Ergastolo. Garante detenuti: "Serve riflessione senza timori" Ansa, 13 aprile 2017 "È giunto il momento di aprire una discussione senza timori e senza pregiudizi sulla pena perpetua". È quanto sollecita il Garante nazionale per i diritti dei detenuti, dopo una lettera di un "ampio numero di ergastolani di diverse carceri d’Italia" in cui si annuncia la decisione di "avviare una proposta di legge popolare per permettere a chi sta scontando la pena dell’ergastolo, e in particolare dell’ergastolo ostativo, di ricorrere all’eutanasia". È "giunto il momento" di aprire una "discussione senza timori e senza pregiudizi" sulla "pena perpetua". È quanto sollecita il Garante nazionale per i diritti dei detenuti, dopo una lettera di un "ampio numero di ergastolani di diverse carceri d’Italia" in cui si annuncia la decisione di "avviare una proposta di legge popolare per permettere a chi sta scontando la pena dell’ergastolo, e in particolare dell’ergastolo ostativo, di ricorrere all’eutanasia". Il Garante, dunque, "al di là dell’elemento provocatorio della richiesta, volta a richiamare in modo forte l’attenzione sul problema", afferma la necessità di riflettere sul tema dell’ergastolo e della "pena perpetua", in particolare, quando "questa non preveda quell’elemento di speranza su cui la Corte europea per i diritti dell’uomo fonda il suo non essere in contraddizione con l’articolo 3 della Convenzione per i diritti dell’uomo", il cui principio è quello per cui "nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti". Il Garante, quindi, "per la sua intrinseca connotazione di indipendenza", si propone come "luogo dove tale confronto possa attuarsi rivolgendo un invito in tal senso alle forze politiche e sociali". Dai dati aggiornati al 31 dicembre scorso, in Italia ci sono 1.687 ergastolani. Chi è condannato al carcere a vita può, nelle modalità previste, avere accesso ad alcuni benefici penitenziari, come il regime di semilibertà e la libertà condizionale, permessi premio, lavoro esterno. Si parla invece di ergastolo "ostativo" quando l’accesso a tali benefici e a misure alternative è negato: i condannati per reati di particolare gravità sociale, come mafia o terrorismo, non possono usufruire di benefici a meno che non si tratti di collaboratori di giustizia. "Io, condannato, ho vissuto l’ergastolo come un malattia terminale" di Monica Coviello Vanity Fair, 13 aprile 2017 Ergastolo. Ne abbiamo parlato con Pasquale Zagari, 53 anni, che ha trascorso in carcere la maggior parte della sua vita: 34 anni di prigione. Ha vissuto da recluso come ergastolano ostativo, senza prospettive né speranze di uscire. Se oggi è fuori dalla prigione (è stato scarcerato nel 2015) è perché all’epoca del processo aveva chiesto di essere giudicato con il rito abbreviato, e questa scelta, con la sentenza Scoppola della Corte Europea, ha comportato la riduzione della pena. Oggi è sottoposto a sorveglianza speciale. Perché è stato arrestato? "Avevo 17 e mezzo e vivevo a Taurianova, in Calabria. Ero figlio di un consigliere comunale, una figura che dalle mie parti, a quei tempi, era molto mal vista: li consideravano "mezzi uomini". E un trentacinquenne del posto, proprio per questo, prese a vessarmi. Avevo una Vespa, regalo di mio padre: lui me la sottraeva, la usava e poi la lasciava a terra. Mi rubava i soldi, mi insultava, mi rendeva la vita impossibile. Mio padre si era rivolto alle forze dell’ordine, ma al mio paese mi dicevano di "fare l’uomo", di affrontarlo da solo". E lei? "Ero esile e lui corpulento, grosso. Ho accettato la pistola che mi hanno dato quelli che all’epoca consideravo miei amici, ho armato anche la mia anima e gli ho sparato, al bar, dopo una discussione. Poi sono stato latitante per cinque anni e mezzo. Vivevo nelle campagne di Taurianova: all’epoca tutti mi ospitavano, mi proteggevano. Avevo mostrato coraggio, secondo loro: ero visto male prima di uccidere, non dopo averlo fatto. Gli agenti mi hanno trovato a casa della mia fidanzata". A quanti anni è stato condannato? "A 17: avevo tutte le attenuanti. Poi, con tre di indulto, sono diventati 14". Poi, però, è arrivato l’ergastolo. "Durante la detenzione, il maggio 1991, è stato ucciso mio padre. Era dal barbiere. Alcuni contadini hanno riconosciuto i responsabili quando, scappati in campagna, si sono tolti i passamontagna. Erano due, uno minorenne. L’hanno detto a mio fratello Giuseppe, che ha perso la testa e il giorno dopo ha ucciso quattro persone. Un fatto tragico, di cui la cronaca parlò come della "faida delle teste mozzate di Taurianova". Mio fratello fu arrestato dopo due anni, e io accusato di concorso morale. Nonostante la richiesta di assoluzione del procuratore della Corte d’Assise di Reggio Calabria, fui condannato all’ergastolo". Che cosa ha provato quando ha sentito quella parola: "ergastolo"? "Il mio mondo si è svuotato, improvvisamente, e non ero in me. Passo passo, ho cominciato a capire, e ho dovuto fare una scelta: o vivere con la consapevolezza della condanna a vita, confidando nella giustizia - a questo punto - divina o attaccarmi a un cappio. Non so se per viltà o paura o rispetto dei miei cari, non mi sono ucciso, ma ho vissuto da morto. Sforzandomi di sorridere ai colloqui con i miei familiari. Ma ero morto". È stato isolato per anni. "Sono stato sottoposto per otto anni e mezzo al 41 bis, il regime duro per i detenuti che si trovano in carcere per fatti di criminalità organizzata, mafia, terrorismo. E mi chiedevo che cosa ci facessi, io, con loro". Come ha vissuto quegli anni? "Non potevo toccare i miei parenti, ma solo vederli attraverso un vetro divisore. Non potevo scrivere lettere, se non a busta aperta. Non potevo leggere riviste. E venivo vessato: nel cibo c’era di tutto, dai mozziconi di sigaretta, ai preservativi, alle scarpe. Mi facevano fare cose da pazzi". Ad esempio? "Naturalmente, in cella non c’era la televisione. Ma ogni tanto un agente veniva e mi chiedeva di abbassare il volume. Pretendeva che fingessi di prendere un telecomando e di eseguire i suoi ordini. E io lo facevo. Poi tornava e mi ringraziava. Ma ho imparato a non discutere e a fare anche cose che non condividevo". È arrabbiato con quegli agenti? "No, erano ragazzi come me, di 25, 30 anni. Indottrinati così. Qualcuno, poi, è venuto a scusarsi con le lacrime agli occhi: non erano tutti cattivi. Ma il sistema è pessimo: io ce l’ho con il sistema" Come riusciva a sopravvivere? "Per non lasciarmi morire, quando mi svegliavo bevevo due bottiglie di acqua, così dovevo andare in bagno. Altrimenti mi sarei sdraiato di nuovo. Poi cercavo di fare ginnastica e di pensare a qualcosa di positivo, anche se era estremamente difficile, quando la prospettiva è quella di non uscire mai da quella gabbia. Ma mi concentravo sul ricordo delle giornate felici, quando mio padre mi portava a mangiare un dolce al bar, o pensavo intensamente a mia mamma. Ma non c’erano giornate di sole, non c’era il giorno, non c’era la notte. Passeggiavo in quei due metri per tre fino a quando non mi bruciavano i piedi". E come sopportava l’idea di rimanere tutta la vita in pochi metri quadrati? "Prendevo psicofarmaci. Ancora oggi, sul mio comodino, ci sono venticinque pillole da prendere ogni giorno". Poi, quando è uscito dall’isolamento, con gli altri detenuti aveva stabilito rapporti di amicizia? "No. Di conoscenza sì, ma c’era quel tipo di solidarietà che si può trovare in un campo di concentramento. Basata sulle cose pratiche, sul cibo. I discorsi erano come quelli che si possono fare tra malati terminali. C’era qualcuno più simpatico degli altri, ma dopo due o tre mesi mi spostavano in un altro carcere. Mi hanno trasferito più di trenta volte". Che cosa le mancava di più? "Quando ero in 41bis, la possibilità di toccare un essere umano. Al primo colloquio senza vetro divisore, presi la mano di mia zia e la strinsi. Sentii a lungo il suo odore, l’odore della pelle. Lei piangeva e io sentivo il suo odore". E quando è uscito? "Ero un 53enne di 17 anni e mezzo. Ero rimasto fermo alla 128, alla 850, non conoscevo le macchine di oggi. Ci abbiamo messo 4 ore da Milano a Como, perché per me quelle auto erano come aerei, e mi girava la testa. Non conoscevo gli euro, il cellulare, internet, niente. E vedevo poco, abituato come ero a guardare solo le pareti della cella". Tornerà in Calabria? "No, vivo a Como perché non ce la faccio a tornare nella terra dei miei traumi. Mi distrugge l’idea di non stare con mia mamma: ho pregato ogni giorno che rimanesse viva fino alla mia uscita dal carcere. E adesso non riesco a raggiungerla". Si è pentito di avere ucciso? "Sì: allora ero giovane, ero diverso, ero un’altra persona. E non lo dico per giustificarmi, ma perché davvero sono cambiato. Ma non è stato il carcere a farmi maturare questa consapevolezza". Non le è servita la detenzione per diventare un uomo migliore? "No. Il carcere è stato solo un’esperienza disumanizzante, mai rieducativa. Se ho imparato la pazienza, la riflessione, la saggezza è merito del tempo. Non potevo fare nulla, in carcere, non ho imparato nulla. Solo sofferenza, alienazione. E invece, dopo tanti anni di detenzione, si dovrebbe avere una possibilità, una seconda possibilità. Nessun uomo rimane lo stesso dopo tanti anni di carcere. Spero che il sistema lo capisca: solo se cambierà qualcosa, tutta questa sofferenza potrà avere avuto un senso". Lavoro in carcere: diritto, dovere… o nessuno dei due? di Chiara Vannoni* Il Fatto Quotidiano, 13 aprile 2017 La tematica del lavoro dei detenuti e, soprattutto della loro retribuzione è, perlopiù, sconosciuta e ignorata anche da chi per lavoro si occupa di diritto del lavoro. In realtà si tratta di una questione che, seppur sottaciuta, risulta di grande rilievo e riguarda in generale le condizioni di vita in carcere e le concrete possibilità di un effettivo reinserimento nella società dei detenuti una volta terminata la pena. Nonostante la credenza generale per cui la pena abbia, o dovrebbe avere, una funzione punitiva, il nostro ordinamento è fermamente ancorato intorno alla funzione rieducativa che la stessa debba (dovrebbe) avere. L’art. 27 della Costituzione non consente alcun dubbio al riguardo: "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso dei umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". L’Ordinamento Penitenziario afferma inoltre che il trattamento (cioè l’insieme delle azioni che devono favorire il reinserimento sociale) del condannato deve (o dovrebbe) essere svolto principalmente mediante - tra le altre cose - il lavoro, che deve essere assicurato al detenuto e che deve essere remunerato, dal momento che non è ammessa alcuna forma forzosa di lavoro. La situazione attuale qual è, quindi? Oggi, in Italia, le persone detenute sono - secondo gli ultimi dati del Ministero della Giustizia - 56.289 tra uomini, donne, italiani o stranieri, a fronte di una "capienza regolamentare" di 50.211 persone. In queste condizioni solo circa un detenuto su quattro lavora: l’ultima relazione sullo svolgimento di attività lavorative del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) parla infatti si soli 14.570 detenuti che svolgono una attività lavorativa e la maggior parte di questi - 10.175 persone - svolgono i cosiddetti "lavori domestici", alle dirette dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria: sono gli scopini, gli spesini, i piantoni e gli scrivani, insieme ai cuochi e ai porta vitto e sono i lavoratori che vivono le condizioni più disagiate ed inique, guadagnano in media 2,50 euro all’ora. Meno di una colf, meno di un precario, meno di tutti. I detenuti "domestici" sono retribuiti con la corresponsione di una mercede. La mercede è il compenso spettante al lavoratore per la prestazione; la sua determinazione è stabilita da una commissione ed è ancorata al trattamento economico previsto dai contratti collettivi di lavoro, con previsione della riduzione fino a un terzo rispetto alla paga stabilita dai contratti collettivi di riferimento. Purtroppo, la Commissione non si riunisce dal 1993-1994 e quindi da quel momento, di fatto, i compensi dei lavoratori detenuti domestici sono rimasti invariati. È noto che già in diverse occasioni i Tribunali hanno condannato il Ministero della Giustizia a pagare ai detenuti le "differenze retributive", cioè quelle somme che sono appunto la differenza tra quanto gli spesini, i porta vitto, i piantoni avrebbero dovuto percepire e quanto hanno, invece, percepito. È evidente il cortocircuito: l’Amministrazione Penitenziaria - e il Ministero della Giustizia - si trova, suo malgrado, ad essere causa di discriminazione e di condotte contrarie alla legge, addirittura recidive, dimenticando così del tutto la funzione di rieducazione che deve invece essere garantita. Inoltre l’aumento delle spese di mantenimento che il detenuto deve corrispondere, l’assenza di condizioni di lavoro e che rispettino la dignità, che non può essere disatteso in un momento così delicato come l’esecuzione di una pena detentiva, comportano conseguenze economiche e sociali non più trascurabili, concorrendo ad allontanare sempre di più l’ideale di reinserimento successivo alla pena: una volta uscito dal carcere, infatti, l’ex detenuto è accompagnato da un debito gravoso che condiziona pesantemente il reinserimento e, talvolta, lo ostacola. Nonostante quindi il problema del lavoro in carcere, della sua retribuzione e della sua assenza sia stato ben analizzato, purtroppo, le soluzioni non si prospettano all’orizzonte in ragione di ovvie carenze di bilancio e di fondi conferiti all’Amministrazione Penitenziaria. Questa situazione, oltre alle condizioni delle strutture carcerarie e delle difficoltà di vita dei detenuti non meno che di lavoro delle guardie carcerarie, amplia sempre di più il divario tra quello che è previsto e quello che, purtroppo, si verifica nella realtà. *Giuslavorista per vocazione, vivo ed esercito la professione forense a Milano e mi occupo in particolare delle tematiche delle pari opportunità, discriminazioni di genere, molestie sul posto di lavoro. Voglio pensare che non ci siano "datori di lavoro cattivi" e "lavoratori buoni"; ma solo un buon diritto del lavoro, cosa che - ahimè - oggi non è così possibile affermare. "Le Rems rischiano di diventare manicomi giudiziari": parte il digiuno di Giovanni Augello Redattore Sociale, 13 aprile 2017 Il Comitato StopOpg lancia una staffetta del digiuno per chiedere di eliminare dal ddl di riforma del codice penale un comma che trasformerebbe le Rems nei vecchi Opg. A dar via al digiuno l’ex commissario Corleone: "Chiarire la natura delle Rems è una priorità assoluta". A pochi giorni dalla chiusura degli Opg, le Rems "rischiano di diventare a tutti gli effetti i nuovi Ospedali psichiatrici giudiziari per via di un comma del disegno di Legge "Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario". A lanciare l’allarme è il comitato StopOpg che da oggi fa partire una nuova staffetta del digiuno durante la discussione del ddl alla Camera, per "ottenere lo stralcio della norma in questione". Secondo il comitato, infatti, il rischio è quello di "riaprire la stagione degli Opg - spiega il comitato in una nota. Viene infatti ripristinata la vecchia normativa disponendo il ricovero di detenuti nelle Residenze per le misure di sicurezza (Rems) come se fossero i vecchi Opg". Ad avviare la staffetta l’ex Commissario unico per il superamento degli Opg, Franco Corleone, secondo cui il comma incriminato "con irresponsabilità e incompetenza prevede la possibilità che le Rems debbano accogliere oltre che le persone prosciolte per incapacità totale al momento del fatto (i folli rei), anche i condannati che manifestano una patologia psichiatrica in carcere durante l’esecuzione della pena (i rei folli), nonché i soggetti bisognosi di osservazione psichiatrica. L’argomento che viene usato ipocritamente è quello legato alla non idoneità delle previste articolazioni psichiatriche in carcere". Secondo Corleone, però, "una struttura che metta insieme prosciolti condannati, imputati, osservandi e, perché no, minorati psichici ha un nome e una storia. Si chiama manicomio giudiziario l’altro ieri e Opg ieri". Per l’ex commissario, quando si parla di salute e carcere servono modifiche chiare "per consentire tutta la gamma di misure alternative, sia l’affidamento come accade per i tossicodipendenti e anche l’incompatibilità con la detenzione. Sarà compito dei giudici di sorveglianza valutare e decidere - aggiunge. Bisognerebbe anche prevedere una diversa organizzazione dei servizi psichiatrici in carcere, che non può essere limitata alle articolazioni psichiatriche penitenziarie, destinate alle acuzie, alle osservazioni e alla cura dei soggetti con perizia di patologia psichiatrica, ma deve prevedere la presa in carico socio-sanitaria della generalità dei detenuti con problemi di disagio mentale". Di questioni aperte nel funzionamento delle trenta Rems, afferma l’ex commissario, ce ne sono. Ma bisogna stare attenti a non confondere l’attuale struttura con quelle del passato. C’è il problema delle dimensioni, "che vanno dalle due unità del Friuli Venezia Giulia ai 120 ospiti di Castiglione delle Stiviere - continua Corleone -; le problematiche dei soggetti senza fissa dimora, italiani e stranieri; le condizioni di vita delle donne non sempre rispettose del genere; la lista d’attesa a macchia di leopardo tra le diverse regioni; l’architettura delle strutture provvisorie e soprattutto di quelle definitive. La priorità assoluta sta, però, nel chiarire la natura delle Rems che a mio parere devono essere strutture riservate ai prosciolti definitivi (in ultima istanza) e non per misure provvisorie, decise magari senza perizia". La staffetta ha già diverse adesioni, come si può vedere sul sito internet di StopOpg, ma si può aderire scrivendo a redazione@stopopg.it. Al governo, l’appello affinché ci sia "un intervento deciso per rimuovere quanto inopinatamente la norma in discussione ha disposto - spiega il comitato StopOpg, a sostegno del faticoso processo di superamento degli Opg. Ci auguriamo che nella discussione alla Camera dei deputati ciò avvenga". Legittima difesa. Ristretta la colpa: l’errore da stress non è punibile di Eden Uboldi Italia Oggi, 13 aprile 2017 Si ampliano i casi di legittima difesa. Esclusa la colpa quando si agisce credendo erroneamente di trovarsi in tale circostanza. Questa è la proposta di legge a cui la commissione giustizia della camera ha dato ieri l’ok. Il provvedimento, a prima firma del deputato Pd Davide Ermini, potrebbe quindi già giungere nell’aula di Montecitorio il 19 aprile. Il testo in questione vorrebbe andare a modificare l’art. 59 del codice penale, che disciplina le circostanze non conosciute o erroneamente supposte del reato, aggiungendovi un quinto comma. Questa disposizione recita che, "nei casi di cui all’articolo 52, secondo comma, la colpa dell’agente è sempre esclusa quando l’errore è conseguenza del grave turbamento psichico causata dalla persona contro la quale è diretta la reazione". Ad accompagnare la proposta vi è una relazione in cui Ermini sottolinea la necessità di offrire garanzie, non solo per chi nella propria abitazione o attività commerciale si trovi costretto a difendersi, in modo proporzionato, quando non vi è desistenza e si avvisa un reale pericolo di aggressione, tutela già dettata dall’attuale disciplina dell’art. 52 c.p., ma anche per chi, erroneamente, agisce credendo di rientrare nella legittima difesa. Non vi può essere spazio per la responsabilità per eccesso di legittima difesa quando, a causa del forte stress emotivo, la persona percepisca una situazione apparentemente equiparabile a quella prevista dall’art. 52. Il parlamentare sottolinea la necessità di valutare caso per caso, escludendo in toto l’automatismo, specialmente per scongiurare omicidi dolosi camuffati da errori. Inoltre afferma che il concetto di "grave perturbamento psichico" trova facilmente una serie di indicatori oggettivi, che aiutano a identificare una circostanza di profondo turbamento. Infatti l’ora, la stagione in cui avviene l’aggressione, l’età delle persone coinvolte sono tutti elementi che incidono sul comportamento dell’agente. Il testo è stato licenziato senza modifiche dalla commissione, che ha respinto tutti gli emendamenti presentati. Il governo segue con attenzione la proposta sulla legittima difesa ma "la potestà punitiva appartiene esclusivamente allo stato, che deve garantire le misure più idonee a salvaguardare la sicurezza della collettività, anche al fine di scongiurare il dilagare di forme di giustizia privata", ha detto ieri il ministro della giustizia Orlando durante il question time di Montecitorio. Dai migranti alla legittima difesa, gli alleati vanno in pressing sul Pd di Paola Di Caro Corriere della Sera, 13 aprile 2017 Sì della Camera al decreto Minniti, Mdp vota contro. Protesta dei centristi sulla sicurezza. La maggioranza torna in forte fibrillazione dopo il caso Torrisi, e stavolta su due fronti opposti, con contrasti espliciti, pubblici e dichiarati. Da una parte infatti Mdp - il partito di Bersani e Speranza - ieri ha votato contro l’approvazione del decreto Minniti sull’immigrazione (approvato dalla Camera in via definitiva con 240 sì, 176 no e 12 astensioni), e ha scatenato l’ira del Pd; dall’altra l’approvazione in commissione Giustizia di Montecitorio del testo base sulla legittima difesa senza le modifiche che erano state presentate da più gruppi, ha sollevato le proteste dei centristi di Alternativa popolare, che ora chiedono un vertice di maggioranza con Pd e governo per un chiarimento su un tema sentito come cruciale. Le tensioni che arrivano insomma sia dalla sinistra che dalla destra della coalizione non fanno presagire una navigazione tranquilla del governo Gentiloni fino alla fine della legislatura. Per capire cosa potrà davvero accadere bisognerà attendere almeno le primarie del Pd e che si chiarisca il destino della legge elettorale, ancora impantanata in commissione e sulla quale non si intravede alcun accordo al momento. Il quadro appare insomma parecchio nebuloso. Lo scontro più duro ieri si è registrato fra Mdp e i loro ex compagni di partito, con il capogruppo del Pd Ettore Rosato secondo il quale il no di Mdp "destabilizza la legislatura" perché, sottolinea, "non si può sostenere il governo a pezzettini". "Avanspettacolo Mdp - accusa il renziano Marcucci. Ieri divisi su fiducia al governo, oggi alla Camera votano no al dl Minniti, che in Senato avevano votato". Se da Mdp (che due giorni fa al Senato sullo stesso voto si era divisa) ribadiscono che nel testo ci sono troppi punti oscuri e non è stato possibile "fare modifiche", un altro caso si apre a sera. Ed è quando la commissione Giustizia della Camera licenzia il testo base sulla legittima difesa, che verrà discusso in Aula dai primi di maggio, senza le modifiche che anche nella maggioranza erano state chieste. In particolare Ap, il partito di Alfano, chiedeva la possibilità che si potesse allargare il limite della legittima difesa, per cominciare invertendo l’onere della prova che ora è di chi la invoca. Al ministro Orlando - che ha spiegato come il principio ispiratore per il governo è che "la potestà punitiva appartiene solo allo Stato, che deve garantire le misure più idonee e scongiurare forme di giustizia privata" - ha replicato Maurizio Lupi: "Poi non ci lamentiamo del populismo e dell’esasperazione". Conclusione, anche in questo caso si chiede un chiarimento in tempi rapidi e certi, e la tensione sale. Legittima difesa, è scontro totale. Ap: ora vertice di maggioranza di Sara Menafra Il Messaggero, 13 aprile 2017 Non tira una bella aria nelle stanze della maggioranza che sostiene il governo. Almeno quando l’argomento di cui si discute è il testo sulla legittima difesa, tema su cui l’area centrista ha deciso di non concedere mediazioni. Ieri pomeriggi, la commissione giustizia della Camera guidata da Donatella Ferranti, ha mandato il testo di riforma all’aula così com’è, con diverse mediazioni sui singoli emendamenti e senza parere da parte del governo. Impossibile, almeno formalmente, far slittare il dibattito visto che la proposta legislativa, d’iniziativa parlamentare, è in quota "opposizione". E la Lega fin dall’altra sera ha deciso di far valere i propri diritti su un tema altamente popolare nella sua base elettorale e insistere per la calendarizzazione. Punta i piedi soprattutto Alternativa popolare, che non è disposta a mediare sull’argomento, tanto più dopo un paio di scontro in merito durante il Consiglio dei ministri. E dopo la presa di posizione, anche pubblica, a favore della proposta di iniziativa popolare dell’Italia dei valori, alla quale hanno partecipato il ministro per la Famiglia Enrico Costa e quello degli Esteri Angelino Alfano: "Il testo sulla legittima difesa voluto dal Pd, appena approvato dalla commissione Giustizia, è per noi assolutamente insufficiente. Non è questa la risposta che si aspetta l’opinione pubblica. In merito non arretreremo di un millimetro. Riteniamo importante per questo una riunione di maggioranza con il coinvolgimento del governo. Gli emendamenti di Ap sono stati tutti rigettati, ma è chiaro che continuerà il nostro impegno in Aula dove ripresenteremo le nostre proposte di modifica", ha dichiarato il capogruppo di Ap in commissione Giustizia alla Camera, Nino Marotta. Linea dura anche da parte del capogruppo di Montecitorio, Maurizio Lupi: "Che cosa intende fare il Governo perché l’onere della prova sia invertito da parte del cittadino, e perché non si possa assistere a casi assolutamente incredibili come quelli in cui, non solo un cittadino si vede invaso nella propria proprietà, ma addirittura il tribunale gli chieda un risarcimento nei confronti di chi è venuto a rubare in casa propria?". Per i democratici, però, le proposte degli alleati sono troppo dure. David Ermini, responsabile giustizia, un anno fa aveva proposto un testo che allargava le cause di giustificazione del reato commesso da chi si difende, sotto condizioni di "grave turbamento psichico". Eliminare l’eccesso colposo di legittima difesa, dicono sarebbe ai limiti dell’incostituzionalità. Dunque, la soluzione che si intravvede è, ancora una volta, quella dell’ennesimo binario morto. Magari non subito e non alla Camera. L’appuntamento in aula per il prossimo 19 aprile è solo formale. Il calendario di Montecitorio prevede prima di tutto il bio-testamento, poi si vota il Def. E infine dovrebbe arrivare il dibattito sulla legittima difesa. Alla Camera, visti i voti di cui dispone, il Pd potrebbe puntare alla forzatura e far approvare il testo Ermini così com’è, visto che anche il resto della sinistra è d’accordo e un sostegno o almeno la non belligeranza potrebbe essere garantita anche dai Cinque stelle. Al Senato, dove i numeri sono più ballerini, la norma sarà accantonata. Col rischio che se ne riparli solo dopo un nuovo caso di furto o rapina finito male. Il nuovo che avanza. Dal Decreto Minniti-Orlando alle parole di Luigi Di Maio di Luigi Manconi Il Manifesto, 13 aprile 2017 Tre notizie. La prima proviene dal circuito politico-mediatico e riporta le parole del vicepresidente della Camera, Luigi Di Maio, esponente di 5 Stelle e possibile candidato premier di quel partito: "L’Italia ha importato dalla Romania il 40% dei loro criminali". Ora, dico io, ma si può - superata l’acerba età dell’adolescenza e della beata innocenza - esprimersi in termini così grossolani? E con ricorso tanto sgangherato a cifre malamente lette e ancor più malamente interpretate? Questo per dire che al peggio non c’è mai fine e per farsi già ora un’idea di cosa può riservarci il nuovo che avanza. La seconda notizia giunge dal Parlamento e annuncia che ieri Camera e Senato hanno approvato in via definitiva i cosiddetti decreti Minniti-Orlando sul contrasto all’immigrazione illegale e sulla sicurezza urbana. Si tratta di una normativa che ha sollevato molte e robuste perplessità perché presenta forzature e strappi rispetto al nostro ordinamento giuridico, tali da configurare vere e proprie lesioni nel sistema di garanzie e diritti. Si arriva al punto di prevedere per gli stranieri una giustizia minore e diseguale, se non una sorta di "diritto etnico" - e uso questa formula con autentico disagio, che stabilisce significative deroghe alle garanzie processuali comuni. E infatti l’abolizione dell’appello, tutt’ora previsto anche per le liti condominiali e per le sanzioni amministrative, indebolisce gravemente il diritto alla difesa: per quanto riguarda il soggetto più vulnerabile tra tutti (il profugo) e per quanto riguarda un diritto inviolabile della persona, tutelato dalla nostra Costituzione, come il diritto d’asilo. Un’altra pesante limitazione al sistema delle garanzie, viene determinata dalle nuove norme sulla sicurezza urbana. L’introduzione della flagranza differita produce un perverso ossimoro: l’immediatezza, propria della flagranza, viene dilatata e prorogata fino a 48 ore, precariamente supportata da immagini videoregistrate, che sostituirebbero l’attualità delle procedure di arresto all’atto del compimento del reato. Inoltre, si estendono ulteriormente le misure di prevenzione (limitative della libertà personale, benché basate non sulla commissione di reati ma su meri sospetti sulla persona) e si introduce la nuova misura dell’allontanamento da (e del divieto di accesso a) determinati luoghi per esigenze di tutela del decoro urbano. Anche questa forma di "daspo", applicabile persino ai minori, è una misura che solo formalmente può dirsi amministrativa, dal momento che la sua sostanza incide fortemente sulla libertà, non solo di movimento. C’è, infine, un inequivocabile segnale del carattere innanzitutto declamatorio di queste misure. È possibile, infatti, che simili provvedimenti non siano principalmente indirizzati nei confronti dei senza fissa dimora, ma è pressoché inevitabile che a essi in primo luogo verranno applicati. E allora qualcuno dovrebbe avere la cortesia di spiegare come faranno i trasgressori - quell’umanità costituita da emarginati, non garantiti, senza tetto, affetti da tutte le patologie e da tutte le dipendenze - a pagare la sanzione pecuniaria, fino a 300 euro, prevista per chi violi "i divieti di stazionamento e di occupazione di spazi". Per queste ragioni, Walter Tocci e io, come già facemmo a proposito del decreto sull’immigrazione, ieri non abbiamo votato la fiducia al governo in materia di sicurezza urbana. La terza notizia non so se già può definirsi buona, ma va considerata senza dubbio promettente. In senso proprio: annuncia, cioè, qualcosa che ha tutte le premesse per realizzarsi. Sempre ieri, sempre tra Camera e Senato, mentre Luigi Di Maio si arrampicava sulle sue scempiaggini, e mentre venivano approvati i provvedimenti su immigrazione e sicurezza, si teneva una affollatissima conferenza stampa per presentare la campagna "Ero straniero. L’umanità che fa bene". La campagna sostiene un disegno di legge di iniziativa popolare che intende superare la Bossi-Fini e introdurre una serie di norme tra le quali i permessi di soggiorno temporanei per la ricerca di occupazione, la reintroduzione del sistema dello sponsor, la regolarizzazione su base individuale degli stranieri integrati, alcune misure per l’inclusione attraverso il lavoro dei richiedenti asilo e l’abolizione del reato di clandestinità. Il progetto, promosso in primo luogo da Emma Bonino e Don Virginio Colmegna, ha incontrato l’adesione attiva di un amplissimo numero di associazioni, movimenti, operatori e numerosi sindaci. Dunque, mentre il discorso pubblico sull’immigrazione continua a oscillare tra toni foschi e rappresentazioni catastrofiste, tra cronache criminali e allarmi sociali, qualcosa infine si muove. Se la politica, quasi tutta la politica, sembra volersi sottrarre alle proprie responsabilità, altri soggetti e altre culture cominciano a muoversi. Non è ancora troppo tardi. Il Decreto Minniti-Orlando riduce le garanzie processuali a chi ne ha più bisogno di Gaetano Azzariti Il Manifesto, 13 aprile 2017 La riduzione delle garanzie processuali per i richiedenti asilo contrasta con la nostra tradizione giuridica e costituzionale. Se, come si sostiene dalle parti del Governo, il decreto Minniti-Orlando è di sinistra, esso ne riflette lo stato confusionale. E mostra la difficoltà d’affrontare le questioni dell’immigrazione nel rispetto del principio della dignità delle persone. Quel che più colpisce è che la "sinistra al governo" si fa promotrice di una normativa che nega adeguata protezione proprio ai soggetti più vulnerabili, sbilanciando ulteriormente il già iniquo sistema giudiziario. Le nuove disposizioni eliminano un grado di giudizio nei casi in cui si sia negato al richiedente il diritto d’asilo. In tal modo si pensa di accelerare i processi, senza però tener conto che l’oggetto del giudizio riguarda un diritto fondamentale tutelato dalla nostra Costituzione dall’articolo 10. Sino ad ora questi diritti richiedevano una tutela rafforzata, adesso essa si attenua. È sintomatico che la riduzione dei tempi processuali riguardi i migranti e non magari i reati bagatellari. Ad aggravare il quadro è la riduzione delle garanzie nell’unico giudizio di merito rimasto (v’è poi solo la possibilità di ricorrere in Cassazione per violazione di legge, garantita dall’articolo 111 della Costituzione). Una delle misure previste appare assai significativa in quanto lesiva del diritto di difesa, nonché del principio del giusto processo garantiti in Costituzione dagli articoli 24 e 111. Nei processi relativi alle richieste di asilo non è infatti assicurato il contraddittorio, il giudice può decidere senza aver ascoltato l’interessato. Ciò comporta che l’unico momento in cui il migrante può esporre le sue ragioni a fondamento della richiesta d’asilo è nell’incontro con la Commissione territoriale. Un "colloquio personale" che, ovviamente, non può fornire nessuna certezza processuale: esso si svolge in assenza di ogni assistenza legale ed è da dubitare che gli interessati siano in grado di valutare correttamente la situazione e prospettare adeguatamente le complesse motivazioni a sostegno del loro diritto fondamentale. Un esame più accorto, che solo l’udienza pubblica con l’intervento delle parti davanti ad un giudice terzo e l’assistenza di un difensore può garantire, appare necessario non solo in ragione della tutela dell’interesse del migrante, ma anche per assicurare la correttezza della decisione. Dovrebbe, in effetti, essere tenuto in maggior conto l’interesse pubblico alla certezza del giudizio da salvaguardare sempre, ma tanto più in quei casi in cui, come ci viene continuamente ripetuto, può venire in gioco persino la sicurezza dello Stato. Anche da questo punto di vista la nuova normativa risulta irragionevole. In molti casi di richiesta d’asilo l’accertamento che deve essere compiuto si rileva particolarmente complesso, immaginare che tutto si possa risolvere in un’intervista videoregistrata appare assai superficiale. Un particolare rivela lo spirito essenzialmente securitario, nonché l’inadeguatezza del decreto. Una delle questioni più delicate delle politiche di accoglienza riguarda i Centri di identificazione ed espulsione (Cie). La Corte costituzionale ha indicato da tempo (sent. n. 105 del 2001) come il trattenimento dello straniero in simili luoghi rappresenti una misura che incide sulla libertà personale e che dunque debba essere garantito il rispetto delle garanzie dell’articolo 13 della Costituzione. Un legislatore consapevole e rispettoso dei principi costituzionali dovrebbe affrontare la questione e definire un sistema di trattenimento con - come scrive ancora la Corte - "finalità di assistenza" e che impedisca la "mortificazione della dignità dell’uomo che si verifica in ogni evenienza di assoggettamento fisico all’altrui potere". Il decreto per ora si limita a cambiare il nome dei Cei, ma non sembra preoccuparsi della natura sostanzialmente detentiva della permanenza coatta entro queste strutture. Un modo per sfuggire alla realtà di politiche migratorie le cui soluzioni sono certamente assai complesse che devono però essere costituzionalmente orientare. Questo dovrebbe essere l’obiettivo di una sinistra di governo e non solo al governo. Di Maio (M5S): "L’Italia importa criminali dalla Romania" di Luca Fazio Il Manifesto, 13 aprile 2017 Con un post sbadatamente razzista su Facebook il vice presidente della Camera provoca la reazione dell’ambasciatore rumeno e della comunità straniera più numerosa in Italia. Si scatenano anche i politici del Pd, gli stessi che hanno appena votato il decreto legge razziale Minniti-Orlando sull’immigrazione. Beppe Grillo non ha bisogno di consigli. Però qualcuno dovrà pur suggerire ai suoi sottoposti, specie quelli più in vista, come Luigi Di Maio, a contare fino a nove milioni prima di emettere un fonema, o di mettere due righe per iscritto sui social dove è più facile lasciarsi andare. Se non altro per rispetto al numero degli elettori che oggi sarebbero anche disposti a dargli il voto. E, in questo caso, per rispetto della più numerosa comunità straniera presente in Italia (i rumeni sono 1 milione e 151.395, il 22,9% di tutti gli stranieri residenti). Cosa ha detto questa volta? Per il vice presidente della Camera più gaffeur della storia repubblicana, "l’Italia ha importato dalla Romania il 40% dei loro criminali". Dunque se la matematica non è un’opinione, Luigi Di Maio, preso in contropiede dal suo solito afflato giustizialista, ha lasciato intendere che mezzo milione di rumeni stia mettendo a ferro e fuoco la penisola che ha esportato il brand criminale più noto nel mondo (basta un film di Scorsese). Possibile? La castroneria istintivamente razzista - se meditata - forse serviva a recuperare sul terreno della cattiveria xenofoba, proprio nei giorni in cui il tenero ministro degli Interni Minniti stava per licenziare il suo decreto legge razziale contro i migranti. Se è così, ci è riuscito alla grande. Tanto che il suo post alla Trump ha scatenato le reazioni delle autorità rumene e di tutto l’arco parlamentare (e di centinaia di persone che non l’hanno presa bene, tra cui molti elettori dei cinque stelle). "Quanti minestroni che fai caro Di Maio! Un po’ meno improvvisazione e più professionalità. Ti stai scavando la fossa da solo. Chi vuoi che ti voglia capo del governo! Neppure Grillo" - se la ride Marina tra centinaia di post meno educati. Il nostro, travolto dalle critiche, comprese quelle di moltissimi esponenti del Pd - come dire il bue che dà del cornuto all’asino - invece di chiedere scusa ha rilanciato con un compitino di sociologia criminale piuttosto spicciola: "C’è un fatto, che è inopinabile: il 40% dei ricercati con mandato internazionale emesso da Bucarest si trova in Italia. Non lo dico io, lo disse nel 2009 l’allora ministro rumeno della giustizia, dato confermato l’altro giorno dal procuratore di Messina Ardita. Motivo per cui non ho nessun motivo di mettere in dubbio questa affermazione". Ma allora significa che il 40% dei ricercati, anche in assenza del numero assoluto di questi ricercati, è un dato che sarebbe meglio non accostare con troppa leggerezza a tutti gli immigrati rumeni. Per di più è un dato del 2009, rispolverato con la peggiore delle intenzioni come farebbe un Matteo Salvini qualsiasi. Non è la prima volta che i pentastellati ci cascano. L’aspirante primo ministro, a sua giustificazione, lascia intendere che voleva stigmatizzare le inefficiente del sistema giudiziario che rischia di attirare manovalanza criminale. Ma ormai la frittata è fatta. Gli unici titolati a protestare sono i rumeni stessi. L’ambasciatore George Gabriel Bologan, con una lettera inviata al quotidiano La Stampa, si dice preoccupato e anche offeso. "La comunità romena è ben integrata, apprezzata per la sua presenza nel tessuto sociale italiano, per il contributo in vari campi. Molti dei miei onesti cittadini sono sui cantieri e i datori di lavoro li apprezzano e vogliono continuare a collaborare con loro, altri portano sollievo e assistenza a tante persone sole e immobilizzate, altri, medici e infermieri, fanno arrivare la speranza e il sorriso ai malati, altri che sono ingegneri, insegnanti, ricercatori, artisti, portano il loro contributo allo sviluppo del paese che hanno scelto per affinità culturale e spirituale". Più diretto Eugen Tertelac, presidente dell’Associazione romeni d’Italia. "Purtroppo - ha dichiarato - ci sono soggetti che fanno queste dichiarazioni populiste. Non mi riferisco a tutto il Movimento 5 Stelle, perché ci sono tanti militanti che penso non condividano le sue frasi. Secondo me ha sbagliato e dovrebbe chiedere scusa alla comunità rumena". Del Pd, che nel 2007 inaugurò la caccia al rumeno in seguito a un delitto commesso a Roma - Veltroni voleva espellere i rumeni dall’Italia per rimandarli non si sa dove visto che sono europei - riportiamo solo la dichiarazione della ministra Anna Finocchiaro: "Di Maio denigra intere comunità, noi approviamo leggi per maggiore integrazione dei migranti. Solo includendo avremo sicurezza e condivisione". Perché si commenta da sola. Le grida dell’on. Di Maio nel paese di Beccaria di Piero Sansonetti Il Dubbio, 13 aprile 2017 Il forcaiolismo, certo, aiuta a raccogliere consensi. Ma quanti danni produce alla nostra civiltà? Chi fomenta l’odio non calcola che alla fine l’odio travolgerà anche lui. L’on. Luigi Di Maio sostiene che il 40 per cento dei criminali romeni vengono a vivere in Italia. Lo dicevano anche di noi italiani, qualche decina di anni fa, i reazionari di Chicago, di New York, di Boston. Non era vero. E non è vero quello che dice Di Maio. Adesso però la questione non è quella di confutare le cifre del leader dei 5Stelle, che sono evidentemente fuori dalla realtà. Si tratta di capire come il mercato politico viene inquinato dalle tentazioni del populismo spicciolo. E quali danni provoca questo inquinamento, nello "spirito pubblico", e quali sono le conseguenze per la politica, per il rapporto tra politica e diritto e soprattutto per il rapporto tra diritto e opinione pubblica. L’ inquinamento non riguarda solo alcuni partiti, o alcuni giornali, ma - di volta in volta - un po’ tutti i partiti giornali gli schieramenti. Giorni fa, per esempio, un quotidiano sicuramente liberale e progressista come Repubblica - che spesso è oggetto degli strali dei 5 Stelle o della Lega - ha pubblicato molto vistosamente un titolo che era un po’ un manifesto. Diceva testualmente così: "Un arrestato per rapina su due è fuori dalla cella dopo un anno: "manca la certezza della pena". Ha avuto un grande successo questo titolo, è rimbalzato in decine di dibattiti Tv e in migliaia di post sul web. Nessuno ha messo in discussione la notizia, né ha provato a spiegarla. Eppure quella notizia conteneva un forte elemento di disinformazione. Le cose stanno così: su 10 mila persone che vengono arrestate in un anno per rapina, circa 3.500 vengono riconosciute innocenti. E dunque escono dalla cella perché, come immagino sappiate, la legge proibisce la carcerazione degli innocenti (non solo in Italia...). Poi ci sono circa 1.500 detenuti che dopo aver scontato una parte della pena hanno il diritto, perché così prevede la legge, di ricevere le pene alternative: per esempio la semilibertà (cioè, liberi e al lavoro di giorno e di nuovo in cella di notte), o i servizi sociali, o gli arresti domiciliari. Questo non vuol dire che "evadono" la pena detentiva, vuol dire semplicemente che le leggi in Italia, come in altri paesi di democrazia liberale, sono molto dure, talvolta anche inumane, ma non sono più esattamente quelle che si applicavano nel medioevo. In teoria, per esempio, non esiste più il carcere duro (anche se, di fatto, il 41 bis è una forma di carcere duro), non esiste più la tortura, le pene corporali, il pane e acqua. Dalla fine del settecento le scienze giuridiche hanno compiuto molti passi avanti, grazie anche a grandi personalità italiane, (la più famosa è Cesare Beccaria) ma questo non dovrebbe spingerci a vergognarci della nostra civiltà (e invidiare la Sharia, per esempio) e dei nostri grandi intellettuali (e invidiare, eventualmente, le legislazioni più dure o più arretrate). Un tipo come Luigi Di Maio capisce questo ragionamento? Sicuramente sì. Anche Matteo Salvini, lo capisce, figuriamoci se non lo capiscono gli esponenti del Pd, o di Forza Italia, o del Fdl che talvolta si fanno trascinare nel gorgo del forcaiolismo. Lo capiscono, ma trovano che siano ragionamenti che non aiutano a drenare il consenso. E che sia molto più facile drenare il consenso gridando "crucifige" (come denunciò quasi mille anni fa un poeta cattolico che si chiamava Jacopone da Todi) che non appellandosi alla saggezza di Cesare Beccaria, o ai pensieri di Calamandrei e degli altri padri della nostra Costituzione. Il calcolo, ovviamente, non è sbagliato. Urlare: "in prigioneeee, in prigioneeee" (come faceva una trentina d’anni fa un personaggio famoso di una fortunatissima e geniale trasmissione radiofonica di Renzo Arbore e Gianni Boncompagni) generalmente aumenta il consenso popolare. E anche, forse, la vendita dei giornali o gli ascolti in Tv. Sicuramente però riduce di molto il livello della nostra civiltà. Non solo della nostra civiltà giuridica, ma in genere dei criteri della convivenza. Di questo probabilmente si accorgono anche i magistrati., Alcuni dei quali - a partire, per esempio, dall’ex presidente dell’Anm Davigo, ma certo non solo da lui - hanno avuto un ruolo decisivo nel dare fiato e forza alla corsa giustizialista. Ma molti altri di questa campagna sono vittime. Perché la richiesta popolare, alimentata dai politici - e dal loro linguaggio ispirato all’odio e spesso sostenuto da informazioni false o forzate - diventa una richiesta di stravolgimento del diritto, che i magistrati, naturalmente, non possono assecondare. L’accusa lanciata da Repubblica, per esempio, sulle scarcerazioni facili, è una accusa ai giudici. Così come lo è, spessissimo, la protesta popolare, accarezzata dai giornali, per qualunque sentenza di assoluzione. L’idea che prevale è che il diritto sia diventato un lusso che una società moderna non può permettersi. E che la giustizia sia tanto più giusta quanto più punisce, è inflessibile, non perdona. È chiaro che montando questo clima diventa difficilissima la vita di chiunque si sia dedicato al diritto, a partire dai magistrati. C’è un modo per invertire la tendenza? Il punto di partenza può essere uno solo: la politica. Sarebbe necessario che nel mondo politico si aprisse una riflessione sui vantaggi e gli svantaggi del populismo. Spingere la società a imbarbarissi, a incattivirsi, a cancellare le gradi conquiste di civiltà degli ultimi settant’anni, conviene? Persino i populisti potrebbero capire che, alla fine, non conviene neppure a loro. La società dell’odio e della ferocia, col tempo, divora tutti: anche chi l’ha evocata. Il pm di Roma Pignatone: "Basta complicità tra certi giornali e certe Procure" di Errico Novi Il Dubbio, 13 aprile 2017 Sfida di Pignatone al dibattito del Cnf su inchieste e media. Nel pieno di una polemica sottile e curiosamente pubblica con i colleghi di Napoli, il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone ha il pregio di conservare ironia e aplomb. Ne fa mostra all’incontro su "Inchieste giudiziarie, diritto di cronaca e tutela dei dati personali" organizzato da Consiglio nazionale forense e Scuola superiore dell’avvocatura, in cui il capo dei pm capitolini è affiancato da correlatori di alto livello: la vicepresidente dell’Autorità garante della Privacy Augusta Iannini, il vertice dell’Unione Camere penali Beniamino Migliucci, il presidente del Cnf Andrea Mascherin e il vicepresidente della Scuola Salvatore Sica. Pignatone offre una relazione ampia, generosa, così elegante da nascondere quasi i passaggi più aspri. Ad esempio: "Certo, vanno evitati assi privilegiati tra singoli magistrati, o singoli uffici, e singole testate...", e poi passa ad altro come se si trattasse di un dettaglio marginale. Non cita né alcuni quotidiani che hanno una puntualità stupefacente nel rivelare segreti investigativi né Procure da cui quel segreto più spesso si propaga, per esempio quella di Napoli. Pignatone letteralmente non parla mai di Consip. Ma è come se lo facesse. Con ironia e dissimulazione, ma lo fa eccome. C’è un passaggio del suo intervento in cui spiega come sia un bene che gli uffici giudiziari comunichino: in particolare quando vengono eseguiti provvedimenti cautelari. "In questi casi il mio ufficio dà conto all’esterno di quello che è stato fatto: è il tema principale a Reggio Calabria, a Palermo, a Napoli è uno dei temi principali, non l’unico...". E che cosa intende dire a proposito della diversità partenopea? Che non sempre le misure sono comunicate e spiegate con la stessa tempestività o che in quell’ufficio lo si fa secondo criteri meno "universali" rispetto alle altre Procure? Il segreto: un flusso incontrollabile - In ultima analisi Pignatone spiega che "ci sono troppe persone che conoscono per forza di cose il contenuto delle intercettazioni: troppe perché si possa dire "la fuga di notizie deve per forza venire dal pm o dal maresciallo che ha ascoltato la telefonata": io ne conto almeno una decina nelle indagini meno complesse. E come si farebbe altrimenti", chiede il magistrato, "a coordinare il lavoro inquirente?". D’altronde, dice Pignatone, "sulle fughe di notizie aveva ragione Sciascia: le notizie non scappano, sono consegnate, e a consegnarle sono in tanti". Proprio il procuratore che per primo ha invitato con una circolare i propri sostituti e la polizia giudiziaria a trattare con cautela le intercettazioni sembrerebbe dire che il fenomeno è ingestibile. Poi però aggiunge un’altra cosa: "Noi a Roma seguiamo un criterio nei rapporti con la stampa: pochi comunicati, solo nei casi di maggiore complessità convochiamo informali incontri senza radio e tv. Ci teniamo a evitare che ci siano giornali privilegiati rispetto agli altri". Fa il paio con il discorso sugli assi tra certi uffici inquirenti e certi cronisti. Il capo dei pm romani arriva a un’ipotesi estrema: "Sarebbe meglio pubblicare gli atti sul sito della Procura. A disposizione di tutti, piuttosto che lasciar prevalere ipocrisie e favoritismi". Altra stoccata a quei colleghi che hanno il loro giornalista di riferimento. Dopodiché visto il livello degli interlocutori, il procuratore di Roma deve incassare qualche controdeduzione. Ad esempio quelle di Migliucci: "Impossibile negare che almeno il 75 per cento delle notizie sulle indagini provenga dal circuito inquirente". Si potrebbero muovere contestazioni anche ai pm romani: per esempio sugli "interrogatori in streaming" alla sindaca Virginia Raggi. "E sì, quell’espressione si deve forse all’appartenenza politica dell’interessata", scherza il magistrato, che poi però spiega: "C’è stata un’incredibile montatura: i siti di due settimanali e di un quotidiano pubblicarono le probabili domande. Ma le avrebbe sapute pronosticare anche un bambino che avesse dato appena un’occhiata ai giornali dei giorni precedenti". Augusta Iannini ricorda che la privacy delle persone casualmente chiamate in causa da atti giudiziari non può ridursi a incidente necessario. Sica rincara la dose e segnala che "un avviso di garanzia e il discredito che ne deriva costituiscono ormai condanne anticipate". Mascherin introduce la discussione con un appello: "Prendiamo atto che i social media stritolano la dialettica per come la conosciamo, e che tocca a chi condivide la cultura del diritto, cioè a magistrati e avvocati, trovare gli anticorpi". In apparenza Pignatone non vede la soluzione a cui tende il presidente del Cnf. Ma pur con la sua dissertazione apparentemente fatalista, rassegnata a un "sistema dell’informazione digitale che è troppo lontano da quella a cui è abituato uno della mia età", delle stoccate le mette a segno. Quando dice "la magistratura è molto sfaccettata, in maggioranza sensibile a questi temi, ma poi sono le minoranze che fanno la storia, o meglio la cronaca", si riferisce ai colleghi partenopei che danno fiducia al Noe da lui messo sotto inchiesta? Forse. In questo caso non c’è nulla di esplicito. Se non la tesi per cui "comunicare la giustizia è necessario, perché è giusto che l’opinione pubblica eserciti un controllo su un potere come quello giudiziario". Basta che tutto avvenga nella trasparenza. Non secondo assi privilegiati. Mai da un singolo pm a una singola testata. Le intercettazioni e la rappresentazione illusoria della giustizia di Massimo Krogh Il Mattino, 13 aprile 2017 Sul Mattino di ieri vi è un interessante commento di Nordio sulle intercettazioni senza regole legate all’inchiesta Consip che coinvolge anche il padre di Renzi. Purtroppo, non è il primo caso. Napoli in questi giorni ha visto vari arresti basati su accuse di collaboranti di giustizia ma anche su varie intercettazioni. Purtroppo non si sa che fine faranno questi nuovi processi, nell’intasamento che mette al muro il sistema giustizia. La riforma del processo penale è in corso, un problema pressante, visto che tutti sappiamo che il funzionamento del processo, vuoi penale vuoi civile, da tempo veleggia nel mare dei sogni. Le sentenze arrivano quando non servono più a nessuno, o peggio quando dal decorso inaccettabile del tempo chi sta dalla parte della ragione (civile) o del giusto (penale) ha già subito un calvario di danni, mentre chi sta dall’altra parte si è avvantaggiato del metafisico stallo processuale. In questo caos, che attinge alla cultura, meglio alla incultura giudiziaria e istituzionale del Paese, non mi aspetto grandi risultati dalla riforma in corso; le leggi non colmano vuoti culturali antichi. Nell’ambito di questa riforma assume, naturalmente, importante rilievo proprio il tema delle intercettazioni. Lo scopo prevalente della riforma è di garantire la riservatezza delle comunicazioni, evitare la diffusione all’esterno delle informazioni, ed anche risparmiare sulle spese che questo strumento investigativo comporta. I lavori parlamentari non dovranno trascurare che il rapporto tra il processo penale e l’informazione può essere di grande ambiguità, con riflessi tutt’altro che neutri nel processo. Sono note le fughe di notizie, le violazioni della privacy e le conseguenti strumentalizzazioni che investono il mondo della giustizia. Con il progresso cresce e si globalizza anche il crimine organizzato, che nel nuovo assetto sociale investe aggressivamente l’area della pubblica amministrazione, del sistema societario, bancario e così via. Insomma, una offensività così diffusa da rendere difficoltosa la ricerca di strumenti di difesa effettivamente adeguati. Per tornare sulle intercettazioni, si tratta di uno strumento investigativo molto invasivo, che da noi ha assunto un ruolo prevalente, nel senso che resta lo strumento di indagine preferito da tutti gli investigatori; ma in verità dovrebbe essere uno strumento di supporto delle indagini, e non il loro centro motore. Gli Stati Uniti sono un Paese molto più grande di noi, eppure noi li superiamo di gran lunga per numero di intercettazioni. L’affidamento a questo strumento investigativo ha indebolito gli altri strumenti di indagine, sicché nella fase delle indagini, per un uso sbilanciato delle intercettazioni, talvolta possono restare oscurati aspetti che andrebbero invece messi in luce, e per altro verso può avvenire una fuoriuscita d’informazioni e una presenza mediatica del pubblico ministero, che snatura lo svolgimento del processo, identificandolo con le indagini piuttosto che con la sentenza, che esce quando non importa più a nessuno. Penso di non allontanarmi dalla realtà dicendo che in tal modo il processo penale può ridursi ad una rappresentazione illusoria della giustizia, mostrando all’opinione pubblica come reale e definito ciò che, poi, resta invece per lunghissimi tempi indefinito. Nella complessiva vicenda, non dovrebbe mai essere carente l’autocensura del giornalista nell’esercizio della funzione, e non andrebbe dimenticato che gli articoli 15 (libertà e segretezza delle comunicazioni) e 21 (libertà di opinione e di stampa) della Costituzione non sono solo norme giuridiche quanto valori d’una società matura e civile. Detenute madri: nessun automatismo nel no ai domiciliari di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 13 aprile 2017 Corte costituzionale - Sentenza 12 aprile 2017 n. 76. Non si può negare in automatico il beneficio dei domiciliari alla detenuta madre. L’automatismo bollato come illegittimo dalla Corte costituzionale (sentenza n.76) é quello previsto dall’articolo 47-quinquies, comma 1 bis della legge 354/1975 (sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), che "allarga" la possibilità dei domiciliari anche alle detenute madri (con figli minori di 10 anni) con una condanna superiore a 4 anni. A non essere in linea con la Carta è la parte della norma che preclude il beneficio alle madri condannate per uno dei delitti indicati dall’articolo 4-bis della stessa legge. Un elenco di reati, secondo la Consulta "complesso, eterogeneo, stratificato e di diseguale gravità". A sollevare i dubbi di costituzionalità è stato il Tribunale di Sorveglianza di Bari, impegnato nel procedimento relativo a una detenuta, condannata a 7 anni per traffico di droga. La donna, ammessa ai domiciliari, aveva chiesto in vista del terzo compleanno del figlio, di poter prorogare il beneficio. Secondo il giudice remittente la preclusione alle modalità agevolate di espiazione della pena é in contrasto con gli articoli 3,29, 30 e 31 della Costituzione. La norma, precisa il Tribunale di sorveglianza, é ispirata alla volontà di far prevalere la pretesa punitiva dello Stato rispetto alle esigenze, che dovrebbero essere preminenti, di tutela della maternità e del minore e in più vanifica anche la ratio della detenzione domiciliare speciale tesa a ripristinare la convivenza tra madri e figli. E la Consulta conferma che l’espressa esclusione è incostituzionale. Il Giudice delle leggi ricorda che, in più occasioni, la Corte ha sottolineato la speciale rilevanza dell’interesse del figlio minore a mantenere un rapporto continuativo con ciascun genitore che deve poterlo curare, educare e istruire. Diritti codificati dall’ordinamento internazionale (Convenzione di New York 1989 e Carta dei diritti fondamentali di Strasburgo 2007), secondo il quale la preminenza dell’interesse del minore deve essere riconosciuta in tutte le decisioni adottate dalle autorità pubbliche. Il bilanciamento con le esigenze di difesa sociale sottese alla necessaria esecuzione della pena inflitta al genitore é rimesso alle scelte del legislatore, attraverso regole legali che determinano in astratto i limiti entro i quali i diversi principi possono trovare un’equilibrata tutela. Ma il legislatore non può negare "in radice" alla madre l’accesso al beneficio tramite il ricorso a presunzioni insuperabili, che impediscono al giudice di valutare caso per caso le esigenze di difesa sociale. Così non si si é più in presenza di un bilanciamento tra principi "ma al cospetto dell’introduzione di un automatismo basato su indici presuntivi, che comporta un totale sacrificio dell’interesse del minore". Non è vietato dunque differenziare il trattamento penitenziario per le madri condannate, ma la preclusione assoluta del beneficio lede l’interesse del minore e dunque la Costituzione. Parcheggiare nello spazio per i portatori di handicap è un reato penale di Maria Elena Vincenzi La Repubblica, 13 aprile 2017 Per la prima volta la Corte di Cassazione riconosce il reato penale. La vittoria di una donna palermitana dopo otto anni di processo. Aveva lasciato la sua macchina parcheggiata in un posto riservato ai disabili per circa 16 ore. Adesso, a distanza di otto anni, è stato condannato in via definitiva a quattro mesi di carcere. L’accusa? Violenza privata. Parcheggiare nello spazio per i portatori di handicap è un reato penale. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, chiamata a decidere sulla vicenda di due cittadini palermitani. Lui, Mario Milano, l’automobilista irrispettoso di 63 anni; lei, la donna che lo ha querelato, Giuseppina, una disabile di 49 anni, che aveva un parcheggio sotto casa assegnato nominalmente. Non era un posto disabili generico, era proprio il suo, con il suo numero di targa. La vicenda, sulla quale la quinta sezione penale della Suprema Corte ha messo la parola fine, era iniziata nel maggio del 2009. Una mattina la donna, rientrando a casa con un’amica, aveva trovato il suo posto occupato. Erano circa le 10.30. Giuseppina era stanca - ha problemi fisici gravi - non vedeva l’ora di riposare un po’. Peccato che il posto riservato alla sua auto fosse occupato. È iniziata così la trafila che i disabili conoscono fin troppo bene: diverse chiamate alla polizia municipale che, però, non poteva intervenire perché, questa la risposta che le fu data, "tutti gli agenti erano impegnati in una riunione con il comandante". Passano ore. La donna, ormai fisicamente provata, va dai carabinieri di zona. Nemmeno loro possono fare granché se non inoltrare la richiesta ai vigili. Insomma una giornata nera che si conclude solo alle 2.30 del mattino, quando la macchina viene finalmente caricata sul carroattrezzi e portata via. Giuseppina se la prende. Quel disinteresse offende lei, la sua malattia e la civiltà. E così decide di querelare il proprietario della macchina. Chissà che magari la sua esperienza non possa servire da lezione. È l’inizio di un lunghissimo iter processuale. L’uomo prova a difendersi dicendo che la macchina era sì intestata a lui, ma che in quei giorni la stava utilizzando suo figlio. La sua versione però non convince i magistrati: non c’è prova che l’auto sia stata parcheggiata nel posto di Giuseppina da suo figlio o da sua nuora. In primo grado, il 63enne viene condannato a quattro mesi dal giudice monocratico di Palermo. Sentenza che viene confermata in appello. Milano non si arrende e decide di ricorrere per Cassazione. Anche a piazza Cavour ribadisce le stesse giustificazioni: non può essere condannato perché non è stato lui a parcheggiare lì. Niente da fare. Gli ermellini confermano: 4 mesi per violenza privata. È la prima volta che accade. E la sentenza è destinata a fare scuola e, magari, a insegnare qualcosa ai cittadini: perché da oggi, parcheggiare sulle strisce gialle riservate nominalmente a un disabile non è più solo un’infrazione del Codice della strada, dalla quale si esce con una multa (per quanto salata). Ma può costare una condanna penale per violenza privata con tanto di risarcimento alla parte offesa. In questo caso 5mila euro più tutte le spese processuali. Gratuito patrocinio, la ratifica successiva esclude il contributo unificato di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 13 aprile 2017 Corte di cassazione - Ordinanza 12 aprile 2017 n. 9538. Il tribunale non può condannare la parte soccombente al pagamento del contributo unificato perché ritiene illegittimo il provvedimento di ammissione al gratuito patrocinio, in quanto emesso dal presidente dell’ordine forense e in mancanza della ratifica dell’organo collegiale, qualora la ratifica sia stata successivamente depositata in udienza. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con l’ordinanza 12 aprile 2017 n. 9538, accogliendo, sotto questo profilo, la doglianza della ricorrente per il resto condannata a risarcire i danni provocati alla vettura di proprietà di un terzo di cui aveva perso il controllo mentre era alla guida. Secondo la ricorrente, il Tribunale, al pari del giudice di primo grado, "avrebbe "violato e omesso l’applicazione" dei principi informatori in materia di valutazione del danno e di insussistenza del pagamento del contributo unificato in caso di ammissione a gratuito patrocinio, oltre ad omettere l’esame sui fatti decisivi del concorso colposo del danneggiato e del deposito delle delibera di ratifica dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato". La Suprema corte nell’accogliere il motivo ha affermato che il giudice di secondo grado "non ha tenuto conto del deposito all’udienza del 29 aprile 2014 della attestazione, in data 26 febbraio 2014, sottoscritta dal Presidente del Consiglio dell’ordine degli avvocati di Taranto della ratifica di detto Consiglio dell’ordine del provvedimento urgente di ammissione al patrocinio a spese dello Stato del 16 gennaio 2014 avvenuta alla riunione del 28 gennaio 2014". Sicché, prosegue la sentenza, "in presenza della ratifica da parte dell’organo competente (ex articolo 126 del Dpr n. 115 del 2002) a provvedere sull’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, il contributo unificato non è dovuto dalla ricorrente ai sensi del combinato disposto di cui agli articoli 11 e 131 (del medesimo Dpr n. 115 del 2002), che ne prevedono la prenotazione a debito". L’articolo 131, infatti, tra gli effetti dell’ammissione al patrocinio, prevede espressamente che è prenotata a debito la spesa per il contributo unificato nel processo civile, nel processo amministrativo e nel processo tributario. Ne consegue, argomenta la Corte, anche la non debenza del pagamento dell’ulteriore importo (ai sensi dell’articolo 13, comma 1-quater) dovuto quando l’impugnazione, anche incidentale, è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile. In questi casi, infatti, la norma prevede che la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione. In tema di ammissione anticipata da parte del Consiglio dell’ordine degli avvocati, l’articolo 126 del Dpr 115/2002 prevede che "Nei dieci giorni successivi a quello in cui è stata presentata o è pervenuta l’istanza di ammissione, il consiglio dell’ordine degli avvocati, verificata l’ammissibilità dell’istanza, ammette l’interessato in via anticipata e provvisoria al patrocinio se, alla stregua della dichiarazione sostitutiva di certificazione prevista, ricorrono le condizioni di reddito cui l’ammissione al beneficio è subordinata e se le pretese che l’interessato intende far valere non appaiono manifestamente infondate". "Copia dell’atto con il quale il consiglio dell’ordine accoglie o respinge, ovvero dichiara inammissibile l’istanza, è trasmessa all’interessato e al magistrato". "E se il consiglio dell’ordine respinge o dichiara inammissibile l’istanza, questa può essere proposta al magistrato competente per il giudizio, che decide con decreto". Le spese per la custodia dei cani maltrattati gravano sul Comune di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 13 aprile 2017 Corte di Cassazione - Sezione IV - Sentenza 11 aprile 2017 n. 18167. In caso di reato contro gli animali è sempre prevista la confisca dei medesimi e il loro affidamento presso adeguate strutture, con l’obbligo per lo Stato, durante il procedimento penale, di farsi carico delle spese di custodia. Tuttavia, dopo il passaggio del giudicato del provvedimento che ha disposto la confisca, l’onere del mantenimento grava sul Comune, il quale sarà tenuto a pagare le spese per la custodia degli animali. A precisarlo è la Cassazione con la sentenza n. 18167 dell’11 aprile 2017. I fatti - Protagonista, suo malgrado, della vicenda è il titolare di un canile situato nella provincia di Cuneo a cui erano stati affidati in custodia giudiziaria 8 cani meticci, sequestrati al proprietario perché indagato, e poi condannato, per il reato di maltrattamento di animali. In seguito, nel decreto penale di condanna si disponeva la confisca degli animali, che rimanevano in custodia presso lo stesso canile, con la previsione che le spese per il mantenimento degli animali fossero a carico di due Comuni della zona, ciascuno in relazione ai cani che si trovavano nel rispettivo territorio. Degli 8 cani, tuttavia, soltanto per 2 di essi uno dei Comuni interessati aveva provveduto al pagamento delle spese di custodia, mentre altri 3 erano deceduti e altri 3 ancora continuavano ad essere in custodia presso il canile, che continuava a sobbarcarsi le spese per il mantenimento degli animali. A distanza di anni, poi, il titolare del canile rivolgeva la propria domanda di liquidazione al giudice dell’esecuzione chiedendo di integrare l’originario decreto penale di condanna. La decisione - La Cassazione ritiene infondato il ricorso perché basato sull’erroneo presupposto della sussistenza di una perdurante responsabilità dello Stato per le spese di custodia, essendo, altresì, emerso che lo stesso canile svolgeva il servizio di mantenimento dei cani randagi per conto del Comune, ricevendone dallo stesso un compenso annuale. Ciò posto, la Corte coglie l’occasione per enucleare alcuni importanti principi in materia di tutela degli animali, in particolare in riferimento alla corretta definizione della competenza pubblica in materia di spese per il mantenimento degli animali confiscati in seguito a provvedimenti giudiziari. Il quadro giuridico - I giudici di legittimità, innanzitutto, procedono ad una ricostruzione sistematica della normativa in materia di tutela degli animali sul piano internazionale: dalla Dichiarazione Universale dei diritti degli animali, proclamata a Parigi nel 1978, alla Convenzione europea per la protezione degli animali da compagnia, firmata a Strasburgo nel 1987, passando per l’articolo 13 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, che ha riconosciuto gli animali come "esseri senzienti". Quanto alla legislazione nazionale, si dà atto della legge 281/1991, sulla prevenzione del fenomeno del randagismo, della legge 473/1993 sulla tutela degli animali contro ogni forma di maltrattamento, fino all’introduzione nel Codice penale del Titolo IX bis "Dei delitti contro il sentimento degli animali". Il Comune deve farsi carico della custodia - In tale quadro giuridico, nel caso di specie, assumono rilievo, in particolare, l’articolo 544-sexies del codice penale, che prevede la confisca obbligatoria dell’animale vittima del reato, e l’articolo 19 delle disposizioni attuative del codice penale, che prevede che gli animali confiscati siano affidati alle associazioni o enti che ne facciano richiesta e che diano adeguate garanzie. In mancanza di enti o associazioni si pone, dunque, il problema dell’ente pubblico che deve farsi carico del mantenimento. E tale ente, come indicato dall’originario decreto di condanna, è il Comune. L’ente locale, infatti, ai sensi delle norme dettate in materia di tutela degli animali, "è da ritenersi responsabile del benessere degli animali presenti sul territorio comunale, rispetto ai quali vanta una posizione di garanzia, che comporta l’obbligo di far fronte al loro mantenimento in caso di confisca". Se, dunque, durante il procedimento penale deve ammettersi una responsabilità dello Stato per le spese di custodia, dopo il passaggio del giudicato del provvedimento che ha disposto la confisca l’onere grava sul Comune. Trieste: il nuovo Garante dei diritti dei detenuti è l’avvocato Elisabetta Burla triesteprima.it, 13 aprile 2017 Il Garante ha una funzione sia d’osservazione che d’impulso per promuovere e rendere effettivo l’esercizio dei diritti e delle opportunità di partecipazione alla vita civile delle persone detenute. Il Consiglio comunale ha recentemente nominato l’avvocato Elisabetta Burla, garante dei diritti dei detenuti. Il garante è un’importante figura di coesione tra territorio, Istituzioni e persone detenute, ha una funzione sia d’osservazione che d’impulso per promuovere e rendere effettivo l’esercizio dei diritti e delle opportunità di partecipazione alla vita civile delle persone detenute permettendo loro di fruire - nei limiti dettati dal vincolo custodiale - dei servizi comunali. Particolare attenzione viene riservata ai diritti fondamentali come quello al lavoro, alla formazione, alla cultura all’assistenza e alla tutela della salute. Tale compito andrà svolto anche organizzando iniziative volte alla sensibilizzazione pubblica sul tema di diritti umani delle persone detenute e all’umanizzazione della pena detentiva anche in collaborazione con le associazioni di volontariato presenti sul territorio alcune delle quali già da tempo operano all’interno della Casa Circondariale di Trieste apportando il loro concreto contributo al fine rieducativo della pena. Il garante fa capo all’Area Polizia Locale e Sicurezza del Comune, le cui deleghe di funzione sono affidate al vicesindaco Pierpaolo Roberti. L’Ufficio si trova in via Genova 6 (2° piano, stanza n°239; telefono 040.675.8460; mail garantedetenuti@comune.trieste.it) con orario al pubblico il martedì dalle 17.30 alle 18.30 e il giovedì dalle 17.00 alle 18.00. Asti: i detenuti di Quarto faranno risparmiare gli astigiani sulla tassa dei rifiuti di Selma Chiosso La Stampa, 13 aprile 2017 "Dove lo butto il bicchierino di caffè?". È nata di qui, da una domanda dell’assessore all’ambiente Maria Bagnadentro, durante una visita in carcere, l’idea dei detenuti di "fare la differenza" differenziando i rifiuti. E così la casa di reclusione di Asti, carcere ad alta sicurezza, si presenta alla città come un esempio virtuoso. Come un piccolo paese - I suoi "abitanti" sono circa 350, come uno dei tanti piccoli paesi dell’Astigiano. Tutti "differenzieranno" l’immondizia soprattutto l’organico che diventerà compost. Ciò significherà un risparmio per tutta la popolazione astigiana, perché farà scendere la tariffa dei rifiuti. Lo ha spiegato l’assessore Bagnadentro: "La legge prevede uno sconto sulla Tari per i Comuni che praticano l’auto-compostaggio. Per avere una idea basta pensare che una tonnellata di indifferenziato costa 190 euro di cui 90 sono di umido". È come nella canzone di Guccini: dal letame inteso come umido, nascono i fiori, vale a dire attenzione all’ambiente, concime naturale per l’orto, risparmio e anche occupazione perché a rotazione saranno 8 i detenuti che lavoreranno in questo settore. Protagonisti - Protagonisti dell’iniziativa "Scarto Zero" sono oltre a carcere e Comune, Gaia e Asp. Ieri mattina il direttore della casa di reclusione Elena Lombardi Vallauri ha firmato un "protocollo" con i rappresentanti degli enti che impegna il carcere alla raccolta differenziata e a fare il "compostaggio di comunità", in pratica il concime per l’orto e il frutteto. Ed è anche questo un fiore. L’anno scorso, infatti, il compost per l’ azienda agricola del carcere era stato donato da Gaia, adesso sarà prodotto in modo autonomo. Iniziativa solidale - È un progetto solidale dove ognuno fa la sua parte: Gaia offre la formazione per dividere i rifiuti e farli "rivivere"; Asp dona le attrezzature; il Comune ha fatto da volano e applicherà lo "sconto" sulla tassa rifiuti del 2018. Il direttore - Elena Lombardi Vallauri: "Abbiamo poche risorse ma questo genere di progetto non va ad incidere se non positivamente. I rifiuti non finiranno più in sacconi neri ma saranno raccolti negli appositi contenitori. Ciò permette anche di fare un "calendario" della raccolta. Ci sarà quindi lavoro per i detenuti e più ordine. Sono stupita della velocità e passione con cui il Comune ha accolto la nostra richiesta. Un modo di agire non usuale nelle pubbliche amministrazioni. Il fatto che il carcere sia diventato casa di reclusione ci permette di fare ragionamenti a lungo termine. La cooperativa Sinergia sperimenterà il compostaggio per la nostra azienda agricola con benefici per tutti. Il carcere produce molti rifiuti, abbiamo anche due cucine. Finora la differenziata veniva fatta negli uffici con la raccolta della carta, secondo la sensibilità di ognuno. Adesso diventiamo tutti insieme una comunità virtuosa". Educazione ambientale - Una linea di condotta trasversale che in nome dell’ambiente unisce i detenuti e chi lavora in carcere. L’educazione ambientale e il rispetto per la natura sono diventati argomenti di crescita anche per l’impegno degli educatori, del capo area trattamentale Maria Vozza e dell’attività svolta dai volontari di Effatà. In quest’ottica l’enciclica "Laudato si" è stata argomento di riflessione per religiosi e laici, perché coma ha detto Papa Francesco "Tutti devono tutelare la fertilità della terra per le generazioni future". Lucera (Fg): la raccolta differenziata arriva in carcere luceraweb.eu, 13 aprile 2017 Una cittadella nel cuore della città, con almeno trecento persone all’interno tra detenuti e personale di servizio, finora esente da qualsiasi gestione virtuosa dei rifiuti. Nel giro di poco tempo questa lacuna verrà colmata, visto che anche nel carcere di Lucera andrà in vigore la raccolta differenziata, fin dentro ogni singola cella. Lo ha stabilito un protocollo di intesa firmato nei giorni scorsi tra la direzione della casa circondariale, rappresentata da Giuseppe Altomare, e l’Amministrazione comunale con il sindaco Antonio Tutolo e il suo vice Fabrizio Abate. I termini prevedono che tutto l’istituto sarà dotato dall’azienda Tecneco di appositi contenitori e buste per la differenziata, e di contro il carcere otterrà una riduzione della Tari. In effetti le necessità e le intenzioni di Palazzo Mozzagrugno, cioè di aumentare quanto più possibile la percentuale che attualmente sfiora il 50%, hanno incontrato le disposizioni dell’Amministrazione penitenziaria che ha invitato ad adeguare tutte le strutture italiane, cogliendo anche l’occasione di educare e sensibilizzare la popolazione detenuta alle corrette pratiche in materia. Per di più in Piazza Tribunali saranno individuate delle vere e proprie unità lavorative da incaricare per la gestione di tutto il ciclo dei rifiuti che seguirà quello già in vigore in città. Intanto continuano le attività coordinate dalla Responsabile dell’Area Trattamentale Cinzia Conte, e finalizzate a una maggiore interazione tra la comunità locale e il mondo penitenziario. Dopo vari laboratori e iniziative anche a supporto delle famiglie dei detenuti, lunedì scorso si è pure disputata una partita di calcetto con una formazione provinciale dell’Associazione Italiana Giovani Avvocati, risvolto sportivo che qualche mese fa aveva coinvolto la categoria dei padri. Varese: dal carcere al lavoro in Comune prima di riconquistare la libertà di Valeria Vercelloni varesenews.it, 13 aprile 2017 Con una convenzione fra istituto ed ente locale, Italo ha lavorato sei mesi. "Il problema arriva quando esci e non hai un progetto". Uscire ogni mattina alle 7 per andare al lavoro e tornare ogni sera alle 18. Una giornata normale, fatta di orari e impegni. Ma con qualche dettaglio diverso: le chiavi di casa infatti non ci sono perché ogni mattina, e ogni sera, sono gli agenti di Polizia penitenziaria ad aprire i cancelli al detenuto/lavoratore. Succede a Varese dove Italo, ex detenuto ora tornato in libertà dopo aver scontato la pena, ha passato gli ultimi sei mesi di detenzione al lavoro fuori dalla Casa Circondariale. Si chiama "Articolo 21? ed è quello che dà la possibilità di avere un lavoro fuori o dentro il carcere. Nel suo caso il lavoro era esterno e si svolgeva, grazie a una convenzione sottoscritta anni fa, nel Comune di Varese. "È stata una bellissima esperienza - ci racconta Italo, tornato a casa da circa un mese. Il mio compito era quello di seguire la squadra impegnata nei sopralluoghi sui corsi d’acqua, sui dissesti idrogeologici e per la difesa del suolo. Ho avuto anche occasione di lavorare in ufficio". Prima di Italo altre due persone avevano già lavorato in Comune a Varese e a breve potrebbe aprirsi un’occasione per un altro detenuto. Il lavoro è iniziato l’1 settembre 2016 e concluso il 28 febbraio 2017. "Da un punto di vista professionale è stata un’esperienza molto valida e da un punto di vista umano sono stato molto fortunato. Le persone mi hanno accolto senza pregiudizi. Ovviamente all’inizio c’è stata un po’ di curiosità sul mondo carcerario, ma è normale che sia così". Ed è anche grazie all’istituto di via Felicita Morandi che Italo ha potuto lavorare in quei sei mesi. "Quella di Varese non era la mia prima detenzione e prima ero stato in carceri più grandi - ci spiega. Ma questa ai Miogni è stata sicuramente la più istruttiva e la più costruttiva. Gli istituti piccoli funzionano meglio e danno più possibilità. Sei sotto i riflettori, nel bene e nel male". Per accedere all’Articolo 21 la persona detenuta deve avere un percorso di reinserimento positivo. "Sono stato fortunato, è vero, ma questa opportunità me la sono anche meritata. È stata una sfida con me stesso - ragiona Italo. Secondo me il carcere dovrebbe essere un "servizio" sia verso la comunità che verso i detenuti, non un luogo in cui chiudere la "gente cattiva". È giusto scontare la pena, ma il problema è quando la persona esce. Uscire e trovarti con un sacchetto in mano senza sapere dove andare non aiuta nessuno. Manca una rete e a volte manca anche la volontà dell’ex detenuto. In questo quadro, unito ai pochi mezzi e alla carenza di lavoro, diventa molto dura per un ex detenuto. È un percorso difficile che deve partire dalla persona e dalla struttura". Le ultime settimane di lavoro in Comune hanno coinciso per Italo con la fine della detenzione. "Era un momento che attendevo con ansia, ma si è unito al dispiacere per il lavoro che non poteva proseguire. Quando sono a Varese, passo sempre in ufficio a salutare". Italo non è di Varese, ma per motivi burocratici (a un detenuto con pena definitiva viene assegnata come città di residenza quella del carcere) sta affrontando un percorso di ricerca lavoro con il Uepe (Ufficio Esecuzione Penale Esterna) varesino. "Con gli operatori che mi seguono, abbiamo costruito un progetto di ricerca lavoro mirato a precisi tipi di azienda. Quando fai un colloquio c’è sempre un "buco" di storia lavorativa da raccontare, sta al buon cuore di chi ti ascolta darti una possibilità". Un futuro a Varese, quindi. "Sì, mi piacerebbe rimanere qui, anche per cambiare aria da dove mi conoscono tutti. Varese mi piace molto come città, c’è molto verde ed è a misura d’uomo". Torino: in vendita le tavolette di cioccolato "Il sapore della libertà" quotidianopiemontese.it, 13 aprile 2017 Realizzate dai detenuti del Ferrante Aporti. A partire da metà aprile 2017 saranno in vendita le tavolette di cioccolato "Il sapore della Libertà" - iniziativa promossa da Murialdofor onlus, Gruppo Spes e Parco Nazionale Gran Paradiso, realizzate dai giovani detenuti dell’Istituto Penitenziario Minorile Ferrante Aporti di Torino coinvolti nel progetto Spes@Labor. Sono tre le varianti di tavolette di cioccolato prodotte, latte, fondente e fondente gentile con granella di nocciola tostata caramellata, facilmente riconoscibili dal packaging realizzato ad hoc con le immagini del Parco Nazionale Gran Paradiso. L’Ente ha sposato il progetto e lo slogan "Il Sapore della libertà", espressione del legame simbolico tra la sensazione di libertà che è possibile vivere nell’area protetta, e l’indipendenza dei giovani detenuti che tramite il lavoro godono di una piccola forma di autonomia all’interno del carcere. Spes@Labor è un progetto di Comunità Murialdo Piemonte e Gruppo Spes iniziato nel 2013 in collaborazione con l’Istituto Penale per Minorenni Ferrante Aporti di Torino, che mira al reinserimento di giovani detenuti all’interno del tessuto sociale, mediante interventi di inclusione lavorativa e professionale. Il programma prevede l’apprendimento delle competenze dell’addetto alla produzione del cioccolato attraverso la formazione teorica e la pratica nel laboratorio allestito all’interno del carcere. In parallelo l’attività educativa fa sì che l’esperienza pratica diventi per il giovane anche occasione per relazionarsi e imparare a "fare bene insieme" in un luogo, il laboratorio del cioccolato, dove vengono privilegiati ascolto e condivisione. In questi anni il progetto si è evoluto dando priorità al percorso teorico ed educativo per formare i giovani ad essere realmente pronti all’esterno, nel lavoro e nei rapporti con il prossimo. I ragazzi coinvolti vengono anche in piccolo retribuiti attraverso le borse lavoro di cui beneficiano sia i detenuti al Ferrante Aporti, sia i ragazzi in penale esterna che svolgono la pratica presso la Fabbrica del Cioccolato del Gruppo Spes s.c.s. in via Saorgio 139/b a Torino. Ad oggi hanno partecipato al progetto più di 32 ragazzi; in questi anni, tre ragazzi che hanno partecipato al progetto in Istituto hanno proseguito la loro esperienza nella Fabbrica di Cioccolato del Gruppo Spes s.c.s. e ben cinque ragazzi, concluso il percorso, hanno continuato a collaborare con il Gruppo Spes. Nei locali commerciali che vorranno aderire all’iniziativa "Il Sapore della Libertà", saranno disponibili le tavolette, all’interno delle quali si potrà trovare un segnalibro con alcune immagini scattate all’interno del Parco dal fotografo Francesco Sisti. Il prezzo consigliato di vendita al pubblico è di 3 euro per le tavolette al latte e fondente; 3,50 euro per la tavoletta con granella di nocciola. Decidere di acquistare queste tavolette è un importante gesto di solidarietà, nessuno dei tre enti coinvolti ricaverà qualcosa dalla vendita del prodotto, ma tutto l’incasso sarà destinato esclusivamente al sostegno del progetto Spes@Labor. Pesaro: legalità e carcere, l’Associazione Bracciaperte incontra gli studenti viverepesaro.it, 13 aprile 2017 Interesse e partecipazione all’incontro promosso nei giorni scorsi dall’Associazione Bracciaperte onlus presso La Nuova Scuola di Pesaro: la testimonianza di chi opera "oltre il muro" per migliorare la qualità di vita in carcere. Cosa c’è oltre il muro del carcere? Come vengono scandite le giornate al di là delle inferriate? Chi e come interagisce quotidianamente con i detenuti? Da queste domande ha preso le mosse l’incontro intitolato "Oltre il muro", tenutosi nei giorni scorsi a "La Nuova Scuola" di Pesaro, su iniziativa dell’associazione di volontariato Bracciaperte, onlus impegnata per migliorare la qualità di vita nelle carceri, attraverso corsi formativi professionalizzanti, e donazioni di attrezzature e materiali: circa 130 studenti hanno ascoltato, con attenzione e interesse, l’intervento del presidente dell’associazione, Mario Palma, che ha offerto loro una testimonianza intorno al concetto di "umanità, in uno dei luoghi dove si ritrovano gli ultimi, dove il tempo sembra non passare mai, ma scorre veloce quello della vita". Con l’aiuto di alcune foto e di esperienze vissute in prima persona, il giovane presidente ha coinvolto la platea, nel racconto di un viaggio tra le sezioni, i corridoi e i laboratori del carcere, con le parole e gli occhi di chi opera "oltre il muro", in silenzio e con tenacia, nonostante la carenza di fondi per nuovi progetti. "Dopo anni di impegno all’interno di vari istituti penitenziari - spiega Mario Palma, presidente dell’associazione Bracciaperte Onlus - ci sembra importante condividere la nostra esperienza di volontariato in carcere, le attività che siamo riusciti faticosamente a mettere in piedi, ma anche i drammi e le problematiche della vita dietro le sbarre, perché troppo spesso il carcere viene rappresentato dal cinema o dall’informazione, scremando tutto ciò che è il lato umano, degli operatori, degli agenti, dei volontari e dei detenuti stessi. Ringrazio in particolare la Nuova Scuola, che ci ha dato la possibilità di organizzare l’iniziativa e gli studenti partecipanti, che hanno mostrato interesse e sensibilità, rendendo la mia testimonianza una preziosa occasione di dialogo e confronto reciproco". L’incontro, al quale è intervenuta anche la direttrice della Casa Circondariale di Pesaro dott.ssa Armanda Rossi, è stato promosso con il patrocinio del Comune, e vuole essere il primo di una serie nelle scuole secondarie del territorio, che l’associazione sta programmando per il prossimo anno scolastico, con l’obiettivo di sensibilizzare, informare e far riflettere i giovani sui temi della legalità, l’istituzione carceraria, le sue finalità e le problematiche della vita in carcere. La mission dell’associazione Bracciaperte Onlus è migliorare la qualità di vita all’interno delle carceri attraverso corsi formativi professionalizzanti e donazioni di attrezzature e materiali (vestiario, libri, altri materiali di necessità), utili sia alla vita detentiva che all’organizzazione di laboratori didattici e corsi per apprendere lavori artigianali: proprio in questi giorni è in partenza, nella sezione femminile del carcere di Pesaro, un corso di formazione per segretaria in centri di assistenza tecnica. Palermo: convegno su carceri e diritto all’oblio, parla Cuffaro "finora decreti inutili" di Antonella Lombardi meridionews.it, 13 aprile 2017 "C’è una grande ipocrisia sulle carceri, adesso le celle si chiamano camere di pernottamento, ci vantiamo di non avere la pena di morte quando i suicidi che si registrano in cella sono il triplo rispetto ai decessi dei Paesi in cui è in vigore". Così l’ex governatore siciliano ed ex detenuto. "Il carcere rieducatore è una leggenda che funziona per chi ha fede, una famiglia alle spalle, degli amici, ma il carcere non è un posto normale, priva di quelle libertà che la nostra Costituzione sancisce come principio e che dovrebbero essere rispettate anche dentro. C’è una grande ipocrisia sulle carceri, adesso le celle si chiamano camere di pernottamento, ci vantiamo di non avere la pena di morte quando i suicidi che si registrano in cella sono il triplo rispetto ai decessi dei Paesi in cui vige la pena di morte". A parlare, non senza ironia, è l’ex governatore siciliano ed ex detenuto Salvatore Cuffaro nel corso di un incontro al carcere minorile Malaspina di Palermo organizzato dall’ordine dei giornalisti. "Non si dice neanche che c’è l’ergastolo: la fine pena per la burocrazia è fissata nell’anno 9999 - aggiunge - Il prossimo problema lo risolveremo chiamando i detenuti diversamente liberi". Hanno partecipato all’incontro anche il direttore del Malaspina, Michelangelo Capitano, l’avvocato Nino Caleca, il presidente Odg Sicilia, Riccardo Arena e la vicepresidente Teresa Di Fresco. Il tema dell’incontro è il diritto all’oblio e il ruolo dei media nel tutelare i diritti della persona e la privacy, ma Cuffaro puntualizza: "Non possiamo confondere il diritto all’oblio con il diritto a cancellare le cose che non ci piacciono. Non rinnego niente, né l’esperienza di presidente né quella di detenuto, ognuno deve riconoscere la propria storia per migliorare la propria vita. Anche io ero un delinquente - precisa Cuffaro - ma il diritto all’oblio ha senso se diventa una scelta del Paese che non considera il suo passato un crimine, a patto, però, di non tornare a commettere gli stessi errori". L’ex governatore si sofferma poi sulle condizioni dei detenuti: "Non saranno magari la parte migliore della nostra società ma sono sempre persone e non si rispettano tenendole ammassate in pochi metri quadrati o negando loro il diritto di bere dell’acqua fredda in agosto. Per non parlare del fatto - continua Cuffaro - che lo Stato presenta il conto a ogni detenuto per il suo soggiorno in cella, pardon, camera di pernottamento, e così se sei disoccupato e vivi già il dramma di tenere unita la tua famiglia ti vedi anche pignorare i tuoi beni da Equitalia. Io mi considero un detenuto fortunato - puntualizza - ma il terrore di ogni detenuto è quello di finire di scontare la propria pena e non trovare nessuno ad aspettarlo fuori dal carcere". "Nel mio braccio ho assistito a sette suicidi - dice ancora - l’ultimo aveva scontato 25 anni e gli mancava solo un anno per uscire, e si é ucciso perché aveva paura di uscire". Sulle prospettive e la visione della politica del problema delle carceri Cuffaro dice: "Finora sono stati fatti tre decreti inutili, i cosiddetti svuota carceri, è solo dopo i richiami di Strasburgo. L’ultimo peraltro totalmente inapplicato. Alcuni problemi devono essere risolti dal Parlamento che però è composto da persone in cerca di consensi che quindi non vogliono prendere decisioni impopolari". Su questo punto si pronuncia anche Capitano: "Gli annunci di amnistie creano un’ aspettativa che si trasforma in disagio per chi sta in carcere". E Cuffaro aggiunge: "Non servono altre leggi, del resto manca il consenso necessario, ma basterebbe usare del buon senso e trattare le storie del carcere non come se fossero dei corpi ma delle anime". Del tempo che non passa mai, dell’illusione dell’attesa e della speranza ha fatto cenno anche Capitano, e su questo l’ex governatore aggiunge: è ciò che tiene in vita i detenuti. L’ex governatore racconta poi un aneddoto curioso sui tempi dilatati all’interno dei penitenziari: "Quando sono entrato ho scoperto per la prima volta la fiction "Un posto al sole". La guardano tutti i detenuti perché è girata in tempo reale e questo permette a chi sta dentro di avere un rapporto con il mondo esterno e il tempo che passa fuori che altrimenti il detenuto non avrebbe. E non a caso la radio più seguita è Radio radicale, perché l’unica a occuparsi del carcere". Cuffaro conclude il suo intervento e lascia la platea anticipatamente per intervenire a un altro convegno, senza rinunciare rinuncia a una battuta: "Mi aspettano a questo incontro, non vado a fare campagna elettorale, non scrivete inesattezze". Gli "Irresponsabili" nell’eterno gioco di ruolo tra garantisti e non garantisti di Marianna Rizzini Il Foglio, 13 aprile 2017 Si intitola "Irresponsabili. Il potere italiano e la pretesa dell’innocenza", il saggio della giornalista Alessandra Sardoni (appena uscito per Rizzoli). E però il tema - irresponsabilità e potere - non ne fa assolutamente un libro sulla casta per com’è solitamente intesa (ed è questo uno dei suoi aspetti più interessanti). Anzi: il ricorso alla categoria "casta" come spauracchio vago su cui costruire - "al contrario" - un’immagine altrettanto vaga di purezza, funzionale alla chiusura nel mondo ovattato della non-realizzabilità, è, nelle storie raccontate da Sardoni in una cronaca-romanzo grottesca e tragica dell’avvitamento politico italiano, la componente psicologica e culturale, prima che politica, dell’irresponsabilità. E non solo perché Beppe Grillo, ultimo in ordine di tempo, in nome della lotta alla "casta" dei partiti putrefatti, si è autosollevato in partenza dal dovere del compromesso e quindi dell’azione: in vari modi e tempi della storia recente italiana si auto-esimono e auto-assolvono, negli esempi portati da Sardoni, anche la sinistra e la destra, in un gioco di specchi in cui le catene di comando, il "chi ha detto o fatto cosa" e il "prendersi carico" vengono aggirati continuamente, mascherati e rilanciati fino al punto estremo in cui, per eterogenesi dei fini ma anche per volontà convergenti di tutti i protagonisti, si produce il "vantaggio dello stallo". Il punto, cioè, di massima debolezza di tutti gli attori, ma anche il punto d’incontro di tutte le piccole rendite di posizione tenacemente conservate proprio facendo leva sulla non-responsabilità (di un leader, di una coalizione, di un paese intero). E il vantaggio dello stallo è tanto più visibile oggi, nel momento in cui sembrano improvvisamente non tornare i conti del ventennale gioco di ruolo tra "garantisti" e "non garantisti", con relativa delega alle procure del potere politico e collaterale condanna al ricatto del "doppiopesismo" (coloro che per anni hanno invocato il giudice come deus ex machina e l’avviso di garanzia come avvio automatico di catarsi, ora si trovano, paradossalmente, a doversi difendere non soltanto dal giudice, ma anche da chi ne sottolinea il "ragionare secondo la legge dei due pesi e due misure"). Di fronte al conflitto tra poteri, è sempre più difficile stabilire, scrive Sardoni, "... chi, di volta in volta, in ciascuna specifica vicenda, abbia sbagliato: gli amministratori, i legislatori, i partiti, i politici, i giornalisti, i pm, i giudici, tutti considerati come corpi collettivi... Poiché questo è il dato comune: non esiste mai una dimensione individuale..." (unica eccezione, quella di Elsa Fornero, capro espiatorio della riforma delle pensioni e simbolo di deresponsabilizzazione trasversale). La cristallizzazione di ogni dibattito attorno alla dimensione (elusa) della colpa-responsabilità, intrisa di vittimismo e "tendenza al piagnisteo", e immersa in quella che Christopher Lasch chiamava "cultura del narcisismo", porta alla reiterazione dello schema dello "stallo" in situazioni apparentemente diversissime, a partire dal progressivamente "consociativo" day after del G8 di Genova, ricostruito da Sardoni sotto la lente della trasversale fuga dalle conseguenze delle azioni (fino al recente ribaltamento di ogni lettura autoassolutoria nei tribunali di Genova e Strasburgo), e della messa in sicurezza della figura in chiaroscuro di Gianni De Gennaro, il superpoliziotto che attraversa tre governi nonostante i dubbi sul "che cosa" sapesse e sul "che cosa avesse deciso o non deciso" nella notte della Diaz e di Bolzaneto. Ci sono concetti che ricorrono, nella riproposizione dello stallo: "consociativismo", "processo mediatico", "leaderismo" mancante o malato, ma anche "familismo", come scrive Sardoni a proposito dei casi, opposti e complementari, di Maurizio Lupi e Annamaria Cancellieri, ministri non indagati ma protagonisti di "soluzioni" antitetiche (uno si dimette, l’altra no, uno viene fatto dimettere, l’altra no - da cui ricatto del doppiopesismo che pende sui governanti). Ma è nella narrazione trasversalmente complottistica e autoassolutoria dell’anno 2011, quello della crisi greca, della lettera Bce, dell’avvento del governo tecnico - lo scudo che permette una lettura dietrologica e "irresponsabile", sulla scia del comune vantaggio al non-confronto nelle urne - che tutto precipita nella fase "protagonisti e vittime a fasi alterne", fase in cui si assiste persino alla surreale vicenda delle agenzie di rating messe sotto processo (e ora assolte) in quel di Trani. E alla fine, a differenza che nel film di Steven Spielberg "Minority report" (che non a caso l’autrice cita a proposito dell’anno tecnico 2011), è come se fosse sempre tutta una questione di "non poter scegliere" (quale migliore pretesto della continua emergenza, che sia emergenza terrorismo, migranti o spread?). "Magistrati e cittadini. Indagine su identità e immagine sociale dei magistrati italiani" di Renato Balduzzi Avvenire, 13 aprile 2017 Dall’Associazione Bachelet proposte per recuperare fiducia nella magistratura. Senza la fiducia della generalità dei cittadini nella terzietà, indipendenza e serietà della magistratura è difficile che un ordinamento democratico, che voglia restare fondato sulla separazione dei poteri e sulla loro leale collaborazione, possa vivere e prosperare. Da qui la necessità di comprendere le cause della diminuzione di questa fiducia, i suoi contorni, i percorsi per rafforzarla. Da alcuni mesi è disponibile (da oggi anche in open access) una ricerca, pubblicata da Franco Angeli, dal titolo "Magistrati e cittadini. Indagine su identità e immagine sociale dei magistrati italiani", curata nel 2014/2015 da due specialisti come Nadio Delai e Stefano Rolando, su impulso della Scuola superiore della magistratura, allora presieduta da Valerio Onida. Il volume è stato presentato ieri al Csm nel primo dei Martedì su "Giustizia e …", promossi dall’Associazione "Vittorio Bachelet", che si susseguiranno, a intervalli costanti ogni mese e mezzo sino alla fine del 2018. Tutti coloro che, insieme agli autori, hanno preso la parola sulla ricerca (G. Legnini, chi scrive, G. Carofiglio, G. Silvestri e, nel dibattito, V. D’Ambrosio, N. Lipari, P. Morosini e G. Canzio), ne hanno sottolineato il carattere di vera e propria miniera per comprendere il pianeta giustizia. Primo esempio: la ricerca attesta che anche la quasi totalità dei magistrati, e non soltanto il campione di cittadini coinvolti, reputano necessarie norme più severe sul passaggio di magistrati in politica e sul ritorno in magistratura (indicazione che potrebbe essere tenuta presente dal legislatore) e che una larga maggioranza dei medesimi magistrati è disponibile ad attenuazioni di norme di privilegio in tema di trattamenti economici e previdenziali, d’accordo su questo con oltre due terzi dei cittadini (indicazione da ponderare nell’associazionismo dei magistrati). Secondo esempio: sul fondamentale tema delle pressioni - interne (i "capi" degli uffici, i colleghi) ed esterne (politica, media, poteri economici) - che possono influenzare l’indipendenza del magistrato, vi è una netta differenza tra percezione dei cittadini (che le considerano numerose e forti) e quella dei magistrati se riferita alla loro esperienza personale, ma non se riferita alle pressioni esterne sulla magistratura in generale. Il che conferma il delicato ed essenziale ruolo dei media. Nella società della diffidenza è naturale che non esistano zone franche, per definizione destinatarie della fiducia collettiva: questa si deve conquistare ogni giorno. Recuperare fiducia nella magistratura, soprattutto in questi tempi, è condizione imprescindibile per il buon funzionamento del buon modello costituzionale di giudice e magistrato. Papa Francesco: "fermate i signori della guerra, la loro violenza distrugge il mondo" di Paolo Rodari La Repubblica, 13 aprile 2017 "Penso che oggi il peccato si manifesti con tutta la sua forza di distruzione nelle guerre, nelle diverse forme di violenza e maltrattamento, nell’abbandono dei più fragili. Il mondo deve fermare i signori della guerra. Perché a farne le spese sono sempre gli ultimi, gli inermi". Papa Francesco arriva oggi nella Casa di Reclusione di Paliano (Frosinone) per celebrare la Messa in Coena Domini con il rito della lavanda dei piedi ad alcuni detenuti. La visita ai carcerati è occasione per una riflessione più ampia che Francesco accetta di fare con Repubblica su una missione che la Chiesa non può eludere: "Farsi prossima degli ultimi, degli emarginati, degli scartati". Dice Papa Bergoglio: "Chi non è colpevole scagli la prima pietra. Guardiamoci dentro e cerchiamo di vedere le nostre colpe. Allora, il cuore diventerà più umano". Ma come sta vivendo Francesco questa vigilia di Pasqua caratterizzata da uno scenario mondiale ad alta tensione? "Mi viene solo da chiedere con più forza la pace per questo mondo sottomesso ai trafficanti di armi che guadagnano con il sangue degli uomini e delle donne". Santo Padre, anche questo giovedì santo si recherà in carcere. Perché? "Il brano evangelico del giudizio universale dice: "Sono stato prigioniero e siete venuti a trovarmi". Ecco, il mandato di Gesù vale per ognuno di noi, ma soprattutto per il vescovo che è il padre di tutti". Lei ha più volte detto che si sente peccatore come i carcerati. In che senso? "Alcuni dicono: sono colpevoli. Io rispondo con la parola di Gesù: chi non è colpevole scagli la prima pietra. Guardiamoci dentro e cerchiamo di vedere le nostre colpe. Allora, il cuore diventerà più umano". È questo che devono fare i pastori, essere al servizio di tutti? "Come preti e come vescovi dobbiamo sempre essere al servizio. Come dissi nella visita in un carcere che feci il primo giovedì santo dopo l’elezione: è un dovere che mi viene dal cuore". Chi le ha insegnato questa che ormai è divenuta una tradizione? "Molto mi ha insegnato l’esempio di Agostino Casaroli, scomparso nel 1998 dopo essere stato Segretario di Stato vaticano e cardinale. Da sacerdote ha svolto per anni apostolato nel carcere minorile di Casal del Marmo. Tutti i sabati sera spariva: "Si sta riposando", dicevano. Arrivava in autobus, con la sua borsa da lavoro, e rimaneva a confessare i ragazzi e a giocare con loro. Lo chiamavano don Agostino, nessuno sapeva bene chi fosse. Quando Giovanni XXIII lo ricevette dopo la sua prima visita nei Paesi dell’Est, in missione diplomatica in piena Guerra Fredda, al termine dell’incontro gli chiese: "Mi dica, continua a andare da quei ragazzi?" "Sì, Santità". "Le chiedo un favore, non li abbandoni mai". Fu quella la consegna lasciata a Casaroli dal Papa Buono, che sarebbe morto qualche mese dopo". Secondo lei, insomma, la Chiesa deve anzitutto andare incontro agli scartati. È questa l’azione principale che le è chiesta? "Io credo di sì. Andare, farsi prossima degli ultimi, degli emarginati, degli scartati. Quando sono davanti a un carcerato, ad esempio, mi domando: perché lui e non io? Merito io più di lui che sta là dentro? Perché lui è caduto e io no? È un mistero che mi avvicina a loro". Nella sua intervista a "La Civiltà Cattolica" alla domanda su chi fosse Jorge Mario Bergoglio rispose: "Un peccatore". È così? "Mi sento tale, certo. Il motto del mio stemma è una frase di San Beda il Venerabile a proposito di San Matteo: "Dio ha rivolto i suoi occhi". "Miserando atque eligendo", "Lo guardò con sentimento d’amore e lo scelse". È di più di un semplice motto. È la mia stella polare. Poiché in essa è contenuto il mistero di un Dio disposto a portare su di sé il male del mondo pur di dimostrare il proprio amore all’essere umano". Il Vangelo è pieno di episodi in cui Gesù si fa prossimo a coloro che la società scartava. "Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò salvata", dice con grande fede l’emorroissa (una donna che aveva perdite di sangue da dodici anni, ndr) che sente dentro di sé che Gesù può salvarla. Secondo i Vangeli era una donna scartata dalla società, alla quale Gesù dona la salute e la libertà dalle discriminazioni sociali e religiose. Questo caso fa riflettere sul fatto che il cuore di Gesù è sempre per loro, per gli esclusi, come fra l’altro la donna era percepita e rappresentata allora". Anche oggi continua in parte questa discriminazione. "Tutti siamo messi in guardia, anche le comunità cristiane, da visioni della femminilità inficiate da pregiudizi e sospetti lesivi della sua intangibile dignità. In tal senso sono proprio i Vangeli a ripristinare la verità e a ricondurre a un punto di vista liberatorio. Gesù ha ammirato la fede di questa donna che tutti evitavano e ha trasformato la sua speranza in salvezza". Quella donna si sentiva esclusa anche a causa del suo peccato. "Tutti siamo peccatori, ma Gesù ci perdona con la sua misericordia. L’emorroissa era timorosa, non voleva farsi vedere, ma quando Gesù incrocia il suo sguardo non la rimprovera: la accoglie con misericordia e tenerezza e cerca l’incontro personale con lei, dandole dignità. Questo vale per tutti noi quando ci sentiamo scartati per i nostri peccati: oggi a tutti noi il Signore dice: "Coraggio, vieni! Noi sei più scartato, non sei più scartata: io ti perdono, io ti abbraccio". Così è la misericordia di Dio. Dobbiamo avere coraggio e andare da lui, chiedere perdono per i nostri peccati e andare avanti. Con coraggio, come ha fatto questa donna". Spesso chi si sente escluso si vergogna. "Chi si sente scartato come i lebbrosi o i senzatetto, si vergogna e come l’emorroissa fa le cose di nascosto. Gesù invece ci rialza in piedi, ci dà la dignità. Quella che Gesù dona è una salvezza totale, che reintegra la vita della donna nella sfera dell’amore di Dio e, al tempo stesso, la ristabilisce nella sua dignità. Gesù indica così alla Chiesa il percorso da compiere per andare incontro a ogni persona, perché ognuno possa essere guarito nel corpo e nello spirito e recuperare la dignità di figlio di Dio". Ancora in questi giorni le armi uccidono. Cosa ne pensa? "Penso che oggi il peccato si manifesti con tutta la sua forza di distruzione nelle guerre, nelle diverse forme di violenza e maltrattamento, nell’abbandono dei più fragili. A farne le spese sono sempre gli ultimi, gli inermi. Mi viene solo da chiedere con più forza la pace per questo mondo sottomesso ai trafficanti di armi che guadagnano con il sangue degli uomini e delle donne. Come ho detto anche nel recente messaggio per la giornata mondiale della pace, il secolo scorso è stato devastato da due guerre mondiali micidiali, ha conosciuto la minaccia della guerra nucleare e un gran numero di altri conflitti, mentre oggi purtroppo siamo alle prese con una terribile guerra mondiale a pezzi. Non è facile sapere se il mondo attualmente sia più o meno violento di quanto lo fosse ieri, né se i moderni mezzi di comunicazione e la mobilità che caratterizza la nostra epoca ci rendano più consapevoli della violenza o più assuefatti a essa". Qual è lo scopo secondo lei di queste continue guerre? "Me lo chiedo anche io sempre. A che scopo? La violenza permette di raggiungere obiettivi di valore duraturo? Tutto quello che ottiene non è forse di scatenare rappresaglie e spirali di conflitti letali che recano benefici solo a pochi "signori della guerra"? L’ho detto più volte e lo ridico: la violenza non è la cura per il nostro mondo frantumato. Rispondere alla violenza con la violenza conduce, nella migliore delle ipotesi, a migrazioni forzate e a immani sofferenze, poiché grandi quantità di risorse sono destinate a scopi militari e sottratte alle esigenze quotidiane dei giovani, delle famiglie in difficoltà, degli anziani, dei malati, della grande maggioranza degli abitanti del mondo. Nel peggiore dei casi può portare alla morte, fisica e spirituale, di molti, se non addirittura di tutti". In carcere porta un messaggio di pace e anche di speranza nonostante tutto? "A volte, una certa ipocrisia spinge a vedere nei carcerati solo delle persone che hanno sbagliato, per le quali l’unica via è quella del carcere. Ma, ripeto ancora una volta, tutti abbiamo la possibilità di sbagliare. Tutti in una maniera o nell’altra abbiamo sbagliato. E l’ipocrisia fa sì che non si pensi alla possibilità di cambiare vita: c’è poca fiducia nella riabilitazione, nel reinserimento nella società. Ma in questo modo si dimentica che tutti siamo peccatori e, spesso, siamo anche prigionieri senza rendercene conto. Quando si rimane chiusi nei propri pregiudizi, o si è schiavi degli idoli di un falso benessere, quando ci si muove dentro schemi ideologici o si assolutizzano leggi di mercato che schiacciano le persone, in realtà non si fa altro che stare tra le strette pareti della cella dell’individualismo e dell’autosufficienza, privati della verità che genera la libertà. E puntare il dito contro qualcuno che ha sbagliato non può diventare un alibi per nascondere le proprie contraddizioni". Lotta alla povertà: 300-500 euro al mese a 600 mila famiglie di Paolo Baroni La Stampa, 13 aprile 2017 Pronto a maggio il nuovo Reddito di inclusione. Interesserà 2 milioni di persone in difficoltà. Approvata poco più di un mese fa la legge delega sulla povertà adesso il governo spinge sull’acceleratore per far decollare di qui alle prossime settimane il nuovo Reddito di inclusione, il "Rei". L’esecutivo ha infatti inserito gli interventi di contrasto della povertà tra i pilastri del nuovo Programma nazionale di riforma che accompagna il Def al pari di privatizzazioni, concorrenza e spinta alla contrattazione decentrata. A inizio maggio i decreti attuativi dovrebbero approdare sul tavolo del Consiglio dei ministri fissando tutti i dettagli, ma già domani a Palazzo Chigi il premier Gentiloni e il ministro Poletti sigleranno un protocollo d’intenti con l’Alleanza contro la povertà che consentirà di muovere i primi passi. In particolare dovranno essere fissati i criteri precisi per determinare l’accesso al programma e quelli per stabilire l’importo del beneficio, il finanziamento dei servizi, i meccanismi per evitare che si crei un disincentivo economico alla ricerca di occupazione, quindi dovrà essere individuata la struttura nazionale che affiancherà gli enti locali competenti e che dovrà garantire una piena ed uniforme attuazione del Rei. Infine andranno definiti il piano operativo di monitoraggio e le forme associate di gestione. Strategia innovativa - L’azione di contrasto alla povertà - è scritto nel Pnr - "sarà incentrata su una strategia innovativa su tre ambiti". Oltre al varo del Reddito di inclusione, una misura universale di sostegno economico a favore dei nuclei in condizione di povertà e di disagio sociale o relazionale, i piani prevedono anche il riordino dell’insieme delle prestazioni di natura assistenziale di contrasto della povertà (carta acquisti per minori, assegno di disoccupazione, ecc.) per evitare doppioni ed il rafforzamento del coordinamento dei servizi sociali per garantire in tutto il territorio nazionale i livelli essenziali delle prestazioni. I fondi - Sul piatto ci sono risorse importanti già indicate nel Def: complessivamente si parla di 1,18 miliardi per il 2017 e di 1,7 miliardi per il 2018. In realtà, attingendo ai fondi Pon Inclusione che serviranno a rafforzare i servizi territoriali a cui sarà affidata la presa in carico delle famiglie, si arriverà a impegnare 2 miliardi di euro all’anno. 2 milioni di persone - L’obiettivo del governo è di ampliare la platea dei beneficiari salendo dalle 400mila famiglie che attualmente percepiscono il Sostegno di inclusione attiva a quasi 600mila nuclei, per un totale di 2 milioni di persone (e poco meno di 1 milione di minori) che corrispondono a un po’ meno della metà degli italiani che si trovano in condizioni di difficoltà. L’importo dell’assegno - Il nuovo Rei si rivolge a tutte le famiglie in difficoltà, anche quelle composte da una sola persona. Ma in via prioritaria interessa nuclei dove sono presenti minori, disabili, over 55 disoccupati e donne in accertato stato di gravidanza. Nel caso di totale assenza di mezzi il singolo che non supera i 3000 euro di Isee indicativamente potrebbe ottenere un contributo di 250 euro al mese, 390 euro la famiglia composta da due persone e circa 500 euro (l’equivalente dell’assegno sociale percepito dagli anziani) il nucleo composto da tre persone. Come funziona - Tutta l’istruttoria sarà svolta dai Comuni a cui gli interessati dovranno inoltrare domanda, mentre i contributi verrebbero erogati dall’Inps, da definire ancora se attraverso una carta ricaricabile come avviene per la Sia o attraverso altri strumenti. In cambio le famiglie dovranno farsi parte attiva del progetto di reinserimento partecipando a piani di inclusione individuati caso per caso dai servizi territoriali. Chi riceverà il sostegno, in particolare, dovrà "sottoscrivere un patto con la comunità", che va dal buon comportamento civico all’accettazione delle proposte di lavoro che gli possono essere girate dagli uffici del Collocamento. Ovviamente il Rei è un contributo temporaneo (18 mesi rinnovabili, contro i 12 del Sia) ed è sottoposto a verifiche periodiche. Una volta completato il progetto, con la famiglia che esce dalla condizione di povertà, il programma si intende ovviamente concluso. E quindi è possibile che per effetto della rotazione siano circa 4 milioni le persone che nel giro di un biennio arrivino a beneficiare di questo programma. Quei rimpatri forzati senza rispetto per la dignità umana di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 aprile 2017 La denuncia del Garante dei detenuti che monitora le operazioni di ritorno in patria. Nel volo charter del 26 gennaio che ha riportato a Lagos 38 nigeriani sono state evidenziate operazioni poco ortodosse sia nel controllo che durante il viaggio. Aspetti positivi, ma anche diverse criticità nell’effettuare i rimpatri forzati degli immigrati irregolari. È ciò che emerge dalle ultime relazioni del Garante nazionale Mauro Palma sulle sue attività di monitoraggio. Dal 2 maggio 2016 l’ufficio del garante riceve, regolarmente e con cadenza quotidiana, dalla direzione centrale per l’immigrazione e la polizia di frontiera del dipartimento della pubblica sicurezza, i telegrammi relativi alle operazioni di rimpatrio forzato coordinate dalla stessa direzione. Le comunicazioni riguardano soltanto le operazioni per le quali, in relazione all’indice di pericolosità del rimpatriando, sia stato necessario prevedere un dispositivo di scorta, ovvero un accompagnamento coatto che prosegue oltre la frontiera italiana e fino alla materiale consegna del rimpatriando alle autorità del suo Paese. Ci sono due tipi di voli che Mauro Palma monitora: i semplici voli commerciali su cui sono di volta in volta imbarcati gli individui che vengono rimpatriati nel loro paese di origine; e poi i voli charter per i rimpatri di gruppo, che vengono però solitamente effettuati soltanto con i paesi come la Tunisia e la Nigeria con cui esistono specifici accordi di riammissione. Il Garante ha reso pubblico tre relazioni - ancora senza risposta da parte del ministero degli Interni - circa il rimpatrio tramite volo charter dei nigeriani e tunisini. Prendiamo in esame l’ultimo rapporto riguardante il monitoraggio effettuato il 26 gennaio scorso circa l’operazione congiunta di rimpatrio forzato di cittadini nigeriani, avvenuto con trasporto aereo da Roma a Lagos. La procedura di rimpatrio ha riguardato 38 cittadini nigeriani di sesso maschile: 36 allontanati dall’Italia (centri di identificazione ed espulsione, Cie di Caltanissetta e Torino), uno dalla Germania e uno dalla Polonia. Il volo charter con destinazione Lagos è decollato da Roma Fiumicino attorno alle ore 13.00 del 26 gennaio e ha fatto rientro alle ore 01.30 del 27 gennaio. L’operazione è stata monitorata dalla delegazione del Garante Nazionale che ha partecipato anche al volo charter nazionale con cui sono stati condotti a Roma gli stranieri provenienti dal Cie di Caltanissetta. Cooperazione tra il Garante e il Viminale - Mauro Palma ha espresso apprezzamento per la cooperazione ricevuta dalla direzione centrale dell’immigrazione e della polizia delle frontiere: la delegazione ha avuto accesso a tutti i luoghi interessati dalle operazioni ed è stato invitato a partecipare anche alla riunione operativa tenutasi il giorno prima del volo presso gli uffici del servizio immigrazione della direzione centrale e della polizia delle frontiere. All’incontro, presieduto dal "Crisis focal point italiano", hanno partecipato i responsabili della scorta italiana (Escort leader), (backup team), (boarding team), i capi squadra, un rappresentante della Polaria Fiumicino, un rappresentante della direzione sanità, funzionari della polizia scientifica e un responsabile della compagnia aerea. Durante la riunione sono stati descritti tempi e modalità dell’operazione; è stata inoltre evidenziata la situazione di un rimpatriando che in passato avrebbe sofferto di difficoltà di deambulazione, allo stato attuale in buone condizioni di salute ma comunque meritevole di particolare attenzione. Infine, durante il volo di ritorno da Lagos a Roma, la delegazione ha partecipato a un breve briefing finale coordinato dai responsabili della polizia di stato con il ruolo di Escort leader e Deputy Escort Leader, con la partecipazione dei funzionari del back- up team e del boarding team, e dei capi scorta della delegazione tedesca e polacca. Operazioni "poco garbate" - Nella relazione viene segnalato che tutto l’iter di consegna delle persone rimpatriate alle autorità nigeriane a Lagos, così come avvenuto nelle precedenti operazioni di rimpatrio a cui era presente la delegazione del Garante nazionale, si è svolta a bordo dell’aeromobile. Mauro Palma, già nei rapporti relativi al monitoraggio di tali rimpatri, ha segnalato che per la valutazione effettiva delle tutele da assicurare alle persone rimpatriate, sia necessario che le operazioni di consegna alle autorità locali avvengano in appositi uffici a terra, in area antistante al valico di accesso al territorio nazionale. Il Capo della Polizia, nella nota di risposta al rapporto sul monitoraggio effettuato il 14 luglio, ha concordato su questo punto di vista. Il Garante nazionale, quindi, è interessato a conoscere quali iniziative siano state assunte con le autorità nigeriane al fine di modificare la prassi tuttora in vigore di svolgere le operazioni di consegna all’interno dell’aeromobile. Il Garante segnala che nel caso specifico tale modalità operativa ha determinato "con una scelta sicuramente funzionale ma quantomeno poco elegante e garbata, la Compagnia aerea a foderare con sacchi di immondizia la parte dell’aeromobile utilizzata dalle autorità nigeriane per i colloqui e i rilievi dattiloscopici dei rimpatriandi". Poco preavviso e cibo insufficiente per le varie fasi dell’operazione - Secondo quanto riferito dai funzionari di polizia, i cittadini stranieri erano stati avvisati dell’avvio dell’operazione di rimpatrio nel corso della notte alle ore 3.30 ed erano stati trasferiti all’aeroporto di Palermo nelle primissime ore della mattina ricevendo per colazione solo una merendina e dell’acqua. Si rileva inoltre che nessun tipo di cibo è stato distribuito a bordo del charter nazionale e che il pranzo a bordo del volo Roma-Lagos è stato servito solo intorno alle ore 14.30. Il Garante ritiene che la modalità operativa adottata, senza una preventiva comunicazione della data del rimpatrio, quantomeno nella giornata antecedente alla partenza, non sia rispettosa della dignità della persona. Palma spiega che "la circostanza che gli stranieri avrebbero potuto dedurre l’imminenza della partenza dalla circostanza che qualche giorno prima del rimpatrio erano stati condotti innanzi alle autorità consolari nigeriane per l’audizione, non esclude la necessità che essi siano informati per tempo della data esatta del viaggio". Controlli corporali invasivi e uso di mezzi di coercizione - I controlli di sicurezza si sono svolti in due locali dello scalo aeroportuale di Palermo definiti "cadenti e non riscaldati". Al centro di entrambe le stanze è stato posto sul pavimento un minuscolo tappetino dove la polizia ha fatto posizionare i rimpatriandi che sono stati verificati uno per volta alla presenza di tre agenti di polizia. I controlli hanno riguardato sia le persone, inclusi gli indumenti indossati, sia i bagagli. Hanno avuto tutti esito negativo, non essendo stato rinvenuto alcun oggetto vietato. Nel caso di tre cittadini nigeriani le verifiche sono state particolarmente invasive: è stato chiesto loro di spogliarsi completamente nudi e di eseguire piegamenti sulle gambe. La delegazione del Garante ha espresso la sua perplessità circa l’aspra, inadeguata e inutile modalità adottata nell’effettuare i controlli di sicurezza e raccomanda di interrompere immediatamente prassi operative che obblighino le persone denudate a eseguire flessioni sulle gambe; adottare modalità operative che non comportino mai un denudamento completo, ma piuttosto un controllo su singoli indumenti garantendo, in tal modo, la possibilità alla persona di essere, almeno in parte, sempre vestita; eseguire i controlli sicurezza in ambienti idonei, riscaldati nella stagione invernale e arredati in modo tale che le verifiche di sicurezza siano rispettose della dignità umana. Altro aspetto critico è l’utilizzo delle fascette in velcro per il blocco dei polsi durante tutta la fase del volo del charter nazionale. Secondo la relazione, i cittadini nigeriani hanno mantenuto un comportamento estremamente calmo e dignitoso. "Ciò nonostante - denuncia il rapporto, a bordo del mezzo interpista utilizzato per raggiungere l’aeromobile sono state applicate le fascette e non sono mai state tolte, neanche in occasione della distribuzione di bevande da parte del personale della Compagnia aerea". Migranti. Al via la campagna "Ero straniero. L’umanità che fa bene" di Alessia Guerrieri Avvenire, 13 aprile 2017 Parte la raccolta di firme per presentare la legge di iniziativa popolare che utilizza il lavoro come strumento di integrazione. A proporla un gruppo trasversale di associazioni, tra cui Acli e Cnca. Integrazione fa rima con occupazione. E così è dal lavoro che si può partire per una nuova politica sulle migrazioni. Parte da questo concetto la legge di iniziativa popolare, presentata oggi al Senato nell’ambito della campagna Ero straniero. L’umanità che fa bene, per cambiare le politiche sull’immigrazione in Italia e la narrazione mediatica. Una proposta di legge che sarà depositata domani in Cassazione, per cui da oggi si iniziano a raccogliere le firme. Obiettivo: per superare la legge Bossi-Fini, evitare situazioni di irregolarità e puntare su accoglienza, lavoro e inclusione. Tra i promotori un fronte vasto e trasversale della società civile che lavora sul campo, uniti da un obiettivo comune: governare i flussi migratori in modo efficace trasformandoli in opportunità per il Paese: Radicali Italiani, Fondazione Casa della Carità Angelo Abriani, Acli, Arci, Asgi, Centro Astalli, Cnca, A buon diritto, numerose parrocchie, associazioni, 60 sindaci italiani e ogni giorno l’elenco si allarga sempre di più. Ha anche il sostegno di Caritas italiana, Migrantes e Comunità di Sant’Egidio. Il testo. Sono otto gli articoli contenuti nella proposta di legge, che dovrà raccogliere le 50mila firme necessarie nell’arco di sei mesi, per poi essere sottoposta al Parlamento e prevedono l’introduzione di un permesso di soggiorno temporaneo di un anno per la ricerca di occupazione, affidando l’intermediazione tra datori di lavoro italiani e lavoratori stranieri alle agenzie preposte o a onlus iscritte in apposito registro; la reintroduzione del sistema dello "sponsor" già collaudato con la legge Turco-Napolitano, con un cittadino italiano che garantisce l’ingresso di uno straniero; la regolarizzazione su base individuale degli stranieri già integrati in Italia; nuovi standard per riconoscere le qualifiche professionali; misure di inclusione attraverso il lavoro dei richiedenti asilo; il godimento dei diritti previdenziali e di sicurezza sociale una volta tornati nel Paese d’origine con la possibilità di ritirare l’80% dei contributi versati; l’uguaglianza nelle prestazioni di sicurezza sociale; maggiori garanzie per un reale diritto alla salute dei cittadini stranieri; voto amministrativo e abolizione del reato di clandestinità. I sostenitori. "Bisogna superare la legge Bossi-Fini, è una legge non adeguata ha detto Emma Bonino durante la presentazione della campagna a Palazzo Madama. Il governo potrebbe fare già domani una nuova legge, ma siccome la politica è distratta, guarda dall’altra parte chiediamo ai cittadini di farsi sentire". Anche perché "le paure dei cittadini non vanno alimentate, vanno governate". Lavorare coi cittadini stranieri infatti non significa essere testimoni, "ma portatori di umanità, quell’umanità che fa bene perché crea coesione sociale a vantaggio di tutti", aggiunge don Virginio Colmegna, il presidente della Casa della carità, per cui questa campagna è frutto di un lungo cammino compiuto da personalità e organizzazioni con storie e culture diverse, "accomunate dalla necessità di un ribaltamento culturale". L’integrazione, è poi il commento di Luigi Manconi presidente della commissione per i Diritti umani del Senato, è "faticosa e dolorosa, ma non impossibile" e si può fare anche "attraverso il lavoro, la formazione e l’apprendimento della lingua e della cultura italiana". Migranti. Rifiuti, prostituzione e caporali: l’inferno di Rosarno di Corrado Zunino La Repubblica, 13 aprile 2017 Viaggio nel ghetto più grande d’Italia. Più di 2500 migranti ammassati nella baraccopoli della Piana di Gioia Tauro. Il rapporto dei Medici per i diritti umani (Medu) si chiama "Terraingiusta" e racconta "le condizioni spaventose" in cui vivono gli ospiti della spianata in provincia di Reggio Calabria. Il ghetto d’Italia è nella Piana di Gioia Tauro, l’area diffusa e sfilacciata di San Ferdinando attorno a quella che è chiamata La Fabbrica, un ex capannone industriale dove nella stagione delle arance, dei mandarini e dei limoni si ammassano cinquecento africani. Cinquecento, dieci docce per tutti. Nell’area diffusa, intorno alla Fabbrica, sono altri duemila i migranti richiamati dai ventotto euro al giorno pagati per la raccolta. Nelle baracche di legno e plastica che li ospitano l’elettricità è a intermittenza - c’è per un paio d’ore e poi, nelle due ore successive, non c’è più. È garantita, d’altronde, da piccoli generatori a benzina. L’acqua corrente, pure, è saltuaria e quella calda non scende mai dalle dieci docce a disposizione. Non c’è raccolta di rifiuti, nella Piana, la spazzatura si accumula ovunque, anche vicino ai materassi. Metà dei lavoratori dorme su materassi appoggiati direttamente sul pavimento. Le latrine sono, perlopiù, a cielo aperto. Il ghetto è pronto a esplodere ancora mentre nel raggio di pochi chilometri sono stati contati quattrocento appartamenti sfitti. Il rapporto annuale su Gioia Tauro, redatto dai Medici per i diritti umani (Medu), si chiama "Terraingiusta" e racconta "le condizioni spaventose" in cui vivono gli ospiti di questa spianata in provincia di Reggio Calabria. L’area è tornata a calamitare gruppi di migranti africani che avevano trovato un lavoro in realtà industriali italiane, soprattutto del Nord. La lunga coda dell’infinita crisi ha chiuso le fabbriche (del Vicentino, per esempio) e riportato i manovali del Ghana e del Mali alle campagne calabresi, nuovamente braccianti. A Rosarno, a dieci chilometri da San Ferdinando, nel 2008 e nel 2010 ci sono state rivolte violente contro le condizioni disumane e il bullismo feroce, sia dei caporali vicini alla ‘ndrangheta che dei residenti rabbiosi. Per provare a mitigare furie contrarie le amministrazioni un anno fa hanno avanzato progetti di "accoglienze diffuse" - sono arrivati 500mila euro dedicati allo scopo, ma tutto si svolge ancora dentro e attorno l’ex cartiera. È il quarto lavoro anagrafico-sanitario di Medu alla Piana di Gioia Tauro. Tre mesi di controlli clinici, da dicembre 2016 allo scorso marzo, e di richiesta delle generalità hanno certificato che il lavoratore agricolo di San Ferdinando è un trentenne subsahariano che nell’ottanta per cento dei casi ha un permesso di soggiorno regolare. Quattro su cinque, ecco, non sono clandestini, ma già integrati alla vita italiana. I fallimenti altrove li hanno portato qui. Raccolgono clementine con salari "abbondantemente sotto il costo di produzione" e i kapo’ cui si rivolgono pretendono tre euro per portarli su campi a quaranta chilometri dal ghetto. Solo un quinto dei migranti della terra ha un contratto di lavoro e il 71 per cento non sa che esiste - di fronte alla perdita del reddito - l’istituto della disoccupazione agricola. Le condizioni di vita si sono aggravate, dice il censimento Medu, anche perché i lavoratori stranieri di Rosarno sono il 30 per cento in più rispetto al 2014. Cucinano in stufette e bracieri di fortuna e a dicembre e poi a gennaio due paurosi incendi hanno incenerito diverse baracche di legno e plastica cresciute attorno alla Fabbrica. Due i feriti gravi. Nella Piana sono cresciute anche le donne, ora sono un centinaio. Quasi tutte nigeriane, molte dedite alla prostituzione. Nel ghetto sono comparsi alcuni night club. Sul piano clinico, i medici per i diritti umani hanno visitato 553 pazienti, in alcuni casi anche quattro volte. Le patologie più frequenti riscontrate sono le difficoltà di respirazione (21,2 per cento dei casi), poi problemi di digestione e dolori ossei. "Si tratta di disturbi strettamente correlati alle pessime condizioni abitative e lavorative". Diversi stranieri, lo scorso inverno, hanno accusato principi di congelamento di mani e piedi. Le infezioni più diffuse sono fungine e parassitarie. La maggior parte dei migranti, nel corso dell’avvicinamento all’Italia attraverso rotte subsahariane, "ha subito molteplici violenze e abusi di ogni tipo". L’ambulatorio che ha ospitato le visite è senza bagni e riscaldamento, la sala d’attesa è separata dalla sala visite da una tenda. Non ci sono computer, telefono, fax nell’ambulatorio. Mancano farmaci essenziali, strumenti di pronto soccorso. Legge Basaglia. Dopo 40 anni un report per "contenere" la contenzione 180gradi.org, 13 aprile 2017 "Quando vedi un uomo legato, tu slegalo subito", un invito che Franco Basaglia rivolgeva spesso ai suoi collaboratori, suona purtroppo molto attuale anche oggi, a quasi 40 anni dall’approvazione della Legge 180/78. Si stima, infatti, che nei reparti psichiatrici per acuti, in Italia, avvengano in media 20 contenzioni ogni 100 ricoveri (ISS 1994). Un problema molto esteso quindi, che coinvolge il 60% dei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (Spdc) degli ospedali pubblici in Italia. E, in oltre il 70% degli Spdc sono comunque presenti gli strumenti per fare ricorso a questa orribile pratica di derivazione manicomiale. Non solo: la contenzione viene effettuata anche nelle carceri, nelle comunità terapeutiche, nei reparti di medicina e in quelli geriatrici, nei pronto soccorso, nelle Rems, e anche nelle residenze per gli anziani e persino nei reparti di neuropsichiatria infantile. Migliaia di casi al giorno. Questi i dati emersi da Contenere la contenzione meccanica in Italia - primo rapporto sui diritti negati dalla pratica di legare coercitivamente i pazienti psichiatrici negli Spdc, realizzato dall’Associazione A Buon Diritto grazie al sostegno della Compagnia di San Paolo e della Chiesa Valdese e la collaborazione della rete della Campagna nazionale per l’abolizione della contenzione "E tu slegalo subito". Lo studio è stato presentato a Roma il 28 febbraio scorso presso la sala del Senato di Santa Maria in Aquiro. Nel corso della conferenza stampa è stato inoltre annunciata l’avvenuta presentazione di un ddl, che vede come prima firmataria la senatrice Nerina Dirindin, per l’istituzione di una commissione parlamentare di inchiesta sul tema. Infatti, anche secondo il senatore Luigi Manconi, presidente di A Buon Diritto, che del Report ha scritto la prefazione, "non è più rimandabile un’attenta analisi di questo fenomeno, così come non possiamo esimerci dal chiedere al ministero della Salute di accogliere finalmente la raccomandazione del Comitato Nazionale di Bioetica e di avviare un monitoraggio in tutti i servizi psichiatrici di diagnosi e cura". Il report, che rappresenta l’esito di un’indagine conoscitiva preludio per ulteriori approfondimenti, si articola in quattro capitoli: nel primo Valentina Calderone, direttrice di A Buon Diritto, affronta le problematiche giuridico-legali della contenzione, nel secondo vengono ricostruiti gli studi sperimentali presenti in ambito internazionale a fronte di una carenza di ricerche italiane in questo campo, il terzo riporta dettagliatamente i risultati di un’indagine interdisciplinare condotta da vari esperti di diverse competenze, mentre nel quarto capitolo la storia la scrivono i pazienti. Quattro di loro (fra i quali un medico), tre uomini e una donna piemontesi raccontano la propria drammatica esperienza ed è proprio attraverso la loro voce che possiamo capire il significato in termini umani di questa aberrante pratica. "Inaccettabile", come ha sottolineato Vito D’Anza psichiatra e portavoce del Forum Salute Mentale, "perché umiliante, terrorizzante, generatrice di impotenza, angoscia e rabbia nel paziente, che è difficile da recuperare nel momento della riabilitazione". Come ha rilevato nell’introduzione il curatore del Rapporto, Sergio Mauceri, sociologo alla "Sapienza" di Roma, le ragioni del ricorso così frequente alla contenzione - che dovrebbe essere in vece considerata una misura "estrema" - sono da ascrivere innanzitutto alle disfunzionalità interne alle strutture, che rendono incapace il personale sanitario di far fonte a situazioni che richiederebbero cure psico-relazionali". Incapacità di gestire le conflittualità tra staff e paziente, gestione verticistica degli Spdc, blocco del turnover (ma, paradossalmente, negli Spdc con più infermieri si lega di più), burn out degli operatori, sovraffollamento dei reparti, fanno il resto. Si preferisce quindi una via più sbrigativa senza tener conto che con tali coercizioni si possono solo innescare "circolarità perverse", che oltretutto mettono a repentaglio la salute psicofisica del paziente, fino a provocarne la morte. Altra ragione è da ricercare nella "cortina di silenzio nella società civile": pochi pazienti e pochi familiari denunciano quello che hanno subito e che costituisce di fatto una violazione della nostra Costituzione (artt.13 e 32), non solo a causa dello stigma e dei sensi di colpa che interiorizzano per l’accaduto, ma anche perché le contenzioni non vengono registrate in cartella clinica e per la scarsa credibilità di cui godono in tribunale le persone dopo esperienze simili. Questo ambito legale è oltretutto poco redditizio per gli avvocati, ai quali comunque è impedito di accedere ai reparti. Ineluttabile, poi, almeno per il curatore del testo la connessione con il Tso, sebbene la contenzione meccanica venga applicata "anche ai casi di ricovero volontario". Ed anche sela persona in TSO mantiene, almeno teoricamente, tutti i suoi diritti, da quello di voto a quello di mantenere relazioni con l’esterno e opporsi attraverso un avvocato al trattamento stesso. Mauceri ha stilato anche il terzo capitolo del Rapporto, in cui si incrociano sguardi esperti fra i quali quello del presidente dell’Associazione degli SPDC no restraint (i reparti dove le "buone pratiche" sono di casa ed i pazienti non vengono legati ai letti come negli SPDC restraint). Lorenzo Toresini sottolinea come la contenzione venga giustificata da un paradigma bio-genetico, "che determina la convinzione che la malattia mentale sia inguaribile e gestibile solo con mezzi coercitivi". Tuttavia la contenzione non è mai atto terapeutico, ma anzi indice di fallimento delle terapie. Il curatore del Rapporto mette in guardia da una normazione in materia che finirebbe per legittimarla. Meglio, invece, a suo parere, "sanzionare ed intervenire laddove si verifichino abusi". In conclusione, il Rapporto vuole essere uno strumento di empowerment per i pazienti e le loro famiglie, ma anche momento di riflessione critica per quanti operano nei Dsm del nostro Paese. Ricordando, come ha scritto - in una nota in cui precisa alcuni punti - Giovanna Del Giudice, psichiatra che lavorò a fianco di Basaglia e che oggi è componente del Comitato Stop Opg, che "l’abolizione dei mezzi di coercizione - contenzione meccanica, letti a rete, camerini di isolamento, reti, inferriate, porte chiuse - fu tra i primi atti di grande valore etico e simbolico che, nelle esperienze innovative degli anni 60 e 70, a Gorizia, Colorno, Trieste, Nocera Superiore, Novara, Ferrara, Arezzo… avviarono processi di messa in discussione teorica e pratica del manicomio e dei suoi fondamenti giuridici e scientifici, fino alla sua definitiva chiusura". Se il manicomio non esiste più è perché, come ci rammenta Del Giudice "nel lontano 16 novembre 1961 Franco Basaglia, nel suo primo giorno di lavoro nell’ospedale psichiatrico di Gorizia, disse di "No", e rifiutandosi di firmare il registro delle contenzioni dette avvio ad un grande cambiamento che poneva fine alla negazione e violazione dei diritti e metteva le condizione per l’entrata delle persone con sofferenza mentale nella cittadinanza sociale". Gli schiavi del 2017: migranti rapiti e venduti al mercato di Daniela Fassini Avvenire, 13 aprile 2017 La denuncia dell’Oim: i giovani africani diretti in Europa venduti per 200-500 dollari. "La situazione è disperata, ormai è diventato sistematico". Lo scorso fine settimana lo staff dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim) in Libia e in Niger ha raccolto orribili storie accadute lungo le rotte migratorie del nord Africa, veri e propri racconti che parlano di un "mercato degli schiavi" che affligge centinaia di giovani africani che si recano in Libia. Non solo case di detenzione, violenze e ricatti. Un migrante senegalese che tornerà a casa dal Niger dopo mesi di prigionia in Libia racconta anche di un vero e proprio "mercato degli schiavi" a Sahba, nel sud ovest della Libia. Qui il giovane, proveniente dal deserto - viaggio per cui aveva già pagato 250 dollari - è stato accusato dal conducente del pick-up di non aver mai pagato la somma pattuita dal trafficante, ed è stato portato insieme a tutti gli altri compagni di viaggio in un’area di parcheggio. "In quel luogo migranti subsahariani erano venduti e comprati da libici, con il supporto di persone di origine ghanese e nigeriana che lavoravano per loro", spiega il senegalese allo staff Oim. Ha raccontato di essere stato "comprato" e di essere stato trasferito nella sua prima prigione, una casa privata dove oltre 100 migranti erano tenuti in ostaggio. I rapitori li costringevano a chiamare a casa, per farsi spedire del denaro col quale pagare il riscatto e proseguire il viaggio verso l’Europa. Di riscatto in riscatto, attraverso lavori forzati, spesso non pagati, i più fortunati riescono a raggiungere la costa e a imbarcarsi verso l’Europa. I meno fortunati non ce la fanno. "Tutto questo avviene in modo sistematico - spiega Giuseppe Lo Prete, capo missione Oim in Niger - il viaggio dura mesi e passano da una prigione all’altra in mano a gruppi armati". Alcuni migranti - in particolar modo nigeriani, ghanesi e gambiani - sono costretti a lavorare per i rapitori come guardie delle case di detenzione o negli stessi "mercati". "La situazione è disperata" aggiunge Mohammed Abdiker - Direttore del Dipartimento per le Operazioni e le Emergenze dell’Oim - tornato di recente da una missione a Tripoli. "Più l’OIM si impegna in Libia e più ci rendiamo conto di come il paese sia una vera e propria valle di lacrime per i migranti. Alcuni racconti sono veramente terribili e le ultime testimonianze relative a un "mercato degli schiavi" si aggiungono a una lunga lista di efferatezze" I migranti In Libia diventano "merce" da comprare, vendere e gettare via quando non ha più valore. "Proprio per far sì che questa realtà sia conosciuta in tutta l’Africa - conclude il portavoce Oim a Ginevra, Leonard Doyle - stiamo registrando testimonianze di migranti che sono passati per queste terribili esperienze e le stiamo diffondendo sui social media e sulle radio. I testimoni più credibili di queste sofferenze sono spesso proprio i migranti che tornano a casa con il sostegno dell’Oim. Purtroppo sono molto spesso traumatizzati e vittime di abusi, spesso sessuali. La loro voce ha un peso e un significato speciale, che nessun’altra persona può avere". Non bisogna dimenticare che in Siria le guerre sono due di Sergio Romano Corriere della Sera, 13 aprile 2017 Se le nostre democrazie hanno deciso che eliminare Assad è una condizione irrinunciabile, dovrebbero prepararsi a ciò che potrebbe succedere dopo. Sino a qualche giorno fa la nuova presidenza americana sembrava pensare che il presidente siriano Bashar Al Assad fosse necessario alla soluzione politica che dovrà, prima o dopo, mettere fine alla guerra civile nel suo Paese. Ora, il giudizio di Washington è cambiato e il regno degli Assad, secondo il segretario di Stato americano, sta volgendo alla fine. Non è escluso che questa linea, come è accaduto in altre circostanze, possa cambiare. Ma l’attacco chimico contro la città di Khan Shaykun e lo sdegno manifestato da Donald Trump nelle ore successive, rendono questa prospettiva, almeno per il momento, improbabile. La Russia continuerà a difenderlo, ma potrebbe essere costretta a sacrificare realisticamente il suo principale alleato nella regione. E il presidente siriano, se fosse costretto a lasciare il potere, andrebbe a raggiungere il folto gruppo dei leader autoritari arabi che hanno perduto il potere fra il 2003 e il 2011: Saddam Hussein in Iraq, Zine El-Abidine Ben Ali in Tunisia, Hosni Mubarak in Egitto, Muammar Gheddafi in Libia. In un caso (la Tunisia), il leader è stato cacciato dal suo popolo; negli altri dall’intervento militare delle democrazie occidentali o dalla "neutralità" con cui l’America di Barack Obama ha assistito alla defenestrazione politica di Mubarak. Sappiamo che cosa è accaduto. L’Iraq è diventato teatro di una guerra che dura da quattordici anni, ha contagiato l’intera regione e ha lasciato sul terreno un numero incalcolabile di vittime civili. La Tunisia ha dimostrato di avere forti spiriti democratici, ma è continuamente minacciata da gruppi jihadisti lungo le sue frontiere meridionali ed è diventata un vivaio di reclute per le milizie dell’Isis. L’Egitto è stato governato per parecchi mesi dalla Fratellanza Musulmana (una organizzazione che ha rivelato, quando è andata al potere, il suo volto integralista) ed è passato dalla semi-democrazia di Mubarak al regime autoritario e poliziesco del maresciallo Al Sisi. La Libia è stata devastata da una guerra tribale non ancora conclusa ed è oggi il principale capolinea mediterraneo delle migrazioni provenienti dal continente africano. La matassa siriana, in questo quadro, è la più imbrogliata. Di fronte alle proteste popolari Bashar Al Assad ha scelto di restare al potere e di resistere agli insorti. Ha riscosso qualche successo militare perché, a differenza di altri leader, ha potuto contare su alcuni importanti alleati: gli alauiti (una minoranza etnico-religiosa che appartiene alla grande famiglia sciita), i militanti del partito Baath, la borghesia commerciale e industriale di Aleppo, i cristiani e due grandi potenze: la Russia, presente in Siria con due basi militari sin dagli anni in cui si chiamava Unione Sovietica, e l’Iran degli Ayatollah. I suoi nemici sono numerosi, decisi a combattere e spesso sostenuti da importanze simpatie occidentali. Ma sono divisi in formazioni che hanno patroni diversi e perseguono obiettivi incompatibili. Quella che si combatte in Siria, dunque, è una doppia guerra civile. La prima è politica e sociale mentre la seconda, molto più pericolosa e sanguinosa, schiera in campo, gli uni contro gli altri, sciiti e sunniti, vale a dire le due grandi correnti religiose dell’Islam. Gli effetti di questo doppio conflitto sono caotici. L’Iran e gli Hezbollah sono sciiti e difendono risolutamente i cugini alauiti; mentre i sunniti che combattono contro Assad sono aiutati dai loro correligionari del Golfo anche quando appartengono a formazioni jihadiste e allo stesso Stato islamico. In questa vicenda le democrazie occidentali sono fra Scilla e Cariddi. Possono fare del loro meglio per cacciare Assad privandolo di qualsiasi riconoscimento internazionale o assestando, come nel caso della rappresaglia americana, qualche duro colpo militare. Ma rischiano in questo modo di favorire una forza di opposizione, l’Isis, che l’esercito sciita iracheno sta cercando di sconfiggere a Mosul con l’aiuto degli Stati Uniti. L’unico modo per uscire da questo imbroglio sarebbe quello di decidere quale sia il nemico peggiore: Assad o l’islamismo fanatico e radicale? La Russia ha scelto senza esitare perché vuole conservare le sue basi, deve fare fronte a un pericoloso islamismo domestico e ha un leader che può imporre la propria linea. Le democrazie occidentali, invece, devono rendere conto delle loro azioni alla pubblica opinione e tenere d’occhio il barometro elettorale. Ma se hanno deciso che la eliminazione di Assad è una condizione irrinunciabile dovrebbero almeno prepararsi a ciò che potrebbe succedere in Siria il giorno dopo. E gli europei, in particolare, dovrebbero ricordare che il Mediterraneo è la loro casa, non quella degli americani. Turchia. 219 detenuti in sciopero della fame in 27 carceri retekurdistan.it, 13 aprile 2017 Secondo i dati dell’Iniziativa di solidarietà con le carceri, 219 detenuti, 38 dei quali donne stanno partecipando allo sciopero della fame in 27 carceri. Altri gruppi di detenuti si stanno unendo allo sciopero irreversibile e a tempo indeterminato di massa giunto al 57° giorno. Lo sciopero della fame è partecipato da 219 detenuti, 38 dei quali donne. Siirt. I detenuti nel carcere chiuso di tipo E di Siirt hanno inviato una lettera attraverso le loro famiglie, annunciando che sono entrati in sciopero della fame irreversibile e a tempo determinato dal 10 aprile. I detenuti hanno affermato che il loro sciopero della fame chiede la fine dell’isolamento del leader del popolo curdo Abdullah Öcalan e la violazione dei diritti e le pressioni nelle carceri, e che continuerà sino a quando le loro richieste saranno accolte. La lettera dei detenuti afferma:" Il governo dell’AKP ha intensificato la repressione in carcere a seguito del lancio delle operazioni politiche di genocidio nel 2015, e ha aggravato il disumano isolamento della persona del leader Apo che significa vita o morte per noi detenuti politici, ed è la nostra linea rossa. Il livello raggiunto da questo isolamento va al di là della nostra tolleranza. Noi non possiamo accettare questo. Il 13 marzo, 5 detenuti hanno avviato uno sciopero della fame alternato. Questi prigionieri sono stato poi esiliati nel carcere chiuso di tipo T di Bandirma. Lo sciopero della fame è stato con ciò assunto da un secondo gruppo di sette prigionieri, e successivamente da un terzo gruppo di cinque. Le nostre proteste continueranno fino a quando finisce l’isolamento sul leader Apo". La lettera ha affermato che 5 detenuti-Serif Güngen, Zekeriya Seven, Zeki Cengiz, Yavuz Ödümlü, Mustafa Gündüz- sono entrati in sciopero della fame irreversibile e a tempo indeterminato il 10 aprile mentre il massacro contro il popolo curdo continua. Secondo la lettera, la detenuta Sevim Ekin è in sciopero della fame irreversibile e a tempo indeterminato dal 28 marzo,e due detenute-Naime Kaplan e Kübra Çelik- si sono unite oggi 12 aprile. Sincan - Nel carcere di Sincan, nella capitale turca Ankara, 7 detenute hanno incominciato uno sciopero della fame che è stato poi sostenuto da 9 altre. Anche un terzo gruppo ha lanciato uno sciopero della fame il 10 aprile, aumentando il numero totale degli scioperanti nel carcere di Sincan a 25. Bolu - Lo sciopero della fame irreversibile e a tempo determinato avviato da 10 detenuti nel carcere di tipo T di Bolu è stato sostenuto da altri detenuti l’11 aprile. In nomi di questi detenuti sono: Recep Belik, Ali Dalaban, Mahmut Yamalak, Savas Barik, Süphan Delen, Murat Çetinkaya, Murat Satilmis, Özkan Kart. Tokat - Anche 5 detenuti nel carcere di tipo di T di Tokat hanno avviato uno sciopero della fame a tempo indeterminato in aprile. i nomi di questi detenuti sono; Rojhat Aydin, Mehmet Yigit, Murat Sönmez, Sinan Sayik, Mehmet Emin Ogur. L’appello contro la persecuzione dei gay in Cecenia di Riccardo Noury Corriere della Sera, 13 aprile 2017 In Cecenia è in corso una campagna persecutoria ben orchestrata contro la comunità Lgbti. Altro che, come aveva replicato il presidente ceceno Ramzan Kadyrov, "un pesce d’aprile riuscito male" dato che, come aveva aggiunto il suo portavoce Alvi Karimov, nel paese "non ci sono omosessuali". La notizia, subito ripresa dal nostro blog, era stata rivelata il 1° aprile dal quotidiano indipendente russo Novaya Gazeta attraverso un’inchiesta di una delle sue giornaliste più famose, Elena Milashina, già minacciata di morte due anni fa per denunciato i matrimoni forzati e precoci in Cecenia. Dunque, oltre 100 uomini sospettati di essere omosessuali sono stati rapiti, trasferiti in un luogo segreto, torturati e in alcuni casi persino uccisi, secondo un modello - mai indagato né contrastato efficacemente - di sparizioni forzate riscontrato nel corso di questi anni nella stessa Cecenia e in altre repubbliche del Caucaso del Nord. Il centro segreto di detenzione (preferisco chiamarlo così piuttosto che "campo di concentramento") sarebbe un’ex stazione di polizia nei pressi di Argun. Vi si troverebbero anche persone sospettate di far parte del gruppo armato Stato islamico e presunti consumatori di droga. Secondo Novaya Gazeta, i morti sarebbero almeno tre. Alcuni degli uomini rapiti sono stati rilasciati e riconsegnati alle famiglie in quanto il loro comportamento omosessuale non sarebbe stato verificato. L’organizzazione non governativa Russian Lgbti Network ha aperto una linea telefonica d’emergenza ma pare che le autorità locali la stiano monitorando per individuare altre persone di "orientamento non tradizionale", per citare l’espressione usata da Dimitry Peskov, addetto stampa dell’amministrazione presidenziale del Cremlino. Amnesty International ha lanciato un appello alle autorità russe chiedendo di svolgere indagini tempestive, efficaci e approfondite su quanto denunciato da Novaya Gazeta, di assicurare alla giustizia e di prendere tutte le misure necessarie per garantire la sicurezza di chiunque sia a rischio in Cecenia a causa del suo orientamento sessuale.