo, di oltre 1,1 milioni). Nelle carceri rumene sono presenti 27.455 detenuti (di cui il 99% rumeni: dati riferiti al 2016). C’è dunque un rapporto di circa 1 a 10 tra i criminali rumeni rimasti in Romania e quelli detenuti in Italia. Se poi sommiamo i criminali rumeni detenuti in Romania con quelli detenuti negli altri Paesi Ue (11.511 a novembre 2016), il totale sale a 39.966. Come dicevamo, 2.825 sono oggi detenuti in Italia: il 7,25 per cento. Un dato percentuale che scenderebbe ancor di più se considerassimo i cittadini rumeni detenuti in Paesi extra-Ue (su cui non abbiamo dati certi). ll tutto a fronte dell’aver "importato" dalla Romania quasi il 6 per cento della sua popolazione (oltre 1 milione su circa 19 milioni). Verdetto - Di Maio ha dichiarato che l’Italia ha "importato" il 40 per cento dei criminali rumeni. Non solo si basa su affermazioni, quelle del Procuratore Ardita, che avrebbero dovuto sollecitare una qualche richiesta di maggiori informazioni, ma le fraintende anche. Ad ogni modo, la percentuale non ha alcun riscontro numerico, se guardiamo ai dati sui detenuti. E se anche il 40 per cento dei mandati di arresto europei riguardante cittadini rumeni provenisse dall’Italia - come detto da Ardita - questa percentuale rifletterebbe semplicemente le moltissime persone rumene che hanno scelto di vivere nel nostro paese (che sono appunto il 40 per cento circa di tutti gli emigrati rumeni all’interno della Ue). La sua affermazione è dunque completamente errata. Sciopero dei penalisti dal 2 al 5 maggio, protesta contro la "fiducia" sul Ddl Giustizia Il Sole 24 Ore, 14 aprile 2017 Nuovo sciopero dei penalisti, dal 2 al 5 maggio. Lo ha indetto l’Unione camere penali contro l’intenzione governativa di porre la fiducia sul Ddl Giustizia. L’Ucpi invita le Camere penali territoriali a organizzare manifestazioni "dedicate ai temi della riforma e del denunciato contrasto con i principi costituzionali e convenzionali della immediatezza, del contraddittorio, della presunzione di innocenza e della ragionevole durata". Il giurì d’onore, una soluzione utile che purtroppo non piace a nessuno di Marco Demarco Corriere della Sera, 14 aprile 2017 Prima che tutti querelino tutti, e prima che gli uffici giudiziari, già intasati, scoppino per effetto di una litigiosità politica crescente, sarà bene correre ai ripari. La stagione del buonismo è finita, annuncia Renzi. Comincia quella delle querele. E intanto ne prepara una contro Marco Travaglio. Ma il direttore de Il Fatto non si lascia sorprendere. "Contro Renzi ne ho una pronta anch’io", risponde. E se questo è l’inizio, c’è da scommettere: con i tempi che corrono, a campagna elettorale di fatto già aperta, ne vedremo delle belle. Per cui, prima che tutti querelino tutti, e prima che gli uffici giudiziari, già intasati, scoppino per effetto di una litigiosità politica crescente, sarà bene correre ai ripari. Come? Il codice penale ha già la soluzione, solo che finora si è preferito ignorarla: vuoi per cultura statalista, vuoi per abitudine processuale, vuoi, anche, per fumismo opportunistico, visto che molti (in particolare i politici) querelano solo per dare a vedere o per intimidire chi ha offeso (di solito i giornalisti). La chiave di tutto, l’istituto risolutore, è il giurì d’onore, previsto all’articolo 257 del codice penale e disciplinato in quello di procedura. Un fossile vivente, dicono gli scettici. Per attivarlo basta essere d’accordo tra le parti: in questo senso lo Stato c’entra poco. Ma a nominarne i componenti del collegio giudicante (l’importante è che siano competenti) può essere il presidente del Tribunale. Moltissimi i vantaggi, come si è detto in un recente convegno promosso a Napoli dalla Fondazione Castelcapuano, dal nome dall’antico Palazzo di giustizia ora in attesa di diversa destinazione. Il giurì d’onore costituisce una via alternativa a quella ordinaria delle carte bollate. È tenuto a decidere in tre mesi, o al massimo in sei se la vexata questio è particolarmente complessa. È inappellabile, e dunque quel che è fatto è fatto. E consente di sapere di più sulle condotte degli sfidanti: di chi ha offeso e perché, e di chi si è sentito colpito nell’onore prima ancora che nel portafoglio (nulla vieta, però, di pensare anche a questo). Ragion per cui il giurì è uno strumento che può soddisfare non solo gli interessati, ma anche l’opinione pubblica. La logica è, manco a dirlo, la stessa del duello. Solo che quando si arrivava alle sciabole o alle pistole, a decidere erano la forza o la destrezza. Nel giurì prevarrebbero, invece, le ragioni di merito. E qui l’interrogativo è d’obbligo: ma davvero il merito interessa ancora? La politica torna nelle mani dei giudici di Paolo Becchi Libero, 14 aprile 2017 Mentre il quadro internazionale è d'improvviso cambiato e venti di guerra si fanno sempre più forti dopo che Trump si è rivelato essere, come scrive Alexander Dugin, una Hillary mascherata, da noi la politica è di nuovo nelle mani di magistrati e giornalisti. Torna un incubo, insomma, da cui sembra non riusciremo mai a liberarci. Passati, infatti, in secondo piano i processi peri “peccatucci” di Berlusconi, l'attenzione è ora quasi tutta puntata su Renzi e lo “scandalo” Consip, la centrale acquisti della pubblica amministrazione, una intricata vicenda di accuse di corruzione che ha visto, tra gli accusati di “traffico di influenze”, anche Tiziano Renzi, il padre dell'ex premier. Al conflitto politico si è sostituito il conflitto tra procure: i pm di Roma, che sostengono il falso ideologico del capitano del Noe Scalfato, e quelli di Napoli che gli ribadiscono piena fiducia. In ciò si innesta la battaglia, tutta personale, tra Travaglio, per il quale il renzismo è diventato il rimedio alla malattia terminale del berlusconismo, e la famiglia Renzi, la quale per mesi ha occupato e continua ad occupare la prima pagina del Fatto Quotidiano. Che le cose si siano, per Renzi, messe male, lo si capisce dal fatto che Luciano Violante si è preso la briga di denunciare, in un'intervista al Corriere Fiorentino, presunte “manipolazioni” e “indagini pilotate” al solo scopo di colpire Renzi. L'intervista è finita sulle pagine della cronaca locale: il direttore del giornale non ha ritenuto di metterlo sul Corriere della Sera nell'edizione nazionale. Molto più importante parlare di Grillo e delle varie Associazioni Casaleggio. Di tutto ciò ad approfittarne è il M5S che continua a crescere nei sondaggi nonostante tutti i suoi guai interni. E anche in questo caso, ma in modo diverso, magistratura e giornali sono i protagonisti: la prima ha cominciato finalmente a capire che all'interno del Movimento c'è qualcosa che non quadra, i secondi invece fanno finta di nulla, relegando alla cronaca locale (nella fattispecie genovese) i nuovi scandali del M5S. Il dato di fatto è che la politica si è trasferita di nuovo nelle aule dei tribunali, con querele e contro querele, mentre a nessuno pare più interessare la situazione politica di un Paese allo sbando tra immigrati clandestini che aumentano giorno dopo giorno, giovani costretti a emigrare, vecchi che rinunciano alle cure mediche perché troppo care e gente di mezza età che ormai un lavoro non lo cerca neppure più. Ad aprile il M5s ha tenuto il suo congresso sui generis a Ivrea ed ha parlato di robotica, medicina personalizzata, fine del lavoro, superamento delle lingue naturali: di tutto tranne che di politica e di cosa oggi interessa al popolo. A maggio giungerà, invece, un po' inaspettato, il congresso della Lega, e Salvini farebbe bene a farlo non in Lombardia o in Veneto ma in Liguria, a Genova, dove per la Lega si presenta una occasione storica: vincere nella città, da sempre rossa, le prossime elezioni comunali. A Salvini tocca un compito difficile, ma fondamentale: non solo quello di fare una volta per tutte chiarezza sulla linea del suo partito, ma altresì di far sì che in questo Paese si torni a parlare di politica, si torni a mettere al primo posto l'interesse nazionale, da Trento a Palermo, si cominci a discutere di un programma politico semplice ma articolato in vista delle elezioni politiche e di una strategia per l'uscita dall'Euro e dall'Unione Europa. Il futuro dell'Italia comincia da qui, dal recupero del senso di appartenenza, dal sentirci nuovamente nazione. Che lo debba fare un partito nato da una ispirazione regionalista non deve poi sorprendere: è una di quelle ironie della storia che, avrebbe detto Hegel, sono tutt'altro che infrequenti. Le "fughe di notizie" del Csm fanno infuriare Legnini di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 14 aprile 2017 Scontro tra Procure, il vicepresidente bacchetta Zanettin. Il Consiglio Superiore della Magistratura deciderà se aprire un fascicolo sulle tensioni tra Pignatone e Woodcock solo dopo Pasqua. Ma solo per non dare l’impressione che il Comitato di presidenza del Consiglio superiore della magistratura si faccia "dettare l’agenda" dai consiglieri. Ieri mattina era prevista la riunione del Comitato di presidenza, di cui fanno parte il Vice Presi- dente Giovanni Legnini e i vertici della Corte di Cassa- zione, il primo presidente Giovanni Canzio e il procuratore generale Pasquale Ciccolo, per autorizzare l’apertura di una pratica in Prima Commissione sullo scontro tra le procure di Napoli e Ro- ma, titolari dell’inchiesta Consip. La richiesta era stata formalizzata martedì scorso dal consigliere laico Pierantonio Zanettin (Fi) secondo il quale era necessario che il Csm si occupasse della questione al fine di valutare se a carico dei pm di Napoli Henry Jonh Woodcock e Celeste Carrano, assegnatari del fascicolo, ci fossero profili di incompatibilità per evitare i rischi connessi al fatto che iniziative di questo tipo, presentate in quel modo alla stampa, possano costituire una sorta di pressione sugli organi consiliari che noi non possiamo consentire", ha aggiunto. Una scelta immediatamente contestata da Zanettin, secondo il quale ci sarebbe voluta invece "maggiore tempestività", considerato che "l’opinione pubblica è rimasta sconcertata ed allarmata per questo gravissimo scandalo che attiene all’equilibrio democratico del Paese". Oltre ad esternare tutta la sua "sorpresa" per il rinvio, Zanettin ha voluto ribadire che in una inchiesta "delicatissima", dove è coinvolto anche il padre dell’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi, "la prova regina è stata alterata". Per il laico di Forza Italia, dunque, "tutti coloro che hanno a cuore la credibilità e l’autorevolezza della magistratura si aspettano molto da una obiettiva verifica su quanto finora emerso da parte del Csm". Di diverso avviso il laico Renato Balduzzi (Scelta civica). Secondo l’ex ministro della Salute "chiedere su ogni argomento che attiene alla giurisdizione l’intervento del Csm e l’apertura di una pratica, soprattutto quando ha per oggetto una decisione dell’attività giudiziaria o l’esistenza di dissensi tra diversi uffici giudiziari, non è coerente con le competenze costituzionalmente assegnate al Consiglio superiore". "Ed è poco saggio - ha aggiunto - perché suscita attese improprie nei confronti del Csm, rischiando anche di fare apparire il rispetto dei principi e delle regole costituzionali da parte del Consiglio come tiepidezza, pavidità o, peggio, valutazione politica. Senza contare che eventuali conflitti di competenza tra Procure della Repubblica trovano oggi soluzione nelle attribuzioni della Procura generale presso la Cassazione". Secondo gli addetti ai lavori, comunque, la decisione finale è scontata: la Prima commissione, presieduta da Giuseppe Fanfani (Pd) dalla prossima settimana si occuperà del caso. Legittima difesa, Veneto bocciato di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 14 aprile 2017 Corte costituzionale, sentenza 13 aprile 2017, n. 81. La Corte costituzionale boccia il gratuito patrocinio per i cittadini veneti accusati di eccesso di legittima difesa. La Consulta, con la sentenza n. 81 depositata ieri, ha infatti bocciato la Legge della Regione Veneto n. 7 del 2016 accogliendo le perplessità avanzate dalla Presidenza del Consiglio. La norma oggetto della contestazione ha istituito il "Fondo regionale per il patrocinio legale gratuito a sostegno dei cittadini veneti colpiti dalla criminalità", destinato ad assicurare il patrocinio a spese della Regione nei procedimenti penali per la difesa di cittadini residenti in Veneto da almeno 15 anni che, vittime di un delitto contro il patrimonio o contro la persona, sono stati accusati di eccesso colposo di legittima difesa o di omicidio colposo per aver tentato di difendere se stessi, la propria attività, la famiglia o i beni, da un’aggressione. Per la Presidenza del Consiglio, la disposizione contrastava con la competenza esclusiva dello Stato in materia di sicurezza. L’ampliamento dei casi in cui è possibile utilizzare il gratuito patrocinio (oggetto di previsione da parte delle norme statali) si porrebbe, inoltre, in contrasto con l’articolo 117, secondo comma, lettera l), Costituzione, "incidendo sulla disciplina del processo penale; ciò anche perché incrementerebbe la possibilità "di investire risorse in indagini difensive e consulenze di parte"". I primi 2 commi della norma impugnata influirebbero anche, "sul piano sostanziale, sulla repressione dei reati e sulla materia ordinamento penale, poiché agevolano l’autodifesa, attuando un bilanciamento di interessi, di competenza esclusiva dello Stato". La sentenza condivide quest’ultimo profilo di dubbio e sottolinea, infatti, come è il codice penale che stabilisce l’obbligatorietà della difesa tecnica, prevedendo, in mancanza dell’indicazione di un difensore di fiducia, la nomina di un avvocato d’ufficio e l’obbligo della parte di retribuirlo, in assenza delle condizioni per accedere al gratuito patrocinio. Quest’ultimo è poi oggetto delle norme statali, anche con riferimento alla persona offesa dal reato, ammettendo per quest’ultima il patrocinio gratuito anche in deroga dei limiti di reddito stabiliti. "In definitiva - conclude la Corte, il censurato articolo 12, commi 1 e 2, è costituzionalmente illegittimo, poiché interviene sulla disciplina del patrocinio nel processo penale e del diritto di difesa; conseguentemente, incide su di un ambito materiale riservato dall’articolo 117, secondo comma, lettera l), Costituzione alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, non risultando la misura riconducibile ad attribuzioni della Regione". Milita in questo senso, oltretutto, ricorda la Consulta, un precedente, sempre ascrivibile a una legge regionale, quella della Regione Puglia n. 32 del 2009, oggetto della pronuncia di illegittimità costituzionale n. 299 del 2010. La norma censurata prevedeva un contributo regionale all’assistenza legale a favore dei migranti. Il Pm può chiedere il fallimento nell’udienza sul concordato di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 14 aprile 2017 Corte di cassazione - Sezione I - Sentenza 13 aprile 2017 n. 9574. Il Pubblico ministero può esprimere il suo parere negativo sulla proposta di concordato e chiedere il fallimento, nel corso dell’udienza fissata per l’audizione del debitore. La Cassazione (sentenza 9574) respinge il ricorso del socio di una Srl contro la sentenza di fallimento dichiarato dal Tribunale dopo il no al concordato preventivo. Il ricorrente contestava, oltre agli estremi per dichiarare il fallimento, anche le modalità con le quali il Pm aveva espresso parere e richiesta, ovvero nell’ambito dell’udienza per ascoltare il debitore in vista dell’eventuale dichiarazione di inammissibilità del concordato (articolo 162, secondo comma del codice penale). Secondo il socio, infatti, essendo il Pm parte processuale al pari dei creditori e del debitore, deve avanzare formale richiesta di fallimento alle stesse condizioni e con le stesse forme impartite per gli altri soggetti, senza privilegi. Per la Corte però il margine di manovra del Pm é più ampio e non si tratta di privilegi. Il Pm deve essere informato della proposta di concordato per consentire la sua partecipazione al procedimento. Le modalità della sua partecipazione non sono previste dalla legge fallimentare, ma - precisa la Corte - certamente possono consistere nella presenza all’udienza, nel corso della quale può "trarre" le sue conclusioni orali, come avviene nei procedimenti civili ordinari. Tra le udienze che il giudice fissa nell’ambito della procedura di concordato c’è quella prevista dall’articolo 162 dedicata all’ascolto del debitore, alla quale il Pm può prendere parte "rassegnando le proprie conclusioni a verbale". E non c’è ragione di escludere che le sue conclusioni possano andare oltre la valutazione negativa sul concordato, ed estendersi alla richiesta di fallimento, se dagli atti emerge l’insolvenza dell’impresa. Pretendere che il Pm debba attendere la dichiarazione di inammissibilità del concordato per presentare un ricorso da notificare al debitore in vista di una nuova udienza, significa negare le esigenze di rapidità e concentrazione che sono alla base della procedura fallimentare e delle procedure concorsuali. Esigenze che non sono in conflitto con il principio del contraddittorio e con il diritto di difesa del debitore, il quale ha la possibilità di contraddire e difendersi nella stessa udienza. I giudici affermano dunque che la richiesta di fallimento del Pm, contemplata dall’articolo 162, sfugge alla disciplina dell’articolo 7 della legge fallimentare, in base alla quale la richiesta del Pm può essere presentata quando l’insolvenza emerge nel corso di un procedimento penale o è segnalata dal giudice che l’ha rilevata in procedimento civile, per fuga dell’imprenditore o diminuzione fraudolenta dell’attivo. La norma si riferisce, infatti, alla diversa ipotesi in cui la richiesta del Pm introduca un autonomo procedimento prefallimentare. Paliano (Fr): Papa Francesco tra i detenuti "la lavanda dei piedi non è folclore" di Andrea Galli Avvenire, 14 aprile 2017 "Pensiamo soltanto all’amore di Dio oggi". Ai detenuti del carcere di Paliano il Papa ha lasciato questo invito al termine dell’omelia della Messa in Coena Domini, pronunciata lontano dalle telecamere. Un invito ad abbandonarsi e a consolarsi per un giorno fra le braccia amorevoli del Padre. Gesù si fa "schiavo" - Arrivato poco dopo le 16 nella casa circondariale in provincia di Frosinone e diocesi di Palestrina, accolto dalla direttrice Nadia Cersosimo, dall’ispettore capo Vincenzo Verani e dal cappellano don Luigi Paoletti, Francesco ha salutato 58 detenuti - tutti collaboratori di giustizia - e separatamente altri otto malati di tubercolosi e due in regime di isolamento. "Quello di lavare i piedi era un’abitudine che si faceva all’epoca, prima dei pranzi e delle cene, perché non c’era l’asfalto, la gente veniva in cammino, con la polvere…" ha detto il Pontefice, e questa lavanda "la facevano gli schiavi". Gesù però "capovolge" la scena, spiegando a Pietro "che lui è venuto al mondo per servire, per servirci, per farsi schiavo per noi, per dare la vita per noi, per amare sino alla fine". "Oggi - ha continuato Bergoglio - quando arrivavo, c’era gente che salutava... "ah viene il Papa, il capo, il capo della Chiesa". Il capo della Chiesa è Gesù, non scherziamo. Il Papa è la figura di Gesù. Io vorrei fare lo stesso che lui ha fatto. In questa cerimonia il parroco lava i piedi ai fedeli: si capovolge, quello che sembra il più grande deve fare lavoro di schiavo". Qui Francesco ha voluto dare ai suoi interlocutori un’indicazione concreta: "Non vi dico di lavarvi i piedi oggi l’uno all’altro, sarebbe uno scherzo", ma "se potete fare un aiuto, un servizio al compagno qui in carcere, alla compagna, fatelo. Perché questo è amore, questo è come lavare i piedi, essere servo degli altri". "Tutti noi siamo poveracci" - Il Papa ha concluso così la sua riflessione: "Una volta i discepoli litigavano fra loro su chi fosse il più grande, il più importante. E Gesù dice: quello che vuol essere più importante deve farsi il più piccolo e il servitore di tutti. E questo è quello che ha fatto lui, questo che fa Dio con noi. Ci serve, è il servitore. Tutti noi siamo poveracci, ma lui è grande, lui è buono, lui ci ama così come siamo. Per questo, in questa cerimonia pensiamo a Dio, a Gesù. Non è una cerimonia folclorica, è un gesto per ricordare quello che ha dato Gesù: dopo di questo ha preso il pane e ci ha dato il suo corpo, ha preso il vino e ci ha dato il suo sangue. E così è l’amore di Dio". Il saluto a Benedetto XVI - Tra i dodici a cui Francesco ha poi lavato i piedi c’erano tre donne, due ergastolani, un musulmano e un ospite di nazionalità argentina, gli altri erano di nazionalità italiana. Alla Comunione sempre Francesco ha dato personalmente l’Eucaristia e tra i detenuti che l’hanno ricevuta c’era anche un giovane che ha fatto la sua prima Comunione, dopo aver fatto mercoledì la sua prima Confessione. Quindi, sempre nel pomeriggio si è recato al monastero "Mater Ecclesiae" in Vaticano, per porgere a Benedetto XVI gli auguri per la Pasqua e per il suo 90° compleanno, che cade appunto domenica. Camerino (Mc): l’ex carcere potrebbe ospitare una struttura a custodia attenuata Corriere Adriatico, 14 aprile 2017 Da carcere a Icat, Istituto a custodia attenuata. Potrebbe essere questo il futuro dell’’ex carcere di Camerino, chiuso per inagibilità a causa del terremoto. La struttura che si trovava all’interno del complesso conventuale di San Francesco, potrebbe cedere il passo al nuovo istituto, meno duro rispetto al carcere, ma che necessita di uno spazio ben più ampio per consentire ai detenuti di poter lavorare. Lo scorso febbraio il procuratore capo Giovanni Giorgio aveva scritto al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria per chiedere lumi sulla ricostruzione di una nuova struttura detentiva a Camerino. Di recente il capo del dipartimento ha risposto manifestando la possibilità di costruire un nuovo istituto a custodia attenuata con circa cento posti detentivi secondo il modello delle colonie agricole. Per questo motivo ha chiesto al sindaco di Camerino, Gianluca Pasqui, di individuare una zona nel territorio comunale di ampiezza fino a 50 ettari, necessari ad ospitare una simile struttura. Secondo il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, in alternativa la città ducale potrebbe ospitare anche un istituto per detenuti in regime di 41 bis, il cosiddetto carcere duro, o una struttura per detenuti appartenenti al circuito di alta sicurezza (di quest’ultimo regime fanno parte i detenuti appartenenti alla criminalità organizzata di tipo mafioso, nei cui confronti sia venuto meno il decreto di applicazione del regime di 41bis, detenuti per delitti commessi con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza e detenuti che hanno rivestito posti di vertice nelle organizzazioni dedite al traffico di stupefacenti). In entrambi i casi i carcerati verrebbero da fuori regione. Ad oggi, dunque, coloro che vengono arrestati, sono condotti al carcere di Montacuto nell’Anconetano oppure a quello di Marino del Tronto nell’Ascolano. Tutti i detenuti che si trovavano nel carcere di Camerino al momento del terremoto, erano invece stati trasferiti a Rebibbia. Brescia: il Garante al lavoro, campo estivo a Verziano per i figli dei detenuti di Marco Toresini Corriere della Sera, 14 aprile 2017 Il progetto è ambizioso, di quelli ad alto contenuto rieducativo e la proposta è arrivata dagli stessi reclusi del casa di reclusione di Verziano: un campo estivo, utilizzando gli spazi verdi della struttura, per i figli dei detenuti in modo che possano avere per qualche settimana avere un rapporto quotidiano e operoso (nel gioco e nei compiti) con i genitori. Questa è una delle tante iniziative a cui sta lavorando Luisa Ravagnani, ricercatrice universitaria e garante dei detenuti del Comune di Brescia. È toccato proprio a lei ieri illustrare un anno di lavoro fatto davanti alla commissione sanità e servizi alla persona del Consiglio comunale. Un anno intenso in cui si è cercato di ovviare ad un tasso di sovraffollamento in calo ma comunque più del doppio della media lombarda con progetti umanizzazione della pena. Nel corso della sua attività il garante ha fatto oltre 300 colloqui con i detenuti raccogliendone aspettative e difficoltà, tra le quali spicca quella ad accedere ad un lavoro che possa rappresentare, una volta espiata la pena, un viatico per costruirsi un futuro diverso. Su questo fronte spiccano esempi virtuosi come i laboratori di abbigliamento e di cialde per caffè a Verziano e progetti pilota (di cui Brescia è parte attiva di una sperimentazione nazionale) che mirano a formare professionalmente i detenuti stranieri attraverso corsi proposti dai paesi di origine in modo che dopo la liberazione possano fare ritorno in patria con un titolo da spendere per cercare un lavoro. Idee interessanti, ma anche qualche delusione come i silenzi e le disattenzioni ottenuti dagli imprenditori bresciani quando si è trattato di cercare di costruire assieme percorsi lavorativi (con tutte le agevolazioni previste dalla legge) anche per chi sta in carcere. Nel corso dell’anno sono stati toccati anche temi scottanti come il rischio di radicalizzazione degli ospiti di fede musulmana. A tal proposito, di concerto con il ministero, si è instaurato anche un rapporto di collaborazione interessante con il Centro culturale islamico di Brescia in modo da poter formare personale qualificato che accompagni i detenuti nella preghiera evitando pericolosi "fai-da-te" dietro i quali si possa nascondere una deriva islamista. Il dialogo con le comunità straniere è proseguito anche per cercare di dare un futuro ai detenuti immigrati una volta scontata la pena. Spesso sono isolati dalle comunità di provenienza e l’unica alternativa sembra quella di tornare a delinquere. Su questo fronte la collaborazione con la comunità senegalese, ad esempio, ha portato alla raccolta di beni di prima necessità per i connazionale detenuti e a ragionare sulla possibilità di creare una rete fatta di lavoro e alloggi che sappia garantire con più facilità l’accesso alle misure alternative al carcere anche per queste categorie, normalmente prive di legami famigliari, dimora e appoggio esterno sui quali costruire una "terapia" che eviti le ricadute. Aosta: carcere di Brissogne, il grido d’allarme del Garante dei detenuti gazzettamatin.com, 14 aprile 2017 Il confermato Enrico Formento Dojot: "Manca un direttore titolare, ne sono cambiati tre in tre mesi, questa è una grave carenza"; in aumento i casi trattati dal difensore civico, a cui a breve si convenzionerà anche il Comune di Oyace. "O la chiudiamo o cerchiamo almeno di risolvere i problemi basilari". Un grido d’allarme - non il primo, per la verità - quello lanciato dal confermato garante dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Enrico Formento Dojot, in riferimento alla situazione in cui versa attualmente la casa circondariale di Brissogne. Una situazione che, nonostante rimanga assai lontana rispetto al 31 dicembre 2012, quando su una capienza di 181 posti c’erano ben 281 reclusi, "occorre monitorare per evitare che si verifichino di nuovo problemi di sovraffollamento", anche alla luce di un ‘braccio’ attualmente in ristrutturazione e del fatto che - rispetto ai 145 detenuti al 31 dicembre 2016 - al 12 aprile 2017 questi sono già saliti a 184 (dei quali 16 collaboratori di giustizia). Ma la preoccupazione di Formento Dojot è un’altra. "Una delle criticità ormai croniche è costituita dalla mancanza di un direttore titolare, che garantisca la necessaria stabilità - ha commentato nel corso della conferenza stampa in cui ha presentato il bilancio dell’attività 2016 -. Pensate che in tre mesi sono cambiati tre direttori, che di volta in volta vengono inviati in missione da altre carceri uno o due giorni alla settimana, troppo pochi per poter gestire una struttura" che alla fine del 2016 contava 44 detenuti italiani e 101 stranieri. "Si tratta di una grave carenza, manca un interlocutore fisso e spesso e volentieri è il garante a farsi carico di problemi ed esigenze del detenuto che sarebbero invece di competenza dell’amministrazione. Si parte dalla doccia che non funziona, mi viene in mente questo, per arrivare anche ad altre cose, come ai prodotti per la pulizia che non sempre sono così presenti", ha aggiunto. Come se questo non bastasse, "mancano educatori (presenti in due su una pianta organica di quattro, ndr) e assistenti sociali (presenti due con contratto a termine e un part time, ndr), figure che dovrebbero invece essere centrali nell’ottica di un’esecuzione esterna della pena", di cui per la Valle d’Aosta è competente l’Ufficio esecuzione penale esterna di Novara. Nel sottolineare l’importanza del lavoro, che abbatte anche del "75% il rischio di recidiva", Enrico Formento Dojot ha citato gli esempi delle attività del laboratorio di panificazione e della lavanderia per restituire "dignità anche a chi ha sbagliato e vuole recuperare". L’attività del difensore civico - Bilancio ampiamente positivo, quello tracciato da Enrico Formento Dojot nella sua veste di confermato difensore civico. Più nel dettaglio, nel 2016 sono stati trattati 826 casi, di cui 777 definiti nell’anno, con un incremento del 24% rispetto al 2015 e addirittura del 180% se si considerano i dati relativi agli ultimi cinque anni a partire dal 2012. "L’incremento del numero complessivo di casi trattati - ha spiegato Enrico Formento Dojot - quest’anno riguarda in particolare il settore dell’ordinamento (306 casi, ndr), nell’ambito del quale si ricomprendono i tributi, fra i quali quelli locali, la circolazione stradale e i servizi pubblici". E ancora: "In tema di tributi, di Tari in particolare, i cittadini non chiedono di non pagarli, ma chiedono come pagarli, fermo restando che il rapporto di lavoro rimane il tema più battuto, senza dimenticare l’accesso all’emergenza abitativa e le modalità di partecipazione a misure di inclusione sociale", ha precisato ancora Formento Dojot, che nel sottolineare come "a breve perfezioneremo la convenzione anche con il Comune di Oyace (a quel punto all’appello mancherà solo Courmayeur, visto che gli enti locali a oggi convenzionati sono 80, di cui 72 comuni e otto Unités, ndr)", ha concluso: "Il messaggio che vorrei passasse è quello relativo al fatto che con il difensore civico si possono evitare contenziosi e che l’ente locale che si convenziona fornisce la possibilità ai propri cittadini di avere una tutela, potendosi avvalere anche soltanto di una consulenza gratuita". Salerno: il Radicale Salzano "4 detenuti su 10 in attesa di giudizio, è tortura" di Viviana De Vita Il Mattino, 14 aprile 2017 Detenuti "torturati" nel carcere di Fuorni, dove oltre il 40% dei ristretti è in attesa di giudizio e imputati "torturati" nelle aule del tribunale a causa dell’irragionevole durata del processo penale. È il grido di allarme lanciato dall’associazione radicale salernitana "Maurizio Provenza" in occasione della conferenza stampa di adesione alla marcia di Pasqua da Regina Coeli a Piazza San Pietro che si terrà domenica con l’obiettivo "di interrompere la costante violazione di diritti umani" che si consuma ogni giorno "sia nelle carceri, sia nelle aule dei tribunali a causa del malfunzionamento della giustizia soffocata da dieci milioni di procedimenti penali e civili inevasi". Alla presenza del segretario dell’associazione radicale salernitana Donato Salzano, del segretario della Camera penale di Salerno, avvocato Saverio Maria Accarino, dell’assessore al Comune di Salerno "Davvero Verdi" Maria Rita Giordano e di Giuseppe Criscito per "Sinistra Italiana", sono state analizzate le principali disfunzioni dell’ordinamento giudiziario a cominciare dai "processi lumaca" che, il più delle volte come evidenziato dall’avvocato Accarino, "si prescrivono già nella fase dell’udienza preliminare", all’utilizzo indiscriminato della custodia cautelare, fino agli ultimi strumenti investigativi come il virus spia Trojan che rappresentano un’intrusione sempre più grave dello Stato nei diritti dei cittadini". "Le condizioni dei detenuti nel carcere di Fuorni - ha affermato il segretario dell’associazione radicale salernitana Donato Salzano - sono gravissime: a Fuorni il servizio sanitario non funziona, la carenza del personale di polizia penitenziaria ha superato la soglia del 30% e, soprattutto nei festivi, si assiste a situazioni paradossali quando, nell’intero istituto ci sono solo 15 agenti per 500 detenuti". Dati drammatici, quindi, quelli forniti ieri dal segretario dei Radicali, in parte confermati dal direttore della casa circondariale di Fuorni, Stefano Martone che ribadisce l’emergenza legata al sovraffollamento acuitosi nell’ultimo anno (da 380 i detenuti stanno raggiungendo la soglia delle 500 unità) e alla carenza del personale respingendo, però, con forza il concetto della tortura. "Nel nostro istituto - ha affermato Martone - sono svariate le iniziative che mettiamo in campo per migliorare le condizioni dei reclusi: mercoledì abbiamo organizzato uno spettacolo per i detenuti e le loro famiglie in occasione della Pasqua e anche dal punto di vista edilizio ci impegniamo costantemente per rendere la struttura più efficiente. I detenuti di Fuorni, sebbene costretti a subire il dramma del sovraffollamento, non subiscono alcun trattamento inumano e degradante". Alla conferenza stampa di ieri hanno partecipato anche il presidente della Camera penale Michele Sarno e la tesoriera nazionale di Mga (Mobilitazione generale degli avvocati) Valentina Restaino che, nel suo intervento, ha puntato l’accento sulle drammatiche conseguenze della riforma della giustizia che, per far fronte ai tempi sempre più lunghi di definizione dei processi, "ha pensato di risolvere il problema allungando i termini prescrizionali". Accorato, infine, l’appello lanciato al mondo politico dall’assessore Maria Rita Giordano che ha concluso l’incontro di ieri affermando che "se vogliamo essere degni di appellarci "esseri umani" dobbiamo farci carico dei problemi anche quando non sono i nostri". Taranto: in carcere realizzato un giardino sociale sinergico-terapeutico pugliapositiva.it, 14 aprile 2017 Un’area abbandonata trasformata in una zona per la coltivazione con varie tecniche. Un giardino con orto sociale, ma soprattutto sinergico-terapeutico è attivo all’interno della Casa Circondariale di Taranto, dove sette detenuti (4 italiani e 3 di origine albanese) seguiti attentamente in questo particolare lavoro da due dipendenti dell’Asl/Ta dedicati proprio alla progettazione di Agricoltura Sociale applicata alla Medicina Penitenziaria, nonché cinque operatori agricoli appartenenti a quattro Masserie Didattiche, si sono occupati giornalmente di coltivare vari ortaggi. Agli agricoltori in erba è stato anche affidato il compito di scrivere un diario di campo dove annotare le impressioni, le osservazioni e gli stasi d’animo provati nel lavoro faticoso, così come nel veder spuntare nuove piante, fiori e frutti. E proprio da questi scritti è emerga la conferma della valenza curativa-psicologica dell’esperienza. Quanto realizzato era la seconda fase del progetto. L’intervento è stato realizzato all’interno del carcere in una grande aiuola, che, grazie alla sinergia tra operatori, agricoli che hanno messo a disposizione anche macchinari ed attrezzatura adatta, e detenuti, si è trasformata da spazio incolto e per niente utilizzato, ad area dedicata alla coltivazione, sia di piante officinali (origano, lavanda, maggiorana, ecc.), che di ortaggi in cui si sono sperimentate varie tecniche. Il Giardino è stato organizzato secondo tre aree di attività: Autoproduzione, Sinergia e Cooperazione, in un’ottica secondo la quale non è tanto importante la produzione e l’uso del prodotto finale, quanto il fine educativo/formativo a valenza occupazionale. I progetti hanno riguardato la realizzazione di un orto sinergico su bancale coltivato con metodo biologico; la coltivazione di ortaggi in tunnel; la realizzazione di un impianto di irrigazione; la coltivazione in esterno di ortaggi; l’allestimento di una fungaia; l’allestimento e la decorazione del capanno/deposito; il montaggio e la decorazione di 7 cassoni utilizzati per coltivazioni varie. Inoltre sono stati realizzati 7 murale da ciascuno dei detenuti coinvolti. Ai detenuti che hanno lavorato nel Giardino è stato corrisposto un importo netto di 5 euro ad ora per 2 ore al giorno e per complessivi 30 giorni lavorativi, dal 27 ottobre al 15 dicembre 2016, ma ancora attivo. La Asl Taranto ha sostenuto tutte le spese necessarie alla realizzazione del progetto, comprese quelle per l’acquisto delle divise, delle strutture mobili (casetta per attrezzi e piccola serra) e dell’acqua necessaria per l’irrigazione delle piante. Nel progetto è stata inoltre impegnata anche una psicologa con esperienza in psicologia penitenziaria. L’iniziativa è nata come risposta ai nuovi compiti attribuiti alla Medicina Penitenziaria, a cui il Distretto Socio Sanitario Unico è chiamato a dare risposte in termini sanitari e sociali. Una novità arrivata con il D.P.C.M. dell’1.4.2008, con il quale la Sanità Penitenziaria è passata dalla competenza del Ministero della Giustizia a quella del SSN, che opera ed interviene attraverso le macrostrutture territoriali competenti (a Taranto attraverso il Distretto Socio Sanitario Unico Cittadino). Caltanissetta: il carcere si apre alla scuola, l’esperienza degli studenti del Liceo Volta radiocl1.it, 14 aprile 2017 Visita presso la Casa circondariale di Caltanissetta: questa l’ultima tappa, espletata il 22 marzo scorso, del percorso formativo, svolto dalla classe quarta sez. F del Liceo Scientifico A. Volta. L’iniziativa, sostenuta dal Dirigente Scolastico prof. Vito Parisi, si inserisce nell’Educazione alla cittadinanza attiva, ambito per cui l’offerta formativa del liceo nisseno ha sempre mostrato costante impegno e particolare attenzione per le tematiche sociali. La fase propedeutica dell’attività ha previsto la lettura in classe del testo "Il futuro sarà di tutta l’umanità", che si presenta come una ricerca aperta, un viaggio compiuto dall’autrice Antonella Speciale, a partire dagli I.P.M. fino alle carceri di "fine pena mai". Il testo della Speciale è un’opera corale e collettiva, dove emergono situazioni problematiche e soprattutto si affrontano problemi legati alla possibilità di integrazione, di cambiamento che non sempre il carcere permette. Un viaggio al quale gli alunni, guidati dalla prof.ssa Agata Trovato e dalla prof.ssa Alba Speciale, insegnante in quiescenza del Volta, si sono uniti, esprimendo considerazioni personali. Ad accogliere gli alunni il Direttore Belfiore Angelo, i Commissari di polizia Solemi Francesco e Matrascia Marcello, gli educatori Miraglia e Saverone, nonché il cappellano padre Alessi. L’incontro si è svolto all’interno della cappella del carcere, dove gli studenti hanno avuto la possibilità di rivolgere ai detenuti le loro domande, ascoltando, con palese coinvolgimento, le loro sensazioni e idee riguardo la vita da recluso. Sono state inoltre lette alcune testimonianze raccolte dall’autrice Speciale nel suo libro. La delegazione dei carcerati ha partecipato con interventi toccanti, suscitando emozioni forti tra gli ospiti. Unanime la considerazione per cui "È bello vedere detenuti, educatori volontari e alunni tutti allo stesso livello; tutti mostrano i propri sentimenti, portando le proprie esperienze, emozioni, opinioni da condividere senza vergogna", come si legge nel testo da cui si è partiti e come si è sperimentato durante l’incontro. Milano: "Sono uno di voi", visite e parole di speranza del cardinale Carlo Maria Martini di Marco Garzonio Corriere della Sera, 14 aprile 2017 Il film di Ermanno Olmi sul cardinale Carlo Maria Martini "Vedete, sono uno di voi", proiettato a San Vittore. La commozione tra detenuti e personale del carcere di fronte alle immagini storiche. "Vedete, sono uno di voi", il titolo del film su Martini, di cui Ermanno Olmi ha firmato la regia, sembra ritagliato a misura del pubblico raccolto nella rotonda di San Vittore. Era "uno di voi" il Cardinale che ha fatto del carcere luogo privilegiato del ministero sin dall’ingresso in diocesi. È "uno di noi" qui stasera con detenute e detenuti, dirigenti del penitenziario, guardie. Si tocca con mano l’emozione vedendo scorrere gli spezzoni con Martini che celebra la Messa proprio lì dove adesso è raccolto il pubblico; colpisce il cuore star sotto la cupola del pezzo d’edificio da cui si diramano i sei raggi del carcere e ritrovare d’improvviso quella stessa cupola proiettata sul grande schermo, come fosse una porzione di volta celeste, di quelle che abbelliscono tante nostre chiese. Di questo rito laico commuovono il silenzio, i volti e gli sguardi tesi, gli applausi che sciolgono la tensione alla fine, quando Martini malato con un filo di voce impartisce la benedizione, e che riprendono nello scorrere dei titoli di coda. "Vedete, sono uno di voi" si trasforma in un "noi siamo come voi" quando gli spettatori si alzano; alcuni cercano prima lo sguardo, poi le mani del coautore della sceneggiatura e del collaboratore alla regia, le stringono, dicono grazie, rievocano passaggi storici del film, mettono a fianco i propri ricordi di allora perché "anche noi c’eravamo", indicano la bellezza di alcune scene che li hanno conquistati, indugiano su quelle di monti, prati, nuvole, cielo, dicono che quelle immagini rappresentano per loro "la speranza che è là fuori". Una catarsi inattesa eppure naturale. "Vedete, sono uno di voi" è un ritrovarsi anche del personale del carcere: i dirigenti di allora, dei giorni di Martini, che lo videro, lo accompagnarono, che conoscevano, i detenuti di quei tempi, la Milano "nera" e del terrorismo; i dirigenti di oggi, con gli occhi lucidi, che nell’umanità del racconto colgono un sostegno, un incoraggiamento, un richiamo di senso al loro lavoro; le guardie: anch’esse vengono vicine, ti porgono la mano, le stringono forte, ti ringraziano. Film e titolo rimandano d’incanto i presenti alla recente visita di papa Francesco: è come se anche lui avesse scandito vedete, sono uno di voi. Qualcuno te lo dice, altri vi alludono, i più lo danno per scontato con gesti e mimica: è patrimonio loro personale ormai, traccia indelebile e insperata. Bergoglio ha confessato di essere "uno di voi" con la sola sua presenza, con l’aver scelto di intrattenersi con ciascuno, con l’aver pranzato in mezzo a loro, l’essersi fermato nell’ufficio del cappellano solo un paio di minuti e non la mezz’ora prevista per il riposo così da non sottrarre tempo all’incontro lì in carcere, mentre gli altri impegni incalzavano. Le mani protese, i sorrisi, gli scambi di battute potevano ben far attendere il milione di fedeli assiepati a Monza. "Vedete, sono uno di voi" prende un paio d’ore d’una sera d’inizio di Settimana Santa; poi gli spettatori uomini e donne tornano nelle loro celle, il personale agli uffici, gli ospiti alle loro case. Già dopo la venuta di papa Francesco la partecipazione collettiva ha fatto dire a molti che d’ora in poi la città dovrà imparare meglio a farsi una cultura della sofferenza, a darsi una visione più umana e finalizzata della pena, a riprendere il valore della "giustizia ripartiva" come Martini chiamava il recupero delle persone e il bisogno di educazione alla cittadinanza attiva di chi ha sbagliato. Adesso è la poesia, il genio d’un maestro del cinema a gridare che il "noi" e il "voi" se si incontrano in modo autentico sono capaci di rendere trasparenti anche le alte mura di un carcere, in nome dell’uomo, della polis, delle storie singole e dei destini che ci accomunano. Sondrio: rievocazione della Shoah al Campus, sul palco salgono studenti e detenuti di Nello Colombo Il Giorno, 14 aprile 2017 Una grande lezione di storia, quella vissuta al Policampus dagli studenti del “Piazzi-Perpenti” e da alcuni detenuti del carcere del capoluogo. Una storia, viva, palpitante, mai raccontata sui libri, ma testimoniata da chi l'ha vissuta sulla propria pelle. In scena il “magico pifferaio” israeliano Eyal Lerner, artista a tutto tondo, che ha allestito uno spettacolo di prim'ordine sulla rievocazione della Shoah. “Tutti noi abbiamo una responsabilità nei confronti della storia e occorre risvegliare la propria coscienza con i veri valori dell'etica, del rispetto, della libera scelta tra il bene e il male”, ha esordito la professoressa Fausta Messa. Lerner ha saputo calamitare l'attenzione del giovane uditorio rievocando lo spirito primigenio di un popolo defraudato della propria dignità, ma che ha saputo risollevarsi ricordando attorno al desco familiare le sue tradizioni millenarie. Struggente il canto di Lerner e la narrazione sentita di alcuni studenti (Federico Foppoli, Teresa Lo Verso, Laura Ferat, Sofia Colli, Christian Predella, Eleonora Rovedatti, Chiara Folatti e Giada Compagnoni). Straordinaria e composta la partecipazione di un gruppo di detenuti della casa circondariale di Sondrio, dove furono rinchiusi, nel dicembre 1943, i 63 ebrei catturati per delazione alla frontiera svizzera e poi mandati a morire ad Auschwitz. Il portoghese Paulo, e i marocchini Hassan a Abdecali hanno commosso l'uditorio con la loro intensa testimonianza del dolore di un deportato, privato della libertà e soggiogato in una condizione aberrante. Ma la danza del senegalese Mor è stato un vero inno alla vita, un canto alla libertà, quella che per il momento gli è negata. Una performance, la sua, di altissimo livello artistico. Tra le testimonianze forti e toccanti quella di Eliana Segre, scampata all'eccidio e che non ha mai dimenticato, raccontando la sua testimonianza ai giovani di oggi. Poi Hannah Senesch, ardimentosa pilota ebraica arruolatasi nell'aviazione britannica, e trucidata infine per mano nazista. Ma soprattutto la storia della bambina di un tempo, Regina Zimet, scampata ai campi di concentramento grazie alla famiglia morbegnese Della Nave, eletta tra “i giusti”, e tornata in Valtellina per rendere omaggio a chi le ha salvato la vita rischiando la propria, lasciando la sua preziosa testimonianza nel libro “Al di là del ponte”. Arienzo (Ce): "Oltre le mura", reportage per raccontare l’esperienza teatrale dei detenuti casertanews.it, 14 aprile 2017 Il progetto "Oltre le mura" si è concluso con l’ultima rappresentazione teatrale di "Aspettando San Gennaro", lo spettacolo interamente realizzato dai detenuti della Casa Circondariale di Arienzo a partire dalla scrittura fino alla messa in scena. I detenuti sono andati in scena per l’ultima volta l’8 aprile a S. Maria a Vico, nell’area di riferimento progettuale della rete proponente, e così il progetto "Oltre le mura" è giunto all’epilogo dopo diverse rappresentazioni avvenute sul territorio casertano. Il progetto è nato da una idea di Gaetano Ippolito, supportata dal CSV Asso.Vo.Ce attraverso il Bando della Micro progettazione sociale 2014/2015, e grazie alla disponibilità della Casa Circondariale di Arienzo, nella persona del direttore, la dottoressa Mariarosaria Casaburo, e al lavoro delle educatrici Rosaria Romano e Francesca Pacelli. L’idea progettuale consisteva nell’attivazione di tre laboratori destinati ai detenuti finalizzati alla realizzazione di uno spettacolo teatrale. Un primo laboratorio di scrittura teatrale si è concretizzato con la stesura del testo teatrale dal titolo "Aspettando San Gennaro", ispirato all’opera di Samuel Beckett "Aspettando Godot". Poi sono seguiti i laboratori di scenografia e di recitazione per portare in scena il testo scritto dai partecipanti al laboratorio di scrittura. L’opera punta lo sguardo sulla situazione che quotidianamente si trovano a vivere i detenuti: chiusi in una cella in attesa di un cambiamento che deve partire da loro, e che a volte viene ostacolato da loro stessi e da qualche componente della società che con parole o azioni inconsapevolmente li trasforma e ci trasforma in bestie chiuse in gabbia. Di fondo la credenza di aspettare che il cambiamento arrivi dall’alto, cosa che quasi mai accade e che catapulta i protagonisti, al momento della verità, al dover prendere una decisione, una decisione di azione o di attesa. "Era interessante secondo me", dichiara Gaetano Ippolito, "realizzare una documentazione audiovisiva del progetto, desinato al web, per una maggiore sensibilizzazione sulla tematica dell’inclusione sociale, e soprattutto per mostrare a tutti che anche i detenuti sono delle persone e non dei mostri da emarginare, e che come tutti meritano una possibilità per rimediare ai propri errori. Così è nata l’idea di realizzare un breve documentario con protagonisti i detenuti". Gaetano Ippolito è anche l’autore del reportage sul progetto "Oltre le mura", e si è avvalso del montaggio di Domenico Ruggiero, che già in passato aveva collaborato per il documentario Inside Africa. Gaetano Ippolito è un film maker indipendente. Come produttore ha realizzato il documentario "La Domitiana" (2008) di Romano Montesarchio, andato in onda su Rai 3 nel programma Doc 3, sulla BBC nel programma My Country, e su Orf (Austria). Ha prodotto il documentario "Eclissi Parziale" presentato al mercato Hot Docs di Toronto nel 2010. Come regista è autore del documentario "Inside Africa" vincitore alla Festa del Documentario "Hai Visto mai?" del 2012 di Luca Zingaretti. Lavora anche come organizzatore di eventi e freelance nel cinema. "Professione: artista" è il suo ultimo documentario come autore realizzato in collaborazione con Sebastiano Sacco. Il reportage "Oltre le mura" è da oggi disponibile sul web sulla piattaforma Vimeo ed è fruibile in maniera gratuita. "Un Altro me", un percorso per combattere la violenza sessuale di Federico Raponi L’Opinione, 14 aprile 2017 Un progetto-pilota di rieducazione su detenuti per crimini di violenza sessuale: lo racconta il documentario "Un Altro me" di Claudio Casazza, una produzione Graffiti Doc (della regista Enrica Capra) in collaborazione con il Mibact - ministero per i Beni e le Attività culturali e il Turismo, oltre che con il Piemonte Doc Film Fund. Dopo vari riscontri in festival e rassegne, l’opera è uscita nei cinema giovedì 13 aprile, distribuita dall’indipendente Lab 80. Ne parliamo con l’autore. Come ci presenta "Un Altro me"? Il film racconta un trattamento criminologico-psicologico nel carcere di Bollate a Milano, unico penitenziario in Italia a fare questo tipo di lavoro su autori di reati sessuali. È un documentario di osservazione, che per un anno ha ripreso l’evoluzione di quegli incontri con - diciamo così - la "presa di coscienza" di quei soggetti, in linea generale, su ciò che hanno fatto, perché molto spesso non pensano che la colpa sia la loro ma la vanno a scaricare sulla vittima. Di conseguenza, con questo trattamento l’impegno che portano avanti su di sé è appunto quello della comprensione di quanto hanno compiuto, del reato commesso, dell’esistenza di una vittima. L’obiettivo è che tornino degli esseri umani, e soprattutto che fuori, di vittime, non ce ne siano più. Un elemento importante negli incontri ripresi dal film è la presenza anche di operatrici e di una donna che ha subìto violenza sessuale. Il trattamento è curato da criminologi e psicologi che, "step by step", svolgono il lavoro attraverso le lettere delle vittime e il racconto dei reati da parte dei detenuti, perché molto spesso, con l’ascolto dell’altro, si arriva a comprendere ciò che si è fatto; in ultima istanza, questo è successo anche con la presenza di una vittima che, per la prima volta quando l’ho ripresa io, è andata in carcere per raccontare quello che ha subìto. Attraverso l’ascolto delle testimonianze di altri, e soprattutto di una vittima, queste persone riescono ancora di più a capire. Nel film, il momento con quella donna è uno dei più forti, dolorosi, ma è anche uno di quelli che più ha portato a un maggiore livello di consapevolezza. Per questa piaga, il problema è soprattutto sociale/culturale: nei vari racconti ascoltati, le ragazze sessualmente libere vengono definite "puttanelle da discoteca", e la donna provocante è ritenuta corresponsabile della violenza successiva ai suoi danni. Certo, quelle sono parole che i detenuti hanno usato, inizialmente, perché poi c’è stato un loro percorso di comprensione. È quello che pensano molti uomini sulle donne, di conseguenza credo sia proprio qualcosa di insito nella società. Appunto per questo, il trattamento che fanno questi psicologi e criminologi sui detenuti è molto importante. Come le è venuta l’idea di questo documentario? Quasi casualmente, perché ho conosciuto il criminologo a capo di questo progetto, il quale mi ha invitato in carcere per uno degli incontri pubblici che si tengono lì, aperti a persone esterne, invitate tra quelle esperte della materia o comunque interessate. Assistendo a questo incontro generale, di fine percorso, mi sono accorto che tale attività era molto importante, e piena di materiale umano. Di conseguenza, mi sono interessato, e grazie a loro che ci lavoravano siamo riusciti a ottenere i permessi per girare in carcere. Una volta dentro, ho cercato un approccio il più aperto possibile, ad esempio non ho voluto sapere che tipo di reati avevano commesso i detenuti, per cercare di mantenere una certa distanza - oltre a non entrare nel pregiudizio che molto spesso abbiamo noi come società, anche giustamente, verso chi commette questi reati - e comunque anche per stabilire un rapporto di fiducia con loro. E quindi ho scoperto ciò che hanno fatto solo quando lo raccontavano, poco a poco, mentre si andava avanti nel percorso. Questo credo che mi abbia permesso di avere un tipo di criterio libero per fare il film: ho ripreso un anno di trattamento, e quello che ne esce fuori è ciò che ho filmato, senza interventi esterni, interviste, commenti o qualcosa che potesse dare una sottolineatura "altra". Che impressioni le ha lasciato la lavorazione del film, frequentando quella situazione? Guardiamo le statistiche: l’80-90 per cento delle persone che escono dal carcere rifanno ciò per cui erano finite dentro. Quando invece lavorano su di sé, io ho visto dei movimenti, dei cambiamenti e di conseguenza sono convinto che questo vada fatto. Per alcuni può valere un anno, per altri è necessario continuarlo anche quando escono, ma è ciò che poi aiuta loro e la società. "La Prima Meta": la squadra di rugby del carcere di Bologna in concorso a Visions du Réel cinemaitaliano.info, 14 aprile 2017 "La Prima Meta" ("First Try") il film lungometraggio su Giallo Dozza, la squadra di rugby della Casa Circondariale Dozza di Bologna, sarà presentato alla 48ma edizione di Vision du Réel International Film Festival (21-29 April 2017) in concorso ufficiale nella sezione Grand Angle, una selezione del miglior cinema mondiale contemporaneo destinata a far scoprire al grande pubblico, in anteprima internazionale, film di cineasti rinomati presentati in altri grandi festival internazionali. Alle proiezioni saranno presenti la regista Enza Negroni e la produttrice Giovanna Canè. Protagonista del film documentario la squadra Giallo Dozza formata da 40 detenuti di nazionalità diverse, con pene da 4 anni all’ergastolo, senza precedenti esperienze rugbistiche. La squadra è iscritta al campionato ufficiale F.I.R. di serie C2 sotto la guida del tenace coach Max Zancuoghi. Con l’arrivo di tre giovani detenuti, il film segue le vicende dei Giallo Dozza nel corso del suo primo campionato, giocato forzatamente sempre in casa. Tra allenamenti estenuanti e i ritmi lenti della quotidianità in cella, il film racconta il difficile cammino dei detenuti per raggiungere la meta non solo in campo ma anche nella vita con una ritrovata dignità sociale: un sofferto inno allo sport, alla condizione umana, in tutte le sue complesse latitudini. Giallo Dozza - chiamata come il colore del cartellino dell’espulsione temporanea di dieci minuti previsto nel rugby - nasce dal progetto educativo "Tornare in Campo", coordinato da tecnici e allenatori del Rugby Bologna 1928. Il progetto è finalizzato all’insegnamento del rugby all’interno del carcere della Dozza di Bologna, e al recupero fisico, sociale ed educativo di detenuti. Due le motivazioni che hanno spinto Enza Negroni a girare "La Prima Meta". Da un lato approfondire il processo di inclusione attraverso il rugby di detenuti di diverse nazionalità, con la formazione di un tessuto sociale multietnico, come solo il carcere riesce a rappresentare. Dall’altro, l’utilizzo della forma documentaristica che permette di raccontare l’esperienza della vita carceraria, senza mediazioni, raccontando il tentativo di emergere da un forte disagio. Al secondo lungometraggio dopo il fortunato "Jack frusciante è uscito dal gruppo" con gli allora esordienti Stefano Accorsi e Violante Placido, Enza Negroni in questi anni ha girato numerosi mediometraggi di genere documentario, passati per importanti festival e per le principali reti televisive italiane. Tra questi, Viaggio intorno a Thelonius Monk, con Stefano Benni per Feltrinelli; Le acque dell’anima con Bjorn Larsson e Istanbul con Nedim Gursel per Rai Educational; Lo chiamavamo Vicky, dedicato a Pier Vittorio Tondelli, presentato in concorso internazionale al Biografilm Festival; e per Rai 150 anni, due documentari storici, Letture dal Risorgimento e Visioni d’Italia. Sul set de "La Prima Meta" ha lavorato una troupe molto affiatata. Accanto alla regista, la produttrice Giovanna Canè con alle spalle una lunga carriera professionale in Italia e all’estero (tra gli ultimi lavori coordinatrice per Ispettore Coliandro, Romanzo Criminale e Quo Vadis Baby); e il direttore della fotografia Roberto Cimatti (a.i.c.) da anni ai più alti livelli della fotografia cinematografica, con registi quali Amir Naderi (Monte) Giorgio Diritti (Il Vento fa il suo giro, L’Uomo che verrà, Un giorno devi andare); Giuseppe Piccioni (Il rosso e il blu) e molti altri. Nel team de "La Prima Meta" anche Corrado Iuvara, montatore del cortometraggio A casa mia di Mario Piredda che ha vinto il David di Donatello 2017 e di See you in Texas di Vito Palmieri, premio della giuria allo Shanghai International Film Festival e premio del pubblico al Biografilm Festival Italia. "La Prima Meta" è prodotto da Giovanna Cane` per Oltre il Ponte e Enza Negroni per Edenrock in collaborazione con Regione Emilia Romagna e realizzato con il contributo di I.B.C Movie, Unipol Banca, Illumia; con il supporto tecnico e logistico di Associazione Giallo Dozza, Bologna Rugby 1928, Ministero della Giustizia, Provveditorato Regionale Amministrazione Penitenziaria Emilia Romagna, Casa Circondariale Dozza di Bologna. Il terrore del signore della guerra di Tommaso Di Francesco Il Manifesto, 14 aprile 2017 Si chiama Gbu-43, nota anche come "Moab" quella usata ieri dallo stato maggiore Usa su indicazione di Trump sull’Afghanistan. È la bomba convenzionale non nucleare più potente che, nella suo primo impiego - fu usata la prima volta nella guerra del Golfo del 1991 - era soprannominata "daisy cutter", taglia-margherite. Aveva "solo" 7-8 tonnellate di esplosivo. Quella di ieri è una elaborazione che ci avvicina sempre di più al terrore atomico: ha infatti 11 tonnellate di esplosivo. Dicono che i militari americani e la presidenza Usa "hanno preso tutte le precauzioni per non colpire i civili". Viene da piangere, ma di rabbia. Perché questa bomba ha un impatto analogo a quello di una piccola bomba atomica però senza radiazioni, ma lo spostamento d’aria che provoca inghiotte tutto in un vortice di morte per chilometri, risucchiando l’aria e con essa ogni forma di vita. Non sappiamo come il Signore della guerra Donald Trump motiverà stavolta questo terrore di Stato. Solo una settimana fa aveva lanciato 59 missili Tomawak sulla Siria, con duro avvertimento a Mosca, rompendo un equilibrio immaginario che lo voleva profittatore del "Russiagate", "amico di Putin" e "nemico della Nato". Facendo così ritornare all’improvviso l’America "first". Per punire - passando oltre l’Onu e la richiesta di una inchiesta indipendente - i presunti raid di Damasco al gas nervino presso Idlib, Motivando il bombardamento "umanitario" americano "in difesa dei bambini", ma provocando presso la base militare colpita altre morti civili. Poi non contento ha agitato le acque del Mar Giallo inviando la portaerei Vinson e una flotta, come esercitazione mirata alla deterrenza delle provocazioni missilistiche della Corea del Nord, come fosse una delle tante manovre che - prime responsabili della tensione - imperversano nella Corea del Sud, allo sbando, senza governo e presidenza e con la protesta pacifista in piazza nel timore di ritrovarsi in mezzo ad un conflitto nucleare, perché anche lì Trump annuncia che dislocherà il micidiale sistema antimissile Thaad. In frantumi con il bombardamento americano in Siria sono andati il vertice negoziale di Ginevra e quello di Astana, attivati da Onu e Russia per una soluzione politica della crisi siriana. Stavolta la più grande bomba non atomica cade in Afghanistan il giorno stesso in cui si è aperto a Mosca il vertice di Russia, Cina e Iran per una soluzione politica della guerra afghana che dura - gli Usa l’hanno iniziata come vendetta per l’11 Settembre 2001 - da 16 anni. E dove i morti civili per gran parte dovuti ai raid della coalizione Nato della quale l’Italia fa parte, hanno provocato secondo l’Onu, solo nel 2016, più di 11mila vittime civili. Quale menzogna racconterà stavolta il Signore della guerra? E che altro dovrà succedere perché torni in piazza la potenza mondiale dei pacifisti? Siria. Il presidente Assad: "l’attacco chimico? una completa invenzione" di Giordano Stabile La Stampa, 14 aprile 2017 Il presidente siriano ribadisce che Damasco "ha consegnato tutte le armi chimiche". Il presidente siriano Bashar al-Assad ha replicato alle accuse dell’Occidente sull’attacco chimico del 4 aprile a Khan Sheikhoun, dove sono morte 85 persone: "È una montatura, al 100 per cento", ha detto all’agenzia Afp. Assad ha ribadito che Damasco "ha consegnato tutte le armi chimiche", in suo possesso, in base all’accordo con l’Onu del settembre 2013, dopo l’attacco chimico nel Goutha del 2013: "Anche se avessimo ancora armi di quel tipo, non le useremmo". Sì all’inchiesta internazionale - Il governo siriano, ha sottolineato è pronto ad aprire il paese agli ispettori dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche, ma l’inchiesta deve essere "imparziale" e condotta da "paesi che abbiano un giudizio obiettivo sulle cose e non la utilizzino per motivi politici". Gli Stati Uniti, ha concluso, non sono "seri nei tentativi" di trovare una soluzione politica per mettere fine alla guerra civile che in sei anni ha fatto almeno 320 mila morti: "Usano il negoziato per favorire i terroristi". Il regime considera terroristi tutti i gruppi armati, anche quelli "moderati" sostenuti da Usa e Gran Bretagna. Va detto che nella provincia di Idlib i gruppi ribelli predominanti sono legati ad Al-Qaeda. Gli Stati Uniti hanno intercettato la preparazione dell’attacco chimico - Militari e intelligence Usa hanno intercettato comunicazioni di membri dell’esercito siriano ed esperti chimici che parlavano dei preparativi per l’attacco con armi chimiche di martedì 4 aprile in Siria nella provincia di Idlib. È quanto riferisce alla Cnn un alto funzionario Usa, spiegando che le intercettazioni rientrano nelle informazioni di intelligence revisionate nelle ore successive all’attacco per provare a risalire alla responsabilità dell’uso delle armi chimiche. Secondo le autorità degli Stati Uniti "non c’è dubbio" che il presidente siriano Bashar Assad sia responsabile dell’attacco chimico. La fonte Usa sottolinea però che Washington non sapeva dell’attacco prima che succedesse. Raid errato degli Usa, uccisi 18 combattenti anti-Isis - La replica del rais arriva nel giorno in cui il Pentagono ha rivelato di aver ucciso per sbaglio "18 combattenti" delle Syrian democratic forces (Sdf), la coalizione anti-Isis che sta conducendo l’offensiva su Raqqa. Il raid, dell’11 aprile, aveva come obiettivo posizione dell’Isis a sud di Tabqa, roccaforte dello Stato Islamico: le bombe sono invece finite sulle linee delle Sdf, causando 18 vittime. A subire le perdite è stata una formazione araba delle Sdf, I Falchi di Raqqa. I miliziani hanno accusato i curdi, che costituiscono l’80 per cento dell’alleanza, di "aver fornito le coordinate sbagliate" e si sono ritirati momentaneamente dalla coalizione. La Corte europea condanna la Russia per l’assalto alla scuola di Beslan di Yurii Colombo Il Manifesto, 14 aprile 2017 Durante il blitz per liberare gli ostaggi dei terroristi ceceni morirono in 334, 186 i bambini. Teste di cuoio "inefficienti", lo stato indennizzi i familiari delle vittime. Mosca: sentenza "inaccettabile". Dopo 13 anni, i tragici avvenimenti di Beslan, una cittadina della Repubblica autonoma dell’Ossezia del Nord, tornano alla ribalta delle cronache. Ieri la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha depositato una sentenza che condanna la Russia a pagare 3 milioni di euro per le deficienze con cui le autorità russe operarono durante il sequestro di 1.200 persone nella scuola elementare di Beslan da parte di terroristi ceceni. Nelle motivazioni la Corte accusa Mosca di "una serie di inefficienze nella pianificazione e nel controllo dell’operazione" di salvataggio che "in qualche misura hanno contribuito al tragico epilogo". Il portavoce di Putin, Dmitry Peskov, ha immediatamente replicato che "per un paese attaccato diverse volte dai terroristi, e purtroppo la lista di tali paesi cresce costantemente, tali sentenze sono assolutamente inaccettabili". La sentenza infatti intenderebbe mettere in luce non tanto i tragici errori che condussero a una vera e propria strage di innocenti, già a suo tempo ampiamente riconosciuti dallo stesso Putin, ma le responsabilità dirette degli organi centrali dello Stato russo. La sentenza, giunta a 10 anni dalla denuncia presentata da familiari di persone coinvolte nel sequestro, non può non essere stata percepita dal Cremlino come una sentenza "a orologeria" all’interno dello scontro massmediatico e propagandistico che oppone la Russia agli Usa e alle potenze occidentali, divenuto particolare duro dopo i recenti avvenimenti in Siria. Per la cronaca neppure gli avvocati dell’accusa si sono dichiarati soddisfatti della misura economica della condanna: "Qualcuno riceverà 5.000 euro, qualcuno 20.000. Non è un gran somma per un danno morale incalcolabile…" ha affermato la Presidente delle "Madri di Beslan" Aneta Gadieva. Il 1 settembre 2004, giorno di inizio dell’anno scolastico, un commando di 32 di terroristi ceceni diede l’assalto a una scuola di Beslan sequestrando alunni, genitori e personale scolastico. Dopo 3 giorni di assedio da parte della polizia russa e di inutili tentativi di giungere a una soluzione pacifica della crisi, i corpi speciali russi, gli spetsnaz, irruppero nella scuola ponendo fine al sequestro. L’epilogo fu particolarmente tragico: nel corso degli scontri per liberare i sequestrati perirono 334 persone tra cui 186 bambini. La dinamica dell’azione dei corpi speciali, effettuata in difficilissime condizioni e sotto una forte pressione emotiva, provocò subito una serie di polemiche. Parte della stampa internazionale accusò Putin e il governo di aver agito con eccessiva durezza al fine di esacerbare lo scontro in Cecenia. Putin che era giunto alla presidenza della Federazione Russa nel 2000 promettendo di stroncare la guerriglia cecena, evitò di minimizzare i limiti e gli errori che avevano segnato l’azione degli organi di sicurezza. Il Presidente russo ammise la mancanza di professionalità degli organi competenti durante la crisi e ciò condusse prima alle dimissioni del governatore della repubblica e del capo del FSB della regione oltre che all’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta che confermò gli errori. I molteplici sanguinosi attentati di cui si rese responsabile la guerriglia cecena in tutta la Federazione, si collocarono dentro ben due conflitti (I guerra cecena 1994-1996, II guerra cecena 1999-2009) che opposero senza esclusioni di colpi l’esercito russo a diversi eserciti del movimento nazionalista ceceno che rivendicavano l’indipendenza. Accuse di torture, massacri, violenze sulle donne vennero lanciate a più riprese da entrambi i fronti. La giornalista Anna Politkovskaya che aveva denunciato su Novaya Gazeta le brutalità dell’Armata rossa e le responsabilità dirette di Putin pagò con la vita il suo coraggio, assassinata nel 2006 a colpi di pistola nell’androne di casa sua. Malgrado il conflitto, che causò a seconda delle stime tra 25 mila e 50 mila vittime, sia stato dichiarato da molti anni ufficialmente concluso, negli ultimi mesi nel nord del Caucaso sono ripresi con regolarità scontri tra reparti dell’esercito russo e ribelli ceceni. Medio Oriente: dal 17 aprile sciopero della fame a oltranza nelle carceri di Israele di Stefano Mauro contropiano.org, 14 aprile 2017 I prigionieri politici palestinesi cominceranno uno sciopero della fame ad oltranza dal prossimo 17 Aprile, giornata commemorativa del "prigioniero politico palestinese". L’inizio della campagna ufficializzerà ciò che ormai avviene da diverso tempo nelle carceri israeliane: le proteste dei detenuti palestinesi e gli scioperi della fame di diversi prigionieri. Una campagna di massa, come quelle del 2012 e del 2014, che obbligò il governo israeliano a trattare con i prigionieri e che portò alla sospensione della detenzione amministrativa da parte di Tel Aviv: accordo, però, durato soltanto pochi mesi nel 2015. Attraverso un comunicato, lo scorso 24 Marzo, i prigionieri politici di Fatah hanno indetto uno sciopero della fame ad oltranza per "protestare contro le brutali e disumane condizioni all’interno delle carceri israeliane". Il leader della protesta e portavoce sarà Marwan Barghouti, esponente di quella parte di Fatah contraria alla linea politica del presidente Abu Mazen e favorevole all’interruzione degli accordi di cooperazione e sicurezza con Tel Aviv. Accordi che hanno portato, in questi ultimi mesi, all’incarcerazione di centinaia di palestinesi e all’omicidio di esponenti, come l’attivista e intellettuale Basil Al Araj: assassinato dai soldati israeliani con la complicità delle forze di sicurezza palestinesi. Un esponente di Fatah, Muhammad Habbad, ha dichiarato che l’adesione allo sciopero da parte di tutte le forze politiche è "un’occasione storica" per i prigionieri politici. Numerosi detenuti di Hamas, del FPLP e del Jihad Islamico hanno aderito all’iniziativa. Le adesioni sono state spontanee visto che sia Hamas che il FPLP non hanno ufficialmente preso parte alla protesta. In un comunicato il FPLP, pur solidarizzando con Barghouti, ha respinto la proposta poiché "l’iniziativa non è stata concordata ufficialmente e non è stata presentata come una protesta di tutte le forze politiche palestinesi". Lo stesso segretario del Fronte Popolare, Ahmad Sàadat (detenuto da diversi anni), non ha assunto una "posizione ufficiale" di sostegno anche se ha sollecitato nel prossimo futuro "un maggiore coordinamento per una lotta che dovrebbe essere di tutti i palestinesi per tutti i prigionieri politici". Le principali rivendicazioni della protesta riguardano le visite ai detenuti, la salute dei prigionieri e la tutela delle donne incarcerate. Per le visite, ad esempio, i prigionieri richiedono il ritorno della seconda visita mensile, sospesa in questi anni, una durata dei colloqui che passi da 45 a 90 minuti e minori restrizioni per le visite dei parenti fino al secondo grado. Molto più preoccupante è la questione delle condizioni sanitarie. I detenuti, infatti, chiedono un miglioramento complessivo dei servizi sanitari del "Ramleh Prison Hospital" che sono considerati "pessimi" in confronto agli standard di Tel Aviv. Viene, inoltre, richiesto l’accesso di dottori per visite mediche specialistiche all’interno delle strutture detentive nei confronti dei malati gravi o dei disabili e l’abolizione dei costi delle cure a carico dei prigionieri. Per le donne incarcerate viene, infine, invocata l’eliminazione di atteggiamenti "provocatori e umilianti"da parte delle IPS (Servizio Penitenziario Israeliano) o le restrizioni per le visite dei figli delle detenute. Un ultimo "punto" centrale della protesta riguarda l’utilizzo della "detenzione amministrativa". Questo tipo di detenzione è uno strumento repressivo da sempre utilizzato dall’occupazione israeliana per imprigionare arbitrariamente i palestinesi. Attraverso il suo utilizzo, infatti, l’esercito di Tel Aviv imprigiona i palestinesi senza accuse né processo per periodi da uno a sei mesi, rinnovabili senza limiti di reiterazione. Ai detenuti amministrativi (oltre 500 nell’ultimo anno) può essere impedito di vedere un avvocato fino a 90 giorni ed i detenuti non vengono informati o formalmente incolpati sui relativi capi di accusa. Secondo l’associazione palestinese per i diritti dei prigionieri politici, Addameer, i numeri delle incarcerazioni e della repressione sono sempre più preoccupanti: 6500 i detenuti nelle carceri, 61 donne di cui 12 minorenni, 300 ragazzi e adolescenti e 24 giornalisti. Addameer, infine, chiama "ad una mobilitazione internazionale di solidarietà a fianco dei prigionieri politici palestinesi per il 17 Aprile" visto che questa è "un’occasione per ricordare la "questione palestinese" ormai tristemente accantonata in questi anni. Nigeria. Migliaia di civili nelle mani di Boko Haram di Riccardo Noury Corriere della Sera, 14 aprile 2017 In occasione del terzo anniversario del rapimento delle 276 studentesse della scuola secondaria pubblica di Chibok, Amnesty International ha sollecitato le autorità della Nigeria a raddoppiare gli sforzi per ottenere il rilascio delle 195 ragazze ancora sotto sequestro e di centinaia di altre loro coetanee che sono state rapite dal gruppo armato Boko Haram nel nord-est del paese. La campagna #BringBackOurGirls ha costretto il governo nigeriano a impegnarsi, dopo che inizialmente era stato accusato di non averlo saputo impedire, sul rapimento di massa avvenuto il 14 aprile 2014. Ma le vittime di altre decine di rapimenti - almeno 41 negli ultimi tre anni - sono ignorate dai mezzi d’informazione: per questo, stanno ricevendo molto meno sostegno e le loro famiglie hanno perso quasi ogni speranza di poterle rivedere. Purtroppo la campagna di crimini di guerra - tra cui uccisioni, attentati, rapimenti e saccheggi - avviata da Boko Haram nel 2009 contro la popolazione civile del nord-est della Nigeria prosegue a ritmo quotidiano. Il gruppo armato continua a rapire donne, ragazze e ragazzi che vengono spesso sottoposti a terribili violenze, tra cui stupri e pestaggi, e costretti a compiere attentati suicidi. Interi villaggi sono stati rasi al suolo. Scuole, chiese, moschee e altri edifici pubblici sono stati attaccati e distrutti. Due milioni di persone hanno dovuto lasciare le loro terre. Dall’aprile 2015 migliaia di donne, uomini, ragazzi e ragazze rapiti da Boko Haram sono stati liberati o sono riusciti a fuggire dalla prigionia, ma altre migliaia di civili rimangono tuttora nelle mani del gruppo armato.