Quando una giornata è inesorabilmente uguale all’altra Il Mattino di Padova, 10 aprile 2017 Raccontare il carcere è terribilmente difficile. Quando uno studente chiede alle persone detenute "Ma voi, come passate la giornata?", chi dovrebbe rispondere resta spesso paralizzato, poi magari inizia a fare un vuoto resoconto di come passa il suo tempo: sveglia alle sette, passa la colazione, poi c’è l’aria, o la scuola, o il lavoro, il pranzo, ancora l’aria, la socialità, un po’ di televisione, la cena. Insomma, sembrerebbe una vita quasi normale, se non fosse che quella "normalità" è spesso vuota, vuota di relazioni, di sentimenti, di umanità. Perché ogni giornata è inesorabilmente uguale all’altra, perché non si può mai neppure sperare che succeda qualcosa di diverso, perché perfino gli orari sono desolanti: si pranza alle 11:30, le attività finiscono alle 15:30 (ma ci sono carceri che a quell’ora sono già "morte" da un pezzo), passa la cena alle 16.30, e poi ci si ritrova rinchiusi con i propri pensieri, con la famiglia che non c’è, i figli che diventano degli estranei, gli anni di pena ancora da scontare che sono così tanti, che non ha senso neppure tenere un calendario in cella. La giornata del detenuto è composta principalmente di privazioni Una delle domande più ricorrenti degli studenti che prendono parte al progetto "Scuole/carceri" è Potete descriverci la vostra giornata? Io sono da 25 anni in carcere, sono stato in più istituti e a seconda di come vengono gestiti dalle direzioni ci sono condizioni diverse per affrontare le giornate, ma posso dirvi con certezza che in tutta la mia detenzione vi sono alcune cose che sono rimaste come il primo giorno. Appena apri gli occhi al mattino il primo pensiero va ai tuoi cari, questo pensiero ti segue fino alla fine della giornata, gli unici contatti con i familiari sono le lettere, le telefonate, i colloqui, noi possiamo usufruire di una telefonata della durata di dieci minuti a settimana (solo a Padova ci è stata concessa una telefonata in più a settimana), di sei ore di colloquio al mese, ma molti non fanno colloqui tutti i mesi perché i loro familiari risiedono in posti distanti anche mille chilometri, per quanto riguarda la posta arriva con molti giorni di ritardo, la mancanza di notizie immediate condiziona di molto l’umore del detenuto, capita che ti alzi di buon umore ma dopo un paio d’ore ricevi una lettera con cattive notizie e ti ritrovi con il morale sotto i piedi. La giornata del detenuto è composta principalmente di privazioni, di grandi vuoti e distanze dal mondo esterno, è fatta anche di orari e attese, c’è l’orario per uscire dalla cella, a Padova è alle 8:30, lo stesso vale per la doccia, per il mangiare, per ogni cosa devi chiedere il permesso agli agenti, ogni spostamento, in particolare quando esci dal tuo reparto, viene scritto su appositi registri, vieni contato tre volte al giorno, spesso all’agente che fa la conta faccio la battuta ironica "le pecore sono rientrate tutte all’ovile", in effetti tante cose che avvengono nel carcere mi fanno sentire più simile ad un animale in cattività che ad un essere umano. Molti detenuti rispondono che le giornate sono tutte uguali, per me sono una peggio dell’altra principalmente perché la detenzione con tutte le sue privazioni ti svuota dentro, ti mancano anche le piccole cose alle quali quando eri libero davi poca importanza, sono 25 anni che non bevo in un bicchiere di vetro e che mangio con posate rigorosamente in plastica. Quando ero piccolo più volte ho sentito dire dagli anziani "il carcere non si augura nemmeno al peggior nemico", oggi capisco il peso di quelle parole perché vivo e rivivo le mie giornate nel vuoto più desolante. Anche quando sei fortunato e capiti nell’istituto che ti dà la possibilità di svolgere qualche attività lavorativa o culturale, come sto facendo io qui a Padova, attività che sicuramente ti migliora, ti aiuta a trascorrere le giornate in modo costruttivo, è comunque solo un palliativo, perché non può mai riempire il vuoto lasciato dalla perdita della libertà e dal distacco dai propri cari. Tommaso Romeo Si passa il tempo in una estenuante attesa per qualunque cosa Com’è una giornata in carcere? spesso è lunga e oziosa perché ti viene a mancare tutto ciò che conoscevi fuori, e c’è sempre una estenuante attesa per qualunque cosa. C’è l’attesa per una semplice telefonata con la famiglia della durata di dieci minuti settimanali, telefonata che viene ascoltata e anche registrata, e poi l’attesa per il colloquio familiare, che comunque avviene con tanti controlli, perché c’è sempre chi dirige quest’ora di colloquio, chi osserva che tutto si svolga nella regola, chi perquisisce il detenuto, ma anche i suoi cari. Il controllo dei detenuti avviene più volte al giorno, alla mattina alle 8:30 poi alle 12:45, alle 15:45 e infine alle 19:30 per la chiusura delle celle. Il detenuto in questo tempo si organizza la sua triste giornata preparandosi il pranzo, se ha del denaro che gli lascia la famiglia quando viene per il colloquio oppure inviandogli un vaglia che l’addetto ai conti correnti gli verserà sul conto corrente personale. Puoi andare a scuola in base alle tue necessità, dalle elementari alle medie sino all’università. Puoi accedere alla biblioteca tramite "domandina". Puoi farti la doccia, quando trovi l’acqua calda, puoi usufruire anche di una lavanderia esterna per lavare i panni sporchi ma la devi pagare a tue spese se no ti arrangi come meglio si può, cioè acquistando il detersivo con la spesa settimanale che fai, sempre se hai un po’ di soldi. Oppure se non puoi comprartelo tu ti viene portato qualche prodotto di scarsa qualità. Ti spettano quattro ore al giorno di passeggio dove puoi socializzare con i compagni, due ore al mattino dalle 9 alle 11, e poi dalle 13:30 sino alle 15:30. Poi c’è chi ha la fortuna di trovare un lavoro come quello nella pasticceria, o nella cucina del carcere, e ci sono altri piccoli lavori con le cooperative o che si possono svolgere anche nelle sezioni come l’addetto alle pulizie. Poi ci sono dei corsi che servono ad impegnare il detenuto per qualche ora a settimana. Ma il punto è un altro, che non ci sono attività per tutti, un istituto come la reclusione di Padova, che dovrebbe contenere massimo quattrocento detenuti ne ospita più di seicento e in grosse difficoltà, perché se circa 300 detenuti sono impegnati nei vari settori come la redazione di Ristretti Orizzonti, le cooperative, la scuola, non resta spazio per il resto della popolazione detenuta, e questo è nocivo per chi deve scontare una pena, anche perché la persona detenuta, se non riesce ad avere relazioni più sane rispetto a quelle che ha avuto in passato, rimane intrappolata nel guscio del suo fallimento. La sua diventa una detenzione fatta di ozio, di rabbia repressa, di noia costante e snervante. Ma credo che un passo alla volta le cose possono cambiare, sia in questo istituto, che comunque è uno dei meno peggio in Italia, sia in tante carceri del nostro paese che fanno paura, dove si vive soli in un deserto, in una mancanza totale di senso. Ci sono ancora tante carceri così, che non fanno che costruire un fallimento dopo l’altro per mancanza di iniziative, di attività, di confronto, a dirlo non sono io, è la Corte europea dei diritti dell’uomo, che ci ha condannati con sanzioni pesantissime per trattamenti disumani e degradanti. Giovanni Zito Giustizia di comunità che riabilita i detenuti di Elio Silva Il Sole 24 Ore, 10 aprile 2017 Il principio di giustizia riparativa, benché sancito nella Costituzione e posto a cardine del percorso di riabilitazione del condannato, non ha fin qui trovato facile applicazione per chi deve scontare una pena nelle nostre carceri. I problemi cronici della giustizia, evidenziati anche recentemente in occasione della presentazione al Parlamento della relazione annuale del Garante dei detenuti, rappresentano un ostacolo anche rispetto alla diffusione delle misure riparative, quali possono essere l’impiego in lavori di pubblica utilità o la prestazione volontaria in alternativa alla reclusione. Segnali decisamente più incoraggianti giungono dall’istituto della messa alla prova, previsto per alcuni reati di minore allarme sociale e applicato con crescente intensità. Tutte queste misure hanno in comune il presupposto di una attiva compartecipazione della "società civile" ai percorsi di riabilitazione. Ed è soprattutto il volontariato organizzato a rispondere positivamente, con esempi virtuosi. Uno di questi giunge da Verona, dove il Centro di servizio per il volontariato, già dal 2011, ha attivato una collaborazione con il tribunale per favorire l’adozione di misure giudiziarie "di comunità". All’inizio l’intesa prevedeva unicamente la possibilità, da parte del condannato, di commutare la pena detentiva in ore di lavoro socialmente utile. Era un progetto sperimentale, con 11 realtà non profit disposte all’accoglienza, per un totale di 14 posti. In pochi anni, però, le richieste si sono moltiplicate così che, nel 2016, le organizzazioni "accoglienti" sono diventate 53, di cui 34 associazioni di volontariato, due cooperative, 15 enti di promozione sociale, una fondazione e un’impresa sociale. Il dato è più che raddoppiato rispetto al 2015 e quadruplicato rispetto agli esordi. Sono molto aumentate anche le persone che, nello scorso anno, hanno effettuato attività socialmente utili: il loro numero è, infatti, salito a 197, per un totale di 11.443 ore di servizio. Gli ambiti spaziano dal settore socio-sanitario e assistenziale alla tutela dell’ambiente, dal campo culturale alla protezione civile, fino alla cooperazione internazionale. Nella graduatoria dei lavori svolti presso le associazioni figura al primo posto il supporto a disabili e anziani, seguito dai servizi di manutenzione, giardinaggio, pulizie e mensa. Ma ci sono anche condannati che svolgono lavori di segreteria, aggiornamento di siti web, inserimento dati su supporti informatici, laboratori creativi. Il bilancio presentato dal Csv di Verona, da quello di Padova e analoghe buone pratiche in atto in altre province, tra cui Genova, Como e Bologna, hanno indotto il Csvnet, organismo di coordinamento nazionale dei Centri di servizio, a predisporre una mappatura nazionale del fenomeno. "L’esperienza che il condannato si trova a svolgere è di alto valore umano - spiega Chiara Tommasini, presidente del Csv Verona, perché avviene all’interno di quelle stesse organizzazioni che ogni giorno si occupano, nei rispettivi ambiti, di alimentare e sostenere una cittadinanza attiva. La riabilitazione è quindi doppia: da una parte, viene saldato il debito con la giustizia attraverso l’attività gratuita a favore della collettività; dall’altra, la conoscenza ravvicinata del volontariato lascia un segno che, in molti casi, porta gli ex detenuti a un coinvolgimento diretto nella vita associativa anche dopo aver scontato la pena". "Chi si propone - aggiunge Irene Magri, che nel Csv veronese segue le pratiche relative alla giustizia di comunità - può appartenere a due categorie di persone: condannati in via definitiva, che hanno ottenuto la misura dell’affidamento in prova, oppure imputati che, attraverso l’istituto della messa alla prova, possono ottenere la sospensione del giudizio. In ogni caso le organizzazioni sono libere di accettare o meno l’inserimento, in base alla propria missione e alle modalità organizzative". Non a caso, proprio l’orientamento e l’allineamento dei candidati alle finalità dei singoli enti non profit costituisce l’impegno maggiore dei Centri di servizio, che svolgono il ruolo di facilitatori tra domanda e offerta. "Il nostro supporto continua anche al termine degli affidamenti - ricorda la Tommasini -. Finora il bilancio è positivo per oltre il 90% dei casi e la cosa che maggiormente ci colpisce non è tanto l’aumento delle domande, quanto la risposta del volontariato, che riesce a trovare in queste forme di coinvolgimento atipiche nuove energie per allargare il proprio radicamento territoriale". Detenzione inumana: come fare riscorso? di Angelo Terragno (Avvocato) laleggepertutti.it, 10 aprile 2017 Cosa prevede la legge sul risarcimento dei detenuti che hanno finito di scontare la pena detentiva? Come presentare ricorso e quali mezzi di prova chiedere al giudice? Nella redazione del ricorso non è necessario allegare il certificato di residenza, chi intende costituirsi personalmente dovrà indicare le proprie generalità (nome cognome data di nascita, indicazione della residenza, codice fiscale) oltre a copia del documento d’identità. L’ente contro il quale rivolgere la propria domanda è il ministero di Grazia e Giustizia nella persona del Ministro pro tempore, in quanto è lo Stato italiano che attraverso una palese violazione del diritto comunitario, ha leso la dignità del detenuto costringendolo a versare in condizioni disumane. Per quanto riguarda, invece, la richiesta di prova testimoniale è importante capire se le persone che si intende chiamare in giudizio siano libere o detenute: nel primo caso, non è possibile domandare la citazione di una persona di cui si conosca solo il nome, si dovrebbe quanto meno conoscere il comune di provenienza per poter effettuare una ricerca al fine di ottenere la loro residenza. Nell’ipotesi in cui, invece, tali soggetti siano attualmente reclusi, sarà sufficiente indicare come indirizzo quello della casa circondariale in cui si trovano. Il giudice cura la fase istruttoria ed innanzitutto è importante che la persona interessata produca il proprio certificato di detenzione, da cui risulterà la durata della stessa, oltre al carcere/i in cui è avvenuta. Qualora si fosse in grado di individuare un rapporto informativo sull’ istituto in cui l’interessato si trovava negli anni della reclusione sarebbe consigliabile produrlo. L’aspetto fondamentale che deve essere evidenziato nel ricorso riguarda la narrazione della detenzione in cui si evidenziano tutti gli elementi da cui possa desumersi che la stessa sia avvenuta in violazione dell’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Sul punto è richiesta la massima precisione. Non basta l’indicare l’istituto penitenziario ma anche la relativa sezione e il numero di cella, nonché quanti detenuti erano ospitati al suo interno. È preferibile specificare quali erano le dimensioni complessive della stessa, se era presente della mobilia e quanto spazio vitale rimanesse a disposizione ogni detenuto. Ogni dettaglio può essere importante, quale la normale areazione dell’ambiente o anche, ad esempio, se erano presenti letti a castello e quale fosse la distanza tra questo ed il soffitto. Il Comitato per la Tortura, commissione europea che monitora le condizioni dei penitenziari, ha stabilito che costituisce trattamento inumano il costringere un uomo a vivere in uno spazio inferiore ai tre metri quadrati. L’analisi deve indicare quante finestre erano presenti e se fornivano un’illuminazione adeguata che consentisse di godere della luce naturale, se era presente il riscaldamento ed il suo funzionamento ed il numero dei termoconvettori, il regolare andamento del servizio elettrico. Le condizioni igieniche vanno descritte minuziosamente, spiegando se erano presenti i servizi igienici, la loro collocazione nella cella, se ai detenuti fosse consentito espletare le proprie funzioni fisiologiche in condizioni di privacy. Occorre indicare quante volte settimanalmente fosse consentito fare la doccia. Occorre specificare se fosse possibile o meno ricevere visita dai propri parenti e le condizioni degli spazi in cui avvenivano i colloqui, in caso contrario evidenziare che la distanza dal carcere non consentiva nemmeno di poter godere di detti momenti. Oltre a quanto indicato, occorre riservarsi di formulare ulteriori mezzi istruttori sulla base di quanto verrà dedotto dalla controparte. Infine occorre indicare quante ore al giorno il detenuto trascorreva in cella e se aveva accesso alle attività lavorative o didattiche. Camere penali: nuova astensione dalle udienze dal 10 al 14 aprile lecceprima.it, 10 aprile 2017 L’Unione delle Camere penali italiane ha deliberato una nuova astensione dalle udienze e da ogni attività giudiziaria nel settore penale nei giorni dal 10 al 14 aprile. La Camera penale di Lecce sostiene convintamente l’astensione dalle udienze nei prossimi giorni, e invita tutti i colleghi ad aderire compatti all’iniziativa, come già accaduto due settimane fa. Il Governo ha deciso di utilizzare lo strumento della fiducia ai fini dell’approvazione del Ddl di riforma del processo penale, sottraendo al Parlamento ogni possibile confronto su norme che incidono in profondità sul processo, ed in risposta alle critiche e perplessità cha da più parti sono state sollevate, ha perseverato nel proprio atteggiamento, facendo approvare in Senato la nuova legge. Di fronte a questa modalità antidemocratica e miope con la quale si è chiuso, di fatto, ogni possibile spazio di confronto in merito a riforme che distorcono gravemente il modello accusatorio del giusto ed equo processo, ritengo necessario ed anzi doveroso adottare ogni possibile iniziativa di contrasto. A tal proposito, la Camera penale di Lecce (presieduta dall’avvocato Silvio Verri, nella foto a destra) sottolinea ancora una volta che occorre svelare l’inganno secondo cui allungare i tempi di prescrizione dei reati serve a tutelare le vittime degli stessi, in quanto tale soluzione in realtà è contraria non solo ai diritti dei singoli imputati, ma anche alle legittime aspettative delle persone offese e della intera collettività, che esige, in un Paese civile e moderno, che i procedimenti penali abbiano una ragionevole durata e che la fase dell’accertamento dibattimentale torni ad essere il baricentro del processo, sottraendo la fase delle indagini preliminari alla attuale enfasi mediatica che la caratterizza. Allo stesso modo, riteniamo riprovevole estendere la applicazione del processo a distanza ad un numero elevatissimo di procedimenti con detenuti; tale riforma, lungi dal costituire un risparmio di risorse, rappresenta invece, la più evidente ed aperta violazione dei principi costituzionali e convenzionali del contraddittorio e della immediatezza, dal momento che pressoché tutti i processi con detenuti si svolgeranno senza la presenza fisica degli accusati, costretti a seguire il processo che magari deciderà della loro vita su un piccolo schermo, ed a comunicare durante l’udienza con il proprio avvocato solo telefonicamente. "Deve essere chiaro che gli avvocati penalisti non recederanno dalle proprie posizioni, pronti a continuare con la propria protesta per tutto il tempo che si renderà necessario. Auspichiamo, infine, la ripresa di un confronto sui temi della giustizia penale anche con la magistratura, specie all’indomani del rinnovo della cariche nazionali all’interno di Anm, con la nomina di un nuovo presidente e l’ingresso nella giunta nazionale di un magistrato salentino, Rossana Giannaccari, a cui rivolgiamo i nostri auguri di buon lavoro". Legittima difesa, ora il Pd tenta la mediazione: "spese gratis alle vittime" di Liana Milella La Repubblica, 10 aprile 2017 Processi super veloci e spese legali rimborsate dallo Stato alla vittima che spara contro il ladro. Ma "niente Far west, né licenza di uccidere". É questa la soglia massima con cui il Pd affronta la nuova maratona alla Camera sulla legittima difesa. Intenzionato a chiudere la partita al più presto, da oggi in commissione Giustizia alla Camera con l’esame degli emendamenti, e subito dopo Pasqua in aula. Ma la scommessa non sarà indolore per il governo Gentiloni, perché contro il Pd dà battaglia il partito di Alfano, che già domani farà ufficialmente sua la proposta di legge dell’Idv di Ignazio Messina, che ha raccolto oltre due milioni di firme. Presentata al Senato, adesso entrerà ufficialmente anche a Montecitorio, seppure per mano diversa. Destinata a potenziare lo scontro in atto da oltre due anni tra la Lega, che chiede una legittima difesa sempre possibile in caso di rapina in casa o nel luogo di lavoro, e che di conseguenza esclude l’intervento del magistrato e l’iscrizione della vittima nel registro degli indagati, e il Pd, attestato comunque a difesa dell’indagine e netto nell’escludere soluzione legislative che, di fatto, autorizzano preventivamente "una giustizia fai da te". Come dice il capogruppo Pd in commissione Giustizia Walter Verini "certo non siamo insensibili al fatto che la situazione criminale si è evoluta, che il ladro entra anche in una casa abitata, ma dobbiamo muoverci in una cornice di civiltà e di democrazia". Ma il Pd difficilmente riuscirà a evitare una frattura nella maggioranza. A dare battaglia è il gruppo di Alfano. Maurizio Lupi ha già detto al premier Gentiloni che o il Pd cambia strada e si sposta sulle posizioni centriste, oppure il governo dovrà restare fuori dalla partita. Perché da una parte c’è il Guardasigilli Andrea Orlando, di fatto convinto che l’attuale articolo sulla legittima difesa vada bene così com’è, soprattutto dopo la riforma di dieci anni fa dell’ex ministro Roberto Castelli; dall’altra c’è il ministro della Famiglia Enrico Costa che da tempo si batte per una riforma radicale e dice: "Serve una norma chiara che non esponga chi si difende da un’aggressione a doversi difendere anche in tribunale. Non ci possono essere posizioni intermedie. Già nel 2006 ci fu un compromesso e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Questa questione non riguarda solo la giustizia, ma anche la famiglia". Cioè non solo Orlando, ma anche lui. Una posizione che ha portato i centristi a sfruttare la proposta dell’Idv, al punto che sia Alfano che Costa domani saranno accanto al segretario Ignazio Messina per spiegare perché traghettano la proposta alla Camera. Ma la soluzione dell’Idv - non c’è "eccesso colposo" se si difende la propria o altrui incolumità, o quella dei propri beni - è ritenuta del tutto eccessiva dal Pd, come quella della Lega. Giusto un anno fa, l’attuale relatore del Pd David Ermini, ha sostituito con la sua norma quella del leghista Nicola Molteni. Lo scontro in aula ha portato al rinvio. La scorsa settimana, in commissione Giustizia, Ermini ha vinto 7 a 6 contro Molteni, in aula andrà come testo base il suo. Che il capogruppo leghista definisce "una truffa, perché lì non si parla neppure di legittima difesa". Ma il Pd fa solo qualche passo avanti. Domani sera, quando si riunirà la maggioranza in vista del voto in commissione, i Dem presenteranno la mediazione. Confermare il testo Ermini - escludere la colpa di chi spara in condizione di "grave turbamento psichico" - ma, come spiega Verini, "prevedere che le spese legali non siano pagate dal cittadino, ma rimborsate dallo Stato alla fine del processo, qualora ci sia un’assoluzione". Nessun cedimento all’ipotesi che chi spara non sia neppure indagato, come chiedono la Lega e Forza Italia e gli stessi centristi, "perché questo sarebbe il Far West". Aggiunge Ermini, che ipotizza una corsia preferenziale per questi processi: "É populista dire che aumenta la sicurezza se hai una pistola in mano, perché Budrio dimostra che il ladro è più esperto e si rischia solo di soccombere". I 5 stelle e il partito dei giudici di Jacopo Iacoboni La Stampa, 10 aprile 2017 Ci sono un paio di fotografie - opposte - che vanno isolate dalla convention di Ivrea in ricordo di Gianroberto Casaleggio. La prima è l’istante in cui è salito sul palco Sebastiano Ardita, il procuratore aggiunto a Messina, autore di inchieste importanti, spesso concluse con condanne, non con dei nulla di fatto, come altri pm. Pochi hanno notato che Beppe Grillo è arrivato esattamente in quel momento, per sentire proprio quell’intervento. La seconda fotografia è Antonio Di Pietro che diceva in giro "sono qui perché tanti anni fa ho collaborato con Gianroberto Casaleggio", e si è fermato a lungo a parlare con Luca Eleuteri, esecutore di Gianroberto a cui fu demandata - in Casaleggio - la pratica Italia dei Valori. Due vecchi amici, ma nulla più. Ecco: la seconda foto è l’immagine, ormai sbiadita, della Casaleggio che progetta il "partito dei giudici", che fu poi incarnato dall’allora pm più famoso d’Italia. La prima invece è l’immagine della Casaleggio che sta maturando una svolta nel rapporto tra Movimento e giustizia: non più il "partito dei giudici", ma un "partito nei giudici". L’espressione è di una fonte che conosce esattamente le cose di cui si è parlato in alcune chiacchierate riservate a Ivrea. Attorno a un tema centrale: che posizione dovrà assumere il Movimento sulla giustizia, e sui giudici? È noto che il sogno M5S sarebbe poter presentare il nome di Piercamillo Davigo (in caso di vittoria elettorale) come il preferito in una ipotetica rosa da sottoporre al Quirinale. Ma chi lo conosce sostiene: "Non accetterà, quasi al cento per cento". A parte quel quasi, qual è allora l’opzione subordinata dei grillini? Il partito di Davide Casaleggio potrebbe assumere, a breve, una posizione molto forte sul tema: separazione - drastica, assoluta - tra magistratura e carriere in politica. Guarda caso, è la linea che sta cercando di imporre - nella corsa lunga per il Csm - la corrente "Autonomia e Indipendenza", dove tra l’altro militano Davigo e Ardita. Questa presa di posizione sarebbe in forte contrasto con un altro partito trasversale, in magistratura, più disposto agli scambi con la politica (in doppia direzione). Scambi che hanno visto esperienze anche diversissime, ma non sempre brillanti, da Di Pietro a Ingroia, da De Magistris (lanciato sul blog di Grillo assieme a Sonia Alfano) a Piero Grasso. Se questo piano B si realizzerà, il M5S passerebbe dal "partito dei giudici" (quella era l’Idv) al "partito nei giudici", una nuova forma di collateralismo che assicurerebbe, a un tempo, controllo di palazzo Chigi e legame - c’è chi dice addirittura subalternità vera - con un gruppo di toghe amiche. Minniti: "Così proteggeremo le città. Espulsioni a chi si radicalizza" di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 10 aprile 2017 Il ministro dell’Interno alla luce dell’attentato a Stoccolma: "L’equazione terrorismo e immigrazione è sbagliata, è sempre più evidente il rapporto tra terrorismo e mancata integrazione". "L’Italia ha un sistema di difesa di massimo livello, ma l’allerta è altissima e dunque dobbiamo intensificare le misure di protezione. Abbiamo bisogno di tenere insieme tre importanti attività: intelligence, prevenzione e controllo del territorio". Il giorno dopo l’attacco di Stoccolma, il ministro dell’Interno Marco Minniti fa i conti con un’emergenza sempre più elevata. L’analisi del titolare del Viminale parte dalle ultime notizie che arrivano dalla Svezia. "Perché se è vero che si tratta di un cittadino uzbeko, da tempo residente nel Paese, si conferma quanto abbiamo rilevato dall’attacco di Charlie Hebdo in poi, cioè che i terroristi sono persone che vivevano negli Stati dove hanno poi colpito. Si conferma che l’equazione terrorismo e immigrazione è sbagliata e invece è sempre più evidente il rapporto tra terrorismo e mancata integrazione. Proprio per questo è importante ribadire che l’accoglienza ha un limite nella capacità di integrazione". Dall’inizio dell’anno sono state decretate 32 espulsioni preventive per ragioni di sicurezza nazionale. "Si tratta di uno strumento di prevenzione preziosissimo perché consente di "colpire" la radicalizzazione prima che possa trasformarsi in compiuta progettualità terroristica". Minniti ribadisce che "sarebbe sciocco credere che ci sia qualcuno al riparo dalla minaccia jihadista", ma rivendica di aver "messo in campo tutte le forze a disposizione e continuiamo a farlo visto che il nostro sistema si è rivelato finora efficace e quindi bisogna potenziare le misure già in atto". Coordinamento, è questa la parola chiave: "L’integrazione tra pattuglie e difesa passiva è fondamentale, ma senza far venire meno per i cittadini la fruibilità dei luoghi. L’Italia ha tra le sue industrie principali il turismo, ha città d’arte che tutto il mondo ci invidia. Non cederemo alla paura, ma metteremo in campo strategie di sorveglianza e protezione in accordo pieno con gli amministratori locali". Il governo punta molto sull’approvazione in Parlamento del decreto legge sulla sicurezza urbana, tanto da aver già ottenuto una prima fiducia. Minniti lo conferma: "Finora la convergenza su quelle norme è stata ampia, non credo possano esserci problemi. L’alleanza tra Stato e sindaci è fondamentale per individuare i punti deboli e intervenire. Può sembrare una banalità, ma in questo sistema integrato anche i vigili urbani hanno un ruolo fondamentale. Si chiama gioco di squadra e certamente tutti ne possono beneficiare". Esclude comunque di arrivare a una militarizzazione delle città perché "gli attacchi di Nizza, Berlino, Londra e Stoccolma hanno mostrato analoghe modalità e allo stesso tempo totale imprevedibilità dell’azione. Per questo ho detto quali sono le tre linee di intervento contro chi inneggia alla jihad o fa proselitismo. Esattamente ciò che stiamo facendo da mesi, mettendo comunque tra le priorità il fatto che i cittadini italiani si sentano liberi, non abbiano mai la sensazione di vivere in una fortezza". Numerosi analisti ritengono che il bombardamento ordinato dagli Stati Uniti in Siria, possa indebolire la lotta contro l’Isis. Esprimono il timore che la crisi internazionale possa avere conseguenze gravi proprio nel fronteggiare i terroristi. Un’eventualità che Minniti invece esclude, convinto che "in questo modo si è dimostrato che nessuna prepotenza sarà tollerata ed è innegabile che l’uso di armi chimiche fatto da Assad contro la propria gente, i propri bambini, sia un atto intollerabile". E comunque si è trattato di una "scelta giustificata tenendo conto che "i veti incrociati hanno impedito una reazione delle Nazioni Unite e non era ipotizzabile restare fermi, o addirittura voltarsi dall’altra parte, di fronte a un crimine contro l’umanità. Adesso è giusto restituire il ruolo di guida dei negoziati alla comunità internazionale e all’Onu". La scorsa settimana, il giorno dopo l’attacco a San Pietroburgo, il ministro è volato a Mosca. Una visita programmata da tempo, ma confermata nonostante l’attentato appena subito e questo, sottolinea adesso "dimostra che tipo di relazione esiste tra noi. Abbiamo interessi comuni nella lotta al terrorismo e non solo. Questa cooperazione risulta oggi cruciale. Con la caduta di città come Mosul e Raqqa, assisteremo entro breve alla fuga dei combattenti dell’Isis verso l’Occidente e dunque la Russia sarà strategica nella protezione dei confini per fermare i foreign fighter di ritorno, così come noi lo siamo nel Mediterraneo. Agiremo insieme per l’interesse comune, su questo non ho dubbi. Ci sono numerosi appuntamenti importanti che si svolgeranno in Russia nei prossimi mesi, compresi i mondiali di Calcio. Li affronteremo seguendo una strategia comune". Di Pietro: "ladri, rapinatori e recidivi tutti in cella. Non sono cambiato, credo nel carcere" di Pietro Senaldi Libero, 10 aprile 2017 "La nuova legge sulla legittima difesa lascia ogni decisione in mano ai giudici. Più comprensione verso chi subisce aggressioni. C’è più corruzione adesso che nel 1992 ma io fui fermato dai Servizi". "Sono pronto, in assetto papale, ho qui la mia bottiglietta d’acqua come 25 anni fa durante gli interrogatori a San Vittore - due litri e mezzo al giorno, possiamo cominciare. Come mai mi cerca?". Stavolta è lei l’interrogato, dottor Di Pietro, vorrei sapere che ne pensa dell’emergenza criminalità e delle nuove norme sulla legittima difesa. "La legge che vuole il Pd non cambia molto, resta sempre al giudice la decisione finale se la reazione dell’aggredito è proporzionale all’offesa subita e quindi legittima, ma qualche passo in avanti è stato fatto". Non sarebbe più efficace la proposta della Lega, che presume la legittima difesa se si spara contro chi si introduce furtivamente in casa o nel negozio di altri? "Significherebbe legittimare ogni tipo di reazione a prescindere dalla minaccia che si subisce. La nostra giustizia non lo prevede". Allora qual è il passo avanti? "L’inversione dell’onere della prova. Oggi è l’aggredito che deve dimostrare di non aver ecceduto nella propria difesa, in futuro questo si darà per scontato e sarà il pm a dover provare il contrario in giudizio. Il che porterà a meno processi e più richieste d’archiviazione". Tutto dipende come sempre dal pm che avremo di fronte… "Non sarei così pessimista. I magistrati sono attenti agli impulsi della società. Oggi, anche per il grande numero di extracomunitari, ci sono in giro molti più sbandati e l’allarme sociale è più alto. Per molti il crimine è diventata una vera professione e il giudice è più sensibile verso le ragioni dell’aggredito e incline a valutare lo stato emotivo di turbamento in cui si trova quando spara". Le sembra sufficiente a tutelare i cittadini? Spesso chi ha reagito a una rapina si è rovinato, ha speso decine di migliaia di euro in avvocati e ha dovuto risarcire i parenti dei criminali... "Amico mio, da sempre è l’onesto a essere preoccupato di come funziona la giustizia più del criminale, perché nei confronti del delinquente le sanzioni pecuniarie sono inefficaci, visto che egli non ha nulla da perdere mentre dal punto di vista della libertà personale le maglie della legge sono troppo larghe". Lei è il superpoliziotto e il super pm, voglio la soluzione… "Diranno che non ho perso il vizio. La soluzione è carcere, carcere, carcere. Bisogna costruirne di più. Oggi liberiamo troppi delinquenti perché le carceri sono poche e sovraffollate e non garantiscono condizioni di vita decorose. Ma la soluzione non è svuotarle, perché così si dà la sensazione dell’impunità ai delinquenti, bensì costruirne di nuove e migliori. Ci costerebbe molto meno di quanto ci costa tenere fuori la cosiddetta piccola criminalità, che in realtà fa un sacco di danni". Piccola criminalità per modo di dire: l’assassino del barista di Bologna pare avesse già ucciso e aveva a suo carico due decreti d’espulsione mai eseguiti… "Il problema non sta nella polizia, che fa un lavoro eccezionale con risorse insufficienti, e neppure nei magistrati, che applicano il diritto, ma nelle leggi, che devono essere più severe e applicate in modo da essere deterrenti. Non si può più risparmiare il carcere a chi è recidivo e per certi reati, come il furto aggravato, la rapina e qualsiasi atto commesso con violenza la detenzione dev’essere una certezza. Le regole però le deve cambiare il Parlamento, non i magistrati. In Svizzera tutti rispettano i limiti di velocità non perché sono ligi alle regole ma perché sanno che la multa è inevitabile". D’accordo, ma i magistrati devono perseguirli i reati. Spesso si ha la sensazione che trascurino la lotta alla criminalità spicciola per inseguire inchieste che garantiscono più resa mediatica… "L’obbligatorietà dell’azione penale riempie la scrivania dei pm di migliaia di faldoni e il magistrato è costretto a scegliere. Normalmente sceglie in base all’allarme sociale". Mi oppongo, vostro onore: pensi alle cause di diffamazione che perseguitano noi giornalisti… "Qui ha ragione, certi reati andrebbero depenalizzati, sono un carico inutile sulla giustizia penale". Ancora a giustificare i magistrati: ma se sono così bravi, come mai la loro popolarità è crollata? "Mani Pulite destò una grande speranza di cambiamento, oggi i cittadini sono molto delusi nel vedere che è cambiato poco o nulla. Infatti alla celebrazione dei 25 anni di Mani Pulite, a febbraio, c’erano quattro gatti. Ma la colpa ancora una volta non è dei giudici. Il magistrato è come il becchino, interviene quando c’è il morto, quando cioè il reato è già stato commesso. È il politico che, come il dottore, deve prevenire la malattia. Noi lo scossone l’avevamo dato, poi però…". C’è più corruzione oggi o ai tempi di Mani Pulite? "Con Mani Pulite facemmo scalpore perché scoprimmo che la corruzione era sistemica. Oggi la corruzione è aumentata ed è anche più perseguita, ma fa meno scalpore perché è una realtà quotidiana quasi accettata". Una sconfitta per voi (ex) pm? "Ripeto, non per noi, ma per la politica e soprattutto per la società. La corruzione aumenta perché le leggi garantiscono l’impunità e perché i cittadini la accettano sempre più passivamente: le pare normale che ci siano più persone in carcere per corruzione in Germania che in Italia?". Forse se non si fosse dimesso, nel 1994, la battaglia alla corruzione avrebbe avuto altre sorti? "Ho dovuto dimettermi, la Procura di Brescia ricevette dei dossier nei miei confronti e conseguentemente, per dovere, mi mise sotto inchiesta per concussione, abuso d’ufficio e altro. Mi sono dimesso perché volevo sottoporre alle verifiche giudiziarie non da collega a collega ma da semplice imputato". Ma l’indagine è del 1995, le dimissioni risalgono al dicembre 1994? "Le dico che hanno voluto fermarmi. E non lo sostengo io ma lo dimostrano due relazioni del Copasir che ho anche pubblicato sul mio blog personale, dove è scritto che le indagini di Mani Pulite sono state fermate con metodi illegittimi e illeciti da parte di alcuni appartenenti ai servizi segreti deviati su ordine di altre autorità dello Stato". A quei tempi al Quirinale c’era Scalfaro. Lei non ha un buon rapporto con gli inquilini del Colle... "Immagino si riferisca alla polemica con Napolitano, quando ero presidente dell’Idv e sostenni che..., meglio lasciar perdere. Napolitano non ha rispettato la Costituzione allorché non ha voluto mandare il Paese alle urne dopo la caduta del governo Berlusconi e ha patrocinato un pastrocchio, in violazione del voto dei cittadini e del loro diritto a scegliersi il governo". Torna il Di Pietro populista… "E che vuol dire populismo? Per me è una parola vuota in cui non mi ci riconosco. E poi, mettiamo i puntini sulle "i". Se il popolo si ribella, la colpa è del popolo o di chi lo prende in giro?". È un discorso grillino: ma lei e Beppe non avevate rotto? "Per nulla, ho rispetto per Grillo e ritengo un bene che ci sia qualcuno che riesce a raccogliere la rabbia e la confusione dell’elettorato e farla sfogare all’interno delle urne, piuttosto che lasciarla libera di trasformarsi in eversione. Ora l’unico problema di M5S è riuscire a costruire una classe dirigente adeguata; ma io dico, meglio aiutarli che criticarli". È un’autocandidatura? "Ora non faccio politica, cosa farò domani lo deciderò domani". Ma è stato avvistato a Ivrea alla riunione di Davide Casaleggio... "Il padre, Gianroberto, per me è stato un amico è un rimpianto. Avevo affidato a lui la comunicazione web di Idv e se fosse rimasto con me non me ne sarei andato. Il figlio Davide può prenderne il testimone". Lei è stato un idolo delle masse: oggi quando la incontrano per strada le fanno ancora i complimenti? "Spesso mi fanno i complimenti, i più giovani però non mi riconoscono perché sono passati 25 anni dai tempi di Mani Pulite. Qualche volta mi rimproverano ma soprattutto perché ho lasciato la magistratura e non perché ho fatto politica". Per chi voterebbe oggi? "Non lo so. Non mi sto nascondendo dietro un dito, proprio non lo so perché non si capisce più nulla". Si sente pronto per fondare un nuovo partito? "Ma lei sa quanti ce ne sono già in Parlamento? 25, 26? No grazie, esperienza già fatta. E vorrei sottolineare che quando ho deciso di fondare Idv c’era più di un partito disposto a farmi ponti d’oro per candidarmi". Certo che però qualche candidatura l’ha sbagliata… "E perché, Berlusconi, Bossi Renzi e qualsiasi altro leader di partito no? Tutti mi criticano per la candidatura di Razzi ma almeno lui ha avuto la faccia di dire "me ne vado per fare i fatti miei". Quanti beneficiati dal Cavaliere sono saltati dall’altra parte senza prendersene la responsabilità. Subire il tradimento è la maledizione dei fondatori. Se potessimo sapere prima chi ci tradisce non esisterebbe l’istituto del divorzio". Corruzione. Debutta il reato di "istigazione", pene ridotte se l’illecito non viene commesso Il Sole 24 Ore, 10 aprile 2017 Anche nella corruzione tra privati l’istigazione diventa fattispecie autonoma di reato. Il decreto legislativo 38 del 2017, in vigore da venerdì 14 aprile, introduce infatti nel Codice civile l’articolo 2635-bis, che prevede un nuovo reato per dare attuazione piena alla decisione quadro 2003/568/Gai. La nuova norma prevede al primo comma l’istigazione attiva ed è modellata, anche nel profilo sanzionatorio, sul delitto di istigazione alla corruzione attiva "pubblica", disciplinata dall’articolo 322, comma 2, del Codice penale. Si punisce con la reclusione da 8 mesi a due anni colui che, con la finalità della violazione dei doveri di ufficio o di fedeltà, offre o promette denaro o altra utilità indebita alle stesse categorie di persone che operano in società ed enti privati dettagliate dall’articolo 2635 del Codice civile (amministratori, direttori generali, dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, sindaci, liquidatori o chi ha funzioni direttive), qualora l’offerta o la promessa non sia accettata. La pena è pari a un terzo di quella prevista per il reato regolato dall’articolo 2635. L’articolo 2635-bis, al comma 2, sanziona l’istigazione passiva, prevedendo le stesse pene indicate dal comma 1 per le stesse categorie di soggetti che sollecitano per sé o per altri, anche per interposta persona, la dazione o la promessa di denaro o altra utilità per compiere o omettere un atto in violazione degli obblighi del loro ufficio o di fedeltà, se la sollecitazione non sia accettata. Anche questa fattispecie ricalca l’ipotesi di istigazione alla corruzione passiva "pubblica", prevista dall’articolo 322, comma 4, del Codice penale. Il comma 3 dell’articolo 2635-bis prevede la procedibilità a querela della persona offesa. In mancanza, pertanto, l’istigatore non sarà sanzionato. Questo elemento trova giustificazione nei differenti interessi tutelati dalle fattispecie di corruzione privata e di corruzione pubblica. Valgono anche in queste ipotesi i criteri che sono stati elaborati dalla giurisprudenza in tema di istigazione alla corruzione pubblica. E tra questi, innanzitutto, il principio per il quale l’offerta o la promessa di donativi di modesta entità integrano il delitto di istigazione alla corruzione solo se la condotta sia caratterizzata da un’adeguata serietà, da valutare alla stregua delle condizioni dell’offerente nonché delle circostanze di tempo e di luogo in cui l’episodio si colloca, e sia in grado di turbare psicologicamente o di avere oggettiva idoneità persuasiva nei confronti del suo destinatario (si veda la pronuncia 1935/2016 della Cassazione). In questo senso si deve considerare idonea, ad esempio, l’offerta di beni immediatamente utilizzabili e di significativo valore economico, fatta in assenza di serie giustificazioni alternative (pronuncia 6849/2016 della Cassazione). Nell’ambito di un rapporto tra soggetti comunque privati sarà determinante la valutazione comparativa delle condizioni sociali ed economiche dell’offerente e del destinatario dell’offerta, anche in relazione alle connotazioni della condotta di violazione degli obblighi oggetto dell’istigazione. La corruzione in società si allarga a tutti i manager di Giovanbattista Tona Il Sole 24 Ore, 10 aprile 2017 Decreto legislativo 38 del 15 marzo 2017. Il reato di "corruzione tra privati" si allarga a tutti i manager delle società, non solo quelli che hanno formalmente incarichi di amministrazione e controllo. E per far scattare le pene per i corruttori non servirà la consegna o la promessa di denaro o beni ma basterà la semplice offerta. Sono due delle novità in partenza da venerdì 14 aprile con l’entrata in vigore del decreto legislativo 38 del 2017. Un nuovo restyling per la corruzione tra privati, che arriva perché gli interventi del passato sono stati giudicati insufficienti dalla Ue. Il decreto legislativo 38 dovrebbe completare, dopo 14 anni, il recepimento della decisione quadro 2003/568/Gaiche aveva imposto agli Stati europei di prevedere come reato il mercimonio delle attività private connotate da violazioni di doveri e capaci di provocare danni all’economia e distorsioni alla concorrenza. La legge Severino - L’articolo 2635 è già stato riscritto in passato dalla legge Severino (190 del 2012), che ha introdotto la corruzione tra privati. Gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili sociali, i sindaci e i liquidatori venivano puniti con la reclusione da uno a tre anni, quando, dietro dazione o promessa di denaro o altra utilità, compivano o omettevano atti in violazione degli obblighi inerenti il loro ufficio o degli obblighi di fedeltà (la "corruzione passiva"). Era necessario che la condotta causasse "nocumento alla società". Gli stessi soggetti venivano puniti, ma con una pena fino a un anno e sei mesi, se il fatto era commesso da persone sottoposte alla loro direzione o alla loro vigilanza. In parallelo era previsto come reato il comportamento di chi dava o prometteva denaro o altra utilità (la "corruzione attiva"). Queste fattispecie erano perseguibili a querela, salvo che dal fatto non derivasse una distorsione della concorrenza nell’acquisizione di beni o servizi. Il rapporto del Gruppo di Stati contro la corruzione del Consiglio d’Europa (Greco), pubblicato il 5 dicembre 2016, confermava i precedenti giudizi di parziale inadempienza dell’Italia rispetto all’attuazione degli obblighi di contrasto alla corruzione tra privati. Si attendeva comunque l’esecuzione della legge delega 170 del 2016 che demandava al Governo di dare completa attuazione alla decisione quadro 2003/568/Gai. Le nuove disposizioni - Ora il decreto legislativo 38 del 2017 riscrive l’articolo 2635 del Codice civile e rende più ampie e incisive le possibilità di intervento repressivo delle condotte di corruzione tra privati. Autori del reato, oltre i soggetti in posizione apicale finora già previsti, possono essere anche coloro che nella società o nell’ente esercitano funzioni direttive diverse da quelle di amministrazione e controllo formalmente conferite. Si dà così rilievo all’amministratore di fatto o a chi svolge funzioni comunque manageriali, ma si lasciano fuori dal novero degli autori del reato coloro i quali non svolgono nemmeno di fatto funzioni direttive. Viene inoltre specificato che il vantaggio (denaro o altra utilità), da conseguire in cambio della violazione degli obblighi di ufficio o di fedeltà, deve essere "non dovuto". Tra le condotte incriminate, oltre a quelle del ricevere utilità o dell’accettarne la promessa, si inserisce anche la sollecitazione da parte del soggetto tenuto alla fedeltà. Viene anche soppresso il riferimento al "nocumento alla società". Il reato è quindi punibile a prescindere dalla prova che si sia verificato un evento dannoso per la società a seguito del comportamento illecito. La fattispecie si perfeziona con la mera sollecitazione, ricezione o accettazione della promessa di denaro o altra utilità; quindi anche prima di quando si verifica l’atto o l’omissione che viola gli obblighi. In parallelo, diventa più ampio l’ambito di applicazione della corruzione passiva. Il soggetto estraneo alla società o all’ente è punito anche se si limita a fare un’offerta di denaro o altra utilità. Anche per questa condotta si specifica che il vantaggio da offrire, dare o promettere deve essere indebito. Infine viene prevista la figura dell’intermediario. Il soggetto estraneo alla società o all’ente può essere punito anche quando per offrire, promettere o dare denaro o altra utilità all’interno alla società si avvale di una persona interposta. Quest’ultima sarà a sua volta punibile per lo stesso reato, anche perché, secondo le regole generali del Codice penale, è punibile per concorso nel reato chi offre un contributo consapevole alla realizzazione dell’illecito. Tra il reato di falso e quello di abuso sussiste un rapporto di assorbimento di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 10 aprile 2017 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 21 marzo 2017 n. 13849. Deve escludersi il concorso formale tra i reati di abuso d’ufficio e falso ideologico o materiale quando la condotta addebitata si esaurisce nella commissione di un fatto qualificabile come falso in atto pubblico, in ragione della clausola di riserva prevista dall’articolo 323 del Cp. Lo ha stabilito la Cassazione con la sentenza n. 13849 del 2017. Infatti, la clausola di riserva non può essere intesa come applicabile solo nei rapporti tra reati aventi a oggetto la tutela del medesimo bene giuridico, poiché altrimenti si attribuirebbe alla stessa il significato di un inutile doppione del principio di specialità: per l’effetto, a fronte di un fatto unico, detta clausola impone di applicare esclusivamente il trattamento sanzionatorio previsto per la fattispecie più grave, anche se la stessa ha a oggetto la tutela di un bene giuridico diverso da quello presidiato dalla disposizione assistita da pena meno severa. Né osta a ravvisare l’identità del fatto la diversità di struttura tra il reato di abuso d’ufficio (di evento, integrato da dolo intenzionale) e quello di falso (di mera condotta, integrato dal dolo generico), perché quando l’evento ulteriore preso in considerazione da una sola delle due fattispecie è un evento giuridico, ma non materiale, ovvero quando muta il solo contenuto del dolo, può comunque continuarsi a parlarsi di identità del fatto. La Cassazione ribadisce l’orientamento prevalente in forza del quale tra il reato di falso e quello di abuso d’ufficio sussiste un rapporto di assorbimento, quando la condotta del pubblico ufficiale si esaurisce in un fatto qualificabile come falso in atto pubblico. L’articolo 323 del Cp, infatti, contiene una clausola di consunzione ("salvo che il fatto non costituisca più grave reato") che impone di considerare la fattispecie dell’abuso d’ufficio quale residuale e/o meramente eventuale e che è diretta, indipendentemente da un rapporto di specialità, a escludere l’applicazione del precetto penale nel caso in cui il fatto materiale, ovvero il comportamento abusivo, costituisca al tempo stesso un reato più grave. E ciò si verifica non solo quando il fatto commesso realizza un ulteriore reato che implica l’abuso di poteri dell’ufficio (ad esempio: peculato, corruzione), ma anche quando una fattispecie criminosa di diverso contenuto illecito (ad esempio truffa, falso) è commessa, o è aggravata, mediante un comportamento che costituisce abuso d’ufficio, che in essa si consuma, a nulla rilevando, in senso contrario, la diversità dei beni giuridici eventualmente protetti dalle diverse norme incriminatrici o la circostanza che mediante la condotta integrante il reato più grave il soggetto abbia altresì realizzato un proprio o altrui vantaggio patrimoniale ovvero abbia intenzionalmente arrecato ad altri un danno. Alla regola della consunzione dell’abuso nel più grave reato si fa eccezione, ovviamente, solo se la condotta abusiva risulta realizzata mediante attività o comportamenti produttivi di effetti giuridici ulteriori rispetto alla commissione della condotta integrante il reato più grave (tra le tante, sezione V, 10 novembre 2005, Cama, nonché sezione II, 11 ottobre 2012, Platamone). In senso diverso vi è comunque un orientamento minoritario, dove si esclude la sussistenza di un rapporto di assorbimento tra le due figure di reato e si afferma il concorso tra le stesse, basato sulla valorizzazione della circostanza che le due fattispecie offendono beni giuridici distinti, tutelando i delitti di falso la genuinità degli atti pubblici e quello di abuso d’ufficio l’imparzialità e il buon andamento dell’amministrazione (di recente, sezione II, 11 dicembre 2013, Cuppari). Legittimo l’uso della bomboletta spray al peperoncino se non ha finalità di offesa di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 10 aprile 2017 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 6 marzo 2017 n. 10889. La sottrazione del dispositivo costituito da una bomboletta contenente gas urticante (oleoresin capsicum: spray al peperoncino) idoneo a provocare irritazione degli occhi, sia pure reversibile in un breve tempo, alla categoria degli oggetti atti a offendere di cui all’articolo 4 della legge n. 110 del 1975 è subordinata non solo alla condizione di conformità alle caratteristiche tecniche di cui all’articolo 1, comma 1, del Dm 12 maggio 2011 n. 103 (approvazione del regolamento sulla definizione delle caratteristiche tecniche degli strumenti di autodifesa che nebulizzano un principio attivo naturale a base di oleoresin capsicum), ma anche alle modalità di impiego esclusivamente finalizzate all’autodifesa personale, mentre l’impiego come mezzo d’offesa comporta la piena e incondizionata applicazione della normativa in tema di armi. Lo ha detto la Cassazione con la sentenza n. 10889 del 6 marzo 2017. Da queste premesse, in una vicenda peraltro risalente a epoca anteriore al decreto del ministro dell’Interno 12 maggio 2011 n. 103, la Corte ha ritenuto correttamente ritenuta l’aggravante prevista per il reato di lesioni personali dall’articolo 585 del Cp, in ragione non solo dell’epoca di commissione del reato, ma anche in ogni caso dell’accertato impiego come mezzo di offesa da parte dell’imputato, chiamato a rispondere dei reati di resistenza a pubblico ufficiale e lesioni. Si deve ritenere che è consentito il porto giustificato da esigenze di autodifesa della bomboletta spray al peperoncino, a far data dall’entrata in vigore del 12 maggio 2011 n. 103, in presenza delle concorrenti condizioni che il preparato rispetti le specifiche tecniche stabilite nell’articolo 1 del decreto ministeriale e che lo strumento non venga utilizzato con finalità di offesa. Per converso, l’assenza delle richiamate condizioni, o di una di esse, porterebbe a qualificare il fatto come penalmente rilevante. Sotto questo profilo, pur in presenza di una interpretazione non univoca, sembra preferibile sostenere che il fatto integra gli estremi della contravvenzione di porto abusivo di armi, e non, invece, del delitto previsto dall’articolo 4 della legge 2 ottobre 1967 n. 895, e successive modificazioni, trattandosi di oggetto non ricompreso né tra le armi da guerra o tipo guerra, né tra le armi comuni da sparo (in termini, sezione I, 7 gennaio 2016, Delmastro). Ne consegue comunque che l’utilizzo dello spray per provocare lesioni, integra certamente l’aggravante di cui all’articolo 585, comma 2, del Cp, trattandosi pur sempre di fatto commesso utilizzando uno strumento atto a offendere, il cui porto sarebbe consentito solo in presenza di un giustificato motivo, e non certo per aggredire e offendere. Umbria: il Garante regionale dei detenuti "la situazione delle carceri peggiora" umbriaon.it, 10 aprile 2017 Il Garante dei detenuti, Stefano Anastasia, traccia un primo bilancio ad un anno dalla sua nomina: "Detenuti in aumento e nessuna formazione-lavoro". I numeri sono segnati in rosso in una griglia. Milletrecento quarantuno detenuti, 126 in più rispetto allo scorso anno e due in più rispetto alla capienza degli istituti carcerari. A un anno dalla sua elezione - il 7 aprile del 2016, seppur con sette mesi di ritardo - a Garante dei detenuti dell’Umbria il professor Stefano Anastasia traccia un bilancio della situazione degli istituti penitenziari regionali. E, tra sovraffollamento e carenza di opportunità, la situazione in Umbria non sembra poi così rosea secondo Anastasia, ricercatore di filosofia e sociologia del diritto nell’Università di Perugia e tra i fondatori dell’associazione Antigone, della quale è stato presidente dal 1999 al 2005. Popolazione in aumento - "Il problema principale di questo anno è che è ricominciata a crescere la popolazione detenuta dopo due anni di relativa calma in cui avevamo assistito a una riduzione, con la condanna da parte dell’Unione europea il sovraffollamento. Ora sembra sia in corso un’inversione di tendenza tutta italiana e stanno ricominciando a crescere, anche in Umbria, i detenuti, dal momento che provengono principalmente da altre regioni dove si soffre, maggiormente, per problemi di sovraffollamento". Numeri in aumento un po’ ovunque: a Perugia, nel giro di un anno, si è passati da 295 detenuti a 361, Spoleto da 451 a 482, Orvieto da 44 del 2016 a 63 del 2017 mentre Terni da 425 ha aumentato di dieci unità. Parità - Le presenze, dunque, vanno alla pari coi posti disponibili. Le carceri sono piene e gli istituti che soffrono di più sono proprio Terni e Spoleto dove i reclusi sono rispettivamente 435 su una capienza di 411 posti e 482 contro 458 posti liberi. "Lì si inizia a soffrire un po’ di più, ma anche Capanne ormai è arrivata al limite. Quindi bisogna fare una riflessione, prima che la situazione si complichi ancora di più". Carenza formazione - Per il resto, secondo Anastasia, la difficoltà più grande è quella di riuscire a promuovere attività dentro alle carceri. "Questa è la principale problematica, di cui discutevo anche giorni fa con l’assessore Paparelli, dal momento che lo scorso anno non ci sono state attività formative in nessuno degli istituti umbri. Promuovere attività dentro le carceri significa creare una quotidianità positiva e arricchita, anche perché trattandosi per la maggioranza dei casi, in Umbria, di detenuti definitivi, bisogna dar loro qualcosa da fare" spiega ancora Anastasia. L’impegno della Regione di attivare corsi di formazione professionale, dunque, c’è e, secondo il Garante, è il primo obiettivo da raggiungere per l’anno ancora in corso. Ma intanto la vita in carcere scorre lenta, mentre qualche detenuto riesce a partecipare a laboratori o attività extra come il teatro. "Sì, sono progetti molto importanti, come il gruppo teatrale promosso dallo Stabile al carcere di Capanne o quello attivo a Spoleto e a Terni e, in programma, ce n’è uno anche di prossimo avvio al carcere di Orvieto. Ma questo genere di iniziative non possono coinvolgere tutti i detenuti, sono importanti ma sono sempre autofinanziate e invece andrebbero maggiormente sostenute". L’attività professionale, però, dà la possibilità al detenuto di uscire e di mettersi alla prova con una nuova vita e, nello scorso anno, è totalmente mancata. "Me lo avevano fatto presente non appena sono arrivato in Umbria e, in un anno, non è cambiato nulla ancora. Ma stiamo lavorando per recuperare la strada persa e offrire nuove opportunità ai detenuti". Donne e bambini - "In Umbria l’unica sezione femminile è quella al carcere di Capanne, ma non ci sono donne con figli minori di tre anni anche se la popolazione femminile è aumentata, passando da 35 a 50. Anche per loro il problema è tenerle impegnate in qualche attività e trasformare il periodo di reclusione in un’occasione di crescita oltre che di riflessione. "Con l’unificazione del Provveditorato a quello della Toscana, molto spesso le recluse sono originarie di un’altra regione e questo provoca un maggior allontanamento dai propri familiari e una difficoltà di mantenere rapporti con il nucleo parentale". Diminuiscono, e questo e un buon segno, gli atti di autolesionismo in carcere, "casi particolari non ce ne sono stati. Invece è sempre in sofferenza l’organico delle forze di polizia, ma anche per quanto riguarda il personale amministrativo, le strutture ne risentono in Umbria come un po’ in tutta Italia". Il carcere di Perugia - Le strutture Se il carcere di Capanne è di costruzione relativamente recente, con interventi di manutenzione e di ristrutturazione realizzati con regolarità, la principale criticità nell’unica struttura perugina che prevede un’ala femminile è l’organico di polizia penitenziaria. A fronte di una necessità di 297 agenti, nella struttura, in cui il quasi 60% della popolazione è straniera, sono presenti solo 217 poliziotti. Basso anche il coinvolgimento in percorsi scolastici, con solo il 13% dei detenuti che partecipa ai corsi secondo le stime fatte dall’associazione Antigone. La casa circondariale di Terni - La casa circondariale di Terni, invece, tra le più affollate, ospita in prevalenza detenuti in regime di alta sorveglianza mentre circa una trentina i soggetti in regime di 41 bis, il cosiddetto "carcere duro". Anche qui a ogni detenuto sono garantiti 3 mq calpestabili. Le celle sono ariose e spaziose, ma ci sono problemi di umidità a causa di vecchie tubature che devono ancora essere sostituite. Anche qui qualche criticità si è avuta, lo scorso anno, dopo il trasferimento di detenuti da vari istituti della Toscana, prima che fossero di nuovo spostati in altri istituti. Nel solo 2016, infatti, si sono contati 107 procedimenti disciplinari e 312 eventi critici. La casa di reclusione di Spoleto - A Spoleto La casa di reclusione di Spoleto, invece, ospita detenuti di sesso maschile condannati a pene di durata medio-lunga e la struttura è stato individuata come il carcere che ospiterà i reparti psichiatrici. All’interno anche una quartina di soggetti tra collaboratori di giustizia, protetti e in isolamento. I lavori sono stati completati e si attendono disposizioni perché possano accogliere i primi detenuti. L’istituto è interessato da interventi periodici di manutenzione e le condizioni igienico-sanitari sono buone nonostante la struttura sia stata realizzata più di 30 anni fa. Il carcere di Orvieto - Nell’ex convento riadattato durante l’epoca fascista che ospita il carcere di Orvieto sono ormai terminati i lavori per realizzare un Icat, Istituto a custodia attenuata che ospita pochi soggetti, circa una sessantina, tutti lavoranti. Qui l’ambiente è particolarmente vivibile, anche grazie all’esiguo numero di detenuti, che permette a molti di alloggiare in spaziose celle singole, o al massimo a dividere la cella con solo un’altra persona. I problemi si fanno sentire però nella progettazione di attività formative qualificanti e che prevedano un reinserimento lavorativo, dato che la carenza di fondi rischia di vanificare la concreta realizzazione di percorsi lavorativi di reinserimento, requisito fondamentale per consentire il passaggio dalla detenzione attenuata alla libertà. Sassari: "Legalità e carcere", ultimo incontro del progetto rivolto agli studenti cagliaripad.it, 10 aprile 2017 "L’espiazione delle pene e il reinserimento sociale". È stato il tema cruciale dell’ultimo incontro tenutosi all’Istituto Alberghiero di Sassari nell’ambito del progetto "Legalità e carcere" articolato in cinque tappe e rivolto agli studenti delle classi quarte e quinte, proposto dal Comune di Sassari in collaborazione con la Casa Circondariale di Bancali, l’Ufficio esecuzione penale esterna, l’Università di Sassari e la Camera penale di Sassari. L’organizzazione e il coordinamento dei cinque incontri svolti in quest’anno scolastico sono stati curati dal professor Mario Dossoni, garante dei detenuti del carcere di Bancali, con la collaborazione della docente Anna Laura Espa all’interno dell’Istituto Alberghiero. L’iniziativa, tesa da parte degli organizzatori a far sentire la struttura carceraria come parte integrante della vita sociale e culturale della città, ha visto alternarsi fra i relatori magistrati, avvocati, operatori del settore carcerario e amministratori comunali su temi quali il concetto di legalità, i fondamenti costituzionali dell’azione penale, le modalità processuali, i diversi tipi di processo penale, le forme di pena alternative al carcere e il reinserimento nella società di chi ha vissuto l’esperienza della detenzione. Il confronto con gli studenti è stato sempre attivo ed interessato, soprattutto quando si è parlato delle pene alternative al carcere, con le testimonianze di alcuni ex detenuti che hanno scontato la loro pena e di altri che la stanno ancora scontando in regime di affidamento lavorativo. "Si è trattato di un’importante esperienza per la formazione ad una cittadinanza attiva e consapevole da parte degli studenti - precisa Maria Luisa Pala, dirigente scolastica dell’Istituto Alberghiero - avviata con successo già lo scorso anno scolastico con la prima serie di incontri. La nostra scuola, tra l’altro, ha deciso di offrire ai detenuti del carcere di Bancali una concreta opportunità di reinserimento sociale anche attraverso l’istruzione, mettendo a loro disposizione il supporto didattico di personale docente volontario e il materiale per lo studio utili ad acquisire competenze e titoli da far valere a fine pena nella comunità civile e nel mondo del lavoro". Roma: "Vite sospese", un percorso di conoscenza tra detenzione e libertà evensi.com, 10 aprile 2017 "L’Alternativa Onlus" e il "Movimento Nonviolento" - Centro territoriale del Litorale romano" propongono un ciclo di seminari aperto a tutte e tutti alla scoperta di un mondo poco conosciuto: quello delle carceri e delle persone che vi sono detenute. Sei incontri che si terranno all’Oasi Lipu di Ostia (Via dell’Idroscalo) a partire dal 9 febbraio nei quali si alterneranno figure istituzionali, esperti e associazioni che operano sul campo. "Vite Sospese" tra la libertà e la detenzione, tra il perdono e l’esclusione. Sospese in un limbo che è insieme temporale, fisico, psicologico. Attraversate le sbarre, la libertà, prima negata, non viene poi sempre riconquistata: il peso della detenzione può divenire un fardello troppo opprimente: c’è chi sceglie la morte in prigione, chi cade in depressione fuori. Inoltre, più di due terzi delle persone che escono dal carcere commettono nuovi reati. Tutti fattori che denunciano nella maniera più evidente il fallimento dell’istituzione carcere. Si può trovare un’alternativa? Cosa sappiamo delle vite sospese? Cosa avviene all’interno delle carceri e quali sono i diritti dei detenuti? Può la società stipulare con loro un patto di reciproca responsabilità? Domande impegnative, ma riteniamo che qualsiasi risposta debba partire da un principio comune: "L’essere umano è degno perché tale, e non per quel che fa o ha fatto". Dare voce alla dignità di queste vite sospese. Di donne e uomini, detenute e detenuti, costretti alla reclusione tra muri delle carceri; isolati e alienati - ma soprattutto colpevolmente dimenticati - dalla società fino all’espiazione del proprio reato. Iniziare a conoscere e far conoscere il significato di una "vita sospesa" nel momento in cui, riconquistata la sua libertà, essa fa nuovamente ingresso in una società con la quale erano stati abbattuti ogni ponte, ogni possibilità di contatto. Questi sono i principali motivi che ci hanno reso persuasi della necessità di dar vita al ciclo di seminari che qui presentiamo, nei quali saranno nostri ospiti diverse personalità, figure istituzionali e realtà associative che operano nel campo. Per non poter dire, un giorno: "Noi non sapevamo". Per immaginare coralmente metodi e iniziative per ricostruire ponti e legami tra detenzione e libertà. Gli incontri avranno una cadenza mensile e saranno a numero chiuso, pertanto è necessario prenotarsi chiamando il numero 3249096919 o scrivendo a nonviolenzaroma@gmail.com Benevento: arte e integrazione, show per i detenuti con la Compagnia instabile Donato Faiella Il Mattino, 10 aprile 2017 Mercoledì 12 aprile, alle 15, nella Casa circondariale di Benevento, spettacolo teatrale "Carosello Napoletano", un lavoro della Compagnia Instabile dell’Uoc di Puglianello e Morcone, in collaborazione con le "La fabbrica dei Sogni" e "L’Aquilone". L’evento è stato organizzato dal Dsm (dipartimento salute mentale), di cui è responsabile Maurizio Volpe, in accordo con la direttrice del carcere Maria Luisa Palma, La regia è di Ciro Ruoppo, mentre la direzione musicale è di Bruno Capuano. Ad assistere alla manifestazione il personale del carcere di Capodimonte, i detenuti e diversi sofferenti psichici tra cui quelli del Ssmp (servizio salute mentale penitenziario), uno speciale servizio che in parte sostituisce gli Opg (ospedali psichiatrici giudiziari). La Compagnia Instabile dell’Uoc di Puglianello e Morcone, è qualcosa di davvero "speciale" perché composta da operatori e pazienti della salute mentale. "LA (acronimo di Laboratorio Artistico) Compagnia Instabile" è una compagnia teatrale integrata costituita da pazienti, lavoratori e volontari afferenti all’Unità operativa complessa di Salute Mentale di Puglianello e Morcone, rie adenti nell’Asl di Benevento. La Compagnia, forse unica nel panorama del teatro integrato italiano, vede il coinvolgimento diretto di psichiatri, psicologi, infermieri professionali ed operatori socio sanitari che, insieme ai pazienti ed a numerosi volontari, hanno costituito un gruppo di lavoro il quale ha via via saputo strutturare un atteggiamento di fiducia collettiva orientato alla coesione, alla comprensione, al gioco e al riconoscimento della "bellezza". "Questa esperienza - ha detto Maurizio Luigi Volpe - è testimonianza reale per tutti noi di sperimentare una modalità di relazione interna in termini di lavoro "con la persona" e non "sulla persona", consentendo in maniera particolare agli operatori sanitari in essa coinvolti, il superamento del modello noi-loro tipico del paradigma medico". Diverse le opere messe in scena dal gruppo che si è esibito anche in altre province e regioni italiane. Terni: "Pensieri sparsi", l’anima dei detenuti in una mostra al cenacolo San Marco umbriaon.it, 10 aprile 2017 Un pomeriggio speciale, quello di sabato, per alcuni detenuti della Casa circondariale di Terni che per qualche ora hanno potuto riassaporare "la libertà e la gioia di abbracciare i miei figli in un luogo diverso da quelle quattro mura". È stata, infatti, inaugurata "Pensieri sparsi", la mostra di opere pittoriche, disegni e poesie realizzate nell’ambito del progetto "Arte in carcere" della Caritas diocesana e associazione di volontariato San Martino, in collaborazione con la direzione della Casa circondariale di Terni. La mostra d’arte, allestita al cenacolo San Marco di Terni fino al 15 aprile, apre la serie di iniziative promosse in occasione del ventennale dell’associazione di volontariato San Martino. La famiglia "Questo progetto - ha raccontato a Umbria-On uno dei detenuti presenti sabato all’inaugurazione - è stato molto importante perché mi ha dato la possibilità di esprimermi nell’arte e non pensare sempre alle stesse cose. Inoltre, ho sviluppato un talento che non pensavo di avere perché il disegno, fin dai tempi della scuola, non mi piaceva molto. Ora posso dire di averlo apprezzato e di essere diventato anche bravo". Per questa mostra "abbiamo avuto finalmente la possibilità di uscire e riapprezzare i veri valori della vita: la libertà e la gioia di abbracciare i miei figli in un luogo diverso dal carcere". "Una cosa importante" Un altro detenuto, invece, si è avvicinato a questo corso "per passare il tempo, ma man mano ho preso sempre più dimestichezza con i pennelli e mi sono reso conto di quanto sia importante. Non avevo mai toccato nemmeno una matita in vita mia e oggi mi ritrovo ad essere pure bravino. Inoltre, è un’occasione per fare gruppo, parlare e fare esperienze come quella di oggi. Vedere tutta questa gente in visita alla mostra mi fa rendere conto di aver fatto una cosa importante". Il progetto "La mostra rappresenta la conclusione di un percorso umano e formativo che la Caritas ha avviato con i detenuti nel segno di una grande attenzione alla dignità umana, del riscatto umano e sociale e della speranza", ha spiegato Nadia Agostini responsabile del settore carcere della Caritas diocesana. "Abbiamo scelto di concluderlo con la mostra nella Settimana Santa che rappresenta per i cristiani il segno della sofferenza, passione e morte, ma soprattutto della resurrezione. Un segno di speranza che è il percorso che si cerca di infondere a tutte le persone che si incontrano nel centro di ascolto in carcere. La mostra giunge a conclusione di un anno intero dedicato all’approfondimento di questo percorso umano che si esprime visivamente nelle opere dei detenuti". La socializzazione Un laboratorio artistico, attivo da quasi 15 anni all’interno del carcere, che è opportunità di socializzazione ed evoluzione relazionale mentre si apprendono le tecniche del disegno e del colore. Rappresenta una delle varie modalità di solidarietà che, grazie all’associazione di volontariato San Martino che gestisce le opere segno della Caritas diocesana, vengono portate a favore dei detenuti durante tutto l’anno sia con aiuti di beni di prima necessità, con i colloqui nei centri di ascolto, le tombolate per il Natale e tante altre iniziative per dare conforto e beni concreti ai detenuti e alle loro famiglie. "La libertà crea legalità" Per la direttrice del carcere Chiara Pellegrini, "la presenza di alcuni detenuti alla mostra è una cosa che per noi da valore a questo evento, perché quando si dice che il carcere deve aprirsi si pensa sempre che debba aprire le porte per fare entrare gente, però a noi piace molto anche il contrario, ovvero aprire le porte per far uscire la gente. Ogni percorso trattamentale è un percorso di libertà nella legalità che è fonte di dignità umana. Solo la libertà crea legalità. Voglio dire grazie a terni che mostra sempre più di essere una cittadinanza aperta alle persone detenute". Il vescovo di Terni, Giuseppe Piemontese, prega perché "il carcere di Terni si avvicini sempre più alla città, anche se già molti passi sono stati fatti con attività come questa. La realtà del carcere non deve farci paura, al contrario dobbiamo creare sempre più rapporti di famiglia perché tutti possano lottare contro il male". Gli orari - La mostra sarà allestita al cenacolo San Marco fino al 15 aprile e sarà possibile visitarla dalle 10 alle 12.30 e dalle 16.30 alle 19.30. Le opere potranno essere acquistate con un’offerta in denaro e il ricavato sarà utilizzato per l’acquisto dei materiali per il laboratorio artistico, per le necessità del detenuto autore dell’opera e per un fondo comune. Como: al carcere del Bassone si impara l’arte dell’intaglio nonsolocomo.info, 10 aprile 2017 Ripartono i laboratori di intaglio al carcere del Bassone. Questa mattina infatti quattro detenuti, affiancati dai tecnici di Ersaf, l’Ente regionale per i servizi all’agricoltura e alle foreste, hanno iniziato le lezioni per la realizzazione di sculture in legno e bastoni da passeggio. L’iniziativa, resa possibile grazie alla collaborazione del direttore della casa circondariale di Albate, Carla Santandrea, è stata voluta, sin dall’inizio dal Consigliere Segretario Daniela Maroni. "Sono convinta che chi sbaglia possa avere una seconda chance. - commenta il Consigliere Segretario Daniela Maroni - Nella prima fase, quella di sperimentazione, siamo riusciti a far realizzare una serie di bastoni inseriti poi nel Circuito dei Rifugi lombardi per la vendita. Alcuni detenuti hanno persino realizzato delle sculture in legno e, alla fine del corso, è stato consegnato il pastorale a Mons. Diego Coletti, vescovo emerito di Como, sempre attento a queste attività". Le lezioni, in base alla propensione dei nuovi corsisti, si svilupperanno per tutto il mese di aprile. Tutto ciò rappresenta solo l’inizio di un’avventura a cui, oltre alla partecipazione attiva da parte del Consigliere Segretario Daniela Maroni, ha visto concretizzarsi nuove collaborazioni che, di volta in volta, vengono ampliate con nuovi partner. "Nelle carceri italiane il lavoro e il recupero dei carcerati attraverso progetti si sta diffondendo - conclude Daniela Maroni - Trovo siano iniziative per dare aria e far sperare i detenuti. Non solo la moda alla basse delle singole iniziative, ma un’azione per dare sfogo alle singole peculiarità di chi intende impegnarsi e raccogliere del denaro da reinvestire in ulteriori iniziative". Campobasso: il laboratorio in carcere di Nicola Macolino diventa un libro primonumero.it, 10 aprile 2017 "Sotto il sole del supplizio" è il titolo del libro di Nicola Macolino che sarà presentato lunedì 10 aprile alle 18.30 al palazzo Gil di via Gorizia: una raccolta di immagini e testi frutto del laboratorio e dello spettacolo teatrale realizzati tra marzo e giugno del 2016 dall’autore con i detenuti del carcere di Larino all’interno del penitenziario. Il progetto, promosso dal Cpia (Centro Provinciale per l’Istruzione Adulti) si è sviluppato sulla base del testo "Die Hamlet Maschine", dramma postmoderno del drammaturgo e regista teatrale tedesco Heiner Muller. L’opera, scritta nel 1977, è liberamente ispirata all’ Amleto di William Shakespeare. Il libro è intesto come parte finale di un progetto ben più articolato costituito da più "sezioni", da quella laboratoriale iniziale, a quella performativa legata alla messa in scena del testo Mulleriano, in forma itinerante negli diversi spazi del carcere, a quella appunto editoriale. Pubblicato da Palladino Editore in doppia lingua (italiano e inglese), il volume è stato già presentato lo scorso novembre presso l’Università di Bristol, UK, a cura dell’Italian Cultural Centre of Bristol. La presentazione di Campobasso è la prima ufficiale, nella regione dove il progetto ha avuto origine e si inserisce nell’ambito di "Poietika", festival di letteratura e poesia in corso, promosso dalla Fondazione Molise Cultura e diretto da Valentino Campo. "Un Altro Me", intervista al regista Claudio Casazza di Mario Blaconà thesubmarine.it, 10 aprile 2017 Il 13 aprile esce nelle sale "Un Altro Me", l’ultimo documentario del regista milanese Claudio Casazza, ambientato nel carcere di Bollate. Il film riprende il lavoro riabilitativo che un gruppo di psicologi e criminologi, guidato da Paolo Giulini, sta compiendo sui detenuti che scontano una pena per reati sessuali. Il lavoro si concretizza in gruppi d’ascolto composti dai detenuti e dallo staff di Giulini, che segue il percorso di queste persone anche fuori dal carcere, aspetto che per il sistema penale italiano è assolutamente inedito. Finora dei 248 uomini seguiti solo 7 sono stati di nuovo arrestati per una violenza, mentre la media internazionale è del 20%. "Un Altro Me" mette in scena un’importante riflessione su quanto sia essenziale cambiare il punto di vista generale sui colpevoli di violenza sulle donne, senza dipingerli arbitrariamente come mostri, demonizzandoli a ogni costo. Abbiamo fatto due chiacchiere con il regista, che ci ha raccontato la sua esperienza nel carcere, il suo rapporto con i detenuti e con gli psicologi, e come il film cerchi di suscitare un piccolo cambiamento su un discorso così delicato. Claudio, puoi dirci perché è stato scelto un titolo come Un Altro Me? Perché ha un significato ambivalente. Uno è la ricerca di un altro sé da parte dei detenuti, che facendo un lavoro su se stessi cercano di capire quello che hanno fatto, mentre l’altro, secondo me e secondo la produttrice a cui è venuta l’idea di questo titolo, ci parla del modo in cui la società guarda queste persone, mettendo loro addosso la classica faccia del mostro e basta. Con questo lavoro io ho proprio cercato di avere un altro tipo di sguardo. Nel film i detenuti sono ripresi sempre fuori fuoco. Oltre alle evidenti ragioni di privacy, questa scelta assume anche un ruolo preciso all’interno della narrazione? Il fuori fuoco nasce, come dici tu, proprio da una necessità di tutela, in primis delle vittime, per non far sì che vedessero i propri carnefici al cinema, e poi dei detenuti, per non rischiare di essere riconosciuti e ancora una volta bollati. Per farlo c’erano varie possibilità: anche facendo l’osservazione e basta avrei potuto riprenderli a fuoco e poi digitalmente renderli fuori fuoco, ma dato che a volte mi chiedevano di vedersi in video, se si fossero visti a fuoco nel momento delle riprese avrei probabilmente minato il rapporto di fiducia che si era instaurato tra di noi. Poi naturalmente c’è anche un motivo che rispecchia una mancata consapevolezza in loro stessi, come se non riuscissero a vedersi dentro, e da qui quindi il doppio ruolo del fuori fuoco. Una volta ripresi così dovevo anche scegliere come stare con la camera, che ho scelto di tenere sempre fissa e alla loro altezza, anche perché c’era già tanto movimento di parola, si dialogava molto, non c’era bisogno di altro dinamismo, anzi c’era quasi la necessità di un contraltare per trasmettere stabilità. Negli ultimi anni la consapevolezza che la forma del documentario riesca a potenziare ancora di più la possibilità che il cinema ha di riflettere i cambiamenti del reale sembra aver preso piede anche qui in Italia. In che misura secondo te? Sicuramente si fanno molti più film in questo periodo, il digitale aiuta e il documentario, essendo il mezzo più semplice a livello organizzativo, è anche quello più usato. Poi c’è da dire che si hanno meno soldi per fare film di finzione, e allora accade una cosa molto particolare: si usa il contenitore del documentario per fare fiction. Ne è una prova il fatto che al festival di Berlino è stata recentemente aggiunta una sezione, il documentary form: i registi dei film presi in questa categoria usano la messa in scena documentaristica, pilotando però la realtà a loro piacimento. Spesso sono anche film molto belli, ma oramai si mischiano moltissimo i generi. E anche in Italia nel nostro piccolo stiamo attuando queste continue commistioni. Il tema affrontato nel tuo film può dare adito a un’eccessiva retorica, se affrontato nel modo sbagliato. A proposito di questo, tu cosa hai preferito lasciar fuori da questo lavoro, per non incorrere in questo rischio? Ho lasciato perdere tutto ciò che è voyeuristico, tutto ciò che è oltre. Infatti non si capiscono quasi mai nel film gli esatti reati che ogni detenuto ha compiuto, non se ne parla direttamente, vengono toccati senza scavare nel torbido. Anche perché ci sono dei limiti invalicabili, non bisogna mai andare verso la retorica spicciola, come hai detto tu, e questo permette anche agli spettatori di riflettere meglio durante la visione: ci sono molte sequenze che finiscono o con delle sospensioni o con delle domande, che permettono allo spettatore di dare lui stesso le proprie risposte, oltre a quelle che prova a fornire il film, laddove ce ne sia bisogno. E quindi, oltre a essere un dialogo tra detenuti e psicologi, è un banco aperto anche per la riflessione del pubblico. Avendo avuto modo di stare insieme per parecchio tempo con responsabili di reati sessuali, che idea ti sei fatto sul modo in cui la società recepisce il triste fenomeno della violenza sulle donne? Partiamo dal presupposto che il film è una piccola parte, rispetto a questo grande problema. Certamente un lavoro così fa capire che dovrebbero esistere in tutte le carceri progetti di questo tipo. Al momento non è così, nonostante si sia dimostrato un 90% di abbattimento della recidiva. Questo gruppo è stato il primo a portare in Italia questo trattamento, e non era facile far capire che un tipo di percorso del genere poteva portare a dei progressi effettivi. Purtroppo per ora il carcere di Bollate è l’unico dove il progetto ha resistito, grande merito loro che ci hanno creduto e delle istituzioni che in questo caso hanno accolto coraggiosamente questa innovazione. Purtroppo il sistema penale italiano a conti fatti è riabilitativo solo nella lunghezza delle pene, ma poi se non fai nulla per riabilitare effettivamente il detenuto sei punto da capo, e naturalmente il rischio di recidiva aumenta esponenzialmente. Il carcere infatti è solo uno dei luoghi in cui questo gruppo lavora, dato che segue il percorso di queste persone sia prima che dopo la pena. Sempre grazie alla tua esperienza all’interno del carcere hai avuto modo di capire in che misura i comportamenti di queste persone siano dettati da una questione individuale, piuttosto che da una pressione costante di un mondo che tende a sessualizzare tutto e a oggettivare sempre il corpo femminile? Anche questa è una problematica molto complessa ed estesa. Basandomi su quello che ho visto, dato che l’estrazione sociale e l’età dei detenuti che hanno commesso questo reato è la più varia, quello che è chiaro è che è un problema generale, non da ridurre a stereotipo e a una determinata classe sociale o culturale. Se le statistiche dicono che una donna su tre ha subito violenza, vuol dire che inevitabilmente un uomo su tre l’ha fatta. Poi è chiaro che ognuno ha le sue difese e ha reazioni diverse al mondo che ci circonda. In alcuni casi infatti ho constatato, anche se ho preferito non farlo vedere quasi mai nel film, per non creare "giusitificazionismi" che violenze subite precedentemente hanno portato queste persone a compierle a loro volta. Non è una consecutio automatica, ma la forte probabilità purtroppo c’è. Così la paura ha fatto breccia nelle nostre vite di Paolo Graldi Il Messaggero, 10 aprile 2017 Il pendolo del terrore si è fermato due volte a Tanta e ad Alessandria, in Egitto, per vomitare il suo carico di morte sui fedeli della chiesa copta. Gente raccolta in preghiera per la domenica della Palme, facile bersaglio: almeno 47 le vittime. L’urlo velenoso dell’Isis rivendica quel fiume di sangue. Quella voce pone la firma del Califfo quasi su ogni attacco accogliendo "martiri" e soldati tra le proprie ali. Si compone così una mappa del terrore a largo raggio che aggiunge a macchia di leopardo i segni sanguinari di una strategia che incita ad usare qualsiasi mezzo, ovunque e comunque, pur di colpire i miscredenti. I responsabili, dicono le investigazioni, sono naturalizzati nelle realtà dove si muovono per colpire: conoscono i luoghi, le abitudini, agiscono di sorpresa, qualche volta sono già inseriti nelle liste dei sospettati ma non lo sono abbastanza per essere fermati. Hanno famiglia in molti casi, con tanto di moglie e figli, e altrettanto di frequente hanno maturato esperienze come miliziani combattenti sui fronti di guerra in Iraq, Afghanistan o Siria. Dopo gli attacchi armati in Francia, iniziati con la strage del "Bataclan", primo sconvolgente choc per un assalto armato tra la gente, e le bombe dei kamikaze all’aeroporto di Bruxelles, il terrore si è dispiegato in una formula ancora più subdola e micidiale, l’attacco con i camion puntati contro persone inermi che passeggiano. Ed ecco Nizza la notte della festa della presa della Bastiglia, Berlino al mercatino di Natale, Londra, nel luogo che s’immagina più protetto e invulnerabile, il Parlamento britannico. Decine di morti che si sommano al diffondersi di una paura impalpabile, alla quale nessuno dice di voler cedere ma che, lentamente, sottilmente cambia le abitudini di ciascuno, ci rende guardinghi, sospettosi. A Oslo l’altra sera l’occhio lungo di un cittadino disvela la presenza di un ordigno pronto a esplodere e si fa in tempo a renderlo inoffensivo; a Stoccolma tre giorni fa quell’uzbeco radicalizzato alla jihad, padre di quattro figli lasciati alla deriva, fanatico ma considerato non pericoloso, ha rubato un Tir e lo ha scaraventato contro un supermercato dopo una folle corsa per falciare più gente impegnata nello shopping. Il puzzle degli episodi va ingigantendosi e anche le nostre autorità, pur vantando orgogliosamente l’efficienza dei servizi di intelligence e di quelli sulla sicurezza, segnalano la "grande imprevedibilità" di questi eventi. Ci è andata bene, non per semplice fortuna ma per bravura, e tuttavia i colpi di questa guerra asimmetrica potrebbero arrivarci in casa da un momento all’altro nonostante le misure sempre più avvolgenti e complesse. "Intelligence, prevenzione e controllo del territorio", spiega il ministro dell’Interno Marco Minniti, rappresentano le tre direzioni fondamentali sulle quali si muovono i nostri apparati. La mancata integrazione di soggetti che potrebbero aumentare di numero e assorbire anche i foreign fighter rifluiti dalla Siria dove il Califfato subisce colpi su colpi, rappresenta oggi il pericolo di maggiore intensità al quale far fronte. Prende corpo, magari con qualche esagerazione, che i paradisi incontaminati, protetti da alte barriere e comunque non segnati nella mappa di sangue, non esistono più. Si fa strada la consapevolezza che il nostro vivere quotidiano deve prevedere accortezze, accorgimenti, attenzioni neppure immaginati fino a poco tempo fa. Anche nei discorsi che di solito seguono gli eventi luttuosi ci si accorge che ciascuno, in proprio, seguendo il buon senso se non altro, tende a piegare le proprie abitudini ad un concetto di attenzione più vasto. Si ragiona sulla opportunità di frequentare luoghi affollati, si è attenti ai veicoli che circolano e alle manovre che compiono, si diventa guardinghi verso oggetti abbandonati, peggio se pacchi, zainetti, valige. La paura è qualcosa di sottile come una polvere che produce un atteggiamento reattivo e collaborativo. Il "non sono affari miei" si spegne davanti al bisogno percepito di avvertire le forze dell’ordine, facendosi coraggio per il timore di non aver visto giusto e creato agitazione senza motivo. La nostra vita, inevitabilmente, risente di una cappa nella quale si muovono molte implicazioni e che deve essere tenuta ben salda e lucida per non sconfinare nella caccia alle streghe, nel panico ingiustificato, nei luoghi comuni. Tanti piccoli 11 settembre, il maledetto giorno delle Torri Gemelle di NewYork (2001), hanno scavato nell’immaginario collettivo fino a configurare una nuova psicologia di massa che rifiuta la paura e l’imposizione a modificare le proprie abitudini ma che, nel contempo, vive una insicurezza latente, subdola, sfiancante. È chiaro che la strategia complessiva contro le macchie di leopardo del terrore va cambiata: il governo con la legge Minniti, che segna un cambio di passo deciso e determinato mette in moto un’azione dapprima soltanto declamata, la quale comprende una risposta severa verso chi razzola male e merita una immediata espulsione o chi nelle carceri cova, come è accaduto, propositi di vendetta verso la società che lo ha accolto. È il caso di quel giovane immigrato a Milano, imbottito di droga ed alcol ed armato di coltello pericolosamente scagliatosi contro i passanti e fermato da agenti delle "volanti" con il minimo di danno. Ora è lecito chiedersi se i nuovi scenari ci vedono adeguatamente attrezzati in termini i di uomini e mezzi, posti come elementi fondanti di una emergenza alla quale purtroppo non si può sfuggire. Se servono più mezzi il governo dovrà farsene carico con determinazione affidando il compito della sicurezza diffusa ai poteri locali, come si sta facendo, ma anche ripensando l’esatta misura da adottare per cogliere l’obiettivo di non alimentare la paura e però anche di aumentare concretamente le barriere di protezione, fisiche e non solo. I tempi sono maturi per mostrare l’orgoglio che ci rassicura senza dimenticare che la nostra vulnerabilità resta comunque altissima. Se il nemico è ad alta imprevedibilità è necessario arrivare un attimo prima che ci colpisca. Un nuovo ecumenismo per vincere il terrore di Andrea Riccardi Corriere della Sera, 10 aprile 2017 L’Isis colpendo i copti d’Egitto ha colpito i cristiani nel mondo, in un giorno sacro per cattolici, ortodossi ed evangelici: il prossimo viaggio di Bergoglio è un’occasione per rilanciare ciò che unisce. La domenica delle Palme è stata una giornata di sangue per i cristiani egiziani: una bomba nella Chiesa copta della grande città di Tanta e, successivamente, un attentatore suicida si è fatto esplodere fuori dalla cattedrale di San Marco di Alessandria. Daesh (Isis), è crudele e attento alla simbologia. Colpendo i copti egiziani, conferma la guerra ai cristiani nel mondo. Era già il terribile messaggio dello sgozzamento dei 21 operai copti in Libia nel 2015 sulle rive del Mediterraneo in cui, tra impressionanti effetti scenici, si inviava un messaggio ai "crociati copti" e ai cristiani del Nord. La Chiesa copta li ha proclamati martiri. Gli attacchi di ieri sono avvenuti nel giorno in cui cattolici, ortodossi di ogni tradizione ed evangelici, celebrano l’ingresso nella Settimana Santa: una data fortemente simbolica per l’intero mondo cristiano. Quest’anno, casualmente, i diversi calendari fanno coincidere la Pasqua. Non avviene quel fatto imbarazzante per cui le diverse Chiese la celebrano in domeniche distinte. Dal 2013, ci sono state almeno 40 aggressioni ai copti da parte musulmana, le ultime nella cattedrale del Cairo e nel Sinai. Le tensioni islamo-cristiane hanno caratterizzato la storia recente dell’Egitto, anche con i rapimenti di donne cristiane, la loro conversione e i matrimoni forzati. Ma Daesh ora alza il tiro e ne fa un atto di "guerra": sceglie la data simbolica, in cui copti celebrano la "processione della croce gloriosa", che è, quest’anno, la Domenica delle Palme per tutti i cristiani. Daesh colpisce la cattedrale di San Marco ad Alessandria, sede del patriarca copto papa Tawadros che, casualmente, l’aveva lasciata da poco. Conosce bene i costumi cristiani. Attraverso questi attentati, si candida alla leadership globale dei musulmani sunniti non solo contro l’Occidente, ma contro i cristiani in genere. Ma molti musulmani egiziani hanno manifestato l’orrore per l’assassinio di gente indifesa e in preghiera, mentre il gran imam di Al Azhar Al Tayyb ha subito condannato i fatti. I copti sono un facile bersaglio per i terroristi: vivono con i concittadini musulmani. Sono la più grande comunità cristiana nel mondo arabo, circa dieci milioni. Gli studiosi si sono interrogati sul perché della loro sopravvivenza alla dura pressione secolare dell’Islam, mentre i cristiani sono scomparsi nel vicino Nord Africa e si sono molto ridotti in Medio Oriente. I copti (il termine richiama l’origine egiziana) sono stati per secoli lo strato più povero, spesso confinato in aree marginali, ma fedeli alla fede cristiana, vicini ai monasteri. Mai, di fronte ai musulmani, si sono difesi con la forza: le crociate non fanno parte della loro storia, per questo definirli "crociati" come fa Daesh è assurdo. La "rinascita copta" è avvenuta tramite l’innalzamento del livello di studi (un’aristocrazia copta c’è sempre stata, come la famiglia dell’ex segretario generale dell’Onu, Butros Ghali) e soprattutto attraverso un vasto movimento religioso d’istruzione e partecipazione alla vita comunitaria, che ha toccato capillarmente il popolo. Lo si vede nelle chiese egiziane, dove spesso i copti hanno in mano il Vangelo e seguono partecipi i riti. Nerbo della rinascita sono stati i monaci, spesso di cultura, che hanno ricostruito storici monasteri, diroccati e disabitati. Sono stati l’anima della ripresa dell’identità religiosa e popolare copta, che si è espressa nella volontà di pari diritti con i musulmani e di superamento della condizione di umiliazione. Gli ultimi tre patriarchi, riformatori e guide spirituali della Comunità, sono legati a questo movimento. Il penultimo, papa Shenuda, ha guidato la Chiesa con forza, protestando contro il governo per le violenze e le limitazioni subite: il che causò il suo confino in un monastero del deserto all’epoca del presidente Sadat. L’attuale patriarca appoggia il presidente Al Sisi, allo stesso modo del gran imam di Al Azhar. Ci sono state varie minacce verso Tawadros. È figura ecumenica: venuto a Roma nel 2013 per incontrare il neoeletto Francesco, segnando una svolta dopo i difficili rapporti tra Vaticano e Shenuda. Ha proposto al Papa l’unificazione della data per la celebrazione della Pasqua tra tutti i cristiani. Tra il Papa di Roma e quello egiziano si è creato un rapporto intenso, che rende Francesco sensibile alla dura situazione dei copti. Bergoglio vive l’ecumenismo in modo personale con amicizia. La prossima visita in Egitto ne è l’espressione, anche se si prospetta con qualche rischio. Tuttavia è confermata, anzi gli attentati la motivano ancor di più. Viene da chiedersi, innanzi a questo scenario, se i motivi storici e teologici (che giustificano la divisione tra Chiese) non perdano ormai la loro forza di fronte alla persecuzione che coinvolge tutti i cristiani e a nuove prossimità che ci creano tra loro. La visita di Francesco in Egitto è espressione d’intensa solidarietà ma è anche un passo di nuovo ecumenismo. Croazia. Morì fra le fiamme nel carcere di Pola, i parenti fanno causa allo Stato Il Piccolo, 10 aprile 2017 Venticinquenne in isolamento fece fuoco con un accendino "Se lo avessero perquisito a dovere non sarebbe accaduto". La famiglia Besic ha fatto causa alla Repubblica di Croazia chiedendo un risarcimento danni da 150mila euro per la morte del congiunto Bojan Besic, avvenuta in carcere il 16 novembre 2015. La richiesta fa leva sulle presunte inadempienze di due guardie carcerarie, tra l’altro finite sotto inchiesta. "Al momento di trasferire il prigioniero in isolamento - sostengono la madre, la sorella e due fratelli del defunto - le due guardie non lo perquisirono a fondo come prescrive il regolamento: altrimenti gli avrebbero trovato addosso l’accendino con cui Bojan, che aveva 25 anni, appiccò il fuoco alle imbottiture in gomma della cella". Una volta rinchiuso nella cella, Besic infatti estrasse l’accendino dalla tasca della tuta - come documentato dalla registrazione della videocamera di sorveglianza - appiccando il fuoco alle imbottiture in spugna e similpelle. Il fuoco si sviluppò in breve senza lasciargli scampo. Il personale carcerario notò uscire del fumo dalla cella e tentò di entrarvi: ma la porta scottava ormai al punto che una delle guardie, nel tentativo di aprirla, riportò delle ustioni e finì al pronto soccorso. Subito allertati, vigili del fuoco, polizia e sanitari riuscirono a raggiungere Besic un’ora dopo che era scattato l’allarme: troppo tardi. Sembra che il giovane non volesse togliersi la vita, ma solo richiamare l’attenzione delle guardie con il fumo. Era stato messo in isolamento "per disobbedienza e comportamento violento", aveva spiegato all’epoca il responsabile delle case di pena presso il Ministero della Giustizia Ivica Simac. Bojan Besic stava scontando una pena detentiva di 8 mesi e sarebbe uscito di prigione una sessantina di giorni dopo. La sua tragica morte rappresenta l’incidente più grave mai accaduto nel carcere di Pola, da anni sovraffollato. Subito dopo la tragedia la Procura aveva avviato le indagini nei confronti del capo dei servizi di sicurezza interna e del controllore di turno delle guardie carcerarie. I due erano stati accusati di non aver incaricato una guardia di sorvegliare continuamente l’interno della cella tramite la videocamera interna. Nei loro confronti è stato poi ipotizzato il reato contro la sicurezza generale con conseguente decesso di una persona. Se processati e riconosciuti colpevoli, rischiano fino a 8 anni di reclusione. Africa a rischio default di Riccardo Barlaam nigrizia.it, 10 aprile 2017 Ti presto i soldi. Tu non riesci a restituirli. E vai in fallimento. Il Mozambico dallo scorso 5 febbraio è il primo paese africano a finire in default da diversi anni a questa parte. Non è riuscito a pagare la rata sulle obbligazioni governative da 727 milioni di dollari collocate sui mercati finanziari nel 2013 per finanziare l’ammodernamento della flotta di pescherecci, le tonnare che solcano l’Oceano Indiano. Il titolo scadeva nel 2020. Il termine è stato prorogato al 2013. Ma non è bastato. La rata di interessi da 60 milioni di dollari sui bond per i pescherecci è scaduta il 16 gennaio. Da quella data gli investitori attendevano indicazioni dal governo di Maputo. Il periodo di moratoria non è stato sufficiente per rientrare. Complice il crollo dei prezzi delle materie prime e il dollaro forte che ha fatto precipitare il valore della valuta locale e aumentare a dismisura gli interessi sul debito, il Mozambico ora dovrà rinegoziare la ristrutturazione del suo debito insoluto con il Fondo monetario internazionale. Una ristrutturazione che si preannuncia lunga e complessa. Con una cura lacrime e sangue simile a quella imposta alla Grecia. Nonostante la crescita economica degli ultimi anni - aumento del Prodotto interno lordo del 7,5% annuo - la stabilità politica e la scoperta di importanti giacimenti dei gas, il Mozambico si ritrova stretto nella morsa del debito. Non è il solo. Dopo questo primo default, gli investitori, preoccupati, si chiedono quale sarà il prossimo paese africano a saltare. Bloomberg ha messo a punto una classifica del rischio paese legata ai debiti sovrani che considera il deficit di bilancio, le riserve internazionali, le sofferenze bancarie e l’instabilità politica per calcolare, appunto, le probabilità di default. Le quattro bandiere candidate ad aggiungersi a quella del Mozambico da qui a fine anno per l’incapacità di ripagare i debiti sono: Senegal, Tunisia, Ghana e Zambia. Nel gruppo dei paesi a rischio ci sono anche: Angola, Kenya e Costa d’Avorio. Negli ultimi anni l’Africa ha conosciuto un boom economico. I paesi africani hanno emesso prestiti obbligazionari per finanziare programmi di sviluppo, incoraggiati dall’aumento dei prezzi delle materie prime e dai bassi tassi di interesse monetari. Ora il quadro è radicalmente mutato. Diversi analisti parlano di "rischio contagio". Insomma di una malattia che rischia di trasformarsi in un’epidemia, ma di tipo economico, per tutta l’Africa.