Il carcere dopo gli Stati generali? "Invece dei ponti, ora vogliono muri…" di Teresa Valiani Redattore Sociale, 11 aprile 2017 Nel bilancio del dopo Stati generali, la necessità di contrastare "il preoccupante cambio di clima" creato da chi vuole alzare muri invece che abbatterli. Giostra, Scandurra e Palma, sull’incontro di oggi promosso da Antigone. "La rivoluzione è partita, adesso bisogna sostenerla". Era partito tutto 2 anni fa con la chiamata a raccolta di 200 esperti che avrebbero dovuto scandagliare il complesso sistema carcere per restituire dignità all’esecuzione penale: dall’architettura alle misure alternative, dalla gestione dei detenuti stranieri a quella delle donne, e dei minori, dal lavoro al trattamento, dalla sanità alle misure di sicurezza. Poi, 12 mesi dopo, la cerimonia conclusiva del movimento culturale che il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, aveva chiamato "Stati generali sull’esecuzione penale" e le avvisaglie di un fermento che avrebbe portato ai primi risultati. Marzo 2017: il bilancio a un anno dalla conclusione dei lavori, con l’incontro promosso dal Guardasigilli che ha riunito i capi dipartimento, Santi Consolo (Dap) e Gemma Tuccillo (Dgmc) e i coordinatori dei tavoli. Oggi, seconda tappa, con un nuovo appuntamento organizzato da Antigone, per delineare il confine netto tra quanto è stato fatto e quanto si poteva fare. "Che fine hanno fatto gli Stati generali? Carceri e misure alternative: cosa si è fatto, cosa non si è fatto, cosa si poteva fare" il tema della giornata promossa a Roma e che ha visto di nuovo insieme alcuni tra i maggiori protagonisti degli Stati generali, tra cui i capi dipartimento, il coordinatore del comitato scientifico, Glauco Giostra, il garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma e il sottosegretario alla Giustizia, Gennaro Migliore. Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, ha aperto i lavori sottolineando il "cambiamento di clima che si registra. Gli stati generali nascono in un clima di chiara volontà di riforma del sistema penitenziario ma oggi, a un anno di distanza dalla chiusura, il clima politico e culturale è diverso". Il riferimento è ai decreti sulla sicurezza, sull’immigrazione, al dibattito sulla legittima difesa e sulla certezza della pena. "C’è un cambiamento preoccupante - spiega Alessio Scandurra (comitato direttivo) - in cui l’esercizio della delega potrebbe portare risultati molto modesti rispetto a quelli che gli Stati generali hanno legittimamente creato. Se non addirittura di segno opposto". Da qui l’appello a tenere alta l’attenzione su questi temi: "Mentre una realtà come Antigone - sottolinea Scandurra - interviene ed è presente, sul fronte culturale sarebbe bene che anche l’università, le professioni forensi e tutte le categorie coinvolte iniziassero a battere un colpo insieme alla politica davanti a un cambiamento preoccupante. Queste le nostre sollecitazioni". Preoccupazioni per i "venti contrari" anche nell’intervento di Glauco Giostra per il quale "più di 200 professionisti con competenza, determinazione e generosità hanno tessuto porzioni di stoffa, li hanno cuciti insieme in una grande vela e hanno indicato con fermezza la rotta. E non manca vento a sospingere quella vela, ma ne spira uno contrario di inaudita violenza. Noi gente degli Stati generali - ha sottolineato il coordinatore del comitato scientifico - non abbiamo svolto e archiviato un compito: abbiamo condiviso e condividiamo una causa e a tutti livelli continuiamo a batterci e a testimoniare per essa. Nessuno poteva pensare che una rivoluzione culturale come quella patrocinata dagli Stati generali potesse realizzarsi subito, senza esitazioni e contraddizioni, senza resistenze politiche e culturali. Ma era difficile immaginare che quelle procellarie che si intravvedevano all’orizzonte mentre lavoravamo, convergessero su questa stagione attuale, in una tempesta perfetta: volevamo abbassare ponti levatoi tra carcere e società, e ovunque, anche oltre oceano, si parla soltanto di erigere muri. Avevamo bisogno di una società affrancata dalla paura e tutto, quotidianamente, induce insicurezza. Dovevamo fare affidamento su una forza politica stabile e coesa che portasse avanti il disegno riformatore e tutto si è fatto liquido, precario e imprevedibile. Nonostante queste avversità, però - ha detto Giostra, gli Stati generali non sono una balena spiaggiata". Sollecitando una maggiore attenzione verso la comunicazione, interna ed esterna, Giostra ha sottolineato che "se anche ogni innovazione è frutto di una lenta e faticosissima conquista, sono certo che le centinaia di pagine in cui si è tradotto il nostro lavoro non saranno consegnate alla corrosiva attenzione dei topi. E quanti al di fuori di qui se lo sono sin dall’inizio inconfessabilmente augurato se ne dovranno fare una ragione". Per Mauro Palma, garante nazionale dei detenuti "l’incontro di stamattina ha dimostrato due cose: gli stati generali sono stati comunque una apertura di comunicazione, di punti di vista diversi sul carcere, superando anche la barriera che c’è a volte tra magistrati, avvocati, volontari e garanti. Attraverso il lavoro dei tavoli si sono confrontati sguardi diversi attorno ad una idea che è quella di una trasformabilità complessiva delle pene e del carcere. Questo processo non può partorire dei piccoli aggiustamenti, come sembra poi essere avvenuto, e l’espressione in negativo di stamattina è, per così dire che "non è per così poco che ci siamo messi in gioco". Mentre l’espressione in positivo è il riconoscere che si è avviato un processo che non fermi più: oggi c’erano tantissime persone in sala e tante altre sono rimaste fuori e questo desiderio di continuare a riflettere, a parlarsi e discutere attorno a questi temi non si ferma". E ora? "Teoricamente - conclude Scandurra parlando della delega - il tempo c’è. E i contenuti pure perché c’è il lavoro degli Stati generali: ci vuole la volontà politica e compito per una realtà come Antigone, ma non solo nostro, è sostenere ed aiutare questa volontà politica in un momento in cui palesemente vacilla". Marcia di Pasqua per l’Amnistia promossa dal Partito Radicale. Roma, 16 aprile 2017 agenziaradicale.com, 11 aprile 2017 Eccoci nuovamente, a distanza di circa tre mesi dalla giornata del Giubileo del carcerato, considerata la permanenza nello stato di necessità ed urgenza, a chiederti di marciare ancora con noi nel giorno di Pasqua, affinché lo Stato di Diritto possa e debba prevalere nella vita pubblica del Paese, partendo proprio dalla sofferenza in cui versa la giustizia italiana. Questa nuova mobilitazione mira a ribadire la necessità di un’amnistia perché le nostre istituzioni fuoriescano dalla condizione criminale in cui si trovano rispetto alla nostra Costituzione, alla giurisdizione europea, ai diritti umani universalmente riconosciuti e alla coscienza civile del Paese. Perché marciamo - Si marcerà per ricordare che: Al 30 giugno 2016 i processi pendenti erano 3.800.000 nella giustizia civile e 3.230.000 in quella penale, per un totale di 7.030.000 processi che affollano le scrivanie dei magistrati, ai quali vanno aggiunti circa un milione di procedimenti nei confronti di ignoti. Ricordiamo le parole di Marco Pannella: "La nostra richiesta di amnistia non è quel "gesto di clemenza" che chiede il Papa. Noi vogliamo un’amnistia "legalitaria", cioè che ripristini le condizioni di legalità costituzionale nei tribunali e nelle carceri, contrapposta a un’altra amnistia: quella strisciante, clandestina, di massa e di classe che si chiama "prescrizione". Noi vogliamo un’amnistia che sia propedeutica a una grande riforma della giustizia penale. Chiediamo anche una riforma della giustizia civile, la cui paralisi penalizza i privati e le imprese, scoraggia gli investimenti esteri e comporta costi enormi per l’economia nazionale. Chiediamo una Grande Amnistia per la Giustizia, per la Costituzione, per la Repubblica". L’amnistia di classe, arbitrio nelle mani della magistratura, anche nell’anno 2016 ha cancellato 132 mila processi. Vera amnistia sommersa, negli ultimi 10 anni la prescrizione ha mandato al macero oltre 1,5milioni di processi, quelli dei potenti e di chi si può permettere la migliore difesa, condannando al carcere i più poveri e indifesi, riempiendo le celle di reati bagatellari. Sono circa 1.000 ogni anno i casi di ingiusta detenzione ed errori giudiziari riconosciuti in seguito a sentenza di revisione. Nel solo 2016 la cifra spesa dallo Stato per risarcimento delle ingiuste detenzioni ammonta a 42 milioni di euro. Anche per quanto riguarda le carceri le cose non vanno meglio: al 31 gennaio 2017, dai dati forniti dal Ministero della giustizia, nei 191 istituti di pena della Penisola risultavano presenti oltre 55.381 detenuti, rispetto a una capienza ottimale di 50.174. Sono numeri che testimoniano il perdurare di uno stato di sovraffollamento delle strutture che noi riteniamo essere persino più grave, poiché i dati delle "capienze regolamentari" non tengono conto delle numerose celle chiuse, inagibili o in fase di ristrutturazione che si trovano pressoché in ogni struttura. A tutto questo vanno aggiunti gli annosi problemi che affliggono la maggior parte della popolazione detenuta: celle fatiscenti e insalubrità delle strutture, malfunzionamento dell’assistenza sanitaria, carenza cronica di attività trattamentali (lavoro, studio, sport), difficoltà per i detenuti fino all’impossibilità di mantenere rapporti affettivi con i propri familiari, mancate risposte alle istanze presentate ai magistrati di sorveglianza i quali risultano pochi in pianta organica rispetto ai compiti che ogni singolo magistrato deve svolgere (solo 204 in tutta Italia e ne mancano 14), inoltre risultano essere mal distribuiti, difficile accesso alle pene alternative, mentre per i detenuti stranieri continua a rimanere un miraggio poter incontrare e ricevere l’assistenza di un mediatore culturale. Il 78 per cento dei ristretti è affetto almeno da una condizione patologica, di cui almeno per il 40 per cento da una patologia psichiatrica. Questo a causa di una riforma, quella delle legge 81 sull’abolizione degli Opg, incompleta e interpretata distrattamente, che ancora deve mettere mano a numerosi punti in sospeso: il rispetto del principio di territorialità, in particolare per le donne, la corretta applicazione delle misure di sicurezza provvisorie, la riforma del principio di pericolosità sociale che permette il nefasto "doppio binario", retaggio penale del Codice Rocco, le liste di attesa per le Rems (241 persone, di cui molte in carcere), il potenziamento dei Dipartimenti di salute mentale e delle comunità terapeutiche psichiatriche, la necessaria gradualità, da parte della magistratura, dell’invio in Rems considerate dalla legge come strutture terapeutiche residuali per i casi più gravi. Resta alta la percentuale dei detenuti in attesa di giudizio (35%), e assieme a questo dato si registra anche la promiscuità tra detenuti in attesa di giudizio e condannati definitivi. Sono circa 20.000 i detenuti che devono scontare meno di 3 anni. Il Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito, nella Mozione Generale approvata dal 40º Congresso tenutosi a Roma, nel carcere di Rebibbia, il 1, 2 e 3 settembre 2016, ha stabilito "la prosecuzione della battaglia storica di Marco Pannella per l’amnistia e l’indulto quale riforma obbligata per l’immediato rientro dello Stato nella legalità". La crisi della giustizia e il protrarsi della non applicazione del dettato costituzionale pongono in grave pericolo l’esistenza dello Stato di diritto, come ci ammonisce da tempo il Consiglio d’Europa attraverso le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo: non dobbiamo mai dimenticare, quanto invece ricordare e denunciare con forza come l’Italia sia costantemente, da almeno trent’anni, condannata per violazione dell’art. 6 della Cedu, riguardante la "ragionevole durata del processo", diritto umano tutelato anche dalla nostra Costituzione all’articolo 111, secondo comma. E ancora una volta - infine - sentiamo il dovere di sottolineare anche il richiamo - troppo trascurato dagli addetti, dai media e dall’opinione pubblica - all’importanza che avrebbe una riforma della giustizia al fine di garantire al Paese la ripresa in ogni settore dell’economia, affaticata e depressa a causa del malfunzionamento del sistema giudiziario nei suoi aspetti penali come in quelli civili. Noi ci ritroviamo nelle parole di Papa Francesco anche quando si è pronunciato contro l’ergastolo, definendolo "una pena di morte nascosta" o quando si è espresso contro l’abuso della carcerazione preventiva o dell’isolamento praticato nelle carceri di massima sicurezza. Oltre al Santo Padre, a favore di un provvedimento di amnistia a più riprese si sono espressi rappresentanti di primo piano della Conferenza Episcopale Italiana, di altre realtà del mondo cattolico e di associazioni laiche che da anni si battono per i diritti degli ultimi. È urgente ora che le massime istituzioni della Repubblica facciano sentire la propria voce, che il Governo e il Parlamento si attivino per accogliere o respingere le proposte del Partito Radicale o per trovare altre soluzioni in grado di risolvere efficacemente questi problemi, non di rinviarli e aggravarli. È urgente interrompere la cortina di indifferenza e di silenzio con cui si cerca di eludere questi problemi. La disinformazione, la mancanza di conoscenza e l’assenza di confronto e dibattito paritario non violano solamente i diritti di questa o quella forza politica - e in questo caso del Partito Radicale - ma colpiscono alla radice uno dei fondamenti del corretto funzionamento di ogni democrazia. È dunque urgente che la stampa e, in particolare, il servizio pubblico radio televisivo interrompano un comportamento fortemente lesivo dei diritti dei cittadini e consentano finalmente di conoscere e giudicare questa proposta, così come il confronto sulle altre grandi questioni centrali del nostro tempo. Per tutto questo, ci rivolgiamo con fiducia a te affinché tu voglia essere presente con noi il 16 Aprile a Roma alla grande "Marcia di Pasqua, per l’Amnistia, l’Indulto, la Giustizia e la Libertà", dal carcere di Regina Coeli a Piazza San Pietro La città invisibile sospesa sopra l’abisso di Fabrizio Ravelli La Repubblica, 11 aprile 2017 L’Italia è piena di vecchie carceri, che ogni tanto si immagina di demolire perché fatiscenti. Se ne parla spesso anche a proposito di San Vittore, ma di solito l’idea è questa: demolire per valorizzare un’area preziosissima, destinandola a residenze o uffici, e costruire un nuovo carcere in periferia, lontano dagli occhi dei cittadini. Ma l’altro giorno a Tirano, provincia di Sondrio, proprio in cima alla Valtellina, s’è inaugurata un’esperienza che va controcorrente, e che non ha precedenti. Il vecchio carcere è stato acquistato dall’associazione Il Gabbiano e rimesso a nuovo per ospitare una comunità destinata al disagio sociale e una casa alloggio per malati di Aids. Anche dal punto di vista dei simboli, un ribaltamento totale. Lì dove la regola era sorvegliare e punire ora si tratta di accogliere, includere, curare. Il Gabbiano ha un’esperienza più che trentennale nel settore: ha otto strutture di accoglienza e tredici appartamenti fra la Valtellina, l’Alto Lario, il Lecchese e Milano, che ospitano uomini e donne bisognosi di cure, detenuti, minori in fuga dalle guerre, famiglie che hanno perso la casa. Più di 300 persone accudite ogni anno, e anche una cooperativa sociale agricola in Valtellina che produce mele, vino e frutta. L’ex-carcere di Tirano, ristrutturato con un forte contributo economico della Fondazione Cariplo, è ora un edificio moderno e luminoso. Accogliere e curare è una missione che nella nostra società assume un peso crescente. Il progetto si chiama Ottavia, come una delle città invisibili di Calvino, quella "sospesa sopra l’abisso". Protesta e astensione degli avvocati penalisti di Cesare Placanica (Avvocato) L’Opinione, 11 aprile 2017 Alla fine siamo scesi in piazza. Ieri con i componenti del direttivo della Camera Penale di Roma e con molti soci non ci siamo limitati ad astenerci dalle udienze. La nostra tesoriera Roberta Giannini ha preparato uno striscione e, con la toga indosso, dopo esserci astenuti in aula, ci siamo recati tutti davanti all’ingresso del Tribunale di Piazzale Clodio. Abbiamo distribuito volantini, cercando di spiegare ai cittadini il perché di una protesta; e che questa protesta è fatta nel loro esclusivo interesse. Perché questa è, ed è sempre stata, la cifra distintiva delle nostre manifestazioni: la difesa dei diritti di chi - e può capitare a tutti - si trova sottoposto a un processo. Questa volta attentati dal ddl di riforma della giustizia su cui il Governo ha posto la fiducia. Partecipazione al processo solo in videoconferenza e ingiustificato allungamento dei termini di prescrizione, sono i due punti nodali della (contro)riforma, che ci preoccupano. Con la nuova legge nella maggior parte dei processi un detenuto non potrà più difendersi sedendo accanto al difensore in aula, ma assisterà all’udienza tramite un monitor. Questo non è un processo e al detenuto non sarà assicurata una difesa effettiva. Bisogna non avere alcuna esperienza di processi per non volersi rendere conto di come l’impossibilità di interfacciarsi costantemente con il difensore, e anche con il giudice e il pubblico ministero - che invece saranno tutti insieme in un’aula posta anche a migliaia di chilometri di distanza - si risolva in una pesante limitazione alla capacità di difendersi. Secondo una concezione autoritaria della giustizia, che vede l’imputato oggetto del processo e non di certo soggetto attivo dello stesso, il protagonista principale, quello sulla cui pelle ricadranno le conseguenze processuali, viene posto nella condizione di non poter seguire con piena cognizione la propria vicenda processuale. Potrà vedere solo quello che inquadra in quel momento la telecamera della videoconferenza, dovrà interrompere l’ascolto di un teste per recarsi nella postazione dove si trova il telefono per colloquiare con l’avvocato, non potrà esaminare i documenti che saranno prodotti dalle parti. E tutto in una falsa e incivile ottica di maggiore efficienza e di risparmio. Falsa perché la spesa per allestire presso ogni tribunale e presso ogni carcere strutture idonee alla videoconferenza per tutti i detenuti sarà dispendiosissimo. Incivile perché è dal rispetto dei diritti fondamentali dei cittadini, e non dall’utilitarismo economico, che si misura la statura morale di uno Stato. Ancora più ipocrita appare poi la volontà di riformare il regime della prescrizione. La sospensione della prescrizione difatti allungherà i tempi del processo in spregio al principio costituzionale della ragionevole durata. Non servono prescrizioni più lunghe, ma processi più brevi: se in più di 10 anni non si termina un processo il problema è la giustizia e non il tempo. Quello che si invoca non è un diritto alla prescrizione. Ma il diritto che il cittadino non abbia una "vita sospesa" per un numero irragionevole di anni. Chi è sotto processo, sottoposto alla pena e alla sofferenza di tale stato, ha il sacrosanto diritto di avere una risposta in ordine alla propria innocenza o colpevolezza, entro termini ragionevoli. E se attualmente il "sistema giustizia" non riesce a soddisfare tale esigenza in termini ragionevoli si deve intervenire sulla patologia della lungaggine della procedura. Non certo prorogando la procedura sulla pelle esclusiva di chi vi è oggetto. Ecco, questo abbiamo cercato di spiegare ieri in piazza. E questo è il messaggio che speriamo venga raccolto dalle forze politiche affinché questa battaglia di civiltà non sia portata avanti solo dagli avvocati penalisti. Perché per gli avvocati è "inaccettabile" la riforma Orlando di Manuela D’Alessandro glistatigenerali.com, 11 aprile 2017 Aule vuote non per la Pasqua anticipata ma perché gli avvocati milanesi stanno aderendo in massa all’astensione contro alcuni punti ritenuti "inaccettabili" della riforma firmata dal Guardasigilli Andrea Orlando col quale, finora, c’era stata grande sintonia. Domani, la Camera Penale ha organizzato il primo flash mob in toga che si ricordi, a memoria, tra i marmi del Piacentini. Obiettivo: far arrivare ai cittadini le ragioni del dissenso in modo semplice e immediato. Prescrizione lunga e processi eterni - Si dice spesso che col loro cavillare gli avvocati allunghino i processi. "Ma non è così - spiega il presidente della Camera Penale, Monica Gambirasio - tant’è vero che protestiamo contro l’allungamento della sospensione dei termini della prescrizione". Il codice riscritto prevede processi più lunghi per 3 anni. "Il decorso del tempo si verifica oggi, nella maggior parte dei casi, per l’inerzia dei pm nelle indagini preliminari. L’esito di un giudizio dilatato accrescerà la sfiducia dei cittadini nel funzionamento della giustizia per cercare di andare incontro all’esigenza della certezza della pena. Noi chiediamo che il processo venga celebrato in tempi ragionevoli ma nel rispetto delle garanzie per gli imputati". No ai processi in videoconferenza - Ora i detenuti vengono trasportati dalle carceri nelle aule dei processi per assistere ai procedimenti che li riguardano, salvo casi estremi previsti dalla legge di terrorismo o criminalità organizzata. "Con la riforma invece - puntualizza Gambirasio - si lascerebbe ai giudici ampia discrezionalità sulla partecipazione a distanza dei detenuti, anche per reati meno gravi. Il tutto peraltro a ‘costo zero’ nel senso che la riforma non prevede una copertura finanziaria per installare gli apparati". Ma perché allontanare i detenuti dalle aule è pericoloso? "Siamo di fronte a una mortificazione del diritto delle difesa: un contro è avere il proprio assistito in aula, con la possibilità di parlare con lui e concordare strategie, un altro è difenderlo in video - collegamento". Una riforma a colpi di fiducia - Per la Camera Penale è "criticabile" anche la scelta di proporre il voto di fiducia per l’approvazione del disegno di legge" perché la riscrittura di pezzi del codice penale e di procedura penale non può avvenire attraverso "la soppressione del dibattito parlamentare". "In ogni caso - conclude Gambirasio - questa non è una riforma organica, con un’idea complessiva della giustizia. Salvo poche eccezioni, il Ddl Orlando appare difficile da condividere". Il "No ai decreti Minniti" oggi in piazza Montecitorio Il Manifesto, 11 aprile 2017 L’appello. "Un passo indietro sul piano dei diritti e della civiltà giuridica del nostro Paese", le associazioni invitano alla manifestazione in occasione del voto di fiducia. Il Decreto Legge Minniti-Orlando e il Decreto "Sicurezza", in fase di conversione in Parlamento, e sui quali verrà posta oggi la fiducia alla Camera, rappresentano un passo indietro sul piano dei diritti e della civiltà giuridica del nostro Paese. Attraverso un uso improprio della legislazione di urgenza, i due decreti, anziché intervenire sulle tante contraddizioni e i limiti dell’attuale legislazione, introducono nuove norme di discutibile efficacia, senza peraltro migliorare l’efficienza del sistema. Ad esempio si rilancia il ruolo dei Centri Permanenti per il Rimpatrio, nuova denominazione per gli attuali Cie, senza che ne venga modificata la funzione e assicurato il pieno rispetto dei diritti delle persone trattenute. (…). Esprimiamo forte contrarietà rispetto all’abolizione del secondo grado di giudizio per il riconoscimento del diritto di asilo e alla sostanziale abolizione del contraddittorio nell’unico grado di giudizio, limitato da una procedura semplificata (rito camerale) priva del dibattimento. In tal modo non solo viene violato il diritto di difesa di cui all’art.24 della Costituzione, ma si preclude la valutazione in concreto della persona del ricorrente e del suo eventuale percorso di inclusione sociale ai fini della valutazione sul rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari. Gestire e governare in modo efficace e lungimirante il fenomeno migratorio non significa - noi crediamo - limitarsi ad irrealistiche azioni di deterrenza. Occorrono, invece, norme che favoriscano i flussi d’ingresso e la permanenza regolare dei cittadini stranieri, contrastando così il lavoro nero e lo sfruttamento. Ribadiamo inoltre l’urgenza di aprire corridoi umanitari e aumentare considerevolmente i reinsediamenti, per consentire alle persone che fuggono da guerre, persecuzioni, fame e povertà di entrare in Italia e in Europa senza mettere in pericolo la loro vita. Riteniamo inaccoglibile la pretesa di ricondurre la materia del "decoro urbano" al tema della sicurezza, avallando una concezione dell’ordine pubblico che non produce vera sicurezza ma, al contrario, rischia di creare maggiore insicurezza criminalizzando la marginalità sociale senza preoccuparsi di intervenire per combattere la povertà e la marginalità di un numero crescente di cittadini. (…). Per questo facciamo appello a chi intende impegnarsi per impedire la conversione in legge di questi provvedimenti a partecipare al presidio che si terrà oggi alle 17 davanti a Montecitorio. Hanno aderito: A Buon Diritto, Acli, Anolf, Antigone, Arci, Asgi, Associazione Insieme, Baobab Experience, Cgil, Centro Astalli, Cesv, Cild, Cisl, Cittadinanza Attiva, Comunità Nuova, Comunità Progetto Sud, Comunità di S. Egidio, Cnca, Coop Alice, Cospe, Focus - Casa dei Diritti Sociali, Esercito della Salvezza, Fondazione Migrantes, Forum Droghe, Le Mafalda Legambiente, Lunaria, Medici per i Diritti Umani, Nessun Luogo è lontano, Oxfam Italia, Politica in Comune, Rifondazione Comunista, Sei Ugl, Senza Confine, Sinistra Italiana, Sos Razzismo, UIL Decreto "sicurezza": associazioni in piazza, appuntamento alle 17 a Montecitorio di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 aprile 2017 Presidio contro il decreto Minniti su immigrazione e sicurezza. Oggi alle 17, davanti a Montecitorio, si svolgerà la protesta con l’adesione di varie realtà sociali, politiche e associative, tra le quali Antigone, A Buon Diritto, Baobab Experience, Cgil, Acli, Rifondazione Comunista e Sinistra Italiana. "Il decreto Legge Minniti-Orlando e il Decreto "Sicurezza" - si legge nell’appello degli organizzatori, entrati recentemente in vigore e in fase di conversione in Parlamento, rappresentano un passo indietro sul piano dei diritti e della civiltà giuridica del nostro Paese". Gli organizzatori spiegano che attraverso un uso improprio della legislazione di urgenza, i due decreti, anziché intervenire sulle tante contraddizioni e i limiti dell’attuale legislazione, introdurrebbero nuove norme di discutibile efficacia, senza peraltro migliorare l’efficienza del sistema. Nel dettaglio, l’appello si concentra su vari aspetti dei decreti. Ad esempio rilancia il ruolo dei Centri Permanenti per il Rimpatrio, nuova denominazione per gli attuali Cie, senza che ne venga modificata la funzione e assicurato il pieno rispetto dei diritti delle persone trattenute. Il legislatore prevede un’unica procedura per le espulsioni, valida tanto per chi proviene da percorsi di criminalità e lunghi periodi di carcerazione, quanto per il lavoratore straniero privo di permesso di soggiorno, quando sarebbe al contrario opportuno prevedere percorsi di regolarizzazione individuale per chi si è di fatto inserito positivamente nel nostro Paese. Nell’appello contro i decreti ci sono anche delle proposte partendo dal presupposto che gestire e governare in modo efficace e lungimirante il fenomeno migratorio non significa limitarsi ad irrealistiche azioni di deterrenza. Propongono norme che favoriscano i flussi d’ingresso e la permanenza regolare dei cittadini stranieri, contrastando così il lavoro nero e lo sfruttamento. Propongono inoltre l’urgenza di aprire corridoi umanitari e aumentare considerevolmente i reinsediamenti, per consentire alle persone che fuggono da guerre, persecuzioni, fame e povertà di entrare in Italia e in Europa senza mettere in pericolo la loro vita. I promotori dell’appello ritengono inaccoglibile la pretesa di ricondurre la materia del "decoro urbano" al tema della sicurezza, avallando una concezione dell’ordine pubblico che non produce vera sicurezza ma, al contrario, rischia di creare maggiore insicurezza criminalizzando la marginalità sociale senza preoccuparsi di intervenire per combattere la povertà e la marginalità di un numero crescente di cittadini. Nel merito, esortano che i due decreti Legge non debbano essere convertiti nella forma attuale: i firmatari chiedono dunque che si apra un confronto ampio e approfondito. "Caro Minniti, cambia verso". A colloquio con Franco Corleone di Francesca Sironi L’Espresso, 11 aprile 2017 L’Italia "è un Paese sospeso. Da una parte per la prima volta non solo gli antiproibizionisti storici ma anche persone come Roberto Saviano, il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti o Raffaele Cantone sostengono la necessità di legalizzare la cannabis. Dall’altra genitori terrorizzati dall’uso di canapa da parte dei loro figli, probabilmente perché disinformati, chiedono sempre maggior repressione". Franco Corleone è una voce storica del dibattito politico e sociale sulle droghe nel nostro paese. La sua prima proposta di legge per la legalizzazione risale agli anni Novanta. La sottoscrissero 190 deputati. Guardando all’attualità dei problemi legati alle sostanze, per i giovani, dalla diffusione di composti chimici non tracciati alle ispezioni della polizia nelle scuole, osserva adesso le risposte ancora zoppicanti di politica e istituzioni, e parla di un paese sospeso, appunto, tra "contraddizioni che sono frutto della mancanza di una direzione chiara per lo sviluppo dei diritti e delle libertà". A quali contraddizioni pensa? "Abbiamo finalmente una proposta di legge sostenuta da 280 parlamentari. Ferma. Abbiamo un contesto internazionale in cui i fallimenti delle "war on drugs" stanno finalmente lasciando il passo alla legalizzazione, dall’Uruguay ad alcuni Stati americani, fino al Canada, dove dovrebbe essere presto presentata una misura in questo senso. E in verso opposto osserviamo la stesura di un nuovo testo per la sicurezza urbana, firmato dal ministro dell’Interno Minniti, che reintroduce, di fatto, le sanzioni amministrative più gravi anche per chi soltanto detiene della cannabis, come erano previste dalla Bossi-Fini. Sanzioni già bocciate dalla Consulta. Sono costernato dall’osservare queste novità. Non trovo altro aggettivo se non: costernato. Quante volte dovremo ripetere che la repressione non solo non risolve il problema, ma lo aggrava?" Quali sono le conseguenze? "Pensiamo al carcere, di cui mi occupo da anni. Bene: il 30 per cento degli ingressi e il 32 per cento delle detenzioni riguarda la violazione dell’articolo 73, la norma che punisce lo spaccio ma anche la detenzione di stupefacenti in misura superiore ai limiti, in gran parte. Sono numeri impressionanti. E ancora, come conseguenze, penso al milione di giovani, perché si tratta soprattutto di giovani, fermati e segnalati alle prefetture per l’art. 75 - possesso personale - dal 1990 ad oggi". Il 72 per cento di queste riguarda cannabinoidi. "Ecco un’altra contraddizione: nella corsa a criminalizzare qualsiasi consumo, le forze si concentrano su chi fuma uno spinello di erba - naturale - e non sul contrasto efficace delle nuove sostanze chimiche sconosciute, ignote, e molto pericolose per i ragazzi. Sulle sostanze leggere dovremmo quindi cambiare le norme, le priorità. E contemporaneamente sviluppare delle vere politiche di riduzione del danno per tutti gli stupefacenti, con l’obiettivo di costruire una cultura dell’uso responsabile, controllato, che ancora manca". A una settimana dal suicidio del ragazzo di Lavagna, lei scriveva sul suo blog su L’Espresso: "È stato ucciso dal pregiudizio e dall’ignoranza di chi lo aveva etichettato come drogato perché fumava marijuana. Il proibizionismo ha fatto un’altra vittima". "È così". Parlava di paure, all’inizio del colloquio. "Sì, non so spiegarmi altrimenti la spinta irrazionale delle famiglie a pretendere maggiori controlli tout court. Forse è veramente solo paura verso il non conosciuto. Adulti che come cittadini hanno una posizione, come genitori ne hanno un’altra, e in nome della protezione, e non del senso di comunità, soffocano le libertà. E finiscono così a considerare normale, e anzi a richiedere, controlli degli agenti anche a scuola. Quando vedo quelle immagini di ragazzi in la alla parete, nel corridoio fra le classi, annusati dai cani, che subiscono questa protervia insensata". La metà dei giovanissimi che abbiamo sentito non si dice scioccata da queste ispezioni. "Quando facevo le superiori, noi studenti non avremmo mai accettato accadesse. Non l’avremmo mai permesso. Ora gli adolescenti non si ribellano. E quindi giustificano la non-ribellione dicendo: "ma sì, non è poi grave". Forse le vittime reagiscono sempre in modi diversi, certo. E forse la pressione di miti a buon mercato, di ritornelli sul salutismo, ma soprattutto le proiezioni dei genitori, sempre più presenti dentro le scuole, hanno cambiato la percezione dei ragazzi". Cosa direbbe a quei genitori, angosciati dalla possibilità che i figli fumino marijuana o altro? "Quello che dico da tempo. Ovvero che la legalizzazione della cannabis sarebbe una protezione dei giovani, non un incentivo, perché smitizzerebbe la pratica e permetterebbe un controllo sicuro della qualità dei prodotti. E non è poca cosa. Direi loro di guardare alle esperienze in corso o alle statistiche che ci arrivano da paesi come l’Olanda, dove il consumo della cannabis è tollerato nei coffee shop ormai dal 1976 e da allora il numero dei fumatori non è aumentato". La giustizia creativa di Alessandro De Nicola La Repubblica, 11 aprile 2017 Nelle ultime due settimane in Italia abbiamo assistito a un triplete di decisioni giudiziarie relativo al nostro sistema economico che ci ha ricordato perché il nostro paese sia in declino, con buona pace del presidente uscente dell’Anm Davigo il quale pensa che i magistrati non sbaglino mai, al massimo siano ingannati da astute parti processuali. La prima in realtà è stata una buona notizia, vale a dire l’assoluzione degli analisti di Standard & Poor’s e Fitch dall’accusa mossa dalla Procura di Trani di aver volontariamente manipolato il mercato declassando l’Italia tra il 2011 e il 2012. Perché la notizia è buona? Qui non c’entrano le convinzioni personali: a chi scrive l’accusa è sempre sembrata sballata ma, non conoscendo tutti gli atti del processo, era ben possibile che ci fosse stata una qualche cospirazione che solo l’acuto pm Ruggiero era stato capace di scovare. Ora il Tribunale di Trani dice che no, in effetti il fatto non sussiste, allineandosi alle prime pronunce già pervenute sul tema da Milano. Perché la notizia è buona? Semplicemente per il fatto che rende evidente a tutti (forse persino al probo Davigo) che l’attivismo frenetico di una procura di una graziosa cittadina che nulla c’entra con i fatti macroscopici su cui di solito indaga e sui quali non ha nemmeno competenze e risorse professionali, è una bizzarria che solo l’Italia sopporta. Dall’inchiesta sulle minacce di Berlusconi a Santoro, a quelle su Barclays, Banca Intesa, Deutsche Bank, Societé Générale e altri colossi bancari internazionali, passando per avvisi di garanzia a go-go contro gli ex vertici di Unicredit, Intesa, Bnl, tutti per reati rilevanti, ma niente concludendo, fino ad arrivare al fascicolo sulla correlazione tra vaccini e autismo: che senso ha tutto questo? Il codice di procedura penale è stato veramente scritto per permettere a volenterosi pubblici ministeri di tenere sotto scacco mezzo sistema economico italiano dalla stazione spaziale di Trani? Quindi l’assoluzione è benvenuta, dovrebbe obbligare a smettere di voltarsi dall’altra parte su questa anomalia e ad evitare di dispensare grande e preventiva riprovazione morale ai malcapitati imputati dell’astronave pugliese. La seconda è meno lieta e riguarda la sospensiva che il Tar del Lazio ha concesso alla Regione Puglia sull’espianto dell’ultima trentina di ulivi dei circa 200 che verranno momentaneamente tolti ed accuditi per procedere con i lavori del Tap, il gasdotto che collegherà l’Italia alla Turchia e da lì al Mar Caspio con investimenti previsti per 45 miliardi di dollari. Orbene il Tar stesso dice che le modalità di realizzazione del gasdotto Tap "debbono ritenersi definitivamente approvate" e, peraltro, a fine marzo il Consiglio di Stato e il ministero dell’Ambiente avevano dato l’ok definitivo dopo un iter lunghissimo che aveva preso in considerazione tutte le alternative possibili. Insomma il progetto si fa, governo e Consiglio di Stato concordano, l’ordinanza del Tar fa perdere solo un po’ di tempo nell’espianto dei preziosi ulivi (che, ripetiamo, verranno rimessi al loro posto e nel frattempo curati più degli agnelli di Berlusconi): qualcuno individua una dotta ratio iuris in tutto questo? La terza pronuncia fa a pieno titolo parte del filone legal-luddistico e riguarda Uber che ormai - direi giustamente a questo punto - i tassisti tentano di definire come causa di allarme sociale e minaccia all’ordine pubblico. Orbene, anche qui senza voler giudicare la graniticità delle motivazioni giuridiche della sentenza, si può notare qualcosa. Il Tribunale di Roma ha ritenuto che Uber faccia concorrenza sleale ai taxi perché può proporre prezzi più bassi e viola la normativa relativa alla sosta in rimessa prescritta agli autisti Ncc di cui si serve (diciamo che al limite la violano gli autisti e Uber è una app, ma vabbè, diciamo che li agevola). Ammettiamo che il giudice abbia applicato in modo raffinato il diritto, ma cosa vede di fronte a sé il povero investitore straniero (o italiano)? Una normativa (il decreto Milleproroghe) esplicitamente approvata dal governo per congelare la situazione e sanare il tema del trasporto pubblico che viene ignorata: evidentemente scritta male. Una normativa europea (Il Trattato di Roma!) che ha espressamente lo scopo di impedire gli ostacoli alla concorrenza e che non è applicata. Un articolo del codice civile sulla concorrenza sleale, concepito persino dal legislatore del 1942 contro atti quali il boicottaggio, lo storno di dipendenti o il dumping e che invece viene invocato perché qualcuno in realtà offre un migliore servizio e pratica prezzi più bassi (che nessuno impedisce anche ai tassisti di concedere: i regolamenti comunali stabiliscono solo le tariffe massime). Infine, se uno volesse proprio tenersi alla lettera della legge, se è vero che gli Ncc violano il servizio riservato ai tassisti, questi con i radiotaxi e le app invadono quello degli Ncc (prenotazioni) senza che nessuno dica niente. Insomma, in tutto il mondo le leggi si interpretano e la funzione del giudice non è solo quella di bocca di una clarissima volontà del legislatore. Ma solo da noi sembra che quando si tratta di promuovere l’efficienza economica, la certezza sull’operato delle imprese e la libertà di iniziativa si può star certi che le interpretazioni diventeranno quadri astratti, poesie futuriste, prose surrealiste. La chiamano l’arte del diritto. L’Italia è il Paese degli avvocati, ma i giudici sono pochi e le cause restano aperte di Emanuele Bonini La Stampa, 11 aprile 2017 Il rapporto della Commissione Ue: tra le nostre lacune anche la scarsa digitalizzazione. Tante cause aperte, molto tempo per una decisione di primo grado, poca digitalizzazione. Eppure è il Paese degli avvocati (quattro volte quelli della Francia e due volte quelli della Germania), e l’ottavo per spese pubbliche destinate al buon funzionamento dei Tribunali. I conti, però, non tornano: la giustizia italiana è sinonimo di sprechi economici e perdite di tempo. Le sentenze del Tar italiano richiedono tre anni, quelle svedesi tre mesi. È quanto emerge dal rapporto della Commissione europea sulla giustizia, diffuso oggi. Il documento traccia un quadro evolutivo per Paese dal 2010 al 2015, e per l’Italia i cambiamenti in questo lasso temporale non sembrano essere molti. Giustizia troppo lenta - È il tallone di Achille del nostro Paese. I tempi della giustizia nazionale restano tra i più lunghi in Europa. L’Italia è al 19esimo per numero di giorni necessari per chiudere le cause civili, commerciali, amministrative in primo grado: 400 giorni circa. Peggio, nel 2015, solo Malta, Portogallo e Cipro. Un dato peraltro non cambiato rispetto al 2010, a conferma delle difficoltà a rendere il sistema più rapido. Italia 24esima su 24 (non disponibili i dati Belgio, Cipro, Irlanda e Regno Unito) per giorni necessari per una prima decisione in un contenzioso: più di 500 giorni, quando in Germania ne occorrono 200 circa. Detto in altri termini, gli Italiano fanno in un anno e mezzo quello che in Germania fanno in meno di un anno. La buona notizia è che nel 2015 il Belpaese era secondo in Europa per tasso di contenziosi chiusi, anche se il numero di contenziosi pendenti resta elevato (4 per ogni centomila abitanti, il più alto). Tar, tre anni per una sentenza. In Svezia tre mesi - Se poi bisogna fare causa agli Enti locali, occorre armarsi innanzitutto di pazienza: in Italia bisogna attendere 1.000 giorni per una decisione di prima istanza. Solo Cipro è peggio dell’Italia, che impiega cinque volte tanto la Romania a esprimersi in primo grado nelle controversie tra cittadinanza e amministrazione pubblica. Per chiudere un procedimento al Tar servono dunque tre anni, in Svezia poco più di tre mesi. Riciclaggio, i terzi più lenti - Italia terzo Paese per tempo maggior tempo necessario a prendere decisioni in casi relativi a riciclaggio di denaro: oltre 600 giorni il limite nazionale. Peggio Lettonia (quasi 800) e Ungheria (1.100 circa). Il Paese degli avvocati - Se l’Italia non è il centro europeo per avvocati è solo perché in questa speciale classifica vince il Lussemburgo, Stato a vocazione di servizi, studi legali e consulenti. Ad ogni modo l’Italia conta 391 avvocati ogni 100mila abitanti, quattro volte la Francia e due volta la Germania. IL numero dei giudici, invece, è tra i più bassi d’Europa: appena 11 su 100mila abitanti, meno della metà della Germania. In sintesi: la legge sono più quelli chiamati a interpretarla che quelli che la devono applicare. Giustizia nazionale poco digitale - La digitalizzazione della giustizia stenta. Internet serve solo per vedere lo stato di avanzamento del procedimento. Utilizzare il computer per presentare reclami o trasmettere convocazioni in Italia, 16esima in questa classifica, che misura l’indice di "disponibilità" dei mezzi elettronica. In pratica nella Penisola non "e-justice" è un’espressione sconosciuta. L’Italia investe male? - E dire che l’Italia è tra i Paesi che, secondo la Commissione, investe nel sistema di giustizia. Non è certamente ai primi posti, ma neppure agli ultimi. L’Italia è ottavo per risorse spese delle amministrazioni pubbliche per i tribunali, anche se la spesa non raggiunge i 100 euro a persona mentre i primi tre Stati membri (Lussemburgo, Regno Unito e Danimarca) ne investono dai 150 in su. La spesa generale del governo per i tribunali rappresenta lo 0,35% del Pil. Si tratta dell’ottavo contributo europeo, superiore pure a quello della Danimarca, dove più dell’80% dei danesi ha fiducia nel sistema di giustizia. Italiani non hanno fiducia nell’indipendenza della giustizia - Non sorprende che gli italiani non abbiano fiducia nel sistema di giustizia nazionale. Le cose funzionano poco e male. Ma non sembra essere questo il problema principale dell’Italia: c’è una maggioranza assoluta che non fiducia nella giustizia. Il 56% risponde tra "abbastanza male" e "veramente male" quando si chiede di giudicare la percezione dell’indipendenza dei tribunali e dei giudici. Liti civili, Italia maglia nera con 527 giorni in primo grado di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 11 aprile 2017 Commissione europea - Rapporto sulla giustizia 2017 - 10 aprile 2017. Giustizia efficiente e crescita economica. Per l’Unione europea è ormai un binomio indissolubile e, per questo, ogni anno Bruxelles procede a un monitoraggio continuo sui sistemi giudiziari degli Stati membri. Che migliorano nel complesso ma con alcune zone d’ombra soprattutto sul fronte della durata dei processi in materia civile e commerciale. Con l’Italia che conquista la maglia nera. È quanto risulta dal Quadro di valutazione della giustizia 2017 pubblicato ieri dalla Commissione europea che, per la prima volta, introduce anche un nuovo dato relativo alla durata dei procedimenti penali per i reati connessi al riciclaggio di denaro, in ragione del collegamento con la lotta al terrorismo. Per quanto riguarda i tempi di soluzione dei procedimenti in materia civile e commerciale in primo grado, con riferimento ai dati 2015, è l’Italia a raggiungere la vetta in classifica con una media di 527 giorni. Un dato migliore rispetto al 2014, ma peggiorato rispetto al 2010 (493 giorni). Segue Malta con 445 giorni. Fa meglio di tutti il Lussemburgo con 86 giorni. Alcuni Paesi come Cipro, Bulgaria, Irlanda e Regno Unito non hanno fornito dati per il 2015. Nel campo dei procedimenti amministrativi Cipro ha il dato più negativo con 1.391 giorni (migliorando però la situazione rispetto al 2014, con 1.775). L’Italia è al secondo posto con 1.008 giorni, peggiorando la situazione del 2014 (984 giorni). Sul fronte delle controversie in materia di concorrenza è la Repubblica ceca ad avere i procedimenti più lunghi con la cifra record di 2.091 giorni in primo grado, seguita dalla Germania (1.187) e dalla Grecia (495). Qui invece l’Italia ha una buona performance con 200 giorni, con un netto miglioramento rispetto al 2013 (281). Tra le novità del quadro di valutazione 2017, l’introduzione di un dato sulla facilità di accesso alla giustizia da parte dei consumatori che si traduce in una azionabilità dei diritti in modo effettivo. Le regole comuni, adottate a livello Ue, ricevono un’applicazione differenziata con problemi circa la possibilità di far valere in giudizio i diritti dei consumatori. "Il quadro di valutazione - osserva la Commissione europea - evidenzia che in questo settore la durata dei procedimenti in sede amministrativa o giurisdizionale varia notevolmente a seconda del Paese". Con alcuni Stati che hanno spostato la soluzione delle controversie dinanzi ad autorità nazionali per la tutela dei consumatori. Dai dati raccolti dalla Commissione e dal Network sulla protezione dei consumatori è la Francia a impiegare più tempo nei procedimenti in primo grado (820 giorni), seguita dalla Polonia (741) e dall’Italia (685). La situazione migliore in Estonia con 91 giorni. La Commissione ha poi testato la durata dei procedimenti in materia di riciclaggio: i tempi più lunghi in primo grado sono quelli dell’Ungheria (1.112), seguita dalla Lettonia (775) e dall’Italia con 659 giorni. L’Italia è nella bassa classifica anche per numero di giudici per 100.000 abitanti. Solo 11 (con un dato identico a quello del 2010) a fronte del Lussemburgo che ne conta 46. Boom di avvocati, invece, per l’Italia con 391 legali per 100mila abitanti, superata solo dal Lussemburgo a quota 413. Riforma processo penale: rischia il carcere chi registra telefonate di nascosto e le diffonde di Valeria Zeppilli studiocataldi.it, 11 aprile 2017 Il Ddl di riforma del processo penale introduce un nuovo reato e riforma le intercettazioni. Una delle più importanti novità del ddl sul processo penale, approvato nei giorni scorsi al Senato (leggi: "Riforma del processo penale: via libera dal Senato. Tutte le novità e il testo approvato"), e ora in attesa dell’avvio dell’esame alla Camera, che stenta a partire, complici le persistenti polemiche (che vedono gli avvocati in prima fila contro il testo licenziato) è la riforma delle intercettazioni e l’introduzione di un nuovo reato con la previsione della reclusione per chi registra le telefonate di nascosto e le diffonde a scopo fraudolento. Pena sino a quattro anni di carcere - Il nuovo reato, più in particolare, è commesso da chi registra fraudolentemente delle conversazioni, anche telefoniche, svolte in propria presenza o effettua delle riprese audiovisive in maniera illecita e ne diffonde i risultati con il solo scopo di danneggiare l’altrui reputazione o l’altrui immagine. Per tale fattispecie delittuosa il DDL di riforma del processo penale prevede delle pene molto severe, che possono arrivare sino a quattro anni di carcere per il colpevole. Non sono comunque punibili coloro che utilizzano tali registrazioni per esercitare il diritto di difesa o il diritto di cronaca né coloro che se ne servono nell’ambito di un procedimento amministrativo o giudiziario. Le novità in materia di intercettazioni - Il Ddl, in ogni caso, si occupa di intercettazioni in lungo e largo, non limitandosi a questa specifica disposizione ma delegando al Governo una completa revisione del relativo regime giuridico. Sono ad esempio previste diverse misure volte a garantire la riservatezza dei cittadini, in particolare di coloro che sono estranei ai fatti per i quali si procede ma che sono stati coinvolti occasionalmente da intercettazioni; si introduce, poi, la possibilità di utilizzare i trojan con comando attivato da remoto quale strumento di indagine; infine, si punta al risparmio dei costi di circa il 50%. Intercettazione falsa contro il padre di Renzi. Carabiniere indagato di Edoardo Izzo La Stampa, 11 aprile 2017 Svolta nelle indagini romane sugli appalti Consip. Sarebbe provata una deliberata manipolazione delle prove da parte di un ufficiale dell’Arma, che alleggerisce le posizioni dei due indagati più in vista: il ministro dello Sport Luca Lotti e, soprattutto, Tiziano Renzi. Il Matteo a Porta a Porta ieri sera ha commentato: "Qualcuno ha costruito un falso. La verità ha bisogno di tempo ma viene fuori". Il procuratore aggiunto Paolo Ielo e il pm Mario Palazzi, hanno infatti accusato di falso aggravato il capitano del Noe Gianpaolo Scarfato, che ieri si è avvalso della facoltà di non rispondere. Due i fatti contestati. Una nuova analisi delle intercettazioni ha svelato che una frase attribuita all’imprenditore napoletano Alfredo Romeo, riguardo a un incontro con Tiziano Renzi, era stata in realtà pronunciata dall’ex parlamentare di An e collaboratore di Romeo, Italo Bocchino. Nell’avviso di garanzia consegnato al militare si legge: "Scafarto affermava, contrariamente al vero, che "ad un certo punto Bocchino si allontana e Romeo continua a parlare e dice: Renzi l’ultima volta che l’ho incontrato". La frase - in quanto attribuita dal Noe a Romeo - agli occhi dei pm aveva assunto "straordinario valore" consentendo di "inchiodare alle sue responsabilità Tiziano", perché dimostrava che "Romeo e Renzi si erano incontrati". Ora tutto questo castello, ammettono i magistrati romani, cade in quanto "tale affermazione era stata proferita da Bocchino come peraltro correttamente riportato sia nel sunto a firma del vicebrigadiere Remo Reale, sia - scrivono - nella trascrizione a firma del maresciallo capo Americo Pascucci". Non solo: è stato accertato come falso anche che i Servizi pedinavano i carabinieri del Noe che indagavano su Romeo. I pm, che al Noe hanno tolto la delega dell’inchiesta assegnandola al Nucleo investigativo del Comando Provinciale di Roma, affermano che Scafarto "redigeva l’informativa n.246/557 nella quale, al fine di accreditare la tesi del coinvolgimento di personaggi asseritamente appartenenti ai servizi segreti, ometteva scientemente informazioni ottenute a seguito delle indagini esperite". Si legge nel capo di imputazione che l’ufficiale "aveva evidenziato come, mentre i militari si erano recati a piazza Nicosia per effettuare l’acquisizione della spazzatura prodotta dalla Romeo Gestione spa (il famoso recupero dei "pizzini" dall’immondizia, ndr), gli stessi notavano persone, in abiti civili in atteggiamento sospetto, che più volte incrociavano lo sguardo degli operanti e controllavano le targhe delle auto". In particolare, "una persona (fotografata) ha più volte percorso le strade adiacenti piazza Nicosia, controllando le targhe dei mezzi parcheggiati". Nel fare ciò Scafarto "ometteva di riferire all’autorità giudiziaria" che l’uomo sospettato di essere uno 007, perché osservava i carabinieri mentre recuperavano "i pizzini" di Romeo, era in realtà E.R., un cittadino con residenza in quella strada. Insomma l’inchiesta sarebbe stata viziata da significativi depistaggi ad opera proprio di Scarfato e i carabinieri del Nucleo Investigativo del Comando Provinciale di Roma se ne sono accorti rivedendo il materiale investigativo proveniente dai loro colleghi del Noe. In particolare per quanto riguarda il secondo episodio si sono avvalsi della banca dati delle forze dell’ordine, scoprendo un accesso da parte del Noe che riportava l’identificazione del presunto "spione", che tale non era, attraverso la targa della sua auto. "Ho chiamato mio padre e gli ho letto la notizia. Lui si è messo a piangere. Ora sto andando a casa perché voglio portare i miei figli a cena dal nonno", ha raccontato l’ex premier lasciando gli studi della Rai. E rispondendo a Grillo ha concluso: "Gode a mettere in giro false notizie: prendono casi giudiziari, li mettono in giro in modo devastante. Caro Beppe, vergognati". Consip. Dietro la manipolazione l’ombra della faida per la rimozione di "Capitano Ultimo" di Valentina Errante Il Messaggero, 11 aprile 2017 Sembra l’ultimo atto di una storia che comincia all’epoca della "rottamazione" pensata da Matteo Renzi. Perché il difficile rapporto tra l’ex premier e il Nucleo tutela ambiente risale a 2014, quando i brogliacci delle intercettazioni del Noe finiscono sui giornali e riportano un dialogo imbarazzante tra lo stesso Renzi e il generale della Finanza Mario Adinolfi. Si parla di Enrico Letta, definito "un incapace" dal futuro premier. Da allora tanti episodi si sono susseguiti in questo conflitto sotterraneo, a cominciare dalla rimozione dell’allora comandante del Noe, Sergio De Caprio, meglio conosciuto come Capitano Ultimo, per mano del comandante generale dell’Arma, Tullio Del Sette. E adesso l’inchiesta Consip, la più spinosa per la procura di Roma, sembra un campo di battaglia dove si consuma una un’antica vendetta all’interno dell’Arma. Gli accertamenti, destinati ad andare a fondo per sgombrare il campo da sospetti, riguardano da un lato il capitano del Noe, indagato per avere falsificato gli atti consegnati in procura con il presunto obiettivo di appesantire le prove nei confronti della famiglia Renzi. Dall’altro le accuse nei confronti del comandante generale Tullio Del Sette, indicato come colui che avrebbe informato gli indagati delle intercettazioni in corso da parte dello stesso Noe. Prima della svolta di ieri, l’ultimo capitolo dello scontro era stata la revoca delle indagini al Noe da parte del procuratore Giuseppe Pignatone, dopo che alcuni atti dell’inchiesta erano finiti ai giornali. Una reazione dura, sebbene la vera fuga di notizie, la più imbarazzante, fosse stata quella che aveva danneggiato le indagini in corso, visto che l’ad di Consip, Luigi Marroni, aveva deciso di bonificare il suo ufficio, rivelando ai militari del Noe prima e ai pm di Napoli dopo, che a informarlo era stato il ministro allo Sport Luca Lotti e che la notizia gli era stata indirettamente confermata dal comandante generale Tullio Del Sette. Ora arriva l’ultimo strappo, col capitano Scafano accusato di avere riferito dolosamente i contenuti delle sue informative. Sullo sfondo di questa imbarazzante vicenda e di un’inchiesta spinosa che rivela un "sistema" di tangenti e corruzione, rimane dunque il difficile rapporto tra il Noe dei carabinieri e l’ex premier Matteo Renzi, soprattutto dopo che Sergio De Caprio aveva lasciato la divisa per passare all’Aise, il controspionaggio militare. Era l’investigatore più fidato per la procura di Napoli e, soprattutto, per il pm Henry John Woodcock, lo stesso che ha avviato l’inchiesta Consip. Un episodio che aveva suscitato qualche reazioni ma, alla fine non aveva avuto grande eco e qualcuno l’aveva messo in relazione a certe indagini del Noe. Il nucleo comandato da Ultimo aveva incrociato più volte la famiglia Renzi e lo stesso premier. Fascicoli di grande risonanza mediatica che però non hanno mai avuto seguito. A far discutere era stata un’intercettazione del gennaio 2014, trascritta e diffusa proprio dal Noe dei carabinieri e finita in un’indagine contro ignoti, in cui Matteo Renzí confidava al generale delle Fiamme Gialle Mario Adinolfi l’intenzione di far dimettere Enrico Letta, all’epoca ancora presidente del Consiglio, perché "incapace". L’unico commento dal Comando generale dei carabinieri è la "rinnovata fiducia nella magistratura". Il generale Del Sette aveva già fatto sentire la sua voce, presentandosi dai pm. "Su di me solo notizie infondate", aveva detto. Assolto per il delitto di Perugia, Raffaele Sollecito fa causa ai giudici di Marco Preve La Repubblica, 11 aprile 2017 A Genova per competenza territoriale. "Hanno sbagliato e mi hanno rovinato la vita, ora paghino". A dieci anni da uno dei casi di cronaca nera più clamorosi e controversi, uno dei sospettati che dovette trascorrere quattro anni in carcere prima di essere riconosciuto innocente presenta il conto alla magistratura: tre milioni di euro per una serie di "errori e travisamenti delle prove". Va in scena a Genova l’ultimo capitolo del delitto di Perugia. Meredith Kercher, Mez come era soprannominata dagli amici, era la studentessa inglese di 22 anni che venne uccisa con una coltellata alla gola la sera del primo novembre del 2007 mentre era nella casa di Perugia dove trascorreva l’Erasmus. Tra una serie di ribaltoni giudiziari e una pressione mediatica pesantissima, solo nel 2015 i due sospettati principali, Raffaele Sollecito e la statunitense Amanda Knox, sono stati assolti definitivamente dalla Cassazione. Sollecito aveva avviato una richiesta di risarcimento per ingiusta detenzione che, però a febbraio gli è stata respinta. Nessuno sapeva che avesse citato in giudizio, in base alla nuova legge sulla responsabilità civile dei magistrati, nove tra pubblici, ministeri procuratori generali, giudici delle indagini preliminari e giudici di corte d’assise e corte d’assise d’appello chiedendo un risarcimento - si parla di una cifra attorno ai tre milioni - per aver travisato fatti, circostanze e prove relative all’omicidio di Meredith Kercher. La legge sulla responsabilità civile prevede cause "per dolo o colpa grave". Solo per il secondo caso è prevista la citazione anche dei giudici popolari. Ma l’ultima parola spetta al giudice Pietro Spera al quale è stata affidata la causa. Sarà lui, oggi, a decidere se coinvolgere nella citazione anche i 12 giurati popolari della Corte di Assise di Perugia e di quella di Assise di Appello di Firenze. La causa è radicata nel capoluogo ligure perché gli ultimi giudici ad aver condannato Sollecito sono quelli della Corte di Appello di Firenze, e per processi in cui siano coinvolti magistrati toscani il tribunale competente è quello di Genova. Formalmente, in aula è stata citata la Presidenza del Consiglio in rappresentanza dei giudici. A difenderla ci sarà l’Avvocato dello Stato Giuseppe Novaresi. In caso di condanna lo Stato, dopo aver pagato il risarcimento, si rivarrà a sua volta nei confronti dei singoli pm, gip e giudici citati. Sollecito e Knox vennero condannati in primo grado e assolti in appello a Perugia con una decisione annullata dalla Cassazione che dispose un appello bis a Firenze dove i due vennero nuovamente dichiarati colpevoli del delitto di via della Pergola. Prima di essere di nuovo e definitivamente assolti dai Supremi giudici con delle motivazioni decisamente pesanti: "colpevoli omissioni" nelle indagini, condotte con "deprecabile pressapochismo". Tra i principali bersagli" di Sollecito il pm di Perugia Giuliano Mignini che aveva condotto le indagini. A febbraio di nuovo la Corte di Appello di Firenze aveva respinto la richiesta di risarcimento da mezzo milione di euro per ingiusta detenzione: "I giudici - aveva detto Sollecito - non hanno tenuto conto della sentenza della Cassazione che mi ha definitivamente assolto da tutte le accuse. Questa aveva infatti rilevato che ci sono state gravi omissioni e defaillance degli investigatori e dunque cerano precise responsabilità’ nella fase delle indagini. Per questo sono sorpreso da una decisione che ancora una volta proviene da Firenze e che sembra non dare seguito a una chiara sentenza della Cassazione". Norma penale in bianco e principio di legalità. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 11 aprile 2017 Reati speciali - Disciplina igienica degli alimenti - Legge 283/1962 - Norma penale in bianco - Non configurabilità. L’articolo 5, lett. d), della legge 283/1962 in materia di disciplina igienica degli alimenti non può essere considerata una norma penale in bianco perché contiene la nozione di "nocività", intesa con riferimento a quelle sostanza alimentari che possono creare un pericolo alla salute pubblica per non essere genuine, nonché quella di "alterazione" intesa come presenza di un processo modificativo dell’alimento che diviene altro da sé per un fenomeno di spontanea degenerazione. Ciononostante, l’alterazione del prodotto alimentare, tale da determinare la sussistenza del reato in questione, può essere desunta anche dal superamento dei livelli consentiti in circolari del ministero della Sanità appositamente emanate. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 31 gennaio 2017 n. 4522. Stupefacenti - In genere - Nozione legale di stupefacente - Conseguenze - Rilevanza penale delle sole sostanze inserite negli appositi elenchi - Struttura dell’illecito penale di cui all’articolo 73 del Dpr n. 309 del 1990 - Norma penale parzialmente in bianco - Rispetto del principio di legalità - Fondamento. Nell’attuale ordinamento penale vige una nozione legale di stupefacente per cui sono soggette alla normativa che ne vieta la circolazione soltanto le sostanze specificamente indicate negli elenchi appositamente predisposti, i quali, adottati con atti di natura amministrativa in attuazione delle direttive espresse dalla disciplina legale, integrano il precetto penale di cui all’articolo 73 del Dpr 9 ottobre 1990 n. 309, costruito con struttura di norma parzialmente in bianco. (In motivazione la Suprema corte ha affermato la piena aderenza al principio di legalità di tale disposizione, poiché è la legge che indica, con idonea specificazione, i presupposti, i caratteri, il contenuto e i limiti dei provvedimenti dell’autorità amministrativa). • Corte di cassazione, sezioni Unite penali, sentenza 9 luglio 2015 n. 29316. Fonti del diritto - Legge penale - Successione di leggi - Norme extra-penali - Modificazioni - Applicabilità dell’articolo 2, comma secondo, del Cp- Condizioni - Successione di regolamenti comunitari - Effetto retroattivo - Esclusione - Fattispecie. In tema di successione di leggi penali, la configurabilità del reato di cui all’articolo 292 del Dpr n. 43 del 1973 non è esclusa dalla sopravvenienza di regolamenti comunitari che, modificando il regime doganale vigente all’epoca della condotta, sottraggano determinate attività economiche all’obbligo di corresponsione dei diritti di confine, in quanto le fonti normative sovranazionali non contribuiscono a definire il precetto penale, attraverso il meccanismo della "norma penale in bianco", alla stregua degli atti sotto ordinati nella gerarchia delle fonti, ma costituiscono solo un requisito del fatto descritto nel precetto penale, che non rientra nell’ambito di applicazione dell’articolo 2 del Cp. (Fattispecie relativa a importazione di banane, per la quale il regolamento comunitario n. 1964/2005 ha introdotto un sistema tariffario fisso eliminando i diritti di confine). • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 1 ottobre 2014 n. 40551. Navigazione - Sicurezza della navigazione - Reato di cui all’articolo 1231 del codice della navigazione - Natura - Norma penale in bianco. La previsione incriminatrice di inosservanza di una disposizione di legge o di regolamento ovvero un provvedimento legalmente dato dall’autorità competente in materia di sicurezza della navigazione è norma penale in bianco, diretta a recepire sotto l’aspetto precettivo ogni disposizione che sia ritenuta dalle autorità competenti rilevante ai fini della sicurezza della navigazione. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 10 maggio 2011 n. 18305. Reati edilizi - Permesso di costruire - Inosservanza delle prescrizioni - Rinvio a norme prescrittive di carattere tecnico o amministrativo - Norma penale in bianco - Elementi extra-penali - Compito del giudice - Articolo 44, comma 1, lett. a), del Dpr 380/2001. Il reato di cui all’articolo 44, comma 1, lett. a), del Dpr 380/2001, costituisce un tipico esempio di norma penale in bianco che fa rinvio a norme prescrittive di carattere tecnico o amministrativo, di fonte extra-penale. È compito del giudice quello di verificare l’eventuale inosservanza delle prescrizioni contenute nel permesso di costruire attraverso una comparazione tra l’ipotesi di fatto e la fattispecie legale quale risultante dagli elementi extra penali (sezioni Unite 21 dicembre 1993 n. 11635). • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 22 ottobre 2012 n. 41162. A proposito di linguaggio carcerario di Vito Totire labottegadelbarbieri.org, 11 aprile 2017 Santi Consolo, direttore del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) ha proposto un nuovo vocabolario per le carceri. Un errore molto frequente è "trascurare" il linguaggio e consentire che questo continui a veicolare stereotipi. A Lenin è attribuita questa frase: "Non solo dico cose diverse da Bismark, ma le dico anche in maniera diversa". Per non parlare di Ronald Laing che definì il linguaggio psichiatrico "vocabolario di denigrazione". Santi Consolo non lo conosco; Radio Carcere lo accredita come un operatore in sintonia con il dettato costituzionale sulla "funzione" del carcere. Nel suo piccolo un Bergoglio del mondo delle sbarre, sempre secondo Radio carcere. È evidente che una persona possa essere collocata lì dalla perfidia della "istituzione totale" con scopi di immagine e non di sostanza. Vedremo. Il suddetto Consolo al momento fa una proposta giusta: cambiare il linguaggio sulle carceri. Condivido: si tratta di termini che suonano come derisori, quantomeno: come nel caso di "scopino" o "spesino". Vessatori sono termini - e pratiche - come la "domandina" che inducono uno scenario psicologico di infantilizzazione. Ora in Italia le massime istituzioni, riguardo al linguaggio, hanno sempre tollerato tutto. Si rimane al governo perfino dopo avere definito gli immigrati "bingo bongo" oppure avere insultato le donne, chi ha un handicap, i meridionali. O dopo aver definito i centri sociali di Bologna "pidocchi" o "zecche". Aver letto Frantz Fanon non è obbligatorio, tanto meno essere d’accordo con lui. Ma se vogliamo, senza ipocrisie, che il linguaggio non sia uno strumento di aggressione la strada è lunga. Almeno si potrebbe iniziare. In questa discussione sul linguaggio carcerario mi dicono sia intervenuto l’opinionista Michele Serra dicendo - in sostanza - che la proposta di Santi Consolo è poca cosa. Un magistrato gli risponde, con una lettera sul quotidiano "La Repubblica"; lettera che io condivido ritenendo tuttavia che occorra andare oltre. Lo scopino sarà definito "lavoratore addetto alle pulizie"? lo "spesino" diverrà lavoratore addetto all’approvvigionamento? la "domandina" sarà chiamata istanza? Possiamo continuare per confrontarci su un ampio vocabolario che riguardi tutto l’universo carcerario. Ma per non andare troppo oltre gli aspetti linguistici, il mio quesito è: l’ex-scopino avrà facoltà di eleggere un suo rls, cioè rappresentante dei lavoratori per la sicurezza? Se vogliamo davvero contrastare il metodo denigratorio e infantilizzante non possiamo fermarci alle etichette. Il lavoratore che cambia qualifica nominale avrà diritto a quella forma di partecipazione e di democrazia che consiste nel poter eleggere il proprio rls? Solo se andiamo alla sostanza riusciamo a evitare operazioni gattopardesche. In altri termini se invece di "spazzino" mi chiamo "operatore ecologico" d’accordo, suona meglio; ma rimango esposto a rischi e nella mia organizzazione lavorativa non conto nulla. Tanto valeva fare lo spazzino che almeno mia nonna capisce meglio quello che faccio… Infine non vorrei che finissimo a parlare solo in astratto. Un esempio: il carcere di Bologna ha ricevuto una nostra mail in cui chiediamo se il patrimonio librario è on-line; ciò al fine di stimolare le carceri a dichiarare i loro possedimenti e poter razionalizzare gli invii di libri che vengono periodicamente fatti. Il carcere non risponde. Una domanda dunque a Santi Consolo: che termine devo usare per definire questo comportamento? Qualcosa in inglese tipo "Non responders" oppure "questi (del circolo Chico Mendes) che cazzo vogliono?". Problemi di linguaggio e di sostanza. D’altra parte certe istituzioni sono state definite "totali" (da Basaglia e altri) perché si proclamano autosufficienti pur essendo impotenti (ai fini del dettato costituzionale che tutela la libertà e la salute). È una discussione importante, continuiamola. Io, infermiere al penitenziario, tra muffa e minacce nurse24.it, 11 aprile 2017 Paolo, infermiere in carcere: "Viviamo un rischio costante, tutelateci". Infermieri, minacce e intimidazioni: un trinomio in preoccupante ascesa nel mondo sanitario. Lo sa bene Paolo, infermiere che lavora in un carcere dell’Emilia-Romagna e che ogni giorno deve fare i conti con condizioni lavorative al limite, dal punto di vista della sicurezza e dell’igiene. Sono un infermiere che presta servizio in un penitenziario con circa 620 detenuti, i quali sono suddivisi per sezioni, a seconda del grado di giudizio e sicurezza. Abbiamo la sezione Casa Circondariale (CC) dove vi sono detenuti in attesa di giudizio o con pene inferiori a 5 anni di reclusione, perlopiù nordafricani, tossici, psicopatici e persone che hanno commesso delitti passionali. Poi c’è la Casa di Reclusione ad alta sicurezza, dove sono confinati i detenuti con sentenza definitiva, con pene maggiori a 5 anni. Infine il 41 bis, dove si trovano i detenuti ad alto regime di sicurezza, isolati dal resto dei carcerati e con moltissime restrizioni. Oltre a queste tre sezioni abbiamo due reparti a seconda dello stato clinico e assistenziale: paraplegici e Cdt (Centro Diagnostico Terapeutico). Ogni giorno riceviamo minacce e intimidazioni, la situazione è difficilissima. Chiediamo più sicurezza e più tutele da parte dell’Ausl. Il nostro lavoro è quello tipico dell’infermiere di reparto, quindi prelievi, rilevazione dei parametri, terapia, medicazioni, ripristino dei carrelli e gestione di eventuali urgenze. Il fatto è che ogni giorno, davvero ogni giorno, riceviamo minacce e intimidazioni. Siamo quotidianamente esposti a rischio di aggressione fisica e verbale: basti pensare che spesso (durante le urgenze è la regola) prestiamo assistenza nelle varie sezioni con i detenuti liberi e molte volte ci troviamo ad affrontare più di 10/15 detenuti intorno a noi. Per non parlare poi delle condizioni anti-igieniche nelle quali lavoriamo: a farla da padrona è la muffa e noi infermieri, in costante carenza di organico - così come lo sono gli agenti di polizia penitenziaria - esercitiamo la nostra professione di cura mettendo a repentaglio la nostra salute, tutti i giorni un po’ di più. Ditemi voi se questo non è un paradosso grande almeno tanto quanto le lacune del nostro sistema sanitario nazionale. La "Passione" in carcere, tra liberazione e sofferenza di Paola Schipani (volontaria penitenziaria) Avvenire, 11 aprile 2017 Come si fa a saperlo? Come si fa a capire qual è - veramente - la liberazione che cerchiamo noi tutti, da chi la attendiamo sul serio, quanto ci speriamo veramente. Se veramente ci speriamo. Come capirlo delle centinaia di persone che vedo ogni giorno? Di tutti quelli che camminano per strada o fanno la fila alla posta; che vanno a messa o aspettano al semaforo; che entrano in un ospedale o in un tribunale. Che abitano una casa. O un carcere. Già, il carcere: come tentare di comprendere cosa succede nell’animo di chi sta lì? Pur dopo tanti anni di volontariato penitenziario, a questa domanda non so rispondere se non partendo da me e da quello che io lì imparo ogni giorno, cioè che il dentro e il fuori sono realtà complementari. Non solo una è conseguenza dell’altra, ma una si specchia nell’altra e - ovviamente - viceversa; anche se mi rendo conto che questa reciprocità non è sempre compresa o facile da spiegare. Ma la domanda "che liberazione aspetta un detenuto?" per me coincide con il chiedermi "che liberazione aspetto io?". Possiamo partire direttamente dalla fine. In ultima analisi ci accomuna, certo, il desiderio di liberazione dalla morte. Ma la morte, come il carcere, è tante cose. È fine, frustrazione, allontanamento. Rischio, paura, perdita. È separazione, definitività, disperazione. È chiusura: se vivi senza più speranza, ti chiudi. Allora per forza la legge (una qualunque, di solito la prima che trovi), il passato o il rimorso diventano la tua gabbia. O la tua cella. Dentro o fuori, la tua prigione. La morte è mancanza di libertà. Se fuori questa semplice frase può volare alto e rivestirsi anche di connotazioni filosofiche, dentro la capiscono tutti, anche i tanti che parlano a stento l’italiano pur non essendo stranieri. Dentro la mancanza di libertà non è un concetto, ma è luoghi, orari, riti, parole e ritmi precisi, scelti da altri. Anche la parola mancanza non è un concetto astratto. Come la separazione, è fatta di carne. Volti, mani, bocche. Passi che non si affiancano più. La morte è allontanamento, e in questo il carcere non teme confronti. Ne è specialista. Ti allontana dai tuoi (genitori, fratelli, mogli, mariti, compagni, amici, vicini di casa, cani e gatti, mare e montagna, letto e stoviglie, libri e musica) seguendo una prassi consolidata. Così come ti allontana dalle tue stesse percezioni: dagli odori, dai sapori, dai panorami, dai suoni familiari e fastidiosi come quelli di un clacson impazzito e dell’ingorgo sotto casa. Dalla varietà delle parole in bocca, dalla varietà degli argomenti nelle orecchie, dalla varietà degli incontri negli occhi. L’esperienza fuori sotto questo aspetto può essere diversa: l’allontanamento a volte è il prezzo da pagare ad una maggiore libertà, ma con quanta fatica lo scorgo, questo prezzo, e quanto mi pesa pagarlo! L’idea più comune di liberazione che si coltiva in carcere è uscire, andarsene, tornare a casa. Come se tutti i problemi fossero lì. Ma a volte ci si scontra tragicamente con l’evidenza che non è così, e allora davvero non ce la si fa. Ma riposino ora in pace i tuoi occhi, Michele, stanchi di guardare il mondo da un punto di vista sempre alternativo, spesso puro. Troppo spesso solo. Il dubbio che liberarsi significhi farla finita è sempre dietro l’angolo, con qualsiasi colpa, con qualsiasi pena. Se poi sul tuo fine pena è scritto mai, diventa quasi una certezza, anche dello stato. Almeno questo, fuori, non succede. La liberazione è cambiare ambiente appena possibile, trasferire famiglia moglie e casa in una città normale, per farci una vita normale. La liberazione è anche un miracolo che a volte, non tanto raramente, si compie. È trovare la possibilità di guardarsi tutti interi, senza alibi, senza maschere, senza vergogna. La possibilità di raccontarsi a se stessi in verità. La possibilità di cominciare ad amarsi e a sentirsi amati essendo esattamente come si è. Da questo è quasi automatico che sia dentro che fuori nasca anche un altro desiderio: quello di restituire un po’ di quello che si è ricevuto, di riparare qualche danno fatto, di dare un senso alla propria vita. Quanti di noi, fuori, questo lo aspettiamo ancora, lo cerchiamo, lo desideriamo, o a volte non lo speriamo più? Eppure, è forse proprio questa l’offerta di liberazione che ogni pasqua ci fa: sta proprio in quello sguardo che tira fuori (sì, proprio fuori!) le lacrime dal cuore gonfio di colpa di Pietro. Non sono più intrappolate dentro. Non intrappolano più i suoi occhi. Scovate da un amore tenace, escono e bagnano un cuore inaridito. Escono e lavano ferite subite e inferte. Escono e dissetano un bisogno sterminato. Escono e fanno Pietro libero di farsi perdonare. Completamente zuppo, Pietro non può più non sentirsi lavato da questo amore infinito. Anche io, dovunque sia, non ho altro da aspettare. Ivrea (To): cella liscia e "acquario" finalmente non esistono più di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 aprile 2017 Dopo la denuncia del Garante e l’intervento del Capo del Dap le strutture sono state adeguate. Nell’istituto piemontese rimangono ancora delle criticità: ci sono 234 detenuti su una capienza massima di 197 e da quattro anni manca il comandante della polizia penitenziaria Ripristinate, ma riqualificate, le due celle di isolamento del carcere di Ivrea interdette dal capo del Dap Santi Consolo dopo la denuncia del Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma. Ad affermarlo è stata la consigliera comunale di Ivrea del Pd Erna Restivo, presidente della commissione servizi sociali e sanità, nel corso della lunga discussione su una mozione presentata, venerdì scorso, dai consiglieri di minoranza Francesco Comotto (Viviamo Ivrea) e Alberto Tognoli (Lista dei cittadini). La mozione chiedeva al sindaco e giunta di attivarsi presso l’amministrazione penitenziaria e le competenti istituzioni, al fine di risolvere le criticità della struttura, a partire da quelle emerse dalla relazione del Garante. La consigliera Restivo ha spiegato che la mozione è superata con i fatti, argomentando che "entrambe le celle sono state sistemate secondo gli standard richiesti e sono utilizzabili". La consigliera ha quindi completato il quadro dei passi avanti fatti nella struttura: "L’area del carcere riservata alle persone in stato di semilibertà, che ne poteva ospitare una decina, dispone ora di un totale di 22 posti, numero potenzialmente raddoppiabile". Ricordiamo che nel mese di febbraio il capo del Dap aveva dato ordine di inibire l’uso della stanza detentiva chiamata "l’acquario". Ma non solo. Aveva ordinato anche la chiusura della sala d’attesa per le visite mediche che veniva utilizzata come una seconda "cella liscia". Infatti aveva disposto di "interdire l’utilizzo della sala d’attesa per le visite mediche fino al ripristino delle necessarie dotazioni, e di assicurare, terminati gli interventi di adeguamento, che il suo uso sia realmente limitato a brevissimi archi temporali e per le sole esigenze per le quali è stata prevista". Il provvedimento del Dap aveva dato atto dele l’esattezza del rapporto sul carcere di Ivrea del Garante nazionale dei detenuti, dopo le denunce, anticipate da Il Dubbio, degli episodi di violenza. Nella notte tra il 25 e il 26 ottobre 2016, infatti, almeno un paio di detenuti avrebbero subito delle violenze, denunciate da un altro compagno di cella con una lettera indirizzata a Infoaut e sulle quali sta indagando anche la procura di Ivrea. Questi episodi sono stati riscontrati non solo dalla delegazione del Garante nazionale, ma anche dalla visita ispettiva da parte del provveditorato regionale effettuata il 16 dicembre scorso. Sempre Santi Consolo, con riferimento del rapporto del provveditorato, aveva scritto che "ferma restando la necessità di attendere gli esiti dell’indagine giudiziaria, la ricostruzione operata dall’ispezione non sembra escludere che per taluni detenuti coinvolti nei disordini - alcuni dei quali erano visibilmente atroci - possa esservi stato un eccesso nell’intervento del personale di polizia penitenziaria volto a contenere le resistenze durante il tragitto di accompagnamento degli stessi dalla sezione del quarto piano, ove erano collocati, al piano terra". Nel frattempo la direttrice, secondo quanto affermato dalla consigliera comunale, ha riqualificato "l’acquario" con il rifacimento del bagno, eliminando la cosiddetta turca, al risanamento della finestra volta ad areare il locale, nonché alla tinteggiatura della stanza liscia e all’inserimento di suppellettili. Così come nella sala d’attesa, all’epoca utilizzata come "seconda stanza liscia ", è stato riaperto il finestrotto per far circolare l’aria e ripristinato il termosifone. Tale stanza - come ha ordinato Santi Consolo - dovrà essere utilizzata per tempi assolutamente brevi e strettamente funzionali alle esigenze per le quali è stata prevista. Le criticità però ancora non mancano. C’è il sovraffollamento che registra una presenza di 234 detenuti su una capienza massima di 197 e l’assenza da oltre quattro anni di un Comandante della Polizia penitenziaria stabilmente assegnato alla casa circondariale e che possa garantire la stabilità necessaria per arginare le conflittualità segnalate come il presunto pestaggio che la Procura dovrà ancora fare chiarezza. Padova: la metamorfosi dei carcerati, merito di una colomba di Stefano Filippi Il Giornale, 11 aprile 2017 Viaggio nel laboratorio di pasticceria del penitenziario di Padova che sforna dolci premiati dagli chef. E le statistiche dicono che chi lavora non torna più dietro le sbarre. Il conto dei cancelli richiusi alle spalle si perde presto in un carcere di massima sicurezza come il Due Palazzi. L’aria cupa si dirada solo quando s’imbocca il corridoio che porta nel braccio dove si lavora. Le pareti sono coperte di gigantesche riproduzioni di capolavori della pittura, realizzate nell’ambito di un progetto di educazione all’arte. Il penultimo, forse non a caso, è l’Icaro di Matisse: una figura umana nera protesa verso il cielo stellato in cui spicca il punto rosso del cuore. Un desiderio di libertà senza sole, proprio come in cella. Un ultimo varco di controllo e si accede all’area operativa vera e propria. Sugli stipiti d’accesso campeggia una famosa frase di Dante: "Fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e conoscenza". Ai lati, due copie dei Prigioni di Michelangelo e una lunga citazione di sant’Agostino sul valore rieducativo della pena. E finalmente, quello che dovrebbe trovarsi in ciascun penitenziario italiano mentre è una rarità strappata con i denti da dirigenti lungimiranti e dal consorzio sociale Giotto: la zona lavoro. Al 31 dicembre 2016 (il Dap, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, fornisce questi dati ogni sei mesi) sono appena 924 su 54.653 i detenuti che fanno un lavoro "vero" dietro le sbarre, con una professionalità specifica, assunti e pagati regolarmente da un’impresa o una cooperativa; 150 di essi sono reclusi al Due Palazzi. Altri 847 lavorano in regime di semilibertà e 1.000 all’esterno in base all’articolo 21 della legge 354/75. Poi ci sono 13.480 carcerati alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, la stragrande maggioranza (81 per cento) nei cosiddetti lavori domestici: per massimo un’ora al giorno fanno pulizie, il porta-vitto, lo spesino, oppure manutenzione agli edifici. Chiamarlo lavoro è esagerato; è un sussidio, spesso diseducativo; nessuno insegna e nessuno impara. La quota reale di disoccupazione in carcere è del 95 per cento. Il consorzio padovano offre varie opportunità di impiego dentro il Due Palazzi: il più famoso è il laboratorio di pasticceria che sforna i "Dolci di Giotto", panettoni e colombe artigianali pluripremiati da chef e gourmet, oltre a uova di Pasqua, praline, gelati e catering completi per eventi anche da mille persone. Ma c’è posto anche nel call center per il centro prenotazioni dell’Azienda sanitaria di Padova, attività di telemarketing e test di lampade a led per Illumia, montaggio della ferramenta (ruote, maniglie, serrature) sulle valigie Roncato, scannerizzazione di documenti per Infocert, stampa rotografica di scatole e contenitori, assemblaggio di chiavette per la firma digitale (20mila al mese) per aziende, camere di commercio, associazioni. "Non siamo partiti con l’obiettivo di dare lavoro ai detenuti", racconta Nicola Boscoletto, presidente della galassia Giotto. A cavallo tra Anni 80 e 90 egli era un laureato in agraria che con alcuni amici aveva messo in piedi una cooperativa per la manutenzione del verde. "Il Due Palazzi era rimasto chiuso cinque anni dopo lo scandalo delle carceri d’oro, quello che coinvolse il ministro Franco Nicolazzi. Anni di abbandono totale. Noi vincemmo l’appalto per ripristinare l’area verde esterna. Proponemmo al direttore di affidare ai reclusi la manutenzione ordinaria del verde, noi avremmo potuto tenere un corso di giardinaggio per addestrare 20 detenuti. Oggi siamo all’edizione numero 26. Il lavoro dà dignità ai reclusi che rialzano la testa dalla loro condizione; si riscoprono padri, mariti, figli, e non più bollati soltanto in base al fine pena". Nel 2001 arrivò la legge Smuraglia che incentivava le coop che riportavano il lavoro nelle carceri dopo vent’anni in cui erano state abbandonate alle risse e all’autolesionismo. Quelli della Giotto introdussero al Due Palazzi alcune lavorazioni e soprattutto impiantarono il laboratorio di pasticceria diventato un simbolo di eccellenza nel reinserimento dei detenuti. "Attenzione precisa Boscoletto noi ci siamo fatti conoscere prima per la qualità dei prodotti e poi per la loro produzione. La gente non compra la nostra colomba innanzitutto per assistenzialismo verso certi condannati, ma perché è tra le migliori d’Italia. La professionalità esalta il valore sociale". I reclusi vengono reclutati come in qualsiasi posto di lavoro: fanno colloqui, un tirocinio, la formazione e al termine scatta l’assunzione. Vengono pagati secondo contratto e i soldi vengono versati su un conto corrente di cui l’amministrazione penitenziaria è tutore. Lo Stato trattiene 108 euro al mese per le spese di mantenimento; se per caso il detenuto ha debiti in sospeso, Equitalia gli preleva in automatico il quinto dello stipendio. Il resto di solito viene mandato ai familiari e in minor parte speso in carcere per piccoli acquisti, soprattutto sigarette e qualche caffè ai distributori automatici collocati nel braccio lavorativo. "Lo Stato passa un rotolo di carta igienica alla settimana dice Nicola Boscoletto, un detenuto senza spiccioli è peggio di un mendicante per la strada". Qualcuno penserà: perché lo Stato dovrebbe dare da lavorare a un delinquente? C’è tanta disoccupazione tra la gente normale. Eppure la Costituzione dice che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato e la legge sull’ordinamento penitenziario dice che "all’internato è assicurato il lavoro", pilastro del reinserimento con l’istruzione e la pratica religiosa. Basterebbe questo. La scoperta della fatica - Ma ci sono anche altri motivi. Giovanni è cresciuto a Bari vecchia, è nipote di un boss, ha 36 anni, a 11 fu tolto alla famiglia per spaccio di droga. Deve scontare una pena di 28 anni e 8 mesi, e prima di finire a Padova è stato in una dozzina di penitenziari di alta sicurezza. Ha moglie e un figlio. "È la prima volta che lavoro in vita mia - sorride con la faccia infarinata mentre impasta le colombe pasquali -. Nel 2003, quando sono finito dentro, non sapevo nemmeno leggere e scrivere. Adesso andare a dormire con il pensiero che il giorno dopo ho qualcosa da fare è troppo bello". A che cosa serve lavorare? "A dare dignità e un senso alla detenzione. Posso aiutare economicamente la mia famiglia, far studiare mio figlio e far venire una volta in più mia moglie a trovarmi. Ho imparato un mestiere che mi aiuterà quando uscirò. Ora ho due visioni della vita, ho scoperto che non c’è soltanto il male". Qualcun altro penserà: è soltanto buonismo, ci vuol altro. Sbagliato. Le statistiche sulla recidiva parlano chiaro, anche se non sono aggiornatissime, e questo la dice lunga sull’interesse che hanno le istituzioni penitenziarie all’argomento. Nel 2010 la recidiva media era tra il 70 e il 90 per cento a seconda del reato, ma tra chi ha lavorato in carcere precipitava al 15-20 per cento. Secondo un’analisi del 2012 svolta su un campione di 500 condannati che avevano svolto un percorso completo di lavoro sia in detenzione sia in misure alternative esterne, la recidiva era addirittura all’1-2 per cento. Le associazioni Antigone e Ristretti orizzonti, che conoscono a fondo il mondo dietro le sbarre, garantiscono che la situazione non è cambiata. "Chi ha fatto il male e riceve una proposta di bene sceglie il giusto - dice Boscoletto -. Ma bisogna dargli un impiego vero, non finto, e neppure fare un discorso sul lavoro". I tagli alle amministrazioni statali hanno colpito anche questa nicchia di intervento, che pure farebbe risparmiare parecchi soldi alle casse pubbliche: meno recidive, meno reclusi, meno spese. Il Dap stima in 130 euro il costo quotidiano per ciascun detenuto ma quello reale supera i 200. Eppure, calcola Boscoletto, "tre anni fa gli stanziamenti della legge Smuraglia sono stati ridotti del 35 per cento, due anni fa di un altro 37 e l’anno scorso di un ulteriore 48,9 per cento. Se il ministero non interviene si rischia di perdere 1.200 posti di lavoro per i detenuti più altri 200 e oltre per gli operatori di supporto: educatori, psicologi, formatori. Attendiamo una risposta dal ministro Andrea Orlando e dal capo del Dap, che hanno detto di voler rispondere adeguatamente a questa esigenza". Salerno: bombole del gas esplose nel carcere di Fuorni, sanzionati due detenuti Il Mattino, 11 aprile 2017 Sono stati individuati nel giro di poche ore dall’episodio di violenza, i due detenuti che hanno fatto esplodere le bombolette di gas nella corsia di una sezione detentiva del reparto Media Sicurezza dell’istituto penitenziario di Fuorni. Gli agenti in servizio l’altro giorno, quando si sono verificati i fatti, hanno dapprima individuato la celle e poi accertato che due dei tre occupanti avevano dato fuoco alle bombolette. Al termine di una breve istruttoria interna, i due (entrambi italiani) dopo essere stati ascoltati dal comandante della polizia penitenziaria, sono stati sanzionati e messi in isolamento. "All’origine del loro gesto spiega il direttore del penitenziario, Stefano Martone - non ci sono motivi di astio o di contrapposizione alla polizia penitenziaria ma futili motivi legati all’insofferenza della loro situazione... qualcosa in più della semplice bravata che noi abbiamo subito censurato e sanzionato perché sono atteggiamenti sbagliati che vanno puniti". La perquisizione della loro cella è avvenuta nell’immediatezza dei fatti e gli stessi detenuti non hanno saputo dare un giustificazione plausibile al loro gesto. "Purtroppo - prosegue Martone lavorare in carcere vuol dire avere regole ferree e anche questi piccoli problemi vanno sanzionati. È il nostro lavoro...Ma non sempre il carcere è solo restrizione. Noi, ad esempio, stiamo anche facendo un bel lavoro di integrazione dei detenuti con la società". Un lavoro che proprio domani porterà, grazie a due associazioni di volontariato, i figli delle persone ristrette in carcere per la consegna delle uova di Pasqua ed un momento di socializzazione "importante per il benessere dei detenuti", aggiunge il direttore. Che ci siano problemi di organico per la polizia penitenziaria Stefano Martone non ne fa mistero anche se, ripete ancora, questo non incide sul rapporto con i detenuti ma, secondo il direttore, rallenta quelli che sono i suoi programmi: l’apertura della sezione alta sicurezza. "Sezione che - ci tiene a sottolineare - non deve essere intesa come isolamento bensì come possibilità di avere una camera singola con momenti di aggregazione comune e la possibilità di colloqui riservati con le proprie famiglie. Ma anche l’occasione per quelli che sono di passaggio di starsene per i fatti loro dal momento che a volte socializzare è difficile in queste condizioni". Per Martone, anche se il carcere è carcere, l’impronta che vuole dare al suo lavoro è quella di una sempre maggiore umanizzazione dei rapporti e di riabilitazione del detenuto. "Mi piace ricordare - dice - che abbiamo una squadra di quindici detenuti che lavorano ai servizi di manutenzione interna e che abbiamo una richiesta per altri carcerati per essere autorizzati a lavorare all’esterno con rientro notturno in cella, stiamo soltanto attendendo le autorizzazioni del tribunale della Sorveglianza". Napoli: De Luca visita Poggioreale, vicinanza e sostegno ai detenuti, famiglie e bambini Agenparl, 11 aprile 2017 Dopo l’istituto di pena di Sant’Angelo dei Lombardi nello scorso mese di marzo, il Presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca, in occasione delle festività pasquali, questa mattina ha fatto visita alla Casa Circondariale di Poggioreale a Napoli. Il governatore, accompagnato dal direttore del carcere Antonio Fullone, insieme all’assessore alle Politiche Sociali Lucia Fortini, ha incontrato agenti, educatori, operatori sanitari e volontari della struttura visitando gli spazi dedicati ai servizi socio sanitari e alle emergenze. Presenti anche il Garante per i diritti dei detenuti Adriana Tocco e Antonio Mattone della Comunità di Sant’Egidio. Con Don Tonino Palmese e il Presidente della Fondazione Polis, Paolo Siani, De Luca ha visitato il padiglione "Firenze" occupato da coloro che entrano in carcere per la prima volta, soffermandosi poi nelle botteghe/officine dove i detenuti vengono avviati alle attività di falegnameria, fabbro e nei laboratori di pittura e ceramica. E qui si è intrattenuto con i detenuti, incoraggiandoli nel loro percorso di riabilitazione. Il momento più intenso della visita è stato l’incontro con i familiari. L’occasione è stata la consegna delle uova di Pasqua - offerte alla Fondazione Polis dalla cooperativa sociale Davar che opera in un bene confiscato alla camorra - ai bambini riuniti con le madri nell’area riservata ai colloqui. "Siamo qui per portare un messaggio di vicinanza e di sostegno ai detenuti, alle famiglie e soprattutto ai bambini" ha dichiarato il presidente De Luca che ha apprezzato molto le attività di laboratorio svolte nell’istituto, che offrono ai detenuti occasioni di apprendimento da sfruttare fuori dal carcere. "Una delle cose più importanti è recuperare i figli dei detenuti, spezzare la catena della vendetta con l’accoglienza e la solidarietà. A loro occorre trasmettere valori". Sassari: gli ex detenuti "docenti" nel progetto sulla legalità La Nuova Sardegna, 11 aprile 2017 Gli studenti dell’Alberghiero protagonisti di un’iniziativa sul reinserimento sociale Durante gli incontri testimonianze dirette anche di chi ha vissuto la detenzione. L’espiazione delle pene e il reinserimento sociale". È stato il tema cruciale dell’ultimo incontro tenutosi all’istituto Alberghiero di Sassari nell’ambito del progetto "Legalità e carcere" articolato in cinque tappe e rivolto agli studenti delle classi quarte e quinte, proposto dal Comune in collaborazione con la Casa Circondariale di Bancali, l’Ufficio esecuzione penale esterna, l’Università e la Camera penale di Sassari. L’organizzazione e il coordinamento dei cinque incontri svolti in quest’anno scolastico sono stati curati da Mario Dossoni, garante dei detenuti del carcere di Bancali, con la collaborazione della docente Anna Laura Espa all’interno dell’istituto Alberghiero. L’iniziativa, tesa da parte degli organizzatori a far sentire la struttura carceraria come parte integrante della vita sociale e culturale della città, ha visto alternarsi fra i relatori magistrati, avvocati, operatori del settore carcerario e amministratori comunali su temi quali il concetto di legalità, i fondamenti costituzionali dell’azione penale, le modalità processuali, i diversi tipi di processo penale, le forme di pena alternative al carcere e il reinserimento nella società di chi ha vissuto l’esperienza della detenzione. Il confronto con gli studenti è stato sempre attivo e interessato, soprattutto quando si è parlato delle pene alternative al carcere, con le testimonianze di alcuni ex detenuti che hanno scontato la loro pena e di altri che la stanno ancora scontando in regime di affidamento lavorativo. "Si è trattato di un’importante esperienza per la formazione a una cittadinanza attiva e consapevole da parte degli studenti - precisa Maria Luisa Pala, dirigente scolastica dell’istituto Alberghiero - avviata con successo già lo scorso anno scolastico con la prima serie di incontri. La nostra scuola, tra l’altro, ha deciso di offrire ai detenuti del carcere di Bancali una concreta opportunità di reinserimento sociale anche attraverso l’istruzione, mettendo a loro disposizione il supporto didattico di personale docente volontario e il materiale per lo studio utili ad acquisire competenze e titoli da far valere a fine pena nella comunità civile e nel mondo del lavoro". Roma: alla Terza Casa circondariale di Rebibbia apre la Bottega "Fine pane mai" giustizia.it, 11 aprile 2017 Presso la Terza Casa circondariale di Roma Rebibbia si inaugura il nuovo punto vendita la Bottega Fina pane mai. Un nome bello e facile per un progetto alto e impegnativo. Tutto inizia nel 2012 quando la Panifici Lariano Srl, impresa nel settore della panificazione da oltre 50 anni e tre generazioni, apre un altro ramo dell’azienda all’interno della 3 Casa circondariale di Roma Rebibbia, che chiama Fine pane mai. Il progetto, cofinanziato dalla Cassa Ammende, prevede l’individuazione e l’assunzione di 20 detenuti da avviare alla gestione dei laboratori di panificazione, pasticceria e gastronomia. Scopo é quello di offrire servizi e prodotti nel mondo della ristorazione e della produzione alimentare, avvalendosi di esperti professionisti del settore e di figure professionali, i detenuti-lavoratori appunto, che da questi verranno adeguatamente formati. L’iniziativa si dà un obiettivo: produrre quotidianamente circa 2000 chili di pane e derivati, da distribuire su tutto il territorio laziale. Non solo: nel progetto iniziale si prevede anche la realizzazione di un punto vendita aperto al pubblico. Ma siamo nel 2012, e si deve ancora avviare tutto, individuare le persone da formare, organizzare lo spazio dove collocare il laboratorio, comprare i macchinari. Insomma, di lavoro da fare ce n’é proprio tanto. Ma la produzione inizia, il forno che viene presentato come artigianale, con la voglia di riscoprire le "proprietà di antichi grani e di riportare sulle tavole e al palato sapori dimenticati con lievitazione lenta e con pasta madre", inizia a sfornare e arriva a soddisfare anche "le esigenze della grande distribuzione", lavorando quotidianamente oltre 30 quintali di farine. Si impasta, s’inforna, si sforna e si distribuisce pure, con un "organizzato sistema di consegna" che ha al suo organico nove furgoni coibentati che girano fra supermercati, mense cittadine e hinterland romano. E si arriva ad oggi e a quel nastro inaugurale che alle 18 verrà tagliato e che aprirà al pubblico La Bottega Fine pane mai. Da oggi il pubblico potrà entrare per acquistare le tante specialità di pane prodotte nel laboratorio, in quello che si avvia ad essere la prima rivendita in Europa creata all’interno del muro di cinta di un carcere. La vendita é indirizzata a tutto il personale del complesso di Rebibbia oltre che agli abitanti del quartiere e, mentre si aspetta il proprio turno si potranno assaggiare gli stuzzichini offerti e apprezzare le molte varietà di pane, focacce e prodotti di pasticceria che il forno produce. Si sente profumo di buono in tutto questo, e non é solo merito del pane. Si sente profumo di impegno, di futuro, di lavoro. Si sente il gusto buono che lascia in bocca la ritrovata dignità. Pescara: la riabilitazione in carcere riparte dallo sport di Francesca Di Giuseppe iogiocopulito.it, 11 aprile 2017 RieducAzione Sport FormAttivo è il programma che vede impegnata l’amministrazione comunale di Pescara insieme alla USacli Nazionale, USacli Pescara, l’Asd Squali Pescara Sud, il BootCamp, Pescara Assistenza, Avis e l’Assonautica nel progetto di rieducazione, riabilitazione e formazione all’interno dell’istituto carcerario di Pescara. Un progetto che terminerà il 31 dicembre 2017, che ha tra i promotori Adamo Scurti, presidente provinciale USacli Pescara nonché presidente dalla Commissione Sport Pescara: "Sono orgoglioso della nostra amministrazione che rivolge un pensiero e dimostra sensibilità verso persone che hanno avuto nel corso della vita intoppi ma che cercano un’opportunità sociale e lavorativa. L’attività sarà svolta in moduli che prevedono attività motoria con l’Asd Squali Pescara Sud, attività motoria con il BootCamp che prevede tecniche in uso nell’esercito e nella Marina militare Usa, attività di formazione con Pescara Assistenza attraverso l’uso di defibrillatori, iniziativa in collaborazione con l’Assonautica, tecniche di primo soccorso con rilascio di certificato e l’Avis per attività di prevenzione". "È un progetto interessante per l’istituto che dirigo - afferma il direttore del carcere di Pescara Franco Pettinelli - in quanto dà qualcosa in più al detenuto per crescere. Il fatto di poter eventualmente uscire fuori e mettere a disposizione di altri le conoscenze acquisite all’interno della struttura, è sicuramente un processo di crescita mentale molto importante. Le attività infatti si svolgeranno sia all’interno con corsi formativi in aula, sia negli spazi esterni della nostra camminata. Alla fine valuteremo la possibilità di far uscire all’esterno alcuni detenuti che ne avranno i requisiti. Quanti detenuti saranno coinvolti? Pensiamo una quindicina; però il progetto è aperto a tutti gli interessati, poi faremo una selezione studiamo il profilo e la posizione giudiziaria". L’istituto penitenziario di Pescara è rientrato tra le 15 strutture scelte in un bando della USacli nazionale che ha visto 30 partecipanti. "Svolgiamo diverse attività - afferma il presidente nazionale USacli Antonio Meola - come i corsi da arbitro rivolto anche agli agenti penitenziari. Sono coinvolte anche le sezioni femminili delle carceri come teatro e danza. RieducAzione sport è interamente finanziato dalla USacli in quanto centro di promozione sportiva che terminerà il prossimo 31 dicembre. Non sono attività riconosciute dal Coni ma siamo ben lieti di partecipare a simili iniziative". La vera innovazione saranno le attività di Boot Camp o fitness militare: "È una tecnica usata nell’esercito e nei Marines Usa - afferma Sonia Irimiea - per trasformare in tempi brevi le reclute attraverso un misto di atletica e percorsi militari. È una tecnica da poco nota in Italia ma diffusa da 40 anni in America e nata proprio come riabilitazione e rieducazione in carcere. La sua applicazione al mondo del fitness si pone quali obiettivi quello di imparare a fare squadra, avere una buona forma fisica e lavorare per un fine comune". Intanto Pescara si prepara per ricco e lungo weekend di sport che prenderà il via il prossimo 1° giugno: "A Pescara arriveranno 3mila atleti per 14 discipline; alle attività sportive si alterneranno convegni su alimentazione e comunicazione. Perché abbiamo scelto Pescara? Per i bellissimi impianti sportivi che onorano anche gli atleti" le parole del presidente nazionale USacli Meola. Torino: il Ferrante Aporti "tra i migliori carceri minorili d’Italia" La Stampa, 11 aprile 2017 Ieri la visita dei consiglieri regionali Pd, Valentina Caputo e Andrea Appiano: "Ancora da risolvere la mancanza della cartella clinica elettronica e la carenza di personale". Il carcere minorile di Torino è "uno dei migliori istituti in Italia", ma "esistono dei problemi che la Regione può contribuire a risolvere". Lo affermano i consiglieri regionali del Pd Valentina Caputo e Andrea Appiano, che oggi (lunedì 13 aprile) hanno visitato il Ferrante Aporti. La struttura ospita 39 ragazzi, di cui 29 maggiorenni e 10 minorenni, con due nuovi arrivi previsti nei prossimi giorni. "Abbiamo trovato una realtà complessa che sta mutando - dichiarano i due Consiglieri regionali dem - : si riducono i minorenni e aumentano i giovani adulti con una prevalenza di provenienza straniera", dicono i consiglieri Pd, che hanno incontrato la direttrice dell’Istituto, Gabriella Picco, visitato tutti i reparti e parlato con alcuni detenuti. "La Regione - continuano - può senz’altro facilitare la creazione della cartella clinica elettronica, in modo da rendere più semplice la condivisione delle informazioni sanitarie; un provvedimento che ridurrebbe i rischi sanitari del detenuto e uno spreco di risorse per i nuovi accertamenti". "La detenzione deve essere anche rieducazione sociale - continuano Caputo e Appiano - le istituzioni dovrebbero incrementare l’impegno per gli inserimenti lavorativi dei giovani detenuti. Purtroppo sulla carenza di personale denunciato dagli operatori non abbiamo competenza diretta, in quanto compete al Ministero della Giustizia e all’amministrazione penitenziaria; la Regione, invece, attraverso l’Asl To1 fornisce le prestazioni sanitarie con un sevizio infermieristico distaccato e uno medico in base alla necessità, con un significativo aumento dei casi psichiatrici". "È una realtà - concludono - che non possiamo ignorare, forse sarebbe ora di impostare in maniera diversa il sistema penitenziario giovanile". L’appello dei ragazzi: "Lasciateci ridipingere un muro per ogni quartiere della città" A dar voce alla richiesta sono i politici della delegazione che oggi ha visitato l’istituto penitenziario minorile di Torino: "Qui la funzione rieducativa è davvero più pregnante rispetto a quella repressiva". Il rapporto dell’associazione Antigone "Ragazzi fuori", racconta di "un sistema penale minorile che, per fortuna, incarcera poco (basti pensare che nel 1940 i detenuti erano 8.521, mentre oggi sono circa 450 detenuti minori in Italia), ha una recidiva minima (meno del 5%) rispetto agli istituti penitenziari per adulti, e dove magistrati, servizi sociali minorili e volontariato lavorano in sinergia". I casi di successo della "messa alla prova" (istituto che sospende il processo e in caso di riuscita cancella il reato) sono superiori all’80%. È emerso oggi (venerdì 3 marzo) durante la visita di Silvja Manzi e Igor Boni, della direzione nazionale dei Radicali italiani, e di Marco Grimaldi, capogruppo di Sel - SI al consiglio regionale, al Ferrante Aporti di Torino. La delegazione, dopo il confronto con la direttrice Gabriella Picco e il nuovo comandante Nino Costa, ha visitato tutti i reparti, ha parlato con i ragazzi dei progetti che già li vedono coinvolti all’esterno del carcere, e con i giovani cioccolatieri, panettieri, grafici e writers che frequentano i laboratori all’interno della struttura detentiva. "Al Ferrante Aporti ci è stato chiaro da subito quanto la funzione rieducativa sia più pregnante di quella repressiva - dice la delegazione -. Anche per questo crediamo opportuno ridiscutere la soppressione del Tribunale per i minorenni e dell’ufficio del pm dei minori previsto nell’ultimo dispositivo del processo civile presentato dal Governo. La soppressione dei tribunali e delle procure per minorenni rischia di dilapidare un patrimonio di competenze che ha reso la giustizia minorile italiana una delle poche eccellenze del sistema penale italiano e un esempio in Europa". "L’istituto torinese, anche se fra i migliori in Italia, ha le sue difficoltà - proseguono i politici Radicali e di Sel - risulta incredibile che, come abbiamo notato in altre situazioni carcerarie, anche a fronte di investimenti ingenti che hanno prodotto il miglioramento di tante aree, la non ristrutturazione del tetto e il mancato finanziamento del lotto 3 rischiano di pregiudicare gli sforzi compiuti in passato. Un ultimo appello alla città di Torino, che da poco ha aggiornato il protocollo di intesa: i ragazzi del laboratorio artistico ci hanno fatto una richiesta e noi vorremmo riportarla. Stanno producendo delle opere di poster-art. Dedichiamo ogni anno un muro dei nostri quartieri alla loro esposizione." Il carcere maschile minorile di Torino oggi ospita 34 ragazzi, di cui 24 maggiorenni e dieci minorenni. Negli ultimi quattro anni, infatti, è stato possibile scontare fino ai 25 anni di età la pena per un reato commesso quando ancora non si aveva compiuto 18 anni nell’istituto minorile, nella fascia dei "giovani adulti". Questa novità ha prodotto anche una diversa gestione degli spazi, per evitare fenomeni di bullismo. Sono diminuiti i reati di spaccio e aumentati in proporzione i reati contro il patrimonio (soprattutto furti). "In aumento i detenuti stranieri, che sono 21 su 34, e i procedimenti in arrivo dal Beccaria di Milano e dal Marassi di Genova, soprattutto per sovraffollamento. I casi provenienti dal capoluogo torinese sono solo 8", si legge nel rapporto. "Colpevoli. Vita dietro (e oltre) le sbarre" recensione di Simone Clara foggiareporter.it, 11 aprile 2017 Una raccolta di storie di detenuti dentro e fuori dal carcere. Prefazione di don Luigi Ciotti. Mercoledì 19 aprile 2017, alle ore 18:30 nella sala "Rosa del Vento" della Fondazione Banca del Monte, in via Arpi 152 a Foggia, si terrà la presentazione del libro "Colpevoli. Vita dietro (e oltre) le sbarre" di Annalisa Graziano (Edizioni La Meridiana). Alla presentazione prenderanno parte l’autrice, il presidente della Fondazione Banca del Monte di Foggia, Saverio Russo, il presidente del Csv Foggia, Pasquale Marchese, il direttore del carcere di Foggia, Giuseppe Altomare, il vicepresidente nazionale di Libera, Daniela Marcone e la direttrice delle edizioni La Meridiana, Elvira Zaccagnino. L’incontro sarà moderato da Roberto Lavanna, sociologo e direttore del Csv Foggia. Come ha spiegato la giornalista Annalisa Graziano, questo lavoro "nasce da una lunga chiacchierata con il direttore della Casa Circondariale di Foggia, Mariella Affatato. Dopo l’esperienza della mostra e del volume fotografico "L’altra possibilità. Reportage dal mondo penitenziario", realizzati a quattro mani con Giovanni Rinaldi, ho pensato di raccontare la vita e le vite dentro. ‘Colpevoli’ è un viaggio nelle sezioni dell’Istituto Penitenziario foggiano, tra le celle, le aule scolastiche, i passeggi, nella cucina e in tutti i luoghi accessibili. È, soprattutto, la rivelazione delle storie che ci sono dietro i nomi e le foto segnaletiche cui ci hanno abituati la cronaca nera e giudiziaria. Non solo rapinatori, omicidi, ladri e spacciatori, ma anche uomini, padri, figli e mariti con storie che nessuno aveva ancora raccolto. ‘Colpevoli’ alcuni detenuti si sentono fino in fondo, altri in parte. Ma tutti si sono messi in discussione, raccontandosi e hanno ‘scritto’ alcune pagine insieme a me". La prefazione del volume, realizzato con il sostegno della Fondazione Banca del Monte e in collaborazione con il Csv Foggia, porta la firma di don Luigi Ciotti. "Queste pagine - scrive il Presidente di Libera - ci aiutano a ricordare che il carcere non è una terra marginale o un mondo a parte, ma un’eventualità nella storia delle persone. Scaturita certo da scelte sbagliate, di cui è giusto rendere conto, ma anche da opportunità negate, dall’assenza di alternative". La postfazione è stata affidata a Daniela Marcone, vicepresidente di Libera e figlia di Francesco Marcone, vittima innocente di mafia. "Abbiamo chiesto a Daniela un contributo per raccontare anche l’altro punto di vista, quello della vittima - spiega Graziano - tema che ho cercato di affrontare, non senza difficoltà, anche con i detenuti che ho intervistato". "Negli ultimi anni - il commento del Presidente della Fondazione Banca del Monte, Saverio Russo - abbiamo sostenuto l’attivazione delle misure alternative al carcere, abbiamo tentato di alleviare il dramma delle famiglie dei detenuti, di fare in modo che la detenzione non sia solo segregazione vuota ed alienante o, peggio, scuola del crimine, ma sia ripensata per ricostruire legami positivi con il mondo esterno. Abbiamo finanziato nel 2016 una mostra e un testo, intitolati "L’altra possibilità’" e oggi il nuovo volume, scritto da Annalisa Graziano, propone una riflessione che potrà sensibilizzare sul tema e contribuire a rendere più solido il progetto di recupero e rieducazione". "Colpevoli" si compone di due parti: la prima dedicata al mondo carcere, la seconda all’esecuzione penale esterna, attraverso il racconto delle realtà del Terzo Settore segnalate da Uepe, l’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna. Annalisa Graziano ha rinunciato ai diritti d’autore. I proventi sosterranno attività nel carcere di Foggia. "Colpevoli di omicidio. La vita in un carcere di massima sicurezza", di Danner Darcleight recensione di Mauro Trotta Il Manifesto, 11 aprile 2017 "Colpevoli di omicidio" di Danner Darcleight, per Marsilio. La storia di un detenuto che ha compiuto crimini orrendi e che cerca una possibile esistenza umana Una scritta graffiata sulla parete della cella: "indurirsi senza perdere la propria tenerezza". Così inizia un bellissimo libro di Alberto Magnaghi, intitolato "Un’idea di libertà" e dedicato alla propria esperienza in carcere a seguito della famigerata inchiesta nota come 7 aprile che nel 1979 si abbatté su tanti esponenti dell’area dell’autonomia. Questa frase sembra in qualche maniera attanagliarsi a un’altra narrazione, anch’essa caratterizzata dalla detenzione, nonostante le differenze che caratterizzano sia l’io narrante sia i luoghi dove si svolge la storia. Si tratta di "Colpevoli di omicidio. La vita dentro un carcere di massima sicurezza", di Danner Darcleight (Marsilio, pp. 373, euro 18), dove l’autore, condannato da 25 anni all’ergastolo, racconta con partecipazione intensa ma senza alcun patetismo la propria vita all’interno delle prigioni statunitensi. Darcleight è quanto di più lontano si possa immaginare rispetto a Magnaghi, non ha una chiara coscienza politica, ha commesso un orrendo crimine - che sarà svelato nel corso della narrazione - da diciassette anni vive in prigione, è un ex-tossicodipendente. Eppure quello che più colpisce leggendo il libro è proprio l’emergere in carcere di una sorta di tenerezza interiore, quasi un percorso di costruzione di una nuova (o forse dimenticata, rimossa…) identità e, parallelamente, la costruzione, necessaria, di una dura corazza esteriore che permetta di vivere all’interno di un luogo di detenzione, caratterizzato comunque da durezze e asperità. Così, si assiste da una parte a una profonda riflessione e risistemazione delle esperienze passate del protagonista, dall’altra alle strategie messe in atto per tentare di superare ostacoli, difficoltà, pericoli propri della vita carceraria. Danner Darcleight racconta di amore e di vera amicizia, della scoperta della letteratura innanzi tutto come bisogno, esigenza di doversi esprimere e poi come, proprio per questo, come strumento di autoconoscenza e di sopravvivenza. Narra di malattia e di pietà, di ansia e angoscia. E nello stesso tempo fa conoscere al lettore la vita quotidiana nel carcere, l’isolamento, le ore d’aria, i trasferimenti, le gerarchie, le prepotenze piccole e grandi. E i fastidi. Quelle piccole cose, a prima vista trascurabili, che però possono rendere la vita "dentro" insopportabile. Come il rumore, quel suono composto da chiacchiericci inutili, urla, strepiti e qualunque altro frastuono, assordante, intollerabile, continuo che davvero può portare un uomo sull’orlo della follia. Testo che offre, tra l’altro, una galleria di personaggi indimenticabili, Colpevoli di omicidio ha anche il merito di riuscire a demistificare tutta una serie di luoghi comuni sul carcere, riuscendo a far emergere le persone che lo abitano o gli sono in qualche modo collegati in tutta la loro umanità, con i loro aspetti positivi e negativi, rifuggendo dagli stereotipi o da qualsiasi forma di buonismo, ma riuscendo proprio per questo a coinvolgere anche emotivamente il lettore. Mattarella accoglie ricorso dall’ass. Avvocato di strada: non si multa chi chiede l’elemosina Redattore Sociale, 11 aprile 2017 Il Capo dello Stato accoglie il ricorso presentato dall’associazione Avvocato di strada e cancella l’ordinanza anti-accattonaggio del sindaco di Molinella (Bologna). Stabilito che non si può colpire con provvedimenti punitivi chi si limita a chiedere l’elemosina senza infastidire. Contestato anche lo strumento dell’ordinanza urgente Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, "cancella" l’ordinanza anti-accattonaggio firmata dal sindaco di Molinella (Bologna), Dario Mantovani. Il Capo dello Stato ha accolto, infatti, il ricorso straordinario proposto dall’associazione Avvocato di strada contro il dispositivo emanato nel piccolo comune della provincia di Bologna (circa 15 mila abitanti), che prevedeva una multa e il sequestro dei mezzi utilizzati e che voleva colpire "anche chi, in silenzio e senza disturbare nessuno", sostiene l’associazione, chiedeva aiuto solo per alleviare la propria condizione di povertà. "Un conto è importunare la gente con comportamenti insistenti o violenti: per casi come questi - sottolinea Fabio Iannacone, volontario di Avvocato di strada e firmatario del ricorso - la legge italiana prevede già delle sanzioni. Ma perché multare anche chi semplicemente chiede l’elemosina seduto in silenzio e magari con gli occhi bassi per pudore? Lo vogliamo punire perché è povero? L’ordinanza ci sembrava un modo per accanirsi contro persone deboli e indifese". In particolare, si legge nella decisione notificata ieri, il Presidente della Repubblica, recependo il parere del Consiglio di Stato, ha ritenuto che il sindaco non può in nessun caso colpire con provvedimenti punitivi chi si limita a chiedere l’elemosina senza molestare o infastidire nessuno. Non solo. Il sindaco non può utilizzare lo strumento dell’ordinanza contingibile ed urgente, concesso per contrastare situazioni di emergenza, per altri scopi. Infine, "non è poi possibile emanare tali ordinanze senza prevedere un termine di efficacia, proprio perché devono riguardare solo emergenze temporanee". Del resto, ricorda Antonio Mumolo, presidente dell’associazione Avvocato di strada Onlus, "chi chiede l’elemosina generalmente lo fa perché non ha nessun’altra possibilità. Se gli si fa una multa non li si toglie dalla strada, semplicemente si aggrava ancora di più la loro situazione. Con il ricorso abbiamo chiesto al Presidente della Repubblica di annullare l’ordinanza e con nostra grande soddisfazione il Capo dello Stato ha accolto le nostre ragioni: l’ordinanza è stata ritenuta illegittima e quindi è stata annullata". Una decisione per cui gli avvocati di strada ringraziano Mattarella e che, conclude Mumolo, "ripristina la legalità e pone un freno a certi comportamenti illegittimi di alcuni sindaci. La lotta si deve fare alla povertà, non ai poveri". Le armi nucleari sembrano sparite ma sono tra di noi di Valerio Sofia Il Dubbio, 11 aprile 2017 Nel mondo 15mila testate atomiche pronte all’uso. Sono nove le nazioni al mondo a esserne dotate, con Russia e Stati Uniti che contano da sole per il 93% del totale. Oltre a Pyongyang, inquietano gli arsenali Pakistan. Con la possibile crisi tra Usa e Nordcorea il fungo nucleare torna ad allungare la sua ombra sul mondo. Il Bulletin of the Atomic Scientists (determinato da un consiglio di eminenti esperti di sicurezza globale e scientifici, tra cui 15 premi Nobel) ha spostato in avanti di 30 secondi le lancette del suo simbolico Orologio dell’Apocalisse, il che suggerisce che l’umanità si trovi a 2 minuti e 30 secondi dalla catastrofe nucleare. Un’epoca di rinnovata instabilità geopolitica non può non fare i conti con la diffusione delle armi nucleari, che dopo la Guerra fredda hanno smesso di essere le protagoniste dei nostri incubi quotidiani ma hanno continuato a essere presenti e pronte all’uso. E soprattutto si sono espanse in nuovi Paesi che certo non offrono le stesse garanzie di controllo di quelle che hanno garantito per decenni gli apparati di Stati Uniti e Unione Sovietica. Ci sono meno armi nucleari di prima, nel complesso, ma sempre più che sufficienti a distruggere più e più volte il pianeta. Inutile negare quindi che il timore principale per un incidente che possa degenerare in olocausto riguarda soprattutto la Corea del Nord, e in Medio Oriente investe la tensione fra Iran e Israele. Ma certo la retorica bellicosa della Russia di Putin non lascia più tranquilli, come l’espansione militare cinese. Ma a tutto questo va aggiunto anche l’impegno del nuovo presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che ha subito parlato di rinnovare l’arsenale nucleare statunitense per mantenere il primato strategico: sarebbe bello un mondo senza armi nucleari, ha detto Trump, ma siccome gli altri ce l’hanno noi dobbiamo rimanere davanti a tutti. Bella differenza rispetto all’opzione zero sulle bombe atomiche predicata dal suo predecessore Barack Obama. In questo contesto Trump considera superati anche alcuni vecchi accordi sulle testate nucleari. Solo nel 2010 a Praga i presidenti americano Obama e russo Medvedev firmarono il trattato New Start che sostituisce tutti gli accordi precedenti: Start I (scaduto nel dicembre del 2009), Start II e Sort. Lo Start 1 fu firmato il 31 luglio 1991 dall’allora presidente dell’Unione Sovietica Mikhail Gorbaciov e dal presidente Usa George Bush padre. Start 1 prevedeva la riduzione degli arsenali nucleari della metà, portandoli a 6.000 testate per potenza. Un bel passo avanti rispetto alle 30 mila armi nucleari degli Usa nel 1965 o alle oltre 40 mila sovietiche del 1985 (allora come ora occorre distinguere tra testate strategiche, testate non strategiche, riserve, e armi in via di smantellamento). Nel 1993 (era Clinton) arrivò Start- 2, che portava a 3.500 le testate ma mai ratificato. Furono Bush figlio e Putin nel 2002 a raggiungere un nuovo accordo per ridurre le armi nucleari a 1.700/ 2.200 a testa, ma la Russia poi non ha più ratificato il trattato, fino a che è arrivato New Start, sulla base di una riduzione delle testate entro una forbice di 1.500- 1.675 e dei vettori tra 500 e 1.100. Per l’effettiva valenza dell’accordo bisogna comunque tener presente due fattori di segno opposto. Da un lato, quante delle testate da smantellare siano in realtà armi desuete non più funzionali in un mondo dagli equilibri tanto diversi da quelli dell’epoca della Guerra fredda. Dall’altra quanto invece le nuove tecnologie consentano di cambiare le carte in tavola, con meno armi ma più potenti e sofisticate, e allo stesso con meccanismi (il più semplice è quello delle muli- testate) che rendono più difficile un conto effettivo. Inoltre secondo il New York Times la Russia ha in segreto schierato un nuovo modello di missile da crociera (denominato SSC-8, sembra già testato nel 2014, in grado di modificare autonomamente la traiettoria e volare rasente il terreno per evitare di essere tracciato dai radar) esplicitamente vietati dall’accordo con gli Usa del 1987, che ha contribuito a porre a fine alla Guerra Fredda: il Trattato Inf (Intermediate Range Nuclear Forces Treaty firmato da Ronald Reagan e Mikhail Gorbaciov) che proibisce l’installazione di nuovi missili balistici o da crociera con una gittata tra 555 e 6.475 chilometri di gittata. Sull’altro fronte, la Cina avrebbe per la prima volta dispiegato missili intercontinentali nel suo territorio più nord- occidentale, cioè quello più vicino agli Stati Uniti. Trump dal canto suo ha sempre considerato la proliferazione nucleare come una minaccia mortale alla supremazia statunitense, e ha apertamente condannato (al pari di Israele) ogni accordo per il nucleare civile con l’Iran. D’altro canto sono ancora circa 15mila le testate nucleari negli arsenali delle nove nazioni al mondo a esserne dotate, con Russia e Stati Uniti che contano da soli per il 93% del totale. Di queste, più di 10 mila si trovano nelle scorte militari (le altre sono in attesa di smantellamento), 4.200 delle quali schierate con le forze operative. Di queste 4.200, ben 1.800 sono pronte a essere lanciate con un breve preavviso. In termini numerici gli accordi tra Usa e Russia sono importantissimi e determinanti, ma in termini politici non hanno quel valore di "firma a nome di tutti" che un tempo credevano di avere. Ricordiamo infatti che di potenze nucleari ce ne sono già adesso diverse: Gran Bretagna (215 testate), Francia (300), Cina (260), India (120), Pakistan (140). Più le 80 mai confermate e mai smentite di Israele e le 10 presunte della Corea del Nord. Sono soprattutto le atomiche asiatiche quelle su cui occorre riflettere. Le atomiche nordcoreane sono imprevedibili e non passa giorno che dal Paese eremita non arrivi una provocazione. Per quanto riguarda la Cina, Pechino è la realtà che più di tutti in questi ultimissimi anni ha incrementato le sue spese militari e i suoi investimenti nella Difesa, con una previsione di parità strategica con gli Usa nel 2025, e già adesso almeno 20 missili intercontinentali capaci di portare testate atomiche a 8.500 chilometri di distanza. Inoltre la Cina sta incrementando altri settori militari, come aviazione e flotta, compresi i sommergibili. India e Pakistan rappresentano altre realtà nucleari sempre al centro di preoccupazioni. Il Pakistan preoccupa poi per la sua instabilità. A chi possono finire in mano quelle testate che da subito hanno fatto gola ai jihadisti? Di Israele solo un accenno: il suo presunto arsenale nucleare gli ha finora consolidato la superiorità strategica nell’area, di fatto assicurandogli la sopravvivenza, senza che si sia mai manifestata l’intenzione di distruggere qualche Paese vicino. Ma la possibile atomica iraniana porta con sé una serie di trasformazioni di tutto il contesto geostrategico, e cambia quindi anche il ruolo delle bombe israeliane, inserite non più in riserva, ma in un contesto ad alto rischio. Inoltre bisogna tener presente che non è solo Trump a voler rimodernare l’arsenale atomico, bensì tutti i Paesi in possesso di armi nucleari, che diventano forse meno numerose, ma sempre più. Pena di morte, la Cina trucca i numeri. In calo le esecuzioni in Iran, Pakistan e Usa di Riccardo Noury Corriere della Sera, 11 aprile 2017 In occasione del lancio del suo rapporto sulla pena di morte nel 2016, Amnesty International ha accusato la Cina, il paese che si presume metta a morte migliaia di prigionieri ogni anno, di fare di tutto per tenere segreto il numero effettivo delle esecuzioni. Negli anni passati, le autorità di Pechino hanno più volte proclamato di aver fatto passi avanti verso la trasparenza. Le ricerche di Amnesty International sulla Cina hanno messo in luce che centinaia di casi documentati di pena di morte non sono presenti nel tanto pubblicizzato registro giudiziario online, regolarmente citato come prova che il sistema giudiziario cinese non ha nulla da nascondere. Ad esempio, delle 931 esecuzioni di cui hanno parlato fonti pubbliche cinesi tra il 2014 e il 2016, nel registro ne sono riportate solo 85. Se questa è la proporzione, a malapena un’esecuzione riportata su 10 avvenute, il problema si presenta enorme. Il registro, inoltre, non contiene i nomi dei cittadini stranieri condannati a morte per reati di droga, sebbene i mezzi d’informazione locali abbiano dato notizia di almeno 11 esecuzioni del genere. Sono assenti anche numerosi casi relativi a reati di terrorismo. Se dunque la Cina deve essere considerata tra i paesi in cui sono state eseguite condanne a morte ma non sappiamo quante, nel 2016 Amnesty International ha registrato 1.032 esecuzioni in 23 paesi, 37 per cento di meno rispetto alle 1.634 del 2015 in 25 paesi. La marcata diminuzione delle esecuzioni note è dovuta principalmente al minor numero registrato in Iran (almeno 567 contro le almeno 977 del 2015, ossia il 42 per cento in meno) e in Pakistan (87 contro le 326 del 2016, ossia il 73 per cento in meno). Per la prima volta dal 2006, gli Usa non sono nella lista dei primi cinque paesi al mondo per numero di esecuzioni (oltre alla Cina, all’Iran e al Pakistan già menzionati, ne fanno parte Arabia Saudita e Iraq). Il numero di esecuzioni nel 2016, 20, è il più basso dal 1991 ed è inferiore della metà rispetto al 1996 e di cinque volte rispetto al 1999. Con l’eccezione del 2012, quando è rimasto uguale, il numero delle esecuzioni continua a diminuire di anno in anno dal 2009. Il numero delle nuove condanne a morte, 32, è stato il più basso dal 1973: un chiaro segnale che i giudici, i procuratori e le giurie stanno cambiando idea sulla pena di morte come strumento di giustizia. Tuttavia, alla fine del 2016, nei bracci della morte si trovavano ancora 2832 detenuti in attesa dell’esecuzione. Se da un lato il dibattito sulla pena di morte sta chiaramente cambiando direzione, la diminuzione delle esecuzioni si deve anche alle dispute legali sui protocolli d’esecuzione e ai ricorsi sull’origine delle sostanze usate nell’iniezione letale. L’esito di questi ricorsi potrebbe però produrre un nuovo picco di esecuzioni, a partire dall’Arkansas nel mese di aprile, con una serie di esecuzioni previste in 10 giorni. Per quanto riguarda il numero complessivo dei paesi abolizionisti, lo scorso anno è salito a 142. Due paesi, Benin e Nauru, hanno abolito la pena di morte per tutti i reati, mentre la Guinea l’ha abolita solo per i reati ordinari. Le ipocrisie europee su Trump e la Siria di Paolo Mieli Corriere della Sera, 11 aprile 2017 I dirigenti dell’Ue hanno reagito all’iniziativa della Casa Bianca senza sentirsi in obbligo di chiarire quale debba essere la risposta all’uso di bombe chimiche. Che posizione ha l’Europa in merito alla guerra contro il califfato islamico? E su Assad? A voler essere meno generici, che posizione hanno su questi temi, uno per uno, i singoli Paesi europei? Per carità, conosciamo le chiacchiere sulla necessità di tavoli negoziali e di corridoi umanitari. Ma qualcuno ha messo nel conto momenti specifici in cui si considera giustificato il ricorso alle armi? E, per venire al caso di questi giorni, se unanimemente abbiamo definito disgustoso l’uso (comprovato) di armi chimiche da parte del dittatore siriano e qualcuno di noi rimprovera ancora adesso ad Obama di non aver tratto le dovute conseguenze dalla violazione della "linea rossa" nell’estate del 2013, se è vero tutto questo, che senso ha rinfacciare ora al presidente Trump il lancio di quei cinquantanove missili sulla base aerea siriana di Shayrat da cui avevano preso il volo gli aerei carichi, appunto, di quel tipo particolare di bombe destinate alla periferia di Idlib? Chiariamo subito: queste domande non sono rivolte a Nigel Farage, Beppe Grillo, Marine Le Pen, Matteo Salvini che una scelta di campo l’hanno fatta da tempo schierandosi dalla parte di Putin. E non sono rivolte nemmeno a quei compagni di strada del despota di Damasco impegnati a mettere in dubbio che ordigni chimici siano stati effettivamente sganciati sul piccolo centro della Siria in mano ai qaedisti. A modo loro i putiniani-salvinian-grillini sanno essere coerenti. Anche se da alcune smorfie si comprende che avrebbero volentieri evitato di trovarsi all’improvviso in contrasto con il nuovo presidente degli Stati Uniti. No, le domande sono rivolte a noi stessi, o comunque a coloro che non militano nel fronte antisistema che ha efficacemente descritto ieri su queste colonne Angelo Panebianco. Bensì in quello opposto. A Jean-Claude Juncker e Federica Mogherini - per esempio - che hanno reagito all’iniziativa trumpiana con un balbettio e senza sentirsi in obbligo di rendere esplicita quale debba essere la risposta europea (o anche, ripetiamo, di qualche singolo Paese d’Europa) al lancio di bombe chimiche da parte di uno dei soggetti in combattimento. In particolare se quell’uno è Assad che proprio nel 2013 aveva preso l’impegno di distruggere l’intero arsenale di un tal genere di armi. "Dobbiamo evitare ogni ulteriore attacco", ha sentenziato il presidente della Commissione Ue. Anche se poi, bontà sua, si è sentito in dovere di fare dei distinguo tra attacchi militari e ordigni chimici sui civili. Giriamo le domande di cui all’inizio all’ex presidente del Consiglio Enrico Letta il quale si è così pronunciato: "Non dobbiamo pensare che Trump ci abbia levato le castagne dal fuoco con il suo attacco alla Siria, al contrario ce le ha messe... La verità è che Trump se n’è infischiato dell’Europa con un pericoloso unilateralismo... Non penso che si possa provare sollievo per un’azione così unilaterale". E quale avrebbe dovuto essere la risposta non unilaterale? A quel che sappiamo l’unica contromisura presa da Bruxelles è stata quella di vietare l’ingresso al Parlamento europeo al vice ministro degli esteri di Damasco, Ayman Soussan. Efficace certo, ma non tale da creare preoccupazioni ad Assad. Le rivolgiamo, quelle stesse domande, al generale Franco Angioni, già comandante del contingente italiano in Libano, il quale ha definito quella di Trump "un’azione particolarmente imprudente, un comportamento rabbioso non degno del capo del più grande e importante Paese occidentale". E cosa avrebbe dovuto fare Trump? "Meglio sarebbe stato - ha risposto il generale Angioni - se il presidente degli Stati Uniti avesse assunto la guida dei Paesi moderati e profondi fautori della pace mondiale". Ah, ecco! E le giriamo anche al generale Vincenzo Camporini, ex Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica e della Difesa, che ha dichiarato di non riuscire a vedere "nessuna finalità politica all’attacco contro la base aerea siriana". Attacco che gli è parso, ha aggiunto, "soltanto un gesto punitivo". Soltanto! Qui non si capiscono molte cose. Punto primo: come pensiamo sia possibile sconfiggere Daesh? E cosa intendiamo quando ci diciamo impegnati nella guerra all’Isis? Ad ogni evidenza dovrebbe voler dire che - a meno di mandar lì dei soldati - ai "nostri" aerei toccherà bombardare alcuni centri nevralgici finiti nelle "loro" mani. Cercando di colpire obiettivi militari e di risparmiare, tutte le volte che è possibile, i civili. Ma sapendo, a non essere ipocriti, che alla fine tra le vittime, purtroppo, si conteranno molti non combattenti e altrettanti bambini. Se poi qualcuno che in questa specifica guerra si batte dalla "nostra" parte della barricata - è il caso di Assad - disattende provocatoriamente quest’ultima consegna, dovremmo impegnarci a punirlo nei modi più ostentati, ad evitare di doverci un giorno (ma già fin d’ora) considerare corresponsabili dei suoi crimini. Ed è quello che ha fatto Trump, con un’operazione chirurgica, mirata, che, per giunta, ha causato meno di dieci vittime. E se Trump fa una cosa giusta, come dovremmo reagire? Minimizzando, abbandonandoci a battute di spirito nell’attesa che ne faccia presto una sbagliata così da poter alzare la voce per rimetterci in pace con la nostra coscienza critica? No. A noi sembra più coraggioso quel che hanno fatto negli Stati Uniti alcuni leader repubblicani (John McCain, Lindsay Graham, Marco Rubio), gente che fino a poche ore prima a Trump non ne aveva perdonata una. Così come il capo dei senatori democratici Chuck Schumer e l’ex massimo responsabile della Cia obamiana Leon Panetta. Perfino il guru progressista del New York Times, Nicholas Kristof. Tutte persone che Trump lo hanno combattuto e combatteranno senza tentennamenti. Ma che per un giorno si sono fermate e gli hanno pubblicamente riconosciuto di essere dalla parte della ragione. Lo ha fatto addirittura Hillary Clinton. Andiamo tutti insieme a scuola da loro. Avremo chiaro che questa "guerra mondiale", anche a costo di violentare precedenti convinzioni, dovremmo seguirla senza partito preso, riconoscendo che talvolta può capitare a Putin di fare una scelta efficace e persuasiva, così come talvolta è capitato e capiterà a Trump. E un giorno, forse, capiterà all’Europa, fino ad oggi specialista nel versare ettolitri di lacrime su questo o quel misfatto e nel definire "inaccettabili" le non poche imprese criminali compiute da qualcuno dei contendenti, senza poi sentirsi in dovere di trarre le conseguenze da quella mancata accettazione. Mai, neanche una volta. L’Arkansas giustizierà 7 condannati a morte in 11 giorni per non far scadere un sedativo tpi.it, 11 aprile 2017 Nessuno negli Stati Uniti ha eseguito così tante condanne in poco tempo. Il prodotto usato per sedare i detenuti non sarà più utilizzabile finito il mese di aprile. Le esecuzioni dovrebbero iniziare il 17 aprile, ma gli avvocati dei condannati presenteranno ricorso chiedendo uno stop permanente. Sette condannati a morte da giustiziare in 11 giorni. Un record, anche per gli Stati Uniti, che appartiene allo stato dell’Arkansas. Le esecuzioni dovrebbero iniziare il 17 aprile. E la fretta è data dalla scadenza del prodotto, il midazolam, che verrà utilizzato per sedare i condannati e che lo stato vuole quindi consumare entro la fine di aprile. Gli avvocati che rappresentano sette dei condannati a morte continuano una battaglia per provare a fermare le condanne. Se il team legale dovesse fallire nel suo obiettivo, i primi due condannati a essere giustiziati saranno Don Davis e Bruce Ward. Tre giorni dopo toccherà a Stacey Johnson e Ledell Lee, seguiti il 24 aprile da Marcel Williams e Jack Jones. Kenneth Williams sarà l’ultimo, il 27 aprile. L’esecuzione di un ottavo condannato è stata bloccata da un giudice perché la commissione per la libertà condizionale ha chiesto la clemenza e ha 30 giorni per notificare la richiesta al governatore. Periodo in cui non può essere eseguita la condanna a morte. Lunedì 10 aprile gli avvocati dei setti uomini presenteranno un ricorso collettivo a un giudice federale nel distretto est dell’Arkansas nel quale chiedono un blocco permanente delle esecuzioni previste definite come una "catena di montaggio". Il governatore repubblicano dell’Arkansas, Asa Hutchinson, ha spiegato che è necessario giustiziare in tempi brevi tutti i detenuti per impiegare una partita del sedativo midazolam che scade alla fine di aprile. Il midazolam è il primo dei farmaci che i condannati dovranno assumere per l’esecuzione. Nessuno stato ha eseguito così tante condanne in un periodo tanto ristretto di tempo nell’era moderna della pena di morte all’interno degli Stati Uniti, ovvero dagli anni Settanta. Lo stato dell’Arkansas non ha svolto alcuna esecuzione per 12 anni e l’ultima volta che ha eseguito una doppia condanna è stato nel settembre del 1999. Egitto. Stato di emergenza per 3 mesi, Israele blocca la frontiera di Umberto De Giovannangeli L’Unità, 11 aprile 2017 Il sangue della "domenica delle Palme" porta con sé le prime conseguenze. Israele ha chiuso con effetto immediato il valico di confine di Taba con l’Egitto per tema di possibili attacchi contro israeliani dopo gli attentati dell’altro ieri che hanno colpito due chiese copte al Cairo e ad Alessandria provocando 47 morti e oltre 100 feriti. Gli israeliani non potranno così passare la frontiera- e sono stati invitati a rientrare immediatamente in patria qualora si trovassero nella penisola del Sinai. La chiusura della frontiera - la prima da tempo - non riguarda i cittadini di altri Stati ma solo gli israeliani. La decisione - è stato spiegato - è stata presa alla luce di "informazioni concrete" su un attacco programmato contro cittadini israeliani nella area del Sinai. Il valico di frontiera di Taba si trova a poca distanza di Eilat, nel sud del Paese, che è la porta per la Penisola del Sinai. La scelta di impedire il passaggio ai cittadini dello stato ebraico è stata presa dal ministro dei trasporti Yisrael Katz, insieme a quello della difesa Avigdor Lieberman e a esponenti dell’apparato di sicurezza. Katz, oltre ai trasporti, ha anche il portafoglio dell’Intelligence e dell’energia atomica. Taba per gli israeliani resterà chiusa fino al 18 aprile, fine di Pasqua ebraica, periodo tradizionale di viaggi all’estero. Negli stessi momenti dell’annuncio, un razzo lanciato dal Sinai ha colpito un’area nel sud di Israele. Lo ha detto il portavoce militare secondo cui al momento non ci sono vittime. Poco prima nelle comunità del sud, attorno a Gaza, non lontano dal Sinai, sono risuonate le sirene di allarme antimissili. Mentre Israele chiude le frontiere, Il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi dichiara lo Stato di emergenza. L’Isis ha rivendicato gli attacchi, messi a segno da due cittadini egiziani. Ha minacciato altri attentati contro "i miscredenti che pagheranno con il sangue dei loro figli, che scorrerà a fiumi". Un problema enorme per il presidente al Sisi, che vede ancora una volta rimessa in discussione dai fatti quella sicurezza che aveva ripetutamente garantito agli egiziani al prezzo, alto, di una militarizzazione del Paese. L’altro ieri contro i vertici del Cairo è esplosa l’ira della gente che a Tanta ancora affollava l’area antistante la chiesa di San Giorgio, la prima a essere colpita: "Il governo non ci protegge", hanno urlato di fronte all’imponente barriera di forze di sicurezza arrivate troppo tardi, sebbene fossero riuscite a disinnescare due ordigni esplosivi nella moschea Sidi Abdel Rahim di Tanta. Il presidente-generale ha ordinato il dispiegamento di unità speciali dell’esercito per garantire la sicurezza nei luoghi più sensibili dell’Egitto; e ha dichiarato 3 mesi di stato di emergenza: comporta la sospensione del diritto alle manifestazioni di ogni genere e le adunate di oltre cinque persone, consente fermi per un periodo indeterminato, estende i poteri delle forze di polizia, permette procedimenti giudiziari per civili a opera di tribunali militari. 1128 e 29 aprile è prevista la visita del Papa in Egitto. La presenza di Francesco può rafforzare la svolta di Ahmed Muhammad Ahmed el-Tayeb, il grande Imam di al-Azhar, il cosiddetto "Vaticano sunnita", che dopo 10 anni di chiusura seguita alla controversa lectio magistralis di Benedetto XVI a Ratisbona ha imboccato con coraggio la strada del dialogo interreligioso. Il Grande Imam che accoglierà Francesco ha condannato duramente e immediatamente i due attentati domenica parlando di "atti deprecabili e privi di ogni umanità" e al tempo stesso ha espresso la sua vicinanza ai fedeli e alla chiesa copta dell’Egitto. Il consigliere per il protocollo del Grande Imam di Al-Azhar, l’ambasciatore Kadri Abdelmottaleb, ha affermato che "non vi sarà alcun problema per la sicurezza" di papa Francesco durante la sua visita al Cairo del 28e 29 aprile prossimi. "Posso assicurare che non vi sarà alcun problema per la sicurezza. Il Papa sarà grandemente benvenuto nel paese. Sarà del tutto sicuro", ha detto il consigliere del grande Imani Ahmed Al Tayyib. La sfida al terrorismo - Resta la sfida del terrore; una guerra che non conosce confini né soluzione di continuità. "Gli ultimi sono stati sette giorni terribili: San Pietroburgo, Stoccolma, Egitto. Una forza cieca e irrazionale si muove contro i principi fondamentali dell’umanità", rimarca il ministro dell’Interno Marco Minniti. Il titolare del Viminale sottolinea che "ad ogni attentato c’è un passo avanti verso la riduzione dell’organizzazione, la nuova minaccia terroristica è a prevedibilità zero". "Quando si arriva - osserva Minniti in riferimento all’attentato di Stoccolma - a rubare un camion e pochi minuti dopo ci si scaglia contro un centro commerciale, si capisce che la nuova minaccia è a prevedibilità zero. Non abbiamo mai affrontato una minaccia con queste caratteristiche: le forze di polizia devono prevedere l’imprevedibile, è una sfida al limite". Egitto. Le leggi speciali di al Sisi fermeranno gli oppositori non i terroristi di Michele Giorgio Il Manifesto, 11 aprile 2017 Lo spiega Gamal Eid, storico attivista dei diritti umani, commentando lo stato d’emergenza proclamato domenica sera dal presidente al Sisi dopo gli attentati nelle chiese di Tanta e Alessandria. Intanto la comunità copta ha paura e si sente senza protezione dagli attacchi dell’Isis. Abu Ishaq al Masri ed Abu al Bar’a al Masri. Sono i nomi di battaglia dei due jihadisti-kamikaze responsabili delle stragi di 44 egiziani copti, domenica scorsa in due chiese, a Tanta e ad Alessandria. Avevano combattuto in Siria nel nome del califfo dello Stato islamico, al Baghdadi. La televisione al Arabiya, facendone l’identikit, li ha descritti come istruiti e non più giovani. Abu Ishaq, autore dell’attacco nei pressi della chiesa di San Marco ad Alessandria d’Egitto, era originario di Manyat al Kamh, una cittadina a nord del Cairo dove si era laureato in economia e commercio. L’altro kamikaze, Abu al Bar’a, responsabile della strage nella chiesa di Mar Girgis a Tanta veniva dal villaggio di Abu Tabl, sempre nel nord dell’Egitto, ed era diplomato in artigianato, sposato e padre di 3 figli. Entrambi non hanno esitato ad uccidere 44 connazionali solo perché cristiani. Gli ultimi massacri hanno segnato profondamente la minoranza copta, già bersaglio di un grave attentato lo scorso dicembre alla cattedrale di San Marco al Cairo (29 morti). Tanti ieri hanno urlato la loro rabbia durante i preparativi dei funerali delle vittime. "Siamo indifesi, nessuno ci protegge, le autorità non attuano misure di sicurezza serie", protestano amici e parenti di morti e feriti intervistati da giornali e tv locali. La paura sta avendo il sopravvento. Non sembrano offrire un rifugio sicuro neanche il Cairo e le principali città egiziane dove centinaia di famiglie cristiane del Sinai si sono trasferire in questi ultimi mesi sotto la minaccia della branca locale dell’Isis - ex Ansar Beit el Maqdes - che di fatto ha preso il controllo del nord del Sinai nonostante i proclami di "battaglie vinte contro i terroristi" che lancia il generale Mustafa al Razaz, capo del locale comando militare. Il mese scorso gli uomini del Califfato hanno fatto circolare in rete un video di una ventina di minuti che, facendo riferimento all’attentato dello scorso dicembre al Cairo, minaccia tutti i copti: "Voi, crociati d’Egitto, questa operazione che vi ha colpito nel vostro tempio, è solo la prima, dice nel filmato un uomo mascherato, e sarà seguita da altre operazioni, se Dio lo permette. Voi siete il nostro primo obiettivo e la nostra pesca preferita". Tra gennaio e febbraio sono stati uccisi sette copti a el Arish, il capoluogo del Sinai, senza che il governo abbia fatto passi concreti per difendere la comunità cristiana nella penisola. Domenica sera il presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi ha dichiarato lo stato di emergenza per tre mesi, per "proteggere" e "preservare" il Paese. L’annuncio che ha avuto lo scopo anche di segnalare al Vaticano che il regime è in grado di garantire le condizioni di sicurezza necessarie per lo svolgimento della visita in Egitto di papa Francesco, prevista a fine mese. Viaggio che il pontefice ha confermato raccogliendo in Egitto l’approvazione dei massimi rappresentanti religiosi cristiani e musulmani. Subito dopo l’annuncio di al Sisi il ministero della difesa ha dispiegato migliaia di soldati e mezzi blindati a difesa delle "strutture e infrastrutture vitali" e di tutti gli obiettivi sensibili. Le misure eccezionali ampliano ulteriormente i poteri del raìs che potrà far giudicare i civili dalle corti di sicurezza e bloccare i verdetti delle stesse corti, ordinare di monitorare le comunicazioni e la corrispondenza e imporre censure alla stampa e la requisizione di proprietà private. Proprio ieri è stata annunciata la confisca del giornale al Bawaba, che pure sostiene apertamente il regime, perché in un editoriale sugli attentati il direttore aveva accusato di negligenza il ministro dell’interno Magdy Abdel Ghaffar. Il presidente potrà anche ordinare la chiusura di fabbriche e imporre il coprifuoco a tempo indeterminato. Lo stato d’emergenza è stato spiegato da al Sisi come un provvedimento urgente e necessario per combattere il terrorismo ma offre al regime nuove armi per mettere il bavaglio ad oppositori e dissidenti. "È evidente che queste misure non sono fatte per fermare il terrorismo" diceva ieri al manifesto Gamal Eid, storico attivista dei diritti umani e direttore dell’Arabic Network for Human Rights Information che ha difeso numerosi oppositori del regime dell’ex presidente Hosni Mubarak e del regime attuale. "Un terrorista intenzionato a compiere un attentato suicida non potrà essere fermato da queste leggi d’emergenza che, invece, sembrano essere state varate apposta per colpire gli oppositori", ha aggiunto Eid, sottolineando che le violazioni dei diritti umani in Egitto sono "sistematiche" e in aumento. "Questo è il Paese dove un presidente (Mubarak) responsabile di crimini contro la sua gente è stato rimesso in libertà ed in cui un cittadino normale può essere incarcerato per anni solo per aver preso parte a una manifestazione. Il regime attuale è la continuazione di quello di Mubarak", ha sottolineato Eid che poi ha commentato l’andamento sconfortante delle indagini in Egitto sul brutale assassinio di Giulio Regeni attribuito un po’ da tutti ai servizi di sicurezza egiziani. "Purtroppo le cose stanno andando come ci aspettavamo, non avevamo speranza che potessero procedere diversamente", ha detto l’attivista egiziano, che poi ha aggiunto "voglio comunque rassicurare la famiglia di Giulio Regeni che i centri per i diritti umani in Egitto non si arrendono e continuerano a cercare la verità al meglio delle loro possibilità. Siamo sicuro che un giorno, ci auguriamo presto, Giulio Regeni possa avere giustizia". Scioperi della fame in Europa per i detenuti politici in Turchia di Chiara Cruciati Il Manifesto, 11 aprile 2017 Da 55 giorni 187 prigionieri politici turchi e kurdi rifiutano il cibo in 20 carceri contro le condizioni di vita disumane. Da ieri i centri kurdi in tutta Europa hanno iniziato uno sciopero della fame in solidarietà: a Roma l’impegno del Centro Ararat. I prigionieri politici in sciopero della fame in Turchia continuano ad aumentare: dal 15 febbraio quando 13 detenute del carcere femminile di Sakran, a Smirne, hanno iniziato a rifiutare il cibo per protesta, oggi se ne contano 187. Venti le prigioni coinvolte: chiedono la fine delle misure assunte nelle carceri contro i prigionieri politici dopo l’entrata in vigore dello stato di emergenza, parte della repressione governativa post-golpe. Isolamento totale, celle sovraffollate (20 persone per spazi che ne possono contenere 10); divieto ad entrare negli spazi comuni e nelle librerie; torture; visite mediche in manette; limitazioni delle visite dei familiari; obbligo a portarsi addosso l’etichetta "terrorista" e tanto altro. I detenuti in sciopero, turchi e kurdi, chiedono la fine dell’isolamento, la libertà per i prigionieri politici e la rimozione di pratiche degradanti. A sostenere la loro lotta, da ieri, sono decine di comunità kurde in tutta Europa con una campagna per attirare l’attenzione sulle condizioni di vita dietro le sbarre: "Nell’iniziativa sono coinvolti tutti i centri kurdi in Europa: in Italia, Francia, Germania, Belgio, Svizzera - ci spiega Ozlem Tanrikulu, presidentessa dell’Ufficio di Informazione del Kurdistan in Italia - La stessa cosa che fanno le famiglie dei detenuti a Diyarbakir, in sciopero per solidarietà. In Italia la staffetta dello sciopero della fame partirà da cinque amici kurdi del Centro Ararat di Roma". "I 187 detenuti rischiano la vita, non toccano cibo da 55 giorni. Noi andremo avanti con lo sciopero della fame a tempo indeterminato e con sit-in e marce in tutta Europa per divulgare le richieste dei prigionieri". L’obiettivo è accendere i riflettori sulle condizioni disumane nelle prigioni turche, inasprite dopo il tentato golpe e peggiorate dal sovraffollamento: dopo il 15 luglio 2016, decine di migliaia di persone sono state arrestate con l’accusa di legami con il Pkk o l’imam Gülen. Turchia. Fermato il documentarista Gabriele Del Grande al confine con la Siria di Marco Ansaldo La Repubblica, 11 aprile 2017 Durante un controllo della polizia turca nella provincia sudorientale dell’Hatay. Le sue condizioni, stando alle persone che erano con lui, non destano preoccupazioni. Le autorità italiane in Turchia si stanno attivando per un pronto rilascio. Il regista Gabriele Del Grande è stato fermato oggi in Turchia. La notizia viene confermata a Repubblica dalle autorità diplomatiche italiane. Del Grande, 35 anni, giornalista e blogger, risulta da questa mattina in stato di fermo nella provincia sudorientale dell’Hatay, al confine con la Siria. Le sue condizioni, stando alle persone che erano con lui, non destano preoccupazioni. Del Grande è stato fermato nel corso di un controllo da parte della polizia turca. È un documentarista specializzato da anni nel seguire le problematiche legate alla migrazione. Si ignora al momento se intendesse passare in Siria, oppure fare interviste ai profughi, di cui la zona è piena vista la vicinanza del confine. Il regista, che è nato a Lucca, è anche giornalista e blogger. La sua attività principale è difatti legata al blog Fortress Europe, dove da tempo raccoglie, analizza e cataloga tutti gli eventi riguardanti le morti e i naufragi dei migranti africani nel Mediterraneo nel tentativo di raggiungere l’Europa. Sulla guerra in Siria ha realizzato nel 2013 un lungo reportage. L’anno successivo ha invece realizzato un documentario dal titolo "Io sto con la sposa". L’opera racconta la vera storia di cinque profughi palestinesi e siriani che sono sbarcati a Lampedusa. Nel tentativo di raggiungere poi la Svezia mettono in scena un finto matrimonio coinvolgendo un’amica e anche una decina di amici che si fingeranno invitati. Mascherati in questo modo attraversano in corteo l’Europa in cinque giorni, riuscendo infine ad arrivare a Stoccolma. Le autorità italiane in Turchia si stanno attivando per un pronto rilascio del connazionale.