"Il mio ergastolo è stato l’ergastolo dei miei figli" di Monica Coviello Vanity Fair, 12 aprile 2017 Ornella Favero lavora da vent’anni nella redazione di una rivista edita in carcere. Conosce i detenuti e le loro storie: le ha raccolte in un libro che è appena uscito. In cui dà voce alla sofferenza di chi è condannato a essere "cattivo per sempre". Ornella Favero non è una volontaria "buonista". Lavora in carcere da vent’anni: è giornalista e direttrice della rivista Ristretti Orizzonti, che ha una redazione composta da 35 detenuti. E adesso ha pubblicato un libro che racconta la sua esperienza: si chiama Cattivi per sempre? Voci dalle carceri: viaggio nei circuiti di Alta Sicurezza, uscito per la collana Le Staffette, edizioni Gruppo Abele. Sono le storie di vita dei detenuti nei circuiti di Alta Sicurezza, che hanno vissuto anni di regime duro al 41-bis, persone incarcerate per reati di stampo mafioso. Favero ha visitato gli istituti, parlato con i detenuti e il personale, sentito i familiari. E ha raccolto e riferito le loro vicende nell’ottica di una persona che odia il vittimismo: "Non condivido l’idea del "povero detenuto" - spiega. Sono convinta che ci si debba sempre assumere la responsabilità delle proprie azioni". In questo senso non è una volontaria "morbida". Ma Ornella Favero, per quei detenuti, ha lottato e sta lottando ancora. Perché, anche se rimarca la convinzione che la colpa della detenzione sia loro, per lei è necessario che il carcere riacquisti la sua funzione più nobile: quella del recupero. Per loro e per la società intera. Nelle sezioni di Alta Sicurezza delle carceri ci stanno "i mafiosi". Bisogna trattarli duramente, senza pietà? Lei è convinta di no. "È follia pensare che una persona possa cambiare rimanendo in un "ghetto" con altri che abbiano fatto lo stesso percorso - ci spiega. Il cambiamento è possibile solo se ci si confronta con il resto del mondo. In più, i detenuti hanno alle spalle le famiglie, e se cambiano loro, si trasforma anche la cultura che trasmettono ai loro figli. Devono segnare un distacco dalla realtà criminale, chiudere con il passato". Per questo nasce il suo libro: è una testimonianza di quello che succede davvero in carcere. "Perché sono convinta che si debba cambiare strada, cambiare il punto di vista delle istituzioni. Non tutti, ma qualcuno ha voglia di staccarsi dalla sua storia, quando ha la possibilità di vedere altro, rispetto a quello a cui è abituato. Finché ai figli dei detenuti mostriamo che i loro padri vengono trattati con crudeltà fino alla fine, loro non potranno che detestare le istituzioni". Oggi ci sono 9 mila detenuti in Alta Sicurezza, in Italia. "Chi fa parte di queste sezioni sta solo con altre persone nelle stesse condizioni. E si sentono vittime, si vittimizzano tra di loro. Sono lontani dalle famiglie. Non cambiano. La nostra battaglia vuole far sì che si riconosca che non hanno più legami con il passato e che, quindi, possano passare alla sezione comune, avvicinarsi a casa, fare colloqui con la famiglia. Bisogna cambiare strada. Perché l’ergastolo dei detenuti non sia più l’ergastolo delle famiglie". Ornella Favero ci ha concesso di pubblicare uno dei racconti del suo libri, quello fatto da Biagio Campailla, siciliano trapiantato a Bruxelles, ora ergastolano. Arriva al 41-bis da una carcerazione civile e dignitosa in Belgio, dove gli affetti vengono tutelati davvero, dove contano prima di tutto i sentimenti dei familiari, e la sicurezza viene garantita proprio da una detenzione "umana", che è il vero freno a qualsiasi forma di violenza da parte del detenuto. Ma il suo 41-bis è anche "area riservata", che vuol dire un regime di isolamento pressoché totale, al punto che l’amministrazione, per non subire accuse di disumanità, ha dovuto inventarsi di trovare per ogni detenuto isolato in queste condizioni una "dama di compagnia", un altro detenuto sacrificato per dare una parvenza di umanità a un regime, che l’umanità non sa cosa sia. E proprio la definizione "dama di compagnia" suona come una beffa, una triste idea del detenuto "accudito" da questa figura che lo affianca per rendere la sua solitudine ancora più amara. Racconta Biagio Campailla: "Voglio partire da molto indietro, io vengo arrestato nel 1998 in Belgio, ma dopo il mio arresto, in attesa dell’estradizione, non mi vengono impediti i colloqui con la mia famiglia, ciò significa che io facevo tre colloqui settimanali con i figli, in più il mercoledì dalle 14.00 alle 18.00 potevo fare i compiti con loro fino al compimento dei diciotto anni, senza la presenza dell’agente penitenziario, ma con un educatore, in modo che potevo fare il papà, parlare dei loro problemi, delle difficoltà dell’adolescenza. In più in Belgio hai diritto a due colloqui di quattro ore mensili "affettivi", che puoi fare con la moglie o con la compagna. E hai una scheda telefonica con un codice pin, e puoi telefonare tutti i giorni quando vuoi, due, tre, quattro, cinque telefonate, dalla mattina alle 8.00 fino alle 18.00 di sera, là ti permettono di avere un vero rapporto con la famiglia, ai miei figli durante quei cinque anni, sì, gli è mancata la presenza di un padre, ma non in modo così forte come è successo dopo. Ecco, quando poi sono stato estradato in Italia, sono andato subito in regime di 41-bis. Nel regime di 41-bis, ogni giorno ti alzi alle sei di mattina, alle otto passa l’agente per la battitura delle finestre per vedere se tu durante la notte hai segato le sbarre, poi hai un’ora d’aria, prima del 2009 erano due ore d’aria, poi con una circolare del ministro Alfano è stato ridotto tutto a un’ora, fino a che non sapevano come colpirci ancora e allora sono arrivati a toglierci anche i fornelli per il mangiare, questa è la punizione che abbiamo, dobbiamo solo subire. Io poi ho fatto un regime particolare, che è l’area riservata, per dieci anni sono stato isolato totale, in una cella di un metro e cinquantadue di larghezza e due metri e cinquantadue di lunghezza compreso il letto e tutto, non mi arrivava nessun raggio di luce, perché era proprio come sotto terra. Ogni giorno c’è la perquisizione, e dopo vai a fare l’ora d’aria, quando rientri sei là con quell’ansia che aspetti una lettera dei figli, della famiglia, ma la posta è tutta censurata sia in arrivo che in uscita dal 41-bis, una parola messa male e ti viene bloccata la lettera, poi resti in attesa che il magistrato di Sorveglianza vada a identificare quella parola, e se non è criptata come pensano loro, dopo due, tre, quattro mesi ti arriva la risposta della figlia. A mezzogiorno ti mangi il pasto che ti passa l’amministrazione, all’una vai a farti quell’ora di saletta. Nel regime di 41-bis area riservata, tu vai al massimo con un’altra persona, ti assegnano un altro compagno e ci sono anche dei periodi che per mesi e mesi rimani da solo; invece nelle sezioni di 41-bis non area riservata, sei assegnato con tre persone, puoi andare per quelle ore d’aria con quelle tre persone, puoi svolgere tutto con quelle tre persone. Il pomeriggio al massimo alle 17.00 ti prepari per andare a letto, perché è finita la giornata, dopo che ti passano la cena alla sera consegni agli agenti gli oggetti che loro ti riconsegnano la mattina, tra cui rasoio, specchio, tagliaunghie, le cose personali, alle 19.00 gliele riconsegni tutte. Cambia qualcosa nella tua vita solo quando sai che puoi avere un colloquio con la famiglia, ecco l’ansia arriva e cresce di minuto in minuto, vuoi dire tante cose ai figli, per sapere cosa è successo a scuola, come stanno, ti metti tante cose in testa perché non ti puoi permettere di scrivere neanche un bigliettino, altrimenti possono pensare che sia un codice che vorresti far vedere. Quel giorno ti prepari per incontrare la famiglia, ma quando arrivi là, la prima cosa che succede è guardare il loro viso, e allora vedi che sono affaticati e stanchi, e non ti viene di chiedere più nulla, cerchi di ragionare sulle cose che sono successe nell’immediato, ma c’è un vetro che ti separa, hai una telecamera puntata sulle labbra, che ti fa da video e da audio, dove anche il labiale ti viene tutto registrato. Il colloquio è un’ora al mese, dietro un vetro, incominci a gridare perché non ti sentono, il vetro è grosso, intanto ti prepari gli ultimi dieci minuti per passarli con il figlio o la figlia più piccola senza il vetro, ma quando gli ultimi dieci minuti viene un agente penitenziario a prendere i bambini, là arriva il trauma perché devono lasciare la mamma, andare con una persona estranea, ed è dura, subiscono una perquisizione anche i bambini, la subisco anche io, vieni denudato e poi vai a fare quei dieci minuti di colloquio con la bambina, e c’è un bancone, non la puoi tenere vicina a te. Veronica l’ho lasciata che aveva dodici anni, oggi me la ritrovo a ventotto, mamma di due figli, Veronica me la ricordo quando mi diceva dietro il vetro: "Papà, cosa è successo? fino a qualche mese fa mangiavamo assieme in Belgio, ora ti debbo toccare dietro un vetro". Veronica è quella che ha subito di più. È dura, è dura, io penso che le ho fatto del male, sono arrivato a un certo punto a domandarmi: ma cosa debbo fare, per sapere la vita dei miei figli, come vanno a scuola, devo fargli subire questa tortura, oppure inventarmi qualcosa e non farli venire più, in modo che non vivano queste angosce? Però devo dire grazie a loro, Veronica non mi ha abbandonato mai, con due delle mie figlie è successo il contrario, che le ho perse, non le ho più viste. Poco tempo fa con Veronica ragionavamo proprio su questo, non sapevo tante cose io, che una delle mie figlie è stata male, è stata in ospedale, è stata seguita da psichiatri e psicologi. Di recente ho ricevuto una lettera di un’amica dei miei figli che mi riferisce le parole di una delle mie figlie: chiedo scusa a mio padre perché da tanti anni non ci sono andata, ma ho paura, del rumore delle sbarre, dei vetri, di tutto. Ecco questo ha causato alle mie figlie il 41-bis. Nel momento poi in cui esci dal 41-bis, dopo anni di vita da solo, vivi forse la più grande paura della vita. Del primo colloquio visivo "normale" ricordo panico, sudore, tremore, dopo dieci minuti volevo scappare e rientrare in cella, perché il contatto umano lo avevo perso. È venuta mia figlia Rita al primo colloquio, e io le ho detto: "Non mi chiedere niente, fatti solo osservare, fammi riprendere la parola, poi ne riparleremo". Quando sono arrivato a Padova, venivo da un regime in cui alla violenza rispondi con la violenza, io prima che mi aggredissero partivo all’attacco, qui invece sono riuscito a iniziare un percorso nuovo e oggi ho fatto tanti passi avanti, soprattutto grazie al progetto con le scuole, e dovermi presentare e parlare con tanti studenti mi ha portato a una riflessione, a capire che cosa significa "spezzare la catena del male". Spezzare la catena del male significa anche non avere più quella rabbia che ti fa reagire ed essere violento, cercare invece di capire la persona che ti parla e di contenere l’aggressività, a questo mi ha portato il progetto con le scuole". Interrogazione di Campanella (Si): perché i bambini continuano a restare in prigione? Ansa, 12 aprile 2017 "È dalla condizione delle carceri che si misura lo stato di salute di una democrazia. Se non riusciamo nemmeno a garantire alle 2.818 detenute assorbenti, prodotti per l’igiene intima e una adeguata assistenza ginecologica e pediatrica, quando hanno un figlio, direi che la democrazia ha davvero fallito". Così il Senatore Francesco Campanella (Sinistra Italiana) che insieme al collega Fabrizio Bocchino ha presentato questa mattina un’interrogazione urgente al Ministro della Giustizia, sollecitata dalla denuncia del programma "Radio Carcere", condotto da Riccardo Arena su Radio Radicale. "La cosa più grave è che le misure per migliorare la condizione della cinquantina di bambini tuttora detenuti con le loro madri, restano completamente inapplicate", prosegue il Senatore. Secondo quanto disposto dalla legge 21 aprile 2011, n. 62, in vigore dall’1 gennaio 2014, le madri dovrebbero scontare la pena con i loro figli fino al compimento del sesto anno di vita del bambino, non più solo fino al terzo e non in carcere, facilitando l’accesso delle madri alle misure cautelari alternative e prevedendo che la pena sia scontata in istituti a custodia attenuata, "luoghi colorati, senza sbarre, a misura di bambino", ricorda il Senatore. "Le tipologie delle case-famiglia protette avrebbero dovuto essere definite entro 180 giorni dall’entrata in vigore della legge, d’intesa con gli enti locali e la Conferenza stato-regioni, e avrebbero dovuto essere stipulate convenzioni con gli enti locali per aprire tali strutture, ma finora a quanto pare ne esistono soltanto due, completamente insufficienti", prosegue Campanella. L’arma impropria della giustizia di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 12 aprile 2017 Succede anche all’estero che le notizie giudiziarie finiscano nel frullatore della politica, ma non come da noi. Lasciamo che i magistrati lavorino. "È mejo del Duce". È passato quasi un quarto di secolo da quando Maurizio Gasparri trovò ridendo la sintesi della sua cotta per Antonio Di Pietro. Cotta condivisa ("Lo consideravamo il nostro referente nel pool di Mani pulite", dirà ai giudici Cesare Previti) da un po’ tutto il centrodestra. "Di Pietro vada avanti a tutta manetta", tuonava Umberto Bossi. "Le mie tivù sono al suo servizio", incoraggiava Silvio Berlusconi. "Ha fatto bene il poliziotto, ha fatto bene il giudice, potrebbe fare altrettanto bene anche il politico", omaggiava Pier Ferdinando Casini. E via così. Come sia finita si sa. Raffreddati gli entusiasmi che avevano spinto la destra a offrirgli il Viminale, vinse infine il corteggiamento di Massimo D’Alema ("Conosco Di Pietro per una strana coincidenza: ci siamo simpatici") e sull’ex pm "traditore" si rovesciarono anni di insulti. Sintetizzati in uno sfogo del Senatur ("Un terun che voleva fare un processo etnico al Nord") e uno del Cavaliere: "È il leader dei forcaioli". Eppure, un quarto di secolo dopo, buona parte dei politici, quale che sia la tessera in tasca, sembra non essersi ancora liberata dalla tentazione di leggere ogni inchiesta giudiziaria, ogni avviso di garanzia, ogni fuga di notizie, ogni spiffero sortito dalle intercettazioni, con gli occhiali della bottega partitica cui appartengono. Chi aiuta? Chi danneggia? Dove può portare? "Un’altra macchinazione! Mio papà sta piangendo", ha detto Matteo Renzi dopo aver saputo del rapporto taroccato su suo padre, ribadendo "la piena fiducia nei giudici". "Non possiamo non rilevare come in nessun passo della predetta sentenza si sostenga che la Cassimatis è la candidata sindaco del Movimento 5 Stelle", ha spiegato Beppe Grillo. Ma in ogni caso "la stessa non è né sarà candidata con il Movimento 5 Stelle a Genova". Perché anche la magistratura, ogni giorno invocata, può bene sbagliare! Diranno i grillini che loro no, non hanno mai indugiato in questo gioco. E non hanno mai affermato come Berlusconi che ci son "giudici che si sono fatti braccio armato della sinistra per spianare a questa la conquista del potere". Né hanno messo in discussione il lavoro dei magistrati come la sinistra in varie inchieste come sui rapporti con Raul Gardini (e la famosa valigetta…), su Filippo Penati e "il sistema Sesto", sulla scalata Unipol e altre ancora… I due pesi e le due misure usati nei confronti di vari esponenti del M5S, a partire da Federico Pizzarotti rispetto a Filippo Nogarin che solo "dopo" ha riconosciuto l’esistenza di indagini su di lui liquidate dal blog grillino col titolo "Falso!" (per non dire della campagna "Non comprate il Tirreno: non finanziate la disinformazione di regime!") dicono però che la tentazione di gonfiare o sgonfiare ogni mossa dei giudici a seconda di chi è nel mirino è ben presente anche nel Movimento. Dice tutto il confronto sulla gravità di due fatti rinfacciati agli ultimi sindaci di Roma. Di qua l’invettiva ("#MarinoDimettiti e Roma subito al voto!") contro Ignazio Marino reo di "avere mentito non solo ai cittadini romani, bensì all’istituzione del Campidoglio" dichiarando "il falso, ovvero di aver pagato il 26 ottobre 2013 una cena al ristorante "Sapore di Mare" ad alcuni rappresentanti della Comunità Sant’Egidio". Cena smentita. Di là la scelta di sdrammatizzare le polizze vita sottoscritte da Salvatore Romeo o le bugie sull’assessore Paola Muraro "non indagata" (lo era: e lei lo sapeva) o sulla promozione ("feci tutto io": falso) di Renato Marra, fratello del potentissimo Raffaele. Cosa sarebbe successo se il protagonista fosse stato un sindaco di destra o di sinistra? "A nostro avviso l’onestà deve essere il faro ma attenzione che non venga utilizzato strumentalmente per colpire una forza politica che sta tentando di riportare pulizia e legalità", spiegò un anno fa la non ancora sindaca a CorriereLive. Di più: "Attenzione che gli avvisi di garanzia non vengano utilizzati come dei manganelli". Giustissimo. Ma questo è il nodo. Lei stessa fu infatti la prima a liquidare come un appestato, dopo la scoperta che aveva un "avviso", il nuovo assessore al bilancio Raffaele De Dominicis, lodato il giorno prima come "persona di primissimo piano e di alto profilo" da sempre impegnata "per la legalità e la trasparenza". Un trattamento già riservato dal blog beppegrillo.it a Bruno Valentini, sindaco Pd di Siena, "avvisato" e subito incitato a sloggiare (#ValentiniDimettiti) col contorno del solito refrain ("nessun telegiornale di regime riportò la notizia") e destinato poi a Luca Lotti, Tiziano Renzi e così via. Tutti colpevoli prima ancora non solo di una sentenza, fosse pure di primo grado, ma di un processo. Esattamente come Ilaria Capua, coperta di insulti e poi prosciolta. Senza scuse. Come la mettiamo: ci sono giudici buoni e giudici cattivi? Avvisi di garanzia pesanti come incudini e leggeri come piume? Carabinieri affidabili e carabinieri inaffidabili a seconda degli inquisiti, come quello indagato per aver falsato l’inchiesta Consip dando origine, tra l’altro, a una frattura tra le stesse Procure di Napoli e di Roma? Certo, succede anche all’estero che le notizie giudiziarie finiscano nel frullatore della politica. Ovvio. Ma non con la frequenza che registriamo noi. Non con gli stessi toni. Non con l’immediato dispiegamento di partigiani sull’una e l’altra trincea a prescindere, troppe volte, dai fatti. Eppure dopo tanti anni dovremmo avere imparato qualcosa. È indispensabile vigilare sì, sempre, sul lavoro della magistratura e gli eventuali abusi. Ne abbiamo già visti. Basta. Il buon senso, però, suggerisce di lasciare anche che i magistrati lavorino. O c’è chi pensa che possa essere la politica, rovesciando le parti, a esercitare le funzioni di supplenza e magari a scegliersi i giudici volta per volta? No di pm e avvocati al ddl penale: la fine delle maxi-riforme di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 12 aprile 2017 Tutti scontenti: cambiare il sistema giustizia è impossibile. l’Anm si mobilita contro l’avocazione obbligatoria. Continua la protesta dell’Ucpi: ieri flash mob in toga a milano. Segno che mediare non basta, e che leggi-omnibus sono un rischio. Con l’approvazione del ddl penale, prevista entro maggio alla Camera, rischia di doversi definitivamente chiudere la stagione delle maxi riforme in tema di giustizia. "Sorprese" sul definitivo via libera, senza modifiche rispetto al testo del Senato, non dovrebbero esserci. Anche perché, come spiega il capogruppo pd in commissione Giustizia alla Camera Walter Verini, "chi volesse modificare ancora il testo si assumerebbe la responsabilità di correre un rischio: non arrivare all’approvazione definitiva". Le osservazioni del deputato dem si fondano anche su una considerazione molto concreta: nella maxi-legge sono contenuti due passaggi su intercettazioni e riforma penitenziaria per i quali sarà necessario emanare decreti delegati al più tardi entro la fine della legislatura, sul cui termine, in questi giorni, nessuno azzarda previsioni. Il tempo, quindi, mai come in questo caso è "tiranno". Va detto, entrando nel merito del ddl penale, che la riforma targata Orlando scontenta paradossalmente tutti. Dopo essere stati coinvolti e in parte ascoltati nella fase preparatoria, magistrati e avvocati hanno chiesto modifiche al testo anche in questo rush finale, senza però ottenerne. L’Anm continua a contestare due passaggi: l’automatismo con cui il procuratore generale dovrebbe acquisire tutti i fascicoli per i quali il pm, dopo 3 mesi, non ha ancora esercitato l’azione penale; e l’esclusione delle associazioni a delinquere non mafiose dal novero dei reati per i quali i trojan horse sono sempre utilizzabili. Gli avvocati, di contro, hanno insistito per modificare le norme sull’allungamento della prescrizione e sui processi in videoconferenza in caso di imputati detenuti. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando, per i citati motivi di "scadenza" della legislatura, ha già detto "no" sia ad Eugenio Albamonte, neo presidente dell’Anm, che a Beniamino Migliucci, al vertice dell’Unione Camere penali. In risposta, il primo ha programmato per i prossimi giorni una conferenza stampa per sensibilizzare l’opinione pubblica sulle criticità del ddl. Il secondo, di contro, ha indetto due settimane di astensione dalle udienze. E i suoi colleghi milanesi hanno dato vita ieri a Palazzo di Giustizia anche a un flash mob in toga. Riformare la giustizia in maniera condivisa, in conclusione, pare impossibile. Soprattutto per quanto attiene il codice di rito. Entrato in vigore nel 1989, nelle intenzioni del legislatore avrebbe dovuto consentire all’Italia di porsi sullo stesso livello delle maggiore democrazie occidentali. Dal rito inquisitorio al rito accusatorio, con la prova che si sarebbe dovuta formare in dibattimento nel contradditorio delle parti. Come è andata a finire è sotto gli occhi di tutti. Il codice di procedura penale in questi anni è stato stravolto con modifiche spesso in contrasto con l’impianto originario. La durata dei processi non è diminuita e le tanto agognate garanzie per l’imputato sono rimaste lettera morta. Ulteriori delle modifiche previste nel ddl penale in via di approvazione potrebbero anche complicare ulteriormente lo scenario. Rendendo il processo penale un "dedalo" di durata infinita. Le posizioni, dopo anni di contrasti anche accesi, sono distanti e nessuno ha voglia di fare il primo passo. La soluzione migliore sarebbe di rivedere in radice l’attuale impianto procedurale. Ma servirebbe una classe politica capace di ribellarsi al mainstream giustizialista. Cosa che al momento appare impossibile. Legittima difesa. Blitz della Lega: il testo va in aula di Sara Menafra Il Messaggero, 12 aprile 2017 Il gruppo di Salvini impone il voto "in quota opposizione". Ma è ancora scontro tra dem e alfaniani, oggi nuovo vertice. Non c’è accordo e non sembra esserci mediazione possibile tra Partito democratico e Alternativa Popolare, ma il voto in aula ci sarà. E andrà trovata una mediazione In quella che rischia essere una corsa contro il tempo su un argomento delicatissimo e molto popolare, il testo sulla legittima difesa. Fino alla riunione della commissione giustizia a tarda sera, quando la Lega impone che sul testo ci sia comunque un voto in Commissione e che il 19 si vada in aula. Con o senza accordo interno alla maggioranza, visto che la proposta di legge è "in quota opposizione" e dunque è quest’ultima a decidere se l’aula di Montecitorio debba esprimersi oppure no. Il Consiglio dei ministri - Che lo scontro sia incandescente all’interno della maggioranza, lo dimostra fin dal pomeriggio il via vai di vertici che si susseguono mentre l’aula di Montecitorio sta proseguendo le votazioni sul decreto Minniti (il voto definitivo è previsto per oggi, ieri si è votata la fiducia). Fino a quando arriva la convocazione del Consiglio dei ministri, centrato in particolare sul def. Qui, il ministro della Giustizia Andrea Orlando voleva ottenere l’ok a dare parere favorevole al testo del relatore dem David Ermini, che però non interviene direttamente sull’eccesso colposo di legittima difesa. Orlando avrebbe voluto anche il via libera all’emendamento proposto da Walter Verini, intenzionato a sostenere economicamente chi si trovi coinvolto in processi penali per essersi difeso armi in pugno da un furto o una rapina. Ma il ministro degli Esteri Angelino Alfano e quello della Famiglia Enrico Costa hanno alzato le barricate. Risultato: il governo non si esprime, prende tempo, formalmente per "analizzare meglio" gli emendamenti presentati. Il colpo di scena - Quando però la commissione giustizia si riunisce a tarda sera, la situazione cambia ancora una volta. La Lega impone la propria posizione, dicendo che non gli importa se il governo ha chiesto tempo, la commissione deve comunque esprimersi, a questo punto questa mattina (la riunione è convocata per le 9). Il capogruppo della Lega alla Camera, Massimiliano Fedriga, lo dice anche in aula, protestando per le riunioni "informali" della maggioranza: "Si tratta di una legge importante e delicata sulla quale, tra l’altro, il governo ha chiesto il rinvio della discussione in aula", dice. Oggi ci sarà dunque il voto in commissione, con un parere "tecnico" del governo. E il 19 comincerà il dibattito in aula. Le due posizioni - Al momento le linee dei due pezzi della maggioranza sono inconciliabili. Alternativa popolare chiede di fatto di eliminare il reato di eccesso colposo di legittima difesa. La norma proposta dal dem Ermini interviene solo sulle cause di giustificazione del reato. Ma a questo punto sarà difficile evitare l’accordo. Legittima difesa, riforma o far west di Renato Quadrato Gazzetta del Mezzogiorno, 12 aprile 2017 È, il nostro, il tempo della ferocia, della disumanità. Omicida che non conosce "pietà", come ha rivelato Maria, la moglie di Davide Fabbri, il barista ucciso per rapina a Budrio: "occhi di giaccio", quelli dell’assassino, privi di quel sentimento di compassione che dovrebbe essere innato nell’animo umano, anche del killer più sanguinario. Vengono a mente le parole della Genesi (6.5-6): "Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che ogni disegno concepito dal loro cuore non era altro che male. E il Signore si pentì di aver fatto l’uomo sulla terra e se ne addolorò in cuor suo". Igor Vaclavic, ricercato in quanto presunto colpevole, ha un curriculum criminale impressionante, risalente al 2007, anno in cui viene arrestato per cinque rapine compiute tra Rovigo e Ferrara. Scarcerato nel 2010, torna a delinquere. Arrestato di nuovo, sempre per rapina, resta in carcere fino al 2015. Pur se colpito due volte da decreti di espulsione, non ci si riesce a liberarsi di lui. Il che solleva dubbi sulla capacità del nostro Stato di "assicurare la certezza del diritto, il rispetto della Legge": "princìpi" che, come ha rilevato nel suo editoriale di Domenica Giuseppe De Tomaso, sono i "pilastri... del vivere civile". Cardini che uno Stato autorevole dovrebbe essere "in grado di garantire". È, quello della rapina a mano armata, diventato un problema che affligge il nostro Paese: una vera emergenza. Ogni giorno, in Italia, come risulta dalla cronaca, si verificano numerose rapine. Non solo vengono presi d’assalto uffici postali, banche, tabaccherie, farmacie, esercizi commerciali, distributori di carburanti, bar, ma rapine vengono compiute anche per strada, anche per pochi soldi (il caso di Leonardo Lo Cascio, sgozzato per 10 euro), e molte nell’ambito domestico. Di qui la rabbia della gente, che vive nella paura, che non si sente al sicuro neppure nella propria casa e invoca a gran voce una riforma della "legittima difesa". Una modifica della legge che tenga conto del grave turbamento psichico di chi subisce un’aggressione: uno stress psicologico che gli impedisce l’autocontrollo, non gli consente di calibrare con freddezza l’intensità e la modalità della reazione all’offesa subita. "È tardi", avverte in una delle sue massime il poeta latino Publilio Siro, "cercare una riflessione quando si è in mezzo ai pericoli" (Sero in periclis est consilium quaerere). C’è un allarme sicurezza tra i cittadini. E intanto il Parlamento tentenna, non riesce ad aggiornare l’articolo 52 del codice penale sulla "difesa legittima" (come recita testualmente la rubrica della norma, e non "legittima difesa", come solitamente si usa dire). È dal 2015 che se ne discute, ma non si riesce a trovare un accordo. Il tempo passa, e la sfiducia, e la rabbia, dei cittadini aumentano. E negli Italiani, stanchi di attendere, irritati dalla lentezza e dalla indolenza del legislatore, preoccupati dal propagarsi della criminalità, si va sempre più diffondendo, e pericolosamente, una sete di giustizia personale. Crescono le domande volte ad ottenere la licenza di possedere una rivoltella o un fucile ricorrendo all’espediente della detenzione di un’arma per uso sportivo o venatorio. Una tendenza inquietante, che rischia di trasformare l’Italia in un Far West. Chi si sente minacciato nel bene supremo, la vita, e che si ritiene trattato non come cittadino ma come suddito dallo Stato - che, secondo la ideologia sottesa al Codice penale del 1930 (il Codice Rocco), riserva a sé la repressione dei crimini e considera la "difesa legittima" una sorta di autorizzazione benevola - è tentato di farsi giustizia da sé, ritenendo lecito "respingere la violenza con la violenza". Un principio che risale al mondo antico. È menzionato nel Digesto di Giustiniano, in un passo (9.2.45.4) in cui si legge che "coloro i quali, non potendosi difendere altrimenti" (cum aliter tueri non possent) "abbiano cagionato un danno" (damni culpam dederint), "sono incolpevoli" (innoxii sunt): "infatti tutte le leggi e tutti gli ordinamenti giuridici permettono di respingere la forza con la forza" (vim enim vi defendere omnes leges omniaque iura permittunt). Ma ne fa un richiamo suggestivo già Cicerone in uno squarcio della orazione in difesa di Milone (4.9-10), in cui, nel ricordare che "ci sono casi, e molti, in cui il diritto consente di uccidere, e la necessità impone di rimuovere la violenza con la violenza" (vi vis illata defenditur), aggiunge: "è, questa, una legge non scritta, che abbiamo preso, attinto, ricavato dalla natura, e alla quale siamo stati iniziati non per erudizione ma in forza della nascita, non per formazione ma per istinto, sì che ove la nostra vita venga a trovarsi esposta a qualche agguato oppure alla violenza e alle armi di predoni o di nemici, è da considerare lecito ogni mezzo utile alla nostra incolumità". Ed è un richiamo, quello al diritto naturale, che si ritrova finanche in San Tommaso (Summa Theologiae), per il quale, nel caso della legittima difesa, essendo la società priva di un potere di coazione, è la natura a fornire all’aggredito l’unico mezzo possibile con cui esercitare questo potere: la violenza. C’è, dunque, bisogno di un intervento, e indifferibile, del legislatore. Che aggiorni la normativa vigente nell’art. 52 del codice penale, il cui dettato riprende la formulazione risalente al 1930 ("Non è punibile chi ha commesso il fatto, per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa"), sia pure con una novità. Nei commi secondo e terzo, che integrano, e arricchiscono il vecchio testo, si dispone che "Nei casi previsti dall’articolo 614" - che riguarda la "violazione del domicilio", e cioè "l’abitazione altrui" o "altro luogo di privata dimora" o "appartenenze di essi" - chi è "legittimamente presente in uno dei luoghi ivi indicati" può usare "un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere: a) la proprietà o la altrui incolumità; b)i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo d’aggressione". E, a completare il precetto, si aggiunge che "la disposizione... si applica anche nel caso in cui il fatto sia avvenuto all’interno di ogni altro luogo ove venga esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale". Ma c’è un difetto nella lettera della norma. Riguarda il criterio della proporzione tra offesa e difesa, che è difficile da stimare e da applicare. E al riguardo potrebbe rivelarsi utile al legislatore ispirarsi alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, redatta a Roma il 4 Novembre 1950. Nel sancire, nell’articolo 1, il "diritto alla vita di ogni persona" e, nel dichiarare che "nessuno può essere intenzionalmente privato della vita", nel comma 2, con un linguaggio semplice, tale da non prestarsi a equivoci interpretativi, si afferma che "la morte non si considera cagionata in violazione del presente articolo se è il risultato di un ricorso alla forza resosi assolutamente necessario: a) per garantire la difesa di ogni persona contro la violenza illegale". Difendersi in casa è legittimo e chi lo fa va tutelato: lo pensa il 70% degli italiani di Sara Menafra Il Messaggero, 12 aprile 2017 Sondaggio Swg: per il 43% giusto reagire con ogni mezzo. Va in aula la nuova legge. Non cercano una licenza di uccidere senza scrupoli, gli italiani che ora chiedono a gran voce di depenalizzare ulteriormente la legittima difesa, rispetto alle già ampie modifiche fatte nel 2006. In aula la nuova legge. Non cercano una licenza di uccidere senza scrupoli, gli italiani che ora chiedono a gran voce di depenalizzare la legittima difesa. Vogliono però che chi è "costretto" a sparare non sia considerato automaticamente un criminale. La fotografia che emerge dal sondaggio che Swg ha elaborato per Il Messaggero ha dati molto netti. Su un campione di 1.000 abitanti, parametrato per età e dislocazione sul territorio, i numeri dicono che la stragrande maggioranza, il 70%, è favorevole a "fare una legge per tutelare o depenalizzare chi reagisce contro i ladri che entrano in casa". Ad essere convinti di questa linea sono soprattutto gli elettori della Lega, favorevoli all’85%, e di Forza Italia, con la medesima percentuale. Più tiepidi i Cinque stelle (78%) anche se i più prudenti sono gli elettori del Pd, con un 64% che chiede modifiche. Sì alla riforma - Proporzioni ampie anche per l’ipotesi di abrogazione del reato colposo di legittima difesa "totale", una formulazione generica ma che sembra ricalcare quella dei centristi di Alternativa popolare che chiedono l’abrogazione per chi difende la propria o altrui incolumità o quella dei propri beni dell’eccesso colposo di legittima difesa. In "totale accordo" (con la sfumatura più netta al 22% e quella leggermente più neutra al 32%) sembra esserci mezzo paese, il 54%, anche in questo caso con una posizione molto convinta da parte degli elettori della Lega Nord (74%) e più prudente da parte degli elettori Pd (52%). "Gli ultimi eventi - dice il direttore scientifico di Swg Enzo Risso - hanno attivato l’immaginario degli italiani. Ed è qui che va cercata la spiegazione del perché la percezione dei reati predatori è sempre più diversa dalla realtà, con cittadini preoccupati sebbene furti ed omicidi siano in calo". Secondo il sociologo il punto è "la ferocia di chi colpisce": "Fatti come quelli di Budrio fanno sentire i cittadini soli e in balia di criminali con ben pochi scrupoli. Per questo cercano tutele". Il dato complessivo sulla richiesta di depenalizzazione, aggiunge Risso, potrebbe essere influenzato dalla scarsa conoscenza delle normative attuali: "Probabilmente la maggior parte degli italiani non sa o non ricorda che nel codice penale già da alcuni anni sono presenti vari elementi che hanno limitato l’impatto del vecchio criterio per il quale la difesa doveva sempre essere proporzionata all’offesa, ma in ogni caso non chiedono di diventare giustizieri di loro stessi. Semplicemente sono spaventati e chiedono maggiori tutele". Dubbi sul diritto di uccidere - In effetti, alla domanda se sia giusto che una persona possa difendersi usando le armi di fronte ad un ladro che entra nel negozio o nell’abitazione, il 43% dice che "è giusto difendersi con qualsiasi mezzo", mentre il 39% si attesta su un "non saprei, dipende da situazione a situazione" e il 13% dichiara che è "sbagliato ferire o uccidere una persona anche se invade la proprietà privata". La proporzione di elettori effettivamente convinta della necessità di una totale legittimazione della difesa armata è altissima tra i leghisti (80%), mentre anche gli elettori di Forza Italia appaiono prudenti (49%) come quelli dei Cinque stelle (49%) e del Pd (32%). Scontro a Montecitorio - Ieri nel frattempo è scaduto il termine per la presentazione degli emendamenti al testo di revisione della legge, proposto dal responsabile giustizia del Pd David Ermini e poi bloccato un anno fa. Si vota domani in commissione e la prossima settimana, subito dopo Pasqua, il testo arriverà in aula. Al momento, però, tra i centristi e i dem non sembra esserci nessuna mediazione in vista. Il partito guidato da Angelino Alfano ha convocato per oggi pomeriggio un evento pubblico, alla presenza del ministro della Famiglia Enrico Costa, del presidente della commissione giustizia al Senato Nico D’Ascola, e del leader dell’Italia dei Valori Ignazio Messina, per spiegare i contenuti delle emendamento appena presentato, che propone l’eliminazione dell’eccesso colposo di legittima difesa per chi protegge l’incolumità propria o altrui o i propri beni. Contrario il Pd, dal ministro Andrea Orlando, allo stesso Ermini: "La legge attuale ha già maglie molto ampie - spiega - ma la sicurezza la deve garantire lo Stato, lo stato di eccezione non può diventare la norma". L’inchiesta deviata e la giustizia incompiuta di Gianluca Di Feo La Repubblica, 12 aprile 2017 Siamo oltre il fumus persecutionis: le accuse formulate dalla procura di Roma al capitano dei carabinieri Gianpaolo Scafarto configurano un vero e proprio depistaggio, un’attività deviata che nella storia della Repubblica è sempre stata appannaggio del potere mentre ora sembra diventare strumento di una sorta di contropotere, mobilitato contro l’ex premier Matteo Renzi. Il legale dell’ufficiale si dice convinto che tutto verrà chiarito, che si dimostrerà l’assenza del dolo: al massimo, quindi, si tratterebbe di errori in buona fede. Ma la lettura dell’informativa di quasi mille pagine firmata anche dal capitano rende poco credibile l’ipotesi di un errore materiale nell’analisi delle frasi captate dalle microspie: il dossier infatti è denso di valutazioni e deduzioni che portano sempre a un ruolo dell’ex presidente del Consiglio. E l’altro episodio contestato all’ufficiale, l’invenzione del contro-pedinamento dei servizi segreti a tutela di Renzi padre e figlio, non può venire ricondotto a uno sbaglio, poiché il titolare della vettura sospetta era stato correttamente identificato prima di redigere l’informativa. Si tratta di una vicenda allarmante, perché configura quantomeno l’accanimento investigativo di un reparto dei carabinieri, la sezione napoletana del Comando Tutela Ambiente, più spesso chiamato Nucleo Operativo Ecologico, nei confronti dell’ex presidente del consiglio e segretario del partito di maggioranza. E dagli interrogatori svolti dagli stessi militari sono scaturiti pure gli avvisi di garanzia nei confronti del comandante generale dell’Arma Tullio Del Sette e del ministro Luca Lotti. Qualcosa che non si era mai visto prima, che ricorda fin troppo le trame golpiste di altri tempi. Perché da Mani Pulite in poi, i sospetti si sono limitati tutt’al più alla forzatura nella trascrizione delle registrazioni, come il celebre "Di Pietro mi ha sbancato/sbiancato" che nel 1996 caratterizzò le indagini del Gico di Firenze nei confronti dell’allora ministro del governo Prodi. Mai però c’era stata l’accusa di avere completamente falsificato degli elementi di prova. Bisogna ricordare che il Noe non ha svolto questa istruttoria di sua iniziativa, ma in diretta collaborazione con i pubblici ministeri di Napoli. Il Nucleo è un’unità specializzata creata per "la vigilanza, la prevenzione e la repressione delle violazioni compiute in danno dell’ambiente", materia lontana dagli appalti di Alfredo Romeo ma ogni pm è sovrano nell’affidare gli incarichi di indagine. E infatti ieri i magistrati napoletani hanno ribadito la loro fiducia nei confronti del Noe, segnando un altro punto di svolta in questa vicenda: la decisione infatti li porta in rotta di collisione con i colleghi romani. Di fatto, in questo nascente conflitto si possono scorgere tutti i nodi irrisolti dell’ultima stagione giudiziaria. Anzitutto sull’uso delle intercettazioni, diventato ancora più esteso con l’introduzione dei "trojan" nei telefonini che allargano la raccolta di voci in contesti ancora più confusi. Elementi indiziari che troppo spesso sono stati presentati come prove, senza riuscire a trovare riscontri oggettivi che diano concretezza alle chiacchiere: puntelli di presunte associazioni per delinquere che poi svaniscono di fronte al giudice. Poi sull’interpretazione della competenza territoriale, che ha portato alcune procure a dilatare i confini delle ricerche, trasmettendo gli atti solo all’ultimo momento come una sorta di "incriminazione precotta": poche procure hanno il rigore e le risorse investigative per ricominciare daccapo le verifiche, come hanno invece fatto in questo caso i pm di Roma. Infine c’è la diffusione mediatica dei documenti d’indagine - seppur non più coperti dal segreto - con il rischio di danneggiare non solo la privacy degli indagati ma anche la ricerca della verità. Una questione posta dal procuratore di Roma Giuseppe Pignatone con un intervento su Repubblica che ha aperto un dibattito e che impone una riflessione anche a noi giornalisti: non è un caso che il primo contrasto tra i pm capitolini e il Noe abbia riguardato proprio le fughe di notizie, tali da compromettere la prosecuzione degli accertamenti. Uno degli effetti più gravi dei falsi contestati al capitano Scafarto è proprio la cortina di nebbia che il fumus persecutionis rischia adesso di stendere sul caso Consip. Perché negli atti dell’inchiesta realizzata a Napoli e trasmessa a Roma ci sono interrogatori che evidenziano un diffuso malcostume e una gestione parallela della struttura statale che arbitra gli appalti più importanti di tutti: una centrale creata per aumentare la trasparenza della spesa pubblica, apparsa invece come un’opaca lottizzazione di livello superiore. C’è un ex dirigente come Marco Gasparri che ha ammesso di essere a libro paga di Romeo; c’è l’amministratore delegato Luigi Marroni che solo davanti agli investigatori ricorda i "toni minacciosi e ricattatori" di un faccendiere e confessa soffiate di alto livello sulle indagini in corso ma resta al suo posto; c’è la spregiudicata attività imprenditoriale di Tiziano Renzi, stando alle testimonianze attivo in mediazioni di vario tipo in tutta Italia. Non a caso abbiamo fatto riferimento agli elementi che scaturiscono dai verbali, visto che ora tutta l’attività di intercettazione e di sequestro di altri indizi - come i pizzini con la traccia di sigle e compensi - dovrà essere riesaminata dalla procura di Roma. Che poi dovrà definire la rilevanza penale di tutti gli elementi. Guardando oltre gli aspetti giudiziari, una cosa appare già oggi chiara. E sono i guasti delle nomine politiche nei vertici delle strutture che gestiscono la spesa pubblica: designazioni che di fatto trasmettono il virus della lottizzazione nei grandi appalti statali e aprono le porte a lobbisti e "facilitatori" d’ogni risma. Un vizio da cui il "rottamatore" Matteo Renzi non è stato immune. E che incarna il cuore della questione morale che questo paese non riesce a risolvere. Intercettazioni, piccola guida contro gli abusi di Carlo Nordio Il Messaggero, 12 aprile 2017 Non sappiamo se le intercettazioni che sono costate a Tiziano Renzi un estenuante crepacuore, e al capitano del Noe un’indagine per falso, siano frutto di una maliziosa congiura o di un grossolano errore di trascrizione. La prima ipotesi sarebbe così grave che non varrebbe nemmeno la pena di commentarla. Ma la seconda, paradossalmente, sarebbe anche più allarmante: perché farebbe emergere i colossali rischi connessi a questo insidioso strumento di indagine. Rischi connessi non solo all’ipotesi, per fortuna episodica e remota, di un ufficiale infedele e di qualche magistrato quantomeno distratto, ma alla stessa struttura delle intercettazioni, alle quali si può applicare l’ammonimento di Bultmann sui Vangeli sinottici: "Studiamone ogni parola, perché non siamo sicuri di nulla". Per capire il barile di polvere dove ogni cittadino, come potenziale intercettato, è seduto, occorre spiegare come le sue conversazioni vengono captate, trascritte e magari commentate. Dunque: per piazzare un microfono in un telefono, una "cimice" in un ambiente o un qualsiasi altro congegno invasivo della privacy occorre una richiesta del Pm e un’autorizzazione del Giudice. I presupposti per questi provvedimenti sono rigorosi, mai magistrati li interpretano con una certa elasticità. Le conversazioni vengono quindi registrate e ascoltate da uno o più operatori, e qui cominciano i guai. Non occorre infatti essere esperti in fonetica o glottologia per capire che queste chiacchierate sono spesso interrotte, confuse, e comunque inaffidabili. Soprattutto quando coinvolgono più persone, le voci si accavallano, i rumori aumentano, i toni si smorzano e si accendono, le parole e le frasi si interrompono, per poi riprendere vigore e spegnersi di nuovo. Ebbene, tutte queste esuberanze vocali, spesso inconcludenti e condite di volgarità pittoresche, vengono ricostruite dall’ascoltatore, il quale, seguendo il detto latino "potius ut valeantquam pereant", piuttosto che ammettere di non averci capito nulla tende ad attribuirvi un significato personale. Se poi si aggiunge che nella trascrizione manca il tono, arriviamo all’assurdo che l’amanuense, costretto - come sopra - a interpretarne il senso, condisce il suo giudizio con interpretazioni stravaganti del tipo: "Bestemmia affermativa". A suo avviso, l’offesa al Padreterno dell’intercettato è, tenuto conto del timbro della sua voce, concludente e asseverativa. Ancora. Esorbitando ulteriormente dai compiti assegnatigli, spesso l’ascoltatore trasmette al magistrato questi dialoghi corredati di commenti riassuntivi, ai quali altrettanto spesso il Pm conferisce acriticamente una sostanziale credibilità. È quello che pare sia accaduto nel caso in questione, in cui sono state attribuite frasi mai dette, condite di giudizi erronei e forse diffamatori da parte del carabiniere ora indagato. Ma non sarà questo il primo e nemmeno l’ultimo a finire esposto al generale vituperio, perché davanti a tanta porcheria tutti i cittadini, dico tutti, sono indifesi. Concludo. Il paziente lettore che ci ha seguito fin qui non ha nessun motivo di stare tranquillo. Domani può capitare anche a lui. Ma se qualcuno non interviene per riformare radicalmente la disciplina delle intercettazioni tutti noi, se abbiamo ancora lacrime, dobbiamo prepararci a spargerle. Non, come dice Marco Antonio, sul cadavere di Cesare, ma su quello della nostra defunta civiltà giuridica. Moby Prince, ventisei anni senza verità. Ma la procura riapre le indagini di Mario Di Vito Il Manifesto, 12 aprile 2017 Livorno. Nell’anniversario del disastro, il senatore del Pd Silvio Lai, presidente della commissione parlamentare d’inchiesta, dà la notizia sulla riapertura del caso. Ventisei anni dopo la strage, i familiari delle 140 vittime del Moby Prince sono ancora in attesa di giustizia, una qualsiasi dopo due processi finiti nel nulla negli anni 90 e un’inchiesta archiviata un decennio fa. Nell’anniversario del disastro, lunedì, a Livorno qualche centinaio di persone si è ritrovato per la commemorazione, come ogni anno e ogni anno con più rabbia. Perché il tempo passa e nulla accade, l’impatto mortale tra il traghetto Moby Prince e la petroliera Agip Abruzzo resta un mistero senza responsabili. Le due associazioni di parenti delle vittime continuano a sperare, con le poche forze che restano. Adesso c’è una commissione parlamentare d’inchiesta ma bisogna fare presto, che la legislatura è alla fine e ancora manca molto per arrivare a una qualche verità. Il senatore del Pd Silvio Lai, presidente della commissione, ha offerto però una notizia: "Un fascicolo di atti senza indagati" aperto dalla procura di Livorno su un dettaglio nuovo, cioè un documento dell’ex Sismi recentemente declassificato dalla Commissione rifiuti in cui la strage del Moby Prince è inserita in una mappa concettuale sul "traffico di materiale bellico recuperato, di scorie nucleari e di armi". L’informativa è datata 3 aprile 2003 ed era indirizzata alla divisione ricerca e anti-proliferazione dei servizi italiani. La fonte sarebbe il faccendiere di Busto Arsizio Giorgio Comerio, che secondo il Sismi aveva in mente di scaricare in mare delle scorie nucleari. Lui, ascoltato dalla commissione, ha tuttavia negato ogni addebito e adesso la faccenda è al vaglio degli uffici giudiziari di Livorno, nell’incertezza che necessariamente accompagna ogni inchiesta che prova ad accendere la luce dopo decenni di buio. È il copione di tutti i cosiddetti misteri italiani: tutti diversi eppure tutti uguali nel loro intrecciarsi senza arrivare mai a un punto fermo. "Ci sforziamo di essere ottimisti - dice Loris Rispoli, presidente dell’Associazione 140, durante la commemorazione nella sala del consiglio comunale -, il lavoro che sta facendo la commissione d’inchiesta è encomiabile, ma ogni cosa era già scritta, basta leggerla in maniera diversa da come si è fatto fino a questo momento. A noi non interessa che i responsabili vengano condannati a uno, sette o trent’anni, ci basta che vengano riconosciuti". Anche Angelo Chessa, figlio del comandante del peschereccio, prova a guardare i pochi lati positivi: "I punti fin qui emersi stanno ribaltando le sentenze scritte dal tribunale". L’elenco delle mancanze è lungo: il ritardo nei soccorsi, la posizione della Agip Abruzzo, il guasto ai radar, gli errori nelle manovre per cercare di evitare l’impatto. Perizie e controperizie non hanno mai fatto chiarezza, ogni ipotesi si è spenta con il passare del tempo, nelle aule di tribunale nessuno è stato capace di dire una parola definitiva su quello che è successo il 10 aprile del 1991 al largo delle coste toscane. Il silenzio che ha contraddistinto tutta la giornata di commemorazione è stato interrotto solo dai rumori tenui del porto quando sono stati letti i nomi delle vittime, prima del lancio delle rose rosse nelle acque del porto. Speranza e rabbia, perché il tempo continua a passare e se da un lato tutti guardano alle nuove scoperte con un minimo di fiducia, dall’altro il dolore per le perdite non accenna a diminuire. "A una persona puoi togliere tutto - si è commossa Paola Bruno, che sul Moby Prince ha perso un figlio -, ma i figli no, mai. Prima di morire vorrei un po’ di giustizia, posso arrivarci? Non lo so". La verità è che non lo sa nessuno, tutto è appeso al filo sottile di una commissione d’inchiesta che dovrà accelerare il passo se vuole concludere qualcosa. È così che, nel pomeriggio, qualche centinaio di persone si è mossa in corteo dal centro di Livorno fino al porto mediceo dietro allo storico striscione "Moby Prince, 140 morti nessun colpevole". C’erano i familiari delle vittime, il sindaco Filippo Nogarin, le delegazioni dei comuni da cui provenivano i marittimi uccisi, una rappresentanza dei familiari delle vittime della strage di Viareggio. In mattinata, nel giardino della Fortezza Nuova, è stato inaugurato anche un monumento, un’aiuola di tufo con 140 gerani bianchi, uno per ogni vittima della tragedia. Livorno non dimentica. Acquisizione tabulati più facile di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 12 aprile 2017 È uno dei pochi casi in cui la difesa ha provato a contestare l’acquisizione dei dati esterni del traffico telefonico in un procedimento penale. E lo ha fatto puntando sulla sentenza della Corte Ue sulla cosiddetta data retention. Tuttavia non ha avuto effetto, perché il tribunale di Padova, con ordinanza del 15 marzo, ha respinto l’istanza che chiedeva l’inutilizzabilità di tutti dati di traffico acquisiti nel corso delle indagini preliminari. Il provvedimento fotografa innanzitutto la norma del Codice della privacy applicabile. Si tratta dell’articolo 132 con il quale si prevede che "i dati relativi al traffico telefonico sono conservati dal fornitore per ventiquattro mesi dalla data della comunicazione, per finalità di accertamento e repressione dei reati, mentre, per le medesime finalità, i dati relativi al traffico telematico, esclusi comunque i contenuti delle comunicazioni, sono conservati dal fornitore per dodici mesi dalla data della comunicazione". Ed era proprio di questa norma che la difesa, in subordine, chiedeva venisse accertata, attraverso questione pregiudiziale alla Corte Ue, la compatibilità con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. A sostegno delle sue tesi, la difesa valorizzava la sentenza della Corte Ue dell’8 aprile 2014. Oggetto della pronuncia era la direttiva 2006/24/CE, sulla data retention appunto, con la quale si invitava gli Stati Ue a disciplinare la conservazione di dati telematici con obiettivo di prevenzione, accertamento e repressione di gravi reati. La Corte aveva sì ammesso la giustificazione di un limite al diritto alla privacy per finalità di indagine penale, ma aveva dichiarato l’invalidità della direttiva perché la limitazione si sarebbe potuta rivelare sproporzionata in assenza di maggiore chiarezza e determinazione sui presupposti e le ipotesi in cui sarebbe stata consentita la conservazione dei dati con finalità investigative. Sul punto l’ordinanza del tribunale di Padova è tranciante, sottolineando che la sentenza è priva di rilevanza perché l’articolo 132 del Codice della privacy non deve essere considerata norma di attuazione della direttiva data retention: è infatti entrato in vigore prima e quindi l’invalidità della direttiva non può essere estesa. Per i giudici padovani, allora, è pienamente rispettato il principio di proporzionalità nel caso in esame perché i dati del traffico telefonico sono stati acquisiti dal pubblico ministero nell’ambito dell’accertamento di un reato grave come l’incendio doloso aggravato. Una fattispecie messa a tutela dell’incolumità pubblica, soggiunge il provvedimento. Così, "la gravità del fatto contestato e sottoposto ad accertamento giustifica il sacrificio del diritto alla riservatezza, dovendosi ritenere a questo prevalenti i supremi diritti alla vita ed alla integrità personale". A chiusura poi, l’ordinanza sottolinea come nel caso esaminato sia ammissibile l’effettuazione di intercettazioni telefoniche, un’invasione nella sfera della privacy certo più pesante dell’acquisizione dei tabulati. Sequestro preventivo d’urgenza con truffa aggravata in danno delle assicurazioni di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 12 aprile 2017 Corte di cassazione - Sesta sezione penale - Sentenza 11 aprile 2017 n. 18385. Quando c’è la condanna per truffa aggravata e corruzione in atti giudiziari la misura cautelare del sequestro preventivo d’urgenza è legittima quando il provvedimento di condanna evidenzi correttamente i fatti e le prove posti alla base dei reati contestati. Il tutto, poi, è corretto se a commettere l’illecito sia un’organizzazione dedita a incassare dalle compagnie assicurative le somme relative a falsi sinistri. È di tutta evidenza, infatti, come sussistano gli elementi del fumus commisi delicti e del periculum in mora. A chiarirlo la Cassazione con la sentenza n. 18385/2017. La vicenda - La Corte, in particolare, ha accolto il ricorso della Procura contro un’ordinanza del Tribunale di Catanzaro che in sede di riesame aveva annullato il decreto di sequestro preventivo d’urgenza disposto nei confronti di un soggetto e avente a oggetto somme di denaro per una valore pari a circa 645mila euro. Nel provvedimento era stato evidenziato come la misura cautelare reale fosse stata adottata in presenza di dati e informazioni non omogenei. In particolare il provvedimento metteva in evidenza come l’informativa della Guardia di finanza non consentisse un’immediata individuazione dei fatti per i quali era stato disposto il vincolo, perché i capi di imputazione in essa contenuti non risultavano correlati agli elementi investigativi dai quali si potevano desumere i fatti per cui si procedeva. Mancava in estrema sintesi l’esposizione sintetica degli elementi fattuali sulla cui base procedere a una verifica di compatibilità delle prospettazioni accusatorie con le risultanze dell’attività di indagine. Contro l’ordinanza ha proposta appello la procura che ha evidenziato come il gip avesse compiutamente motivato il provvedimento di vincolo, in particolare con l’espresso richiamo alla nota della Guardia di finanza, poiché conteneva una puntuale ricostruzione e un’ordinata esposizione dei vari sinistri, falsamente denunciati, che andavano a integrare gli elementi costitutivi delle truffe e degli episodi di corruzione in atti giudiziari. La Cassazione ha accolto pienamente la richiesta del procuratore evidenziando come bastasse nel caso concreto anche una motivazione che richiamasse per relationem gli elementi oggettivi emersi nel corso delle indagini e segnalati dalla richiesta del pm. La motivazione per relationem - Si legge nella sentenza che è pienamente legittima la motivazione per relationem di un provvedimento giudiziale: 1) quando faccia riferimento ricettizio a un legittimo atto del procedimento, la cui motivazione risulti congrua rispetto all’esigenza di giustificazione propria del provvedimento di destinazione; 2) fornisca la dimostrazione che il giudice abbia preso cognizione del contenuto sostanziale delle ragioni del provvedimento di riferimento e le abbia meditate e ritenute coerenti con la sua decisione, 3) l’atto di riferimento quando non venga allegato o trascritto nel provvedimento da motivare, sia conosciuto dall’interessato o almeno ostensibile, quantomeno al momento in cui si renda attuale l’esercizio della facoltà di valutazione, di critica ed eventualmente di controllo della valutazione o dell’impugnazione. Precisazioni di notevole importanza, infine, sui compiti del giudice della cautela reale. Quest’ultimo non deve valutare indizi, ma compiere una verifica della compatibilità e congruità degli elementi addotti dall’accusa con la fattispecie oggetto di contestazione. "Può ritenersi sufficiente che i fatti posti a fondamento della misura siano stati compiutamente individuati, con indicazione delle fonti di prova a essi relative, e che siano stati collocati in un più ampio contesto quali condotte riconducibili all’operatività di un sodalizio criminale". E i capi di imputazione contenuti nell’informativa delle Fiamme gialle erano assolutamente sufficienti sotto il profilo contenutistico con espresso riferimento alla documentazione acquista presso i giudici di pace e le compagnie assicurative nonché alle conversazioni telefoniche trascritte nell’anno. Omesso versamento Iva, il reato non scatta se l’impresa è in crisi di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 12 aprile 2017 Tribunale di Campobasso - Sentenza del 21 febbraio 2017 n. 29. Non costituisce reato l’omesso versamento Iva da parte del rappresentante legale di una azienda a causa dell’improvvisa contrazione delle commesse. Lo ha stabilito la il Tribunale di Campobasso, con la sentenza del 21 febbraio 2017 n. 29, assolvendo l’imputato dal reato previsto dall’articolo 10-ter del Dlgs 74/2000 contestatogli "perché, in qualità di rappresentante legale di una S.n.c., ometteva di versare, entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo di imposta successivo, l’Iva, per l’ammontare complessivo di 2.276.630 euro dovuta in base alla dichiarazione annuale Unico 2012 (anno d’imposta 2011) trasmessa all’Amministrazione Finanziaria". Il procedimento nasceva da un controllo condotto dalla Direzione Provinciale dell’Agenzia delle Entrate di Campobasso incrociando i dati del Modello Unico 2012 presentato dalla Snc con i versamenti effettivamente eseguiti. Infatti, a fronte della precisa indicazione dell’imposta dovuta all’interno della dichiarazione, il versamento non era poi avvenuto. Tuttavia, prosegue la sentenza, dall’esame del consulente del lavoro, è emerso che la società, proprio nell’anno 2011, "versava in una situazione di grave crisi finanziaria esitata nella procedura di concordato preventivo, omologato dal Tribunale di Campobasso il 13 dicembre 2012, su ricorso ex art. 160 L.F. del maggio 2010, a sua volta preceduto dalla istanza di omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti". E la forte esposizione debitoria, per quanto emerso dalla documentazione presentata, "fu determinata principalmente alla uscita della società, avvenuta proprio nell’anno 2011, dal Cons. Fer. Consorzio Stabile, con conseguente contrazione delle commesse e, ulteriormente, con riduzione di circa 2/3 del valore della produzione". Non solo, tale situazione negativa "fu acuita dalla crisi finanziaria dell’intero sistema economico italiano e dall’inevitabile ritardo nella riscossione dei crediti". Per cui, prosegue il Tribunale, secondo un diffuso orientamento della giurisprudenza di merito e di legittimità, "la crisi di liquidità dell’impresa ha efficacia esimente in materia di omesso versamento dell’Iva (Cass. n. 5905/2014)". In particolare, l’inadempimento può essere attribuito a forza maggiore "solo quando derivi da fatti non imputabili all’imprenditore che non abbia potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla sua volontà e che sfuggono al suo dominio finalistico (Cass. n. 1623/2015)". E, nel caso di specie, prosegue il giudice, la difesa ha documentato, per un verso, la forte contrazione delle commesse, che nel recente passato della società le avevano consentito la partecipazione ad importanti opere - il Nuovo Stadio Delle Alpi di Torino e la ricostruzione del ponte sul Po - e, per l’altro, i ritardati pagamenti da parte dei debitori. In definitiva, l’imputato "a fronte di una situazione di crisi generatasi in maniera repentina, si trovò nella impossibilità di reperire le risorse necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie". Per cui la condotta omissiva contestatagli "non può essergli imputata sotto il profilo psicologico". Reggio Calabria: il presidente del Tribunale dei Minori "la mafia è sofferenza" di Federico Minniti Avvenire, 12 aprile 2017 "Va indicata un’alternativa ai giovani". La rivolta delle madri: "‘ndrangheta, addio". "Il mito della ‘ndrangheta va demistificato: è solo sofferenza. Andatelo a chiedere a chi è "sepolto vivo" in carcere: è terribile". Roberto Di Bella, presidente del Tribunale dei Minori di Reggio Calabria, ci accoglie nel suo ufficio. La sua scrivania è sepolta dai fascicoli giudiziari; per lui, però, sono storie. "Lavoro in questo ufficio dal 1993. Oggi sotto processo ci sono i figli di coloro che ho giudicato venti anni fa. È questa l’eredità mafiosa?". Cognomi pesanti. Come quello della venticinquenne Maria Rita Logiudice? "Quasi tutti i figli di ‘ndrangheta provano un forte senso di angoscia per loro e per i loro familiari. Noi non facciamo né deportazione di figli, né confische di minori, ma crediamo che sia necessario ampliare gli orizzonti culturali per affrancarsi dalle orme parentali". Se il padre è detenuto al 416bis, le madri, però, sono ancora con loro a casa... "Molte donne di mafia, le cosiddette "vedove bianche", ossia trentenni e quarantenni, che hanno il marito condannato all’ergastolo, sono imprigionate nei cliché delle famiglie di ‘ndrangheta". Non hanno alternative? "Paradossalmente vengono qui e per loro rappresentiamo "l’ultima spiaggia". A noi fanno confidenze che non possono fare altrove: in tante nutrono il desiderio di andare via coi loro figli, di potersi ricostruire una vita normale". Donne sofferenti che vogliono scappare dalla "loro" famiglia di ‘ndrangheta? "I figli dei detenuti avrebbero bisogno di un riferimento paterno concreto: come si può fare il padre ogni quattro mesi durante il colloquio in un carcere di massima sicurezza? Come si può costruire un rapporto vero solo in modo epistolare?". Crescere in una famiglia-clan non è semplice. Molto diverso dai film. "I ragazzi, sin da piccoli, sono costretti a convivere con lutti, carcerazioni, attività di controllo. Questo li "educa" ad uniformarsi a quelle che sono le rigidità dei principi mafiosi. Spesso queste famiglie comprino le esigenze di espressività dei giovani". Allontanamenti: i "papà-boss" cosa dicono? "I detenuti sono un po’ più "freddi", per usare un eufemismo, però c’è stato uno di loro che ci ha scritto ringraziandoci per aver allontanato suo figlio dalla Calabria. Aggiungendo anche che se avesse avuto lui questa stessa opportunità non si troverebbe in carcere". Eppure qualche suo collega ha espresso disappunto verso questo metodo. "Se il padre porta il bambino di undici anni a spacciare droga, ad esercitarsi a sparare o a presenziare ai summit della cosca, cosa deve fare un Tribunale dei minori? C’è un obbligo giuridico di intervento. C’è da tutelare il diritto fondamentale a ricevere un’educazione responsabile" L’unica salvezza è lontano dalla Calabria? "È terribile: chi nasce a San Luca, Bovalino, Natile di Careri, Africo vive una situazione di prigionia. Vive un contesto che spesso è autoreferenziale: in famiglia tanti hanno precedenti per mafia o sono latitanti o sono stati uccisi. Come uscire allora? A dare legittimazione agli interventi sono le norme, non i risultati". Risultati che però stanno arrivando. "Il nostro obiettivo è quello di creare delle equipe educative antimafia che possano seguire questi ragazzi per liberarsi dal peso dell’oppressione psicologica della ‘ndrangheta. Aggiungo: vorremmo cooptare anche i genitori che sono in carcere per avviare dei percorsi rieducativi sui sentimenti genitoriali". Quindi la ‘ndrangheta si può sconfiggere davvero solo con l’educazione? "Abbiamo aperto una crepa nel monolite della ‘ndrangheta. Sono le donne, le mogli dei boss, che chiedono costantemente aiuto. Questo non può essere sottovalutato". Bollate (Mi): nel primo carcere italiano con un programma di recupero dei sex offender di Irene Graziosi vice.com, 12 aprile 2017 Paolo Giulini è tra i pochi in Italia a occuparsi del trattamento, tra gli altri, di stupratori e pedofili in carcere. Mi ha parlato del suo lavoro a Bollate. Poco tempo fa sono venuta a conoscenza della violenza sessuale subita da una persona che mi è visceralmente cara. L’informazione si è fatta faticosamente strada nel mio cervello attraverso alcune tappe piuttosto bizzarre, cambiando forma mentre avanzava nel percorso di elaborazione cognitiva ed emotiva che una notizia del genere comporta. Prima di qualunque altra cosa, quando mi è stato riferito l’accaduto in maniera molto vaga, il mio cervello ha deciso di estrapolarne il contenuto e infilarlo nel format televisivo di Law & Order Svu. Credo che fosse il modo più plausibile per dissociare la sostanza dalle emozioni. Questa ricostruzione dell’episodio-di cui faceva parte anche Olivia Benson, la detective del telefilm-ha veleggiato pigramente nelle pieghe della mia corteccia cerebrale per mesi. Funzionava. Poi è successo qualcos’altro. Dopo un paio di mesi mi è stato dato un dettaglio realistico, uno solo, la localizzazione geografica dell’accaduto. Una rampa degli handicappati. Ora, questa rampa io la conoscevo, trattandosi di un angolo della stazione secondaria di treni urbani che avevo percorso molte volte quando viaggiavo con un bagaglio scomodo da trascinare giù per le scale. Questo unico dettaglio ha dato il via a un altro stadio: quello della realizzazione compulsiva. Per i tre giorni successivi, l’espressione "rampa degli handicappati" sbucava fuori dal mio flusso di coscienza in continuazione e senza controllo. Tre giorni sembrano pochi, ma non lo sono nel momento in cui ogni volta che formuli un pensiero qualunque fa capolino ossessivamente una "rampa degli handicappati". Per un altro mese ho dormito male e poco, anche alla luce del fatto che questa persona non era stata aiutata da nessuna detective televisiva. Non ne aveva parlato per così tanto, e l’aveva ammesso in un momento di fragilità estrema dopo anni di logorio. La terza fase è stata caratterizzata da fantasie cruente di vendetta che sono sfociate in una rassegnazione irrequieta di fronte all’evidenza che i perpetratori erano, sono e rimarranno anonimi, e dopo così tanti anni a livello legale non è più possibile fare nulla. Credo che sia stata questa fase a spingermi a chiedermi qualcosa in più su chi siano le persone che commettono questi reati-i sex offender, il termine inglese che sta per "autori di reati sessuali" - e su come venga affrontata la questione in Italia. Nell’immaginario collettivo (compreso il mio) il reo sessuale rappresenta il gradino più basso della categoria dei criminali. In tutte le carceri esistono reparti separati per i sex offender e la popolazione generica, per evitare gli episodi violenti che scaturirebbero dalla condivisione degli spazi di entrambi i gruppi. In Italia poi, un paese che non è particolarmente all’avanguardia per ciò che riguarda il concetto di riabilitazione del detenuto, questa caratterizzazione del reo sessuale come un mostro irrecuperabile è più marcata che mai. Eppure, stando ai dati, l’80 percento dei detenuti rei sessuali ci somiglia. Con questo intendo dire che prima di essere incarcerati, questi individui erano persone apparentemente "normali": insegnanti, padri, vicini di casa e via dicendo. L’idea che il pedofilo o lo stupratore sia un sociopatico è tanto radicata quanto fallace. Questo è ampiamente dimostrato dal fatto che gli abusi sessuali vengono compiuti nella maggioranza dei casi dai familiari delle vittime, e che molte delle credenze su cosa sia stupro e cosa no, come spiegano alcuni studi sociologici, siano le stesse tra stupratori condannati e studenti universitari. Per approfondire questi temi e sciogliere almeno in parte la dissonanza cognitiva che tutte queste informazioni mi provocano, ho cominciato a fare un po’ di ricerche-imbattendomi fin da subito nel nome di Paolo Giulini, che coi suoi collaboratori è tra i pochi (se non l’unico) in Italia a occuparsi di prevenzione e trattamento dei sex offender. Ci incontriamo a Milano, negli uffici del Centro Italiano per la Promozione della Mediazione (C.I.P.M.). Il centro gestisce un Servizio del Settore Sicurezza del Comune di Milano, il Presidio Criminologico Territoriale, dove si effettuano gruppi trattamentali per uomini violenti o rei sessuali, per parenti di autori di reati sessuali, e attività di valutazione psicodiagnostica gratuita per i cittadini milanesi. È da questa esperienza che Giulini ha scritto insieme a Carla Maria Xella un libro, Buttare la chiave?, in cui cerca di fare chiarezza su chi siano queste persone e cosa si possa fare per arginare e prevenire il reato sessuale. Ed è sempre dal lavoro del C.I.P.M. che è nato Un altro me, documentario che segue per un anno il programma di trattamento condotto dal team di Giulini nel carcere di Bollate. Giulini, mi racconta, è un criminologo con un passato di studi giuridici. Il suo primo contatto coi sex offender risale a parecchi anni fa, quando, fresco di laurea, ha iniziato a lavorare in un piccolo carcere a Sondrio, talmente piccolo che i rei sessuali non erano separati dalla popolazione carceraria normale. Il suo compito era quello di osservare i detenuti, compilare delle schede sulla loro personalità e raccogliere i loro racconti. Dopo poco tempo si è reso conto che le storie di queste persone, per quanto diverse, condividevano tutte lo stesso dettaglio: i sex offender affermavano con determinazione di essere vittime di complotti giuridici e familiari, si dichiaravano innocenti, negavano l’accaduto. Di lì a poco Giulini ha intuito che questo atteggiamento non avrebbe condotto assolutamente a nulla. La non ammissione del fatto comportava che queste persone scontassero la pena abulicamente, senza alcuno stimolo che li facesse riflettere sul loro comportamento. Una volta usciti di prigione, con ogni probabilità, avrebbero commesso lo stesso reato. Da quel momento in poi ha deciso di studiare da vicino i sex offender, risultando ad oggi uno dei massimi esperti italiani del campo. Nel 2005 è riuscito a ottenere i fondi per finanziare il già citato programma di recupero dei sex offender-il primo in Italia-a Bollate, un carcere che non è nuovo a progetti cosiddetti sperimentali. In realtà inizialmente il progetto era stato esteso anche al carcere romano di Rebibbia, ma è stato presto sospeso per mancanza di fondi e di uno spazio dedicato. Infatti il programma di trattamento a Bollate si svolge su un piano apposito, dove i sex offender che partecipano alla terapia sono tenuti separati dagli altri autori di reati sessuali. Questo avviene perché, alla discriminazione messa in atto dalla popolazione carceraria normale verso quella sessuale, se ne aggiunge un’altra che paradossalmente investe e divide chi non segue il programma e chi invece sì. Coloro che partecipano al trattamento sono visti dagli altri rei sessuali in negazione come dei mostri che hanno effettivamente commesso un crimine. La negazione, che come già accennato è il tratto caratteristico che accomuna tutti i sex-offender, è un aspetto molto noto tra gli studiosi, e la ricerca in questo campo pullula di articoli che cercano di capire se sia consapevole o meno, se investa tutta la personalità o solo certi aspetti, se sia in buona o in cattiva fede. Giulini mi spiega che spesso queste personalità sono perfettamente dissociate: la negazione stessa è un sintomo della dissociazione che rende possibile avere, nella sostanza, due vite parallele. Per quanto sia difficile anche solo da immaginare, chi commette un abuso sessuale può essere al contempo una persona che in altre sfere della sua vita è funzionale. Non esiste uno standard condiviso che permetta di categorizzare la personalità del sex offender tramite dei criteri diagnostici ben definiti. "Quella del sex offender è una categoria crimonologica, non psichiatrica," spiega Giulini. Il superamento almeno parziale della negazione-che fa sì che i detenuti ammettano a loro stessi e agli altri che qualche cosa di illecito sia effettivamente successo-resta dunque il primo requisito per l’inserimento nel programma di Bollate. A questo si aggiungono la conoscenza della lingua e l’assenza di tossicodipendenza e psicopatologie concorrenti. Inoltre, se la stragrande maggioranza dei sex offender non fa parte della categoria diagnostica dei sociopatici, alcuni di loro sono irrecuperabili e di conseguenza non gioverebbero del trattamento. Il percorso terapeutico, mi spiega Giulini, segue varie tappe. Inizialmente i volontari firmano un contratto simbolico in cui si impegnano per due mesi a partecipare a tutte le attività previste dal programma. Poi, a seguito di una seconda scrematura, si può scegliere di continuare questo iter fino alla fine dell’anno. In generale il focus del trattamento e gli sforzi clinici sono tesi a un unico obiettivo: evitare le recidive. Per riuscire in questo compito l’approccio utilizzato è multidisciplinare e sfaccettato, e inizia dall’utilizzo dello spazio carcerario stesso: le celle sono tenute aperte e i detenuti sono liberi di interagire tra di loro e con l’ambiente circostante a fronte di una sorveglianza minima, per incrementare il loro senso di responsabilità. Gli incontri sono sia collettivi, con due terapeuti (un maschio e una femmina) che dirigono discretamente le interazioni del gruppo e permettono un confronto tra i detenuti, sia individuali. All’interno di queste sessioni terapeutiche si cerca di stimolare pensiero critico ed empatia, puntando alla presa di coscienza di quello che si è fatto. L’obiettivo deve anche essere quello di riconoscere i meccanismi che hanno portato a commettere il reato, a identificare lo stress che provoca l’aggressività per maturare delle strategie adatte a gestirla. Nel documentario Un altro me si vede un momento in cui una vittima di abusi sessuali partecipa alla seduta collettiva cercando di rispondere alle domande imbarazzate dei detenuti. Alle attività strettamente terapeutiche si affiancano attività creative e motorie, e un corso di educazione sessuale. Quando chiedo a Giulini se crede davvero che possa esistere una totale remissione dei sintomi, se si possono chiamare così, sorride e mi risponde che se non ci credesse sarebbe stupido a continuare a fare questo lavoro. Poi mi racconta un episodio, quello di una persona con profondi problemi psichiatrici che era uno stupratore seriale. L’uomo ha iniziato a partecipare al trattamento di Bollate e si è alleato talmente tanto con gli operatori da diventare lui stesso operatore al termine della condanna, per aiutare altri come lui a non commettere più abusi. Tra il materiale che mi è stato dato da Giulini c’è anche una sua lettera apparsa sul giornale di Bollate: Ebbene, eccomi qui davanti a un foglio bianco con una penna in mano a fare i conti con la mia vergogna e i sensi di colpa […] Certo, non sarò io a far cambiare opinione a chi ci disprezza e non è nemmeno mio compito farlo, però posso almeno spezzare una lancia in nostro favore iniziando col dire che se ora ci troviamo a Bollate è perché abbiamo capito di aver fatto una cosa orribile e per evitare in futuro di reiterare. […] Non voglio trovare scusanti come potrà sembrare. Porto con me un mondo di brutte cose ed esperienze negative che spesso mi è difficile somatizzare. […] Per ciò che mi riguarda, gli abusi sessuali commessi, fuoriescono e sono del tutto estranei al mero desiderio sessuale, ma sono spinti da qualcosa di più profondo che ho scoperto qui […] Non voglio dire che da qui uscirò come un angelo puro e casto, ma per la prima volta vedo una via d’uscita a quei problemi che mi trascino dietro da troppo tempo. Giulini ribadisce che l’importante, oltre ad aver aiutato questa persona, è l’essere riusciti a prevenire la presenza di future vittime. Un altro punto su cui insiste molto è quello della costruzione di un sistema virtuoso di presa in carico di queste persone. Per lui la prevenzione è la priorità assoluta. Se de-mostrificassimo la figura del sex offender, le persone che hanno fantasie devianti si sentirebbero a loro agio nel chiedere aiuto. La scoperta di avere certi pensieri è spesso egodistonica-un termine psicologico contrapposto a "egosintonico" che indica quanto un sintomo si inserisca armoniosamente nella struttura di personalità di un individuo-e provoca sofferenza, dolore e vergogna. A quel proposito, Giulini mi racconta di un ragazzo che per lavoro e passione si dedicava ad attività che avevano a che fare i ragazzini, e che aveva chiesto il loro aiuto dopo essere entrato in contatto con alcune fantasie pedofiliche. Dopo un periodo di terapia di gruppo al C.I.P.M. e con una terapeuta specializzata, il ragazzo ha abbandonato le sue attività ricreative, che per lui erano fonte di benessere e divertimento, per evitare di innescare fantasie rischiose. Questo è solo un esempio, ma di storie così ce ne sono tante. Quattro anni dopo l’avvio del programma di recupero, nel 2009 l’equipe di Bollate ha dato via anche a un servizio territoriale per la gestione delle condotte violente e sessualmente violente. Questa iniziativa è nata da alcune considerazioni scaturite dall’esperienza del carcere: il reinserimento dopo la detenzione è difficile, e lo stigma sociale molto forte. Troppo spesso queste persone si trovano in una difficile condizione di isolamento che, oltre alla sofferenza sul piano personale, genera un clima di deresponsabilizzazione che rende più facile commettere ulteriori crimini: se nessuno mi considera, se non rendo conto a nessuno, perché dovrei comportarmi bene? Giulini e collaboratori si sono impegnati a creare uno spazio, sia concreto che mentale, che permetta a queste persone di avere un contatto continuo con gli stessi terapeuti incontrati a Bollate, per portare avanti il percorso di remissione dei sintomi attraverso delle sessioni terapeutiche di gruppo settimanali. Per quei soggetti particolarmente a rischio di recidiva e privi di sostegno familiare è stato introdotto un nuovo protocollo di sostegno che segue il concetto di "giustizia sociale": è la società a farsi carico del reo e della guarigione collettiva, secondo l’esempio dei pastori Mennoniti canadesi che a metà degli anni Novanta fondarono i "Circoli di Sostegno e Responsabilità". Così i detenuti considerati a rischio di recidiva, una volta scontata la pena, sottoscrivono un contratto della durata di un anno con tre volontari preparati dal C.I.P.M. Questo gruppetto si incontra settimanalmente in un luogo pubblico per chiacchierare di qualunque cosa, aiutando l’ex-carcerato a reinserirsi nella società, alleviando la sofferenza dell’isolamento e permettendogli di condividere pensieri e paure intime che non sarebbe possibile esporre ad altri. Paolo Colaprico, su La Repubblica del 12 febbraio 2016, riporta le parole di uno di questi sex offender che frequentano il C.I.P.M. e che fa attivamente uso dei circoli: "Per la prima sono libero di raccontare le cose così come stanno. Sono libero di non scindermi tra il Salvatore pubblico, con la maschera, e il Salvatore privato." A Bollate ci sono 400 detenuti per reati sessuali; quelli che partecipano al programma sono solo una trentina. Al livello individuale, conclude Giulini, dei numeri del genere sembrano irrisori. Ma se in tutta Italia esistesse un impegno istituzionale di cura e prevenzione, si creerebbe un sistema organico nazionale e il numero delle vittime calerebbe. I dati-soprattutto quelli provenienti dalla letteratura scientifica canadese, paese molto all’avanguardia in questo campo-dimostrano che tramite il trattamento le recidive calano del 50 percento. Il progetto di Giulini conferma questa percentuale. Dopo aver parlato a lungo e aver visto i dati, mi viene spontaneo chiedergli perché, se i risultati sono così significativi, le istituzioni non attivino più programmi come quello di Bollate. "La risposta te la puoi dare da sola," mi dice amaramente, alludendo a ciò che viene naturale pensare a tutti: queste persone sono irrecuperabili e andrebbe buttata via la chiave; eppure, per quanto sia difficile, almeno la giustizia dovrebbe basarsi su principi diversi dall’istinto. Il 14 aprile al Cinema Beltrade di Milano verrà proiettato Un altro me alla presenza del regista Claudio Casazza e di parte dello staff del C.I.P.M. Clicca qui per saperne di più. Cagliari: "Benessere… dentro e fuori", giovedì santo un incontro con le detenute Ristretti Orizzonti, 12 aprile 2017 Giovedì Santo all’insegna del benessere, del dialogo, della bellezza e della solidarietà nella sezione femminile della Casa Circondariale "Ettore Scalas" di Cagliari-Uta. Lo hanno organizzato l’associazione "Socialismo Diritti Riforme" e il Centro Estetico "Dalle ceneri della Fenice" di Cagliari, con la collaborazione dell’Area Educativa e della Direzione dell’Istituto Penitenziario. L’appuntamento di "Benessere… dentro e fuori", giunto alla quarta edizione, è in programma domani mattina (giovedì 13 aprile) a partire dalle ore 10. Finalizzato alla valorizzazione dell’immagine femminile e alla mediazione dei conflitti nella convivenza, l’incontro prevede una riflessione sulla realtà della detenzione femminile e sulle difficoltà ad affrontare le condizioni di vita durante l’esperienza della privazione della libertà. Interverranno la dott.ssa Maria Franca Marceddu, medico estetico, e una delegazione delle socie e del direttivo di Sdr, la Onlus presieduta da Maria Grazia Caligaris. "L’appuntamento ha un significato speciale - affermano le organizzatrici - per l’imminenza della Santa Pasqua, un periodo particolarmente delicato e difficile per chi vive l’esperienza detentiva. Si tratta ancora una volta di un’occasione per favorire la socializzazione e il superamento delle problematiche che spesso si manifestano durante la permanenza in un ambiente chiuso. Le donne vivono la detenzione con particolare difficoltà e senso di colpa. Il loro pensiero è quasi sempre proiettato sulla famiglia e i figli rimasti a casa. Sentimenti e condizioni psicologiche che spesso si ripercuotono negativamente su se stesse, generando tensioni e condizionando il positivo rapporto con le Agenti della Polizia Penitenziaria. Il numero limitato di recluse e la tipologia di reati con pene non particolarmente pesanti limitano inoltre la possibilità di attivare corsi di formazione che offrano titoli e professionalità utili per il reinserimento sociale. Le iniziative di riflessione, reciproca conoscenza e socializzazione intendono promuovere - concludono Caligaris e Marceddu - una differente modalità di approccio alla stato detentivo, alla convivenza, al rispetto reciproco, al benessere e alla cura della persona. Una concezione della bellezza che si identifica con il benessere interiore". In occasione dell’appuntamento grazie alla generosità della dott.ssa Marceddu ciascuna detenuta riceverà un sacchetto di tulle contenente dei campioni di crema e altri prodotti per la cura della persona. L’appuntamento sarà anche un momento di solidale vicinanza tra donne per riconoscersi madri, figlie, sorelle senza aggettivi. Varese: un team di donne per le vittime di violenze di Roberto Rotondo Corriere della Sera, 12 aprile 2017 Una squadra di donne, con varie professionalità, sarà reperibile tutti i giorni a Varese per dare consigli alle donne, o ai minorenni, vittime di violenza. Si tratta di un team tutto al femminile, o quasi, formatosi in queste settimane su impulso di una serie di corsi antiviolenza della Regione Lombardia. Il progetto ha coinvolto la Procura di Varese, la Questura e l’ordine degli avvocati nell’avvio di un servizio di consulenza integrato che si svolgerà al terzo piano del palazzo di giustizia, nella cosiddetta "Stanza dell’acquario". Dove avverranno, tutti i mercoledì, dalle 14.30 alle 17.30, le audizioni protette di chiunque vorrà chiedere un aiuto, in totale discrezione, e senza l’obbligo di denunciare. "L’obiettivo è fornire al territorio una rete multidisciplinare - osserva Daniela Borgonovo procuratore di Varese - che favorisca l’emersione dei fatti di violenza, ma anche che tuteli la dignità della vittima e l’accompagni con i consigli migliori verso il percorso che ognuno sceglierà, in piena libertà". Varese è la prima città lombarda, dopo Milano, a dotarsi di una rete territoriale di questo tipo: ogni mercoledì due avvocatesse saranno in servizio nella stanza protetta, ma in caso di urgenza ci si potrà rivolgere a una sovrintendente di polizia reperibile 24 ore su 24. "Ogni avvocato ha tenuto un corso specifico di formazione sul tema della violenza di genere - spiega Sergio Martelli presidente dell’ordine degli avvocati di Varese. Si deve guardare anche al lato umano dei problemi". La Procura delegherà a due donne pubblici ministeri i reati di violenza, mentre le avvocatesse coordinate da Elisabetta Brusa sono già al lavoro; per non creare fraintendimenti non accetteranno mai incarichi di tutela legale dalle donne che passano dallo sportello. Particolarmente oneroso sarà l’impegno per la sovrintendente Silvia Nanni, che risponderà a tutte le chiamate per conto della questura, ma che si occuperà anche di formare i suo colleghi poliziotti a un approccio più umano sul tema. A Varese esiste inoltre una rete di volontariato, negli ospedali cittadini, chiamata "Amico fragile" con lo stesso approccio soft e multidisciplinare. Segno che negli ultimi anni, da più parti, è nata l’esigenza di far sentire le vittime più protette, e meno sole, di fronte all’istituzione: a Varese, detto in altri termini, d’ora in poi ci saranno tanti angeli che accompagneranno le vittime verso la guarigione. Campobasso: il progetto "Università" al via nella Casa circondariale di Larino primonumero.it, 12 aprile 2017 Ha preso il via presso la Casa Circondariale e di Reclusione di Larino il progetto "Università" per l’anno scolastico 2016-2017. È un percorso che nasce in collaborazione tra la del carcere, l’Università degli studi del Molise, l’Istituto per le professioni alberghiere e della ristorazione "Federico di Svevia" di Termoli, i docenti, i tutors e i volontari che a vario titolo intervengono nell’affiancamento degli studenti presso la sede carceraria. La Costituzione indica la promozione della cultura tra i principi fondamentali e considera l’istruzione e la formazione diritti da rendere effettivi, strumenti di crescita personale, di revisione critica del reato e di recupero del rispetto dei valori fondamentali della convivenza civile. "Istruzione e formazione possiedono un ruolo fondamentale nell’ambito delle attività trattamentali finalizzate al reinserimento sociale dei detenuti (art. 27 della Costituzione), che deve essere agevolato, tramite le opportune intese con le autorità accademiche e il compimento degli studi universitari" spiega Brigida Fanelli, funzionario giuridico-pedagogico e tutor per le attività universitarie in istituto. Nel caso specifico il Rettore Gianmaria Palmieri e i suoi collaboratori hanno accolto con favore la proposta della Direzione di consentire l’accesso agli studi universitari ai detenuti. "Dopo notevole lasso di tempo - continua la dottoressa Fanelli - la Direzione dell’istituto ha deciso di investire nuovamente sui percorsi accademici, al fine di rendere il progetto, oggi in fase embrionale, un percorso strutturato che possa coinvolgere mediante la diramazione di interpelli, a livello nazionale gli istituti e i detenuti intenzionati a proseguire gli studi". L’iniziativa del "Progetto Università" vuole offrire ai detenuti, definitivi e non, italiani e stranieri, in possesso dei requisiti scolastici necessari per iscriversi all’università, l’opportunità di seguire corsi di istruzione accademica. Scopo del progetto, è quello di stabilire una collaborazione tra le istituzioni coinvolte, al fine di consentire, ai soggetti detenuti, di esercitare, il proprio diritto allo studio, in riferimento agli studi universitari. "La volontà è quella di assicurare il diritto allo studio, anche a livelli più elevati, nella consapevolezza che un maggior accrescimento culturale possa aumentare la progettualità per il futuro ed il reale reinserimento dei soggetti". Attualmente gli iscritti presso l’Università degli Studi del Molise della sede carceraria, sono 6 studenti coinvolti in percorsi didattici diversi che vanno da Giurisprudenza a Economia, a Scienze Turistiche. In particolare il corso di laurea in "Scienze Turistiche" con i due indirizzi in "Turismo e sviluppo locale"(Orientato ai temi della progettazione, economia e marketing territoriale) e "Enogastronomia e Turismo" (Centrato sulle produzioni alimentari e il turismo enogastronomico), per gli studenti della Casa Circondariale costituisce la naturale prosecuzione degli studi, essendo attiva, già da tempo, la sezione carcerazione dell’Istituto per professionalità alberghiere e della ristorazione". "Siamo grati all’Università degli studi del Molise per la collaborazione offerta mediante l’organizzazione di attività didattiche e di orientamento che hanno visto l’intervento diretto dei docenti universitari in istituto" dichiara Brigida Fanelli "L’Ateneo ha, infatti, favorito la partecipazione alla didattica mediante l’adozione di modalità di insegnamento e di verifica della preparazione direttamente in loco. Un’iniziativa questa, che vince, anzi supera del tutto il pregiudizio che potrebbe derivare dal contatto con questo luogo. L’Università, ha inteso, inoltre, sollevare dal peso economico i detenuti studenti universitari dell’istituto penitenziario di Larino concedendo per l’anno 2016/2017 l’esonero totale da tasse e contributi universitari. I sei iscritti attuali costituiscono, in proporzione alla densità demografica e alla grandezza dell’istituto un numero alto se paragonato ad altri istituti di grandi dimensioni (a titolo esemplificativo il polo penitenziario-universitario del Nord-Est che fa capo al carcere di Padova- Due Palazzi ha avuto per l’anno accademico in corso 12 immatricolazioni). Siamo grati ai tutors messici a disposizione dal Dirigente dell’Istituto per Professionalità alberghiere e della ristorazione di Termoli, i quali, al di fuori delle ore curriculari, si sono impegnati a seguire gli studenti con lezioni individuali e di gruppo". L’Istituto di pena di Larino opera secondo un principio di centralità dell’attività didattica e che "intorno a questa centralità si definiscono ritmi e strutture della vita detentiva, mediante la partecipazione attiva e la condivisione di tutti gli operatori al progetto educativo. La sinergia e la comunione d’intenti di tutti i soggetti coinvolti consente di elevare il progetto in itinere a vero e proprio "servizio reso al territorio", inserendosi nella progettualità generale di istituto finalizzata a fornire "proposte e opportunità" che siano alternative alle scelte devianti e di contrasto alla commissione dei reati. Questa idea è rafforzata dall’adesione della Magistratura di Sorveglianza al progetto, mediante la conoscenza dei percorsi universitari da cui trarre elementi per le valutazioni e la concessione di permessi di natura premiale ai detenuti per consentire di recarsi presso le sedi universitarie per sostenere gli esami". I risultati del buon lavoro fin qui effettuato sono già valutabili sulla base dei buoni risultati conseguiti nel primo appello, dagli studenti. "In conclusione un doveroso ringraziamento va rivolto al Rettore dell’Università degli Studi del Molise, Professor Gianmaria Palmieri, per la volontà di offrire agli studenti detenuti le medesime opportunità di crescita scolastica e professionale offerta agli studenti all’esterno, al Preside della Facoltà di Scienze Turistiche, Professor Rosario Pazzagli, per la collaborazione e la messa a disposizione delle risorse di Ateneo, ai docenti tutti, per volontà nella cura dei rapporti con la Direzione finalizzata a consentire agli studenti detenuti il superamento degli oggettivi ostacoli derivanti dallo stato di detenzione, alla Dirigente dell’Istituto per le professioni alberghiere e della ristorazione "Federico di Svevia", Professoressa Maria Chimisso per i contributi all’offerta didattica messi a disposizione degli studenti e per la dimostrata volontà di condivisione degli obiettivi di trattamento rieducativo cui è finalizzata la pena, al personale amministrativo dell’Università degli Studi del Molise nelle persone del Dottor Antonio Basso e della Dottoressa Antonella D’Aimmo per il necessario supporto tecnico-amministrativo alle attività didattiche, ai tutor e ai volontari che investono le loro conoscenze e capacità nell’affiancamento degli studenti detenuti. Un ringraziamento a tutto il personale di Polizia Penitenziaria addetto alle attività tratta mentali per l’impegno e la dedizione con cui svolgono il loro quotidiano lavoro con le persone detenute. L’augurio è che questa nuova, stimolante e arricchente avventura, fortemente sostenuta dall’intuito e dalle capacità del Direttore dell’Istituto, Dottoressa Rosa La Ginestra, possa condurre alla costruzione di buone prassi con carattere di stabilità tra tutti i soggetti istituzionali coinvolti". Terni: l’arte dei detenuti in vendita benefica di Elisabetta Lomoro Avvenire, 12 aprile 2017 Quadri, disegni, sculture e poesie realizzati dai detenuti della Casa Circondariale di Terni sono le opere in esposizione nella settimana santa presso il cenacolo San Marco di Terni. Lavori eseguiti nell’ambito del laboratorio artistico "Arte in carcere" curato dai volontari della Caritas diocesana e associazione San Martino, che da quindici anni all’interno del carcere offre opportunità di socializzazione ed evoluzione relazionale, mentre si apprendono le tecniche del disegno e del colore. "La mostra rappresenta la conclusione di un percorso umano e formativo che la Caritas ha avviato con i detenuti nel segno di grande attenzione alla dignità umana, del riscatto sociale e della speranza - spiega Nadia Agostini. Abbiamo scelto di concluderlo con la mostra nella settimana santa, che per i cristiani è il segno della passione e morte ma soprattutto della resurrezione; un segno di speranza che è il percorso che si cerca di infondere in tutte le persone che si incontrano nel centro di ascolto in carcere. La mostra giunge a conclusione di un anno dedicato all’approfondimento di questo percorso umano e spirituale che si esprime visivamente nelle opere dei detenuti". L’esposizione "Pensieri sparsi", inaugurata sabato 8 aprile, è stata realizzata con la collaborazione della direzione della Casa Circondariale di Terni. Le opere potranno essere acquistate con una offerta in denaro e il ricavato sarà utilizzato per l’acquisto dei materiali per il laboratorio artistico, per le necessità del detenuto autore dell’opera e per un fondo comune. Pavia: teatro-carcere, ragazzi e detenuti sul palco nel carcere di Torre del Gallo Il Ticino, 12 aprile 2017 Giovedì 13 aprile il laboratorio teatrale con gli attori della compagnia USB. Il sipario e la ribalta sono sempre uguali in ogni teatro oppure se sono all’interno di un carcere diventano diversi? Cosa significa recitare con un detenuto e per chi è dietro le sbarre cosa vuol dire andare in scena con un ragazzo, magari affetto dalla sindrome di Down? Le risposte a queste domande, non semplici, arriveranno a partire da giovedì 13 aprile quando un gruppo di giovani componenti della compagnia di teatro integrato Errori di Stampa parteciperanno al progetto "Fronte del Palco", percorso intensivo esperienziale direttamente sul palco che si svolgerà in stretto contatto con la Compagnia di detenuti protetti di Torre del Gallo USB, Uomini Senza Barriere. Dietro al progetto e all’intero percorso c’è Stefania Grossi, attrice, regista e anima del teatro delle Chimere: "L’iniziativa che porto avanti è inserita nel cartellone del coordinamento nazionale di teatro in carcere - ha sottolineato Stefania Grossi. L’obiettivo del progetto è quello di arrivare alla messa in scena di un vero e proprio spettacolo recitato insieme dai ragazzi, tra cui c’è anche un giovane affetto dalla sindrome di Down, e dai detenuti che fanno parte di USB, la compagnia stabile teatrale di Torre del Gallo. Intanto il primo passo lo facciamo conoscendoci tutti giovedì mattina, per avviare un primo contatto e uno scambio di esperienze e punti di vista". L’iniziativa è patrocinata dall’assessorato all’istruzione del Comune di Pavia. Lecce: "Io Ci Provo", laboratorio-percorso teatrale rivolto ai detenuti di Giancarlo Visitilli La Repubblica, 12 aprile 2017 "Il teatro mi è arrivato addosso e dentro - sostiene Alessio Pallara, attore - È successo come quando quelle macchine, in ospedale, ti puliscono il sangue e te lo reiniettano dentro. Dopo, rinasci". Alessio è libero solo da poco tempo, sebbene seguito dai servizi sociali di Lecce, sua città natale. Dopo aver trascorso "tanti, troppi anni in carcere, ho conosciuto l’esperienza del teatro dentro e adesso la continuo da uomo libero, o quasi". L’attore fa parte di "Io Ci Provo", della regista Pauline Leone, il laboratorio/ percorso teatrale rivolto ai detenuti della sezione maschile della casa circondariale Borgo S. Nicola di Lecce, un progetto-modello del teatro nelle carceri italiane nel solco della Compagnia della Fortezza di Armando Punzo. Pallara è stato il protagonista de L’ultima cena di Alfredo Traps, uno spettacolo densissimo, tratto dal racconto La panne di Friedrich Dürrenmatt, che racconta di Alfredo "un personaggio che rimane solo, condannato a morte a tutti i costi". Sebbene riduttive le parole con cui Alessio racconta l’esperienza, non può fare a meno di sottolineare che "il monologo del momento della condanna, in cui recito i tempi andati, vivendo al presente, è un tormento reale per me. Perché a me il teatro mi ha salvato, mi ha aiutato a far morire la parte malata". Prima di trascorrere tanti anni in carcere, Alessio racconta di "aver fatto a lungo il lavoro del delinquente, poi ho lavorato in un negozio di casalinghi, ora mi occupo di ristrutturazioni". Ha una figlia di 8 anni e una compagna. Pallara afferma che anche il suo lavoro di attore, rispetto a quando era in carcere, "è cambiato: prima finivi lo spettacolo e, dopo gli applausi della gente che ti guardava, che si emozionava, volevi avere un contatto, ma non è permesso, torni in cella e vorresti esplodere. Adesso, invece, da uomo libero implodo dentro, a fine spettacolo, perché incontro volti, stringo mani, accolgo sorrisi e lacrime di emozione". Viterbo: il Csc a Mammagialla, un concerto per festeggiare la Pasqua con i detenuti radiogiornale.info, 12 aprile 2017 "Un concerto per festeggiare la Pasqua assieme ai detenuti. Stare al loro fianco e renderli partecipi di uno degli aspetti più belli della vita: la musica". Ad organizzarlo è il Centro per Gli Studi Criminologici di Viterbo (Csc). Martedì 11 aprile, a partire dalle ore 15:00. Il concerto, organizzato per i detenuti della casa circondariale "Mammagialla" di Viterbo, vedrà salire sul palco gli "Hotel Supramonte" che proporranno il repertorio di Fabrizio De Andrè. Martedì 11 aprile, a partire dalle ore 15. "Noi crediamo - spiega Marcello Cevoli Presidente del CSC - e per noi intendo anche Rita Giorgi, Direttore scientifico del CSC, nel valore della partecipazione e siamo convinti che sia tra i percorsi migliori per garantire il pieno reinserimento del detenuto nella società. E lungo questo percorso il Centro per gli Studi Criminologici vuole dare il suo contributo, grazie alla collaborazione di un gruppo di musicisti che si è messo a disposizione spinto dai valori umani che caratterizzano i principi democratici del nostro Paese. Valori - prosegue Cevoli - che hanno attraversato tutta l’opera di Fabrizio De Andrè che con le sue canzoni, che gli Hotel Supramonte proporranno ai detenuti, ha più volte evidenziato le condizioni carcerarie degli scorsi decenni partecipando con la sua musica al percorso di riforma che ha poi caratterizzato gli istituti penitenziari italiani. Ringrazio assieme a Rita Giorgi ed a tutto il Comitato Scientifico del CSC, infine tutto il personale del carcere di Viterbo e la sua direttrice, Teresa Mascolo che, con il lavoro di questi ultimi anni, ha finalmente reso Mammagialla - conclude Marcello Cevoli - parte integrante del tessuto cittadino, con eventi e manifestazioni che hanno portato al suo interno sviluppi e processi culturali che caratterizzano la società al di là delle sue mura". Decreto migranti. Sì alla fiducia con protesta: "è contro i disgraziati" di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 aprile 2017 Oggi il voto finale. Mdp vota la fiducia ma annuncia il no al provvedimento: "è una legge che non aumenta la sicurezza e si accanisce contro la povera gente". Anche alla camera via libera alla fiducia sul decreto migranti, nonostante il voto contrario di Mdp: "Votiamo la fiducia ma non il provvedimento che va contro poveri e disgraziati e non produrrà maggiore sicurezza", ha spiegato Fossati. La legge continua infatti a prevedere - nonostante forte opposizione da parte delle associazioni e movimenti politici sensibili alle tematiche dell’accoglienza un diritto diverso dai cittadini italiani: per i richiedenti asilo, nel caso decidano di opporsi in tribunale alle decisioni delle commissioni territoriali (quando rifiutano di concedere la protezione internazionale), avranno a disposizione solo il primo grado di giudizio. È stato infatti abolito l’appello, ovvero si passerà direttamente alla Cassazione, ma per le questioni di legittimità e non di merito. I richiedenti asilo dovranno rivolgersi a sezione di giudici specializzati con un procedimento "camerale" abbreviato, nel quale di regola non è previsto il contraddittorio. Il regolamento della camera ha però consentito una via d’uscita a quanti nella maggioranza mantengono dubbi sul decreto, perché sono stati previsti due voti: uno sulla fiducia (votata ieri) e uno sul testo della legge di conversione che avverrà questa mattina. Oltre la cancellazione di un grado di giudizio, altre sono le novità principali del decreto. La denominazione "Centro di identificazione ed espulsione" (Cie) sarà sostituita da quella di "Centro di permanenza per il rimpatrio" (Cpr). La rete delle nuove strutture dovrà essere ampliata, in modo da assicurarne la distribuzione sull’intero territorio nazionale. I nuovi Cpr saranno allestiti nei siti e nelle aree esterne ai centri urbani che risultino più facilmente raggiungibili, dovranno essere di capienza limitata (100-150 posti al massimo) e dovranno garantire condizioni di trattenimento che assicurino l’assoluto rispetto della dignità della persona. Il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale avrà il potere, avendo libero accesso, di verificare le condizioni dei centri. Altro punto importante e soggetto a critiche è il lavoro gratuito che dovranno svolgere i richiedenti asilo in collaborazione con le organizzazioni del terzo settore. In questa maniera, i prefetti, d’intesa con i comuni interessati, potranno promuovere ogni iniziativa utile all’implementazione dell’impiego di richiedenti protezione internazionale, su base volontaria, in attività di utilità sociale in favore delle collettività locali. Altro punto è lo smaltimento delle richieste d’asilo. Per far fronte al boom di domande, il ministero dell’Interno è autorizzato, per il biennio 20172018, a bandire concorsi e ad assumere fino a 250 unità di personale a tempo indeterminato, altamente qualificato, per l’esercizio di funzioni di carattere specialistico. Verranno, inoltre, istituite 26 sezioni specializzate (tante quante le sedi di Corte d’appello) in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea. Le sezioni saranno competenti in materia di mancato riconoscimento del diritto di soggiorno sul territorio nazionale in favore di cittadini Ue; impugnazione del provvedimento di allontanamento nei confronti di cittadini Ue per motivi di pubblica sicurezza; riconoscimento della protezione internazionale; mancato rilascio, rinnovo o revoca del permesso di soggiorno per motivi umanitari; diniego del nulla osta al ricongiungimento familiare e del permesso di soggiorno per motivi familiari; accertamento dello stato di apolidia e accertamento dello stato di cittadinanza italiana. I giudici che compongono le sezioni specializzate saranno scelti tra quelli dotati di specifiche competenze o che seguiranno corsi di formazione ad hoc. Altro punto principale del decreto riguarda l’istituzione dei "punti di crisi". Lo straniero che arriva illegalmente in Italia verrà condotto per le esigenze di soccorso e di prima assistenza presso appositi "punti di crisi": qui avverranno le operazioni di rilevamento foto dattiloscopico e segnaletico. Il "rifiuto reiterato" di sottoporsi al rilevamento configurerà il "rischio di fuga" ai fini del trattenimento nei centri. Il ministro Minniti: la sicurezza non è questione di statistica, ma di percezione di Andrea Cangini Il Giorno, 12 aprile 2017 "Tutela della gente e immigrazione sono temi di sinistra, toccano i ceti deboli". Se il compito del ministro dell’Interno è quello di governare il caos incanalando le forze che si agitano nell’ombra degli arcana imperii, serve spirito cartesiano ma non guasta una visione alchemica. Anche la Cabala, con l’eterno ritorno del numero 12, può essere d’aiuto. Racconta Marco Minniti che il suo battesimo del fuoco nel mondo oscuro dell’intelligence avvenne quando, da sottosegretario alla presidenza del Consiglio con D’Alema premier, dovette sciogliere l’intrigo legato all’arrivo a Roma del terrorista curdo Ocalan: ci riuscì e mai più si liberò da quella stimmate. Da allora, la sicurezza nazionale è il suo destino. "Era il 12 novembre - ricorda - quando Ocalan sbarcò in Italia, ho giurato da ministro un 12 dicembre e molto probabilmente domani (oggi, ndr), 12 aprile, verranno convertiti in legge i miei decreti su immigrazione e sicurezza urbana". Nella Smorfia 12 è il numero del soldato, e Minniti viene da una famiglia di militari. Nella numerologia cabalistica il 12 simboleggia le prove iniziatiche e l’armonia cosmica, e infatti, ancor più che quello di ministro dell’Interno, a Marco Minniti spetterebbe di diritto il titolo di ministro dell’Armonia: era sottosegretario con Letta, ma, unico tra tanti, fu confermato da Renzi; è renziano, ma gode della stima dei bersaniani; non va mai in televisione né usa i social, ma è il ministro più popolare del governo; sovrintende da sinistra a questioni scivolose come l’immigrazione e la sicurezza, ma viene quotidianamente incensato dai giornali di destra. Imbarazzato? "No, gratificato. Significa che stiamo lavorando bene, e per lavorare bene occorre creare condivisione". Ed è questa la ragione del suo successo. Creare politiche condivise, "perché su sicurezza e immigrazione non basta la forza, ma occorre il concorso attivo di tutti". Schivare le polemiche, "perché un ministro dell’Interno se vuole essere autorevole dev’essere figura terza e istituzionale". Evitare annunci, "perché credo nell’eterogenesi dei fini e quando un politico annuncia qualcosa di solito si realizza il suo contrario". Uomo compassato e pragmatico, nel suo studio al Viminale Marco Minniti ricostruisce il cammino della sinistra lungo la strada del realismo. Cammino "iniziato con le dure posizioni assunte dal Pci ai tempi del terrorismo brigatista" e giunto all’odierna consapevolezza che "la sicurezza dei cittadini e il governo dell’immigrazione non sono questioni di destra, ma di sinistra, perché impattano sui ceti sociali più deboli". A sinistra, non tutti l’hanno capito. "Chi lo nega dovrebbe domandarsi perché perdiamo voti soprattutto nelle periferie urbane". Argomento razionale, ma non sufficiente. Minniti, infatti, sa bene quanto poco conti la ragione nelle vicende umane e politiche e infatti evita di sciorinare dati. "Le statistiche ci dicono che i reati, tutti i reati, sono in diminuzione, ma la sicurezza non è una statistica, è un sentimento. E il sentimento di insicurezza avvertito dai cittadini non va mai sottovalutato". Occorre condivisione, occorre realismo. "Teorizzare la politica delle porte aperte agli immigrati non ha senso: l’accoglienza ha un limite naturale nella capacità di integrazione. Negarlo significa mettere a rischio le basi della democrazia nel nostro Paese". Per creare le condizioni per l’integrazione, Minniti ha promosso con tutte le associazioni dei musulmani il Patto per l’Islam italiano. Si fonda sul "rispetto della nostra Costituzione" e dunque sul principio che "qualunque sopraffazione venga fatta in nome della religione deve essere considerata intollerabile". Perciò, aggiunge, "è stato giusto togliere la patria potestà ai genitori di quella bambina del bolognese rapata a zero perché rifiutava di portare il velo". Ma giusto è stato anche disporre l’apertura dei centri per i rimpatri (Cpr) per gli immigrati pericolosi in attesa di espulsione. Mille e seicento posti non sono pochi? "No, né si dimostreranno pochi i 135 giorni di detenzione massima previsti: con la Tunisia e altri paesi stiamo lavorando per arrivare a rendere operative le espulsioni nell’arco di massimo un mese". La sua priorità, oggi, è assicurare alla Giustizia il killer di Budrio. "Abbiamo messo in atto uno spiegamento di forze senza precedenti, non avrò pace finché non lo avremo catturato". Fosse stato espulso come previsto, non avrebbe ucciso. "È vero, ma per espellere qualcuno occorre identificarlo e occorre che il paese di provenienza lo accolga". Cose che, nel caso di Norbert, alias Igor, con tutta evidenza non sono accadute. Perciò la gente si arma, perciò sarebbe giusto considerare "legittima" ogni difesa del cittadino a casa propria. Ma Minniti riafferma: "La sicurezza in armi dei cittadini deve essere assicurata dallo Stato. Così non fosse, salterebbe il contratto sociale". Nei giorni scorsi, il ministro dell’Armonia - pardon, dell’Interno - è riuscito a convincere le tribù libiche a siglare un accordo di pace. "Sono arrivati al Viminale con turbanti e tuniche e dopo due giorni ne sono usciti con in mano un’intesa su cui nessuno avrebbe scommesso". Ci servirà a garantire il controllo della frontiera Sud della Libia, oggi permeata dai flussi dei migranti africani. "In Libia il traffico di esseri umani è un’industria che redistribuisce reddito sul territorio, la combatteremo in ossequio al principio per cui la buona moneta scaccia la cattiva". In sostanza, noi e l’Europa investiremo risorse importanti: "Soldi ben spesi". E guai a dire che trattiamo solo col governo tripolino di Sarraj: nei giorni scorsi, osserva il ministro, l’ambasciatore italiano a Tripoli è stato ricevuto con tutti gli onori dal generale Haftar. "Lavoriamo per stabilizzare la Libia, ad un nuovo rapporto tra Ovest ed Est. Una stabilizzazione militare è una drammatica illusione. La forza dell’oggi è un’instabilità governata". Realismo, dunque, e ancora realismo. Stiamo finendo di addestrare la Guardia costiera libica, "entro metà maggio" gli forniremo due motovedette e altre due in seguito per poi, alla fine, arrivare a dieci. L’accordo per bloccare i flussi migratori è stato siglato col premier Sarraj il 2 febbraio. Ma i flussi non calano. Caleranno entro l’estate? Dopo aver ammesso di essere "scaramantico", Minniti torna a citare il rischio di eterogenesi dei fini: "Non azzardo previsioni, parlerò dei flussi dalla Libia solo se e quando diminuiranno". Rifugiati. Aumentano gli ostacoli per accedere alla protezione di Luca Liverani Avvenire, 12 aprile 2017 Centro Astalli: siamo preoccupati per il decreto Minniti. La strada per il diritto di asilo è costellata di troppi ostacoli. Dopo il deserto e dopo il mare, i migranti forzati devono affrontare burocrazia, frammentazione dell’accoglienza e - tra non molto - anche un unico e inappellabile grado di giudizio. A constatarlo è il Centro Astalli alla presentazione del Rapporto annuale 2017, illustrato ieri mentre alla Camera si votava la fiducia sul decreto legge Minniti-Orlando, criticato per la cancellazione del ricorso. Con padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli - sede italiana del Jesuit refugee service - ci sono il segretario della Cei monsignor Nunzio Galantino, la presidente della camera Laura Boldrini, l’ex commissario europeo Emma Bonino. Padre Ripamonti ricorda che rifugiati e richiedenti asilo nel mondo sono 65 milioni. In Europa nel 2016 ne sono arrivati via mare 362.376, un terzo del milione e 15.078 de12015. Di questi, 181.436 in Italia, tra loro 25.772 i minori non accompagnati. Il Centro Astalli nelle sue diverse sedi (Roma, Catania Palermo, Grumo Nevano-Napoli, Vicenza, Padova e Trento) ha aiutato 30 mila persone, grazie a 634 volontari, 20 giovani del servizio civile, 100 operatori. Circa 60 mila i pasti serviti. Spesi 3 milioni e 100 mila euro solo a Roma, grazie a donatori privati, 8 per mille Cei, Migrantes, Fondazione Bnl e Segretariato sociale Rai. Padre Ripamonti parla dell’accordo con la Turchia che da un anno blocca l’ingresso dei siriani: "È stato più volte proposto come modello per analoghi accordi con i Paesi dell’Africa, inclusa la Libia. Questo è un grave motivo di preoccupazione". Critiche anche sul decreto Minniti: "Con altri enti abbiamo pubblicamente espresso la nostra preoccupazione, i muri si costruiscono con cemento e filo spinato ma si possono erigere anche con le norme: temiamo che proprio questo stia avvenendo in Italia". E il centro Astalli ieri era al sit in di protesta davanti a Montecitorio assieme a diverse realtà che si occupano di immigrazione: A Buon Diritto, Antigone, Arci, Acli, Asgi, Baobab Experience, Cgil Cisl e Uil, libera. "Per una multa tre gradi di giudizio - è stato detto - per la concessione dell’asilo solo uno". Troppi ostacoli dunque. "Mai come quest’anno - dice padre Ripamonti - abbiamo notato che procedure collaudate non sono più del tutto adeguate, le eccezioni diventano la regola". Urgente "ridurre rapidamente il gap tra grandi Centri di accoglienza straordinaria, Cas, e accoglienza diffusa dei centri Sprar. Ma soprattutto uscire dall’opposizione passiva contro l’accoglienza nei territori". Servono dunque "più investimenti per l’integrazione". Ma prima di tutto "cambiare con urgenza la narrazione sui rifugiati". Monsignor Galantino dice che "la Turchia è un esempio chiaro di subappalto della mobilità umana". Per il segretario Cei bisognerebbe valutare "la possibilità di un permesso di soggiorno umanitario anche per i numerosi "diniegati" che nei prossimi mesi saranno 40 mila. E l’irregolarità genera sfruttamento, mentre è fondamentale ripartire dalla legalità". E ricorda gli oltre 23 mila richiedenti asilo e rifugiati ospitati a giugno 2016 nelle strutture ecclesiali. Poi aggiunge: "C’è chi dagli inevitabili problemi che comporta l’immigrazione cerca di lucrare consensi; niente di più penoso. Non possiamo non riconoscere la nostra responsabilità: di chi ha violato la terra di altri, ha sfruttato persone e terre, ha impoverito, venduto armi e lucrato sulla guerra". Laura Boldrini ha ricordato quanto detto ieri dal Capo della polizia: calo costante di furti, rapine e omicidi: "L’Italia non è il Far West. Ma è difficile parlare di immigrazione su basi reali". Le istituzioni italiane "stanno facendo il possibile per salvare le vite in mare, poi però qual è il livello di accoglienza e integrazione? Il ministro Minniti dice che l’ accoglienza ha un limite nella capacità di integrazione, che ha bisogno di stanziamenti e politiche di inclusione. La Germania per gli anni 2016/2020 ha investito oltre 93 miliardi, l’Italia nel triennio 2017/2019 8". È Emma Bonino a ricordare che "se c’è un tema in cui interessi nazionali e valori coincidono è l’immigrazione. Tutte le ricerche ci dicono che per l’equilibrio tra lavoro e pensioni servirebbero 160 mila ingressi annuali". "I decreti Minniti-Orlando sono incostituzionali". Ecco perché di Eleonora Martini Il Manifesto, 12 aprile 2017 Protesta delle associazioni in Piazza Montecitorio contro i provvedimenti: dal Daspo urbano alla riforma dell’iter per l’asilo che "sovrappone i poteri dello Stato". "A rischio di incostituzionalità". Il giudizio è praticamente unanime, in Piazza Montecitorio dove decine di associazioni e formazioni politiche si sono date appuntamento per contestare i decreti legge Minniti-Orlando, mentre i deputati in Aula votavano la fiducia. Entrambi - quello sull’immigrazione, che oggi verrà convertito in legge con l’ultimo voto della Camera, e quello sulla sicurezza urbana che è passato all’analisi del Senato - violano i principi stessi su cui fonda lo Stato italiano, secondo molti militanti delle organizzazioni che hanno aderito al sit-in, tra le quali Antigone, Arci, Asgi, Acli, Cgil, Cisl, Cnca, Fondazione Migrantes, Legambiente, Libera, Lunaria, Medici senza frontiere, Radicali italiani, Rifondazione comunista, Sant’Egidio e Sinistra Italiana. A cominciare dalla necessità e dall’urgenza che hanno motivato la forma dell’atto normativo. Ma di punti "deboli", costituzionalmente parlando, i provvedimenti di Minniti e Orlando ne hanno molti. Basti pensare al "Daspo urbano" applicato anche il 25 marzo scorso a Roma per fermare preventivamente alcuni manifestanti "per l’altra Europa" provenienti dalla Val Susa e dal Nord-est, "che viola l’art.21 sulla libertà di espressione del pensiero". O alla riforma dell’iter per il riconoscimento dello status di rifugiato, resosi necessario, secondo il legislatore, a causa dell’intasamento di alcuni tribunali, quelli su cui insiste la competenza delle commissioni che vagliano le richieste di asilo. Per intenderci, nel Lazio tutti i ricorsi degli aspiranti asylanten gravano solo su quella decina di magistrati della Prima sezione del Tribunale di Roma. "Ma il ministro Orlando, invece di cambiare le competenze e distribuire sul territorio questo carico di lavoro, ha deciso di semplificare l’iter a scapito di molti diritti costituzionali", spiega l’avvocato Stefano Greco, della Casa dei diritti sociali. Andando nei particolari del "decreto immigrazione", il primo punto è la giurisdizionalizzazione del procedimento amministrativo davanti alle Commissioni (le cui sedute saranno d’ora in poi videoregistrate e i cui verbali saranno informatizzati) che, secondo il ministro Orlando, permette di evitare il secondo grado di giudizio nel caso di ricorso davanti a un giudice. "In questo modo, si viola l’articolo 111 secondo il quale "la giurisdizione si attua mediante il giusto processo" - spiega ancora l’avv. Greco - che vuol dire contraddittorio tra le parti, parità, e un giudice terzo e imparziale. Davanti alle commissioni invece il richiedente asilo è solo, senza un avvocato e posto dinanzi ad un dipendente del Ministero dell’Interno. In sostanza, si fa confusione tra i poteri dello Stato, sostituendo in questo caso quello giudiziario". Se c’è diniego, poi, si hanno solo 30 giorni per trovare un avvocato, preparare e depositare il ricorso. E, se in seconda istanza si vuole fare ricorso in Cassazione, per un giudizio di legittimità, il tutto va ripetuto, compresa la delega all’avvocato (norma particolare, si badi bene, applicata solo ai richiedenti asilo). Ma come si forma il giudizio del tribunale di primo (e unico) grado? "Prima il giudizio si formava anche con l’ausilio di prove e testimonianze, la cosiddetta "cognizione piena" - ricorda Greco - poi con l’ultimo governo Berlusconi, nei cui piani c’era la semplificazione che sta portando in porto Orlando, si è passati alla "cognizione sommaria", ossia un processo sostanzialmente documentale ma che poteva essere trasformato, al bisogno, in rito "pieno", arricchendo il dibattimento con testimoni e prove. Con questo decreto invece si va oltre: si applica l’art. 737 del Codice di procedura civile, quello usato per le cause senza contenzioso, dove non c’è udienza, non c’è dibattimento, non c’è comparizione delle parti. Il giudice può non incontrare mai né il richiedente asilo, né il suo avvocato: visiona la registrazione della commissione e decide. Ed è la prima volta che ciò avviene in Italia in materia di diritti fondamentali della persona". Condanne a morte in calo, ma in Cina è record di esecuzioni segrete di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 aprile 2017 Rapporto annuale di Amnesty International sulla pena capitale nel mondo: nel 2016 - 37%. Condanne a morte in calo nel 2016: secondo il rapporto di Amnesty International le esecuzioni capitali sono calate l’anno scorso del 37% rispetto all’anno precedente. Complessivamente, Amnesty ha registrato 1.032 esecuzioni nel mondo nel 2016 contro 1.634 nel 2015, anno in cui si è avuto il più alto numero di esecuzioni dal 1989. Trentadue condanne a morte sono state emesse dagli Stati Uniti (il numero più basso dal 1973), 20 delle quali sono state eseguite. Il dato colloca gli Usa al settimo posto nella classifica dei paesi la cui legislazione prevede ancora la pena capitale. Davanti agli Usa rimangono la Cina (dove si sono verificate diverse migliaia di condanne ma non c’è una cifra certa) l’Iran (567), l’Arabia Saudita (154) l’Iraq (88), il Pakistan (87) e l’Egitto (44) Secondo Salil Shetty, segretaria generale dell’organizzazione, il dato dell’anno scorso emerso dal rapporto "è un segno di speranza per coloro che si battono da lungo tempo per mettere fine alla pena capitale nel mondo". Secondo Amnesty emerge "un chiaro segno che i giudici, i procuratori e le giurie iniziano a non considerare più la pena di morte come mezzo per fare giustizia". Le statistiche non considerano però che la Cina ricorre alla pena di morte più di tutti gli altri paesi del mondo messi assieme. Il governo cinese, secondo Amnesty, utilizza un sistema segreto per occultare "uno scandaloso numero di esecuzioni". La base dei dati cinesi contiene solo una parte infinitesimale delle migliaia di condanne a morte che Amnesty stima siano emesse ogni anno. Citando fonti di stampa, Amnesty sottolinea ad esempio che tra il 2014 e il 2016 almeno 931 persone sarebbero state condannate a morte, ma nelle cifre ufficiali cinesi vengono indicate solo 85 sentenze di condanna. Né vengono riferite le cifre degli stranieri messi a morte per narcotraffico o altri delitti, benché la stampa locale abbia dato notizia di almeno 11 casi. Il regime di Pechino, che classifica la maggior parte dei casi di pena di morte come "segreto di Stato", è la conclusione di Amnesty, realizza una divulgazione parziale e affermazioni che non possono essere verificate per difendere il suo progresso in termini di riduzione delle esecuzioni, ma allo stesso tempo mantiene una segretezza quasi assoluta. Questo è deliberatamente fraudolento. Stati Uniti. Pena di morte, ora è debole la voce del boia di Vittorio Zucconi La Repubblica, 12 aprile 2017 Lentamente si vuotano le barelle della morte, si fa flebile la voce del boia che negli Stati Uniti canta sempre meno. Il 2016 è stato un anno record per il basso numero di condannati messi a morte, pochi come non si vedevano da quindici anni e la tendenza è al ribasso, non soltanto nelle esecuzioni (calate a livello mondiale del 37 per cento in un anno), ma anche nelle sentenze capitali. Per la prima volta l’America non è più tra le "Top Five". Tra le cinque nazioni dove la barbarie legalizzata dell’omicidio di stato è ancora praticata. Lontana dal mattatoio cinese, nel quale si abbattono, in silenzio, più condannati che in tutto il resto del mondo assommato. Non ci sono state nuove leggi, solenni dibattiti parlamentari o decreti governativi che abbiano cambiato il corso della pena capitale nei 19 Stati che l’hanno abolita e negli altri che la mantengono sulla carta, insieme con il governo federale, ma spesso non la applicano nella realtà. C’è stata la progressiva realizzazione non soltanto della inutilità della forca come deterrente del crimine, ma della iniquità di una pena assoluta inflitta da un sistema giudiziario relativo che colpisce con giustizia diversa non i più colpevoli, ma i meno difesi da costosi avvocati. E poi l’orrore, il grido muto che si è alzato in questi ultimi anni dalle "Death Chamber", dalle infermerie della morte con vetrata per il pubblico e con stantuffi per il cocktail di liquidi letali. L’iniezione, in realtà tre flebo successive di pentotal per tramortire, di curaro per paralizzare e di cloruro di potassio per stroncare il cuore, ha il più alto grado di errore fra tutte le forme di esecuzione. Nel 7 per cento dei casi la vittima non muore in stato di incoscienza, ma dopo un’agonia lunga e crudele. "Crudele" come sarebbe esplicitamente vietato dalla Costituzione. Stephen Morin in Texas impiegò undici minuti per perdere i sensi e per morire, dopo che le guardie carcerarie, addestrate per iniettare i liquidi nel rifiuto di medici o infermieri che mai partecipano alle esecuzioni se non per certificare la morte, avevano frugato per quaranta minuti con gli aghi nelle sue braccia per trovare le vene. Brian Steckel visse in piena coscienza le sensazioni brucianti dei veleni iniettati, dal curaro paralizzante al cloruro di potassio finale, dopo che la pompa dell’anestetico non aveva funzionato correttamente. Nel 2014 Clayton Lockett non riusciva a morire, mentre i suoi boia tentavano disperatamente di pompargli le vene con tutto quello che avevano. Per 43 minuti Lockett si divincolò tentando di liberarsi dalle cinghie di cuoio che legano il condannato alla barella, spezzando aghi e schizzando sangue, prima di riuscire a spegnersi. Eppure non è neppure la pietà, non è la repulsione per la oscena sceneggiata fintamente umanitaria di un metodo di esecuzione che sembrava moderno ma è più disumano del colpo alla nuca o della ghigliottina ad avere cambiato il corso della forza. È anche la difficoltà pratica a ottenere i preparati necessari per il cocktail. Nessuna azienda americana produce più quel sodio penthotal che dovrebbe anestetizzare la vittima e gli Stati come Alabama (2 giustiziati), Florida (1), Georgia (9), Missouri (1) e il Texas con sette, che nel 2016 hanno messo a morte condannati, devono importarlo per vie traverse dall’India, scavalcando i divieti dell’Agenzia Federale del Farmaco, quasi contrabbandandoli, perché anche le Farma europee rifiutano di fornire prodotti da usare per uccidere. Le 32 sentenze di morte pronunciate lo scorso anno sono il numero più basso dal 1973, scrive Amnesty International e le 20 condanne eseguite il minimo dal 1991. I 2.902 prigionieri in lista d’attesa nei bracci della morte spesso da oltre quindici anni hanno più probabilità di morire di vecchiaia o di malattia in carcere che di prendere l’ascensore per il patibolo. Ma se l’America che Trump ha ereditato da Obama è ormai ben dietro le nazioni più forcaiole, Cina, Iran, Pakistan, Arabia Saudita, Vietnam, Malesia, ora si aprono gli interrogativi su Trump e sulle sue intenzioni, sempre confuse e oscillanti. Il governo federale, che ha cinque condannati a morte nelle proprie carceri, non può imporre agli stati di abbattere o rialzare la forca, ma può creare il clima politico e culturale che muova l’ago del sentimento collettivo. Trump si è sempre dichiarato un fan accanito delle esecuzioni. Invocò la morte per cinque giovani afroamericani condannati per lo stupro e l’assassinio di una donna in Central Park e non indietreggiò neppure quando furono scagionati dopo i test del Dna. La vera chiave delle "Camere della Morte" è tra le mani dei giudici della Corte Suprema che prima le dichiararono incostituzionali e poi le riammisero, negli anni 70. Ora la Corte è di nuovo al completo, con il giuramento del nono magistrato, Neil Gorsuch, fortemente voluto da Trump e approvato di forza dal Senato con voto strettamente di partito. Sarà suo il voto di spariglio fra i quattro giudici conservatori e i quattro progressisti. Se ascolterà la voce del Presidente che lo ha scelto e imposto, il boia potrà schiarirsi la voce e tornare a cantare, premendo gli stantuffi dei veleni. Siria. Combattere l’Isis e Assad è impossibile: per adesso gli insorti non sono alleati fidati di Giordano Stabile La Stampa, 12 aprile 2017 La vicenda Assad con l’utilizzo di armi chimiche ha fatto dimenticare la necessità di sconfiggere l’Isis. Da qualche mese si scrive di Mosul accerchiata e poi la conquista tarda. Uno dei difetti dell’Occidente è quello di non aver mai dato seguito, in modo concreto, alla coalizione anti-Isis, a suo tempo annunciata con la partecipazione di 40 nazioni, poi diventate 60. Si continua a tergiversare: le grandi potenze dovrebbero affrontare il problema una volta per tutte. Quanto alla Siria, la soluzione, per porre fine alla guerra civile, è quella di un tavolo di confronto tra le grandi nazioni, perché la soluzione non passa certo attraverso l’Onu, visto il diritto di veto. Mi piacerebbe il suo parere al riguardo. L’azione contro lo Stato islamico è partita in ritardo, con molte contraddizioni, ma bisogna distinguere fra Siria, dove la strategia americana ha dato risultati deludenti, e Iraq, che ha visto un’alleanza più compatta riconquistare quasi tutto il territorio occupato dagli uomini di Abu Bakr al-Baghdadi fra il 2014 e il 2015. Ieri le forze armate irachene hanno annunciato che l’Isis controlla ormai il 7% del Paese mentre al suo picco ne occupava circa il 40%. In Iraq la battaglia è stata semplificata dal fatto che il governo del premier Haider al-Abadi, per quanto dominato dalla componente sciita, è riconosciuto dagli Stati Uniti, e appoggiato da Iran e Russia. La convergenza degli interessi contro l’Isis, per ora, ha reso possibile la ricostruzione dell’esercito di Baghdad, liquefatto nel giugno del 2014, con addestratori americani ed europei, mentre la Russia forniva caccia ed elicotteri d’assalto, e Teheran armava e addestrava le milizie "popolari" (sciite). Questo equilibrio è destinato a rompersi dopo la sconfitta dell’Isis ma intanto, anche se un nucleo duro di irriducibili resiste a Mosul attorno alla moschea Al-Nouri al-Kabir, le sorti dello Stato islamico sono segnate: tornerà a fare guerriglia, ma non a governare mezzo Iraq. In Siria "combattere l’Isis e Assad" si è rivelato impossibile. Gli unici risultati sono stati sul fronte curdo, in una regione semi-indipendente dove l’appoggio occidentale, a parte le interferenze della Turchia, è stato coerente. L’impresa di armare i ribelli per combattere il raiss e in contemporanea i jihadisti l’Isis, qualche volta loro ex compagni, si è rivelata impossibile. L’obiettivo primario degli insorti è la caduta del regime. E su questo non ci può essere accordo fra le grandi potenze, Usa Russia Cina, né all’Onu né fuori. Turchia. Si allarga lo sciopero della fame nelle prigioni infoaut.org, 12 aprile 2017 Si allarga il fronte a sostegno dei prigionieri politici curdi. Da lunedì, infatti, è iniziato lo sciopero della fame ad oltranza e a staffetta della comunità curda in Italia e in tutta Europa a sostegno delle centinaia di detenuti politici nelle prigioni turche. Uno sciopero iniziato 55 giorni fa nel carcere di Sakran (Smirne) dalle detenute donne che protestano contro le violenze subìte, che in poco tempo si è esteso ad oltre 20 carceri per un totale di 187 detenuti in sciopero della fame. Le richieste sono la fine delle misure adottate nelle carceri contro i prigionieri politici dopo l’entrata in vigore dello stato di emergenza post-golpe: isolamento totale, celle sovraffollate (20 persone per spazi che ne possono contenere 10); divieto di entrare negli spazi comuni e nelle librerie; torture; visite mediche in manette; limitazioni delle visite dei familiari; obbligo di portarsi addosso l’etichetta "terrorista" e altro ancora. I detenuti in sciopero chiedono la fine dell’isolamento, la libertà per i prigionieri politici e la rimozione di pratiche degradanti. L’ondata repressiva iniziata dopo il fallito golpe della scorsa estate ha mandato in carcere oltre 45.000 persone con l’accusa d’avervi partecipato: tra questi oltre 5.000 gli esponenti dell’opposizione, in gran parte della sinistra curda e turca tra cui giornalisti, deputati, sindaci, avvocati, ecc. Le iniziative di sostegno proseguono in tutta Europa attraverso altri scioperi della fame ma soprattutto con un presidio pubblico previsto per il prossimo 13 aprile in cui le comunità curde di tutt’Europa si daranno appuntamento sotto la Corte Europea dei diritti umani per chiedere la fine dei trattamenti disumani per mano del governo turco di Erdogan. Anche a Roma è in corso un presidio che durerà fino a giovedì in piazza Madonna di Loreto angolo piazza Venezia, giorno e notte, organizzato dalla comunità curda impegnata ormai da oltre un anno nella difesa del Centro Socio-Culturale Curdo Ararat, minacciato di sgombero dal Comune di Roma. Turchia. Chiesto l’ergastolo per 30 giornalisti e dipendenti del giornale Zaman La Repubblica, 12 aprile 2017 A pochi giorni dal referendum che dovrà approvare la riforma presidenziale voluta da Erdogan, il procuratore capo di Istanbul ha chiesto la condanna all’ergastolo per 30 tra giornalisti ed ex dipendenti del gruppo media Zaman, accusati di "partecipazione in organizzazione terroristica". Il gruppo editoriale Zaman pubblicava il principale quotidiano di opposizione del paese quando, a marzo dell’anno scorso, fu prima commissariato dopo un blitz della polizia nella redazione, poi stravolto nella linea editoriale e infine chiuso d’imperio. Facendo parte delle imprese di proprietà di Fetullah Gulen, imam miliardario auto-esiliatosi negli Usa dopo la rottura dei rapporti con Erdogan, il giornale - 650 mila lettori quotidiani - era stato accusato di partecipare attivamente al complotto contro le istituzioni di cui Gulen era ritenuto il capo supremo. L’accusa per i 30 giornalisti e dipendenti, per cui è stata chiesta una pena aggiuntiva di 15 anni, riguarda ora una presunta "partecipazione in organizzazione terroristica". Secondo il pubblico ministero, il gruppo Zaman avrebbe "usato il giornalismo come un’arma eccedendo i limiti di libertà di espressione e di stampa" al fine di "manipolare la società", usando termini mirati a "minare la pace sociale e giustificare un golpe". Tutti comportamenti messi in atto, secondo l’accusa, ben prima del fallito golpe di luglio che ha poi scatenato una repressione generalizzata in tutti i gangli dello stato e della società. Il 27 luglio, dodici giorni dopo il tentato colpo di stato, il governo dispose la chiusura di 45 giornali e 16 canali televisivi di news, tutti con l’accusa generica di complottare contro lo stato. A oggi, secondo gli osservatori internazionali, i media chiusi sono stati 158, mentre circa 150 giornalisti sono tuttora detenuti e sotto processo. La situazione della libertà di stampa, con la libertà di accesso ai seggi in alcune zone del paese, è il fattore che preoccupa di più la comunità internazionale in vista del voto di domenica prossima sul referendum. Tana de Zulueta, che guida la missione internazionale di osservatori elettorali dell’Osce/Odihr, con membri di venti paesi, ha detto oggi che di fatto non esiste par condicio e che i sostenitori del no alla riforma hanno enormi difficoltà a far sentire le proprie ragioni: "Abbiamo avviato un monitoraggio su 5 tv e 3 giornali nazionali - dice De Zulueta -. Possiamo già constatare che ci troviamo a osservare una situazione in cui i media di simpatia governativa sono preponderanti. Inoltre, con un decreto dello stato d’emergenza la commissione elettorale centrale è stata spogliata del suo potere di comminare sanzioni in caso di violazioni dell’equilibrio nei messaggi elettorali". Cecenia. Centinaia di omosessuali rinchiusi in un campo di concentramento di Elena Tebano Corriere della Sera, 12 aprile 2017 La "smentita" del capo del governo: "nel nostro Paese non ci sono gay". Centinaia di uomini sono detenuti illegalmente nella repubblica Cecena: tre sono morti nella prigione illegale di Argun, vicino alla capitale Groznyj. In Cecenia almeno un centinaio di uomini gay sono detenuti illegalmente in un centro di prigionia ad Argun, una cittadina a circa 15 chilometri ad est della capitale Groznyj, dove secondo vari testimoni vengono sistematicamente torturati. Almeno tre persone sarebbero morte. Lo scrive il quotidiano indipendente russo Novaya Gazeta, che riporta le testimonianze di due sopravvissuti. "Ci hanno fatto l’elettroshock. Era molto doloroso. Ho resistito finché non ho perso i sensi e sono caduto a terra - ha raccontato al giornale uno di loro. Ci picchiavano con dei tubi. Sempre sotto la vita. Ci dicevano che siamo "cani che non meritano di vivere". Altre denunce sono state raccolte da Ilga (la più importante associazione europea lesbica gay e transgender) e dalla Rete Lgbt Russa, che ha istituito un numero riservato per vittime e testimoni. È il primo campo di concentramento per omosessuali in Europa dalla caduta di Hitler. Le autorità cecene ne hanno smentito l’esistenza in termini che - denuncia Ilga - "sono un chiaro incitamento all’odio": "Non si possono detenere e perseguire persone che semplicemente non esistono nella Repubblica Cecena" ha dichiarato il capo della repubblica cecena Ramzan Kadyrov, 40 anni. "Se ci fosse gente simile in Cecenia - ha aggiunto - le forze dell’ordine non avrebbero bisogno di avere a che fare con loro, perché i loro parenti li manderebbero in un luogo da cui non c’è più ritorno". Altrettanto preoccupanti le parole di Kheda Saratova, membro di quello che dovrebbe essere il Consiglio per i diritti umani ceceno: "Nella nostra società cecena, chiunque rispetti le nostre tradizioni e cultura darà la caccia a questo tipo di persone senza bisogno di aiuto da parte delle autorità, e farà di tutto perché questo tipo di persone non esista nella nostra società", ha detto durante una trasmissione radio. L’inizio delle purghe - Le persecuzioni sono iniziate, secondo quanto ha ricostruito da Novaya Gazeta, alla fine di febbraio, dopo che un uomo sotto effetto di droga è stato arrestato e nel suo cellulare sono stati trovate immagini "a contenuto omosessuale" e i contatti di decine di altri gay. Da qui sarebbe iniziata un’ondata di arresti e torture: secondo testimoni anonimi le forze di sicurezza hanno sistematicamente lasciato accesi i cellulari delle persone fermate per poi prelevare chiunque li chiamasse o venisse semplicemente percepito come gay. Il quotidiano russo cita fonti riservate secondo le quali alle persecuzioni avrebbero partecipato anche il portavoce del parlamento Magomed Daudov e il ministro dell’Interno Aub Kataev. Il testimone - "Mi hanno portato in un posto che sembra abbandonato ma invece è una prigione segreta su cui non ci sono informazioni ufficiali - ha raccontato uno dei sopravvissuti a Novaya Gazeta. Nella stanza accanto a noi c’erano prigionieri sospettati di aver combattuto in Siria e i loro parenti, probabilmente sono lì da anni". Nel campo di concentramento ci sarebbero fino a cento persone. "Più volte al giorno ci portavano fuori per picchiarci. Lo chiamavano "interrogatorio" - prosegue il testimone. L’obiettivo era raccogliere più contatti di uomini gay". E ancora: "Alcuni venivano picchiati con maggiore durezza. C’era un ragazzo che veniva torturato in modo più intenso. Era lì da più tempo di noi ed era a pezzi. Aveva ferite aperte sul corpo. Lo hanno consegnato ai suoi parenti e in seguito abbiamo scoperto che è morto". Le vittime - "I detenuti venivano interrogati, costretti a sedersi su delle bottiglie, picchiati. Alcuni venivano percossi fino a un attimo prima che morissero e poi riconsegnati ai famigliari. Personalmente sono venuto a conoscenza di tre morti - ha riferito a Novaya Gazeta un altro testimone oculare. C’erano solo tre modi per uscire da lì: pagare una somma enorme di denaro, dare i contatti di altri, o essere dati in mano a dei parenti perché fossero loro a finire il lavoro". Il quotidiano russo è venuto a conoscenza di almeno tre morti. Secondo la rete Lgbt Russa agenti con l’uniforme del "Terek" (le forze speciali) avrebbero portato via almeno una persona. L’associazione ha anche raccolto le foto di una vittima delle torture con gli ematomi e i segni dei colpi sul corpo. "Stiamo lavorando per far uscire le persone del campo, altri hanno già lasciato la regione - ha confermato al Daily Mail Svetlana Zakharova, della Rete Russa Lgbt. Chi è riuscito a fuggire ha raccontato che i prigionieri sono tenuti nelle stesse stanze e le persone sono raggruppate a gruppi di 30 o 40. Vengono torturate con l’elettricità e picchiate pesantemente, in alcuni casi anche a morte".