Forno carceri, in 9 metri quadri a 40° di Lavinia Gerardis e Francesco Maggi Adnkronos, 9 agosto 2017 Vivere in 9 metri quadri in due, tre, a volte quattro persone senza potersi fare una doccia quando se ne ha voglia. Starsene fermi in branda sperando che dalla finestra con le sbarre arrivi un po’ d’aria. Se oltre alle sbarre non ci sono - e invece ci sono in un penitenziario su tre - le reti o le bocche di lupo che l’aria non la fanno passare. Vivere in carcere è dura, in estate e con questo caldo, ancora di più. "Anche se il regolamento del 2000 prevede che ci debba essere la doccia in cella - spiega all’Adnkronos il responsabile dell’Osservatorio di Antigone, Alessio Scandurra - 7 volte su 10 la doccia in cella non c’è". E quindi i detenuti devono spostarsi e per spostarsi devono aspettare il proprio turno. Se l’acqua c’è. E non sempre c’è. "Il carcere di Santa Maria Capua Vetere al momento è senza approvvigionamento idrico - ricorda Scandurra - e il problema non si risolverà a breve perché richiede lavori impegnativi. E quindi in questo momento si cerca di sopperire con le bottiglie". L’ora d’aria si fa un po’ prima o un po’ più tardi del solito, quando il sole non è rovente. Ma quando il cielo è stellato e l’aria più leggera la giornata dei detenuti è finita da un pezzo e si sta in cella. Consentiti ma rari i ventilatori. Perché non tutti sanno che si possono tenere e poi occupano spazio e lo spazio quando si è il doppio di quelli che si dovrebbe essere (come accade oggi in Lombardia), è prezioso. "L’estate è sempre un periodo difficile - rileva il responsabile di Antigone - perché la vita che in carcere è fatta di poco d’estate molto di quel poco lo perde: si fermano le attività didattiche, anche i volontari vanno in vacanza. Ed ecco che aumentano atti di autolesionismo e suicidi". Braccialetti elettronici, Fastweb vince l’appalto di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 agosto 2017 Finalmente centinaia di detenuti potranno a breve usufruire degli arresti domiciliari. Prevista l’attivazione mensile di 1.000 dispositivi, fino a un surplus del 20 per cento in più, con connessi servizi di assistenza e manutenzione per un arco temporale di 27 mesi. Aggiudicato il bando di gara per la produzione dei braccialetti elettronici. La commissione nominata per le valutazioni tecnico/ economiche delle offerte pervenute ha affidato a Fastweb la fornitura, l’istallazione e attivazione mensile di 1000 braccialetti elettronici, fino a un surplus del 20 per cento in più, con connessi servizi di assistenza e manutenzione per un arco temporale di 27 mesi. La compagnia telefonica, in tandem con l’azienda Vitrociset, aveva presentato l’offerta più conveniente dal punto di vista economico: poco più di 19 milioni di euro, oltre l’iva al 22 per cento. La gara di appalto a normativa Europea, infatti, con aggiudica - sulla base del criterio dell’offerta più vantaggiosa, aveva un importo complessivo a base di gara pari a più di 45 milioni di euro. Alla gara erano state ammesse 3 società. Fastweb con Vitrociset, Engineering e BT Italia e infine Telecom Italia. Telecom sarebbe risultata la migliore nella parte tecnica per mezzo punto rispetto a Fastweb, ma questa alla fine l’ha spuntata perché ha fatto un’offerta economica dimezzando l’importo di partenza. Dopo un lungo iter, finalmente centinaia di detenuti, in attesa dei braccialetti, potranno a breve usufruire degli arresti domiciliari. In sostanza si darà effettività agli articoli 275 bis del codice penale e 58 quinquies dell’ordinamento penitenziario. Si metterà così fine a una vicenda paradossale. Il problema di oggi, e che è finalmente destinato a risolversi, è l’opposto di quello che si era manifestato nel corso degli anni dopo l’introduzione dei dispositivi elettronici: superata la diffidenza e i disguidi iniziali, che nei primi sei mesi del 2013 aveva portato all’attivazione di soli 26 braccialetti, la nuova modalità di concessione della misura di custodia cautelare, aveva iniziato a farsi largo nei tribunali anche grazie al decreto svuota-carceri del 2013. La quantificazione dei duemila braccialetti che Telecom Italia si era impegnata a fornire, senza gara d’appalto, al ministero della Giustizia, risale all’accordo siglato con l’allora ministro Angelino Alfano dopo uno studio ad hoc commissionato sull’applicabilità della misura: un appalto - che sarebbe durato fino al 2018 - per un valore complessivo di 500 milioni. ll business dei braccialetti elettronici nasce però nel 2001 da un accordo di due membri dell’allora governo Amato: il ministro dell’Interno, Enzo Bianco, e il Guardasigilli, Piero Fassino. Ma dei ben 400 dispositivi elettronici che il Viminale aveva noleggiato dalla Telecom, solo 11 erano stati utilizzati: in poche parole, per una decina di braccialetti utilizzati, si impose una spesa pubblica di circa 11 milioni di euro all’anno per un affare complessivo da 110 milioni di euro. Un gap che la ex ministra Cancellieri aveva tentato di risolvere con un decreto del 2013 che caldeggiava l’utilizzo dei braccialetti per le persone agli arresti domiciliari. Però, fino al 2014, ne erano attivi solo 55 in otto uffici giudiziari. Perché? La risposta è in una lettera scritta allora da una gip di Torino, Alessandra Bassi, e da un sostituto procuratore di Firenze, Christine von Borries. Furono loro a spiegare ai colleghi ignari che potevano chiamare Telecom per installare le centraline. Da allora, anche in seguito ai provvedimenti che ne incentivavano l’utilizzo, c’è stato un boom delle richieste fino a esaurire i braccialetti disponibili. Ora non rimane che aspettare che Fastweb cominci con la produzione e l’emissione di uno strumento che permette anche di arginare il sovraffollamento che persiste nelle patrie galere. La separazione delle carriere non pregiudica l’indipendenza dei pm di Alessandro Gerardi* Il Dubbio, 9 agosto 2017 Gli ultimi casi di cronaca giudiziaria dimostrano che in Italia la separazione delle carriere dei magistrati è una riforma quanto mai necessaria e ciò sulla base di alcune semplici considerazioni: 1) nel corso degli ultimi anni la discrezionalità dei Pubblici ministeri si è dilatata enormemente per effetto di varie circostanze ed ha fatto un salto di qualità notevole rispetto al recente passato. L’organo inquirente, infatti, ha oggi una grande discrezionalità sia nello scegliere se iniziare o meno le indagini (quali reati perseguire e chi perseguire), sia nella scelta dei mezzi di indagine e sia nel decidere quale pubblicità e risonanza dare all’esterno alla sua indagine. Se tutto ciò è vero, allora diventa indispensabile controbilanciare una discrezionalità così elevata. Una tecnica è appunto quella di separare pubblici ministeri e giudici in modo da costringere i primi a confrontare le loro ipotesi accusatorie non con dei colleghi, ma con degli appartenenti ad un altro potere; 2) attualmente giudici e pubblici ministeri appartengono alla stessa corporazione e, quindi, alle stesse correnti associative dalle cui decisioni dipende gran parte della loro carriera. I rapporti stretti che inevitabilmente si creano tra di loro intaccano inevitabilmente l’effettiva terzietà del Giudice rispetto alle parti del processo; 3) se giudici e pubblici ministeri appartengono allo stesso ordine giudiziario, se cioè nel comune sentire sono entrambi "giudici", allora lo stesso avvio dell’azione penale da parte di chi è assimilato al giudice che applica la legge è visto dall’opinione pubblica come una anticipazione di condanna. La soluzione a tutto questo è data dalla proposta di legge costituzionale sulla quale Unione delle Camere Penali e Partito Radicale stanno raccogliendo le firme. Nonostante un mito diffuso ad arte nel recente passato, la separazione delle carriere dei magistrati non pregiudica necessariamente l’indipendenza dei pubblici ministeri, ad esempio in questa proposta ideata da Ucpi si prevede espressamente che spetta alle norme dell’ordinamento giudiziario il compito di assicurare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura requirente, per cui provvedimenti incidenti sullo status dei pubblici ministeri non potranno essere adottati da organi politici, il che esclude qualunque forma di loro dipendenza dall’esecutivo che è pur prevista in tanti altri Paesi che hanno una tradizione democratica molto più antica della nostra. Anche i magistrati dell’accusa avranno il loro organo di auto- organizzazione, per giunta presieduto dal Capo dello Stato, come garanzia ulteriore della indipendenza del corpo dei pubblici ministeri. Ancora oggi, quindi, il tema della separazione delle carriere, sebbene fuori dall’agenda politica, rappresenta un nervo scoperto per la giustizia italiana, lo hanno capito i quasi 60mila cittadini che hanno già sottoscritto questa proposta di legge con ciò inviando un autentico segnale politico alle Istituzioni. *Tesoriere del Comitato Radicale per la Giustizia Piero Calamandrei Ignudi come vermi davanti al fisco di Marino Longoni Italia Oggi, 9 agosto 2017 Il 21 agosto 2017 è uno spartiacque simbolico tra due mondi diversi, tra un prima e un dopo. Prima c’era la sovranità nazionale sulle informazioni finanziarie, il diritto alla privacy e alla titolarità esclusiva dei propri dati personali. Dopo, le esigenze della lotta all’evasione e della lotta alla criminalità faranno tabula rasa di tutti questi diritti. Entro il 21 agosto, infatti, le banche di 54 tra i più importanti paesi del mondo dovranno trasmettere alle rispettive amministrazioni fiscali i dati finanziari dei propri clienti stranieri. In pratica il fisco italiano conoscerà i dati relativi ai conti bancari dei suoi cittadini detenuti in Italia (già da anni presenti nell’anagrafe tributaria) e ora anche all’estero. Il segreto bancario, che nemmeno Hitler, Stalin o Mussolini, avevano intaccato, è stato cancellato praticamente in tutto il mondo. Non finisce qui. La recente riforma del processo penale, entrata in vigore il 3 agosto, ha autorizzato i cosiddetti trojan di stato, cioè la possibilità, per tutte le procure della repubblica italiane, di usare virus informatici per ottenere intercettazioni a basso costo e in maniera illimitata, e l’accesso a tutti i dati contenuti in computer, telefonini ecc. Con i trojan si può prendere possesso di un telefonino, un computer, persino un’automobile, e trasformare questi strumenti, a insaputa del proprietario, in strumenti di registrazione audio e video operativi 24 ore su 24. Inoltre la possibilità di ottenere intercettazioni o indagini penali ha superato le frontiere nazionali. Il decreto legislativo n. 108, entrato in vigore a fine luglio, ha aperto le porte all’ordine di indagine europeo: in pratica un giudice italiano può delegare un collega di un altro Paese membro le indagini su una determinata persona o società, senza troppe formalità. Il diritto alla privacy, negato sempre più nei fatti, si è però trasformato in montagne di inutile modulistica, che cittadini e imprese devono compilare ogni volta che firmano un atto o una ricevuta, fosse anche quella dell’elettrauto: un trend destinato a peggiorare con il documento di valutazione impatto privacy, che tutte le aziende saranno obbligate a predisporre nei prossimi mesi a pena di sanzioni pesantissime. La corruzione può avere per oggetto un semplice parere di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 9 agosto 2017 Corte di cassazione, Sesta sezione penale, sentenza 8 agosto 2017, n. 39020. Anche un "semplice" parere non vincolante può essere oggetto del reato di corruzione. Lo chiarisce la Corte di cassazione con la sentenza n. 39020 della Sesta sezione penale depositata ieri. La pronuncia conferma in questo senso la fondatezza della contestazione di corruzione per atti contrari a quelli d’ufficio (pena massima 10 anni) e non, come sostenuto dagli avvocati difensori, per la meno grave ipotesi di corruzione per atti contrari alla funzione (pena massima 6 anni), nell’inchiesta che ad aprile ha portato all’arresto dell’ex direttore provinciale dell’agenzia delle Entrate di Genova e di alcuni professionisti consulenti della Securpol, commercialisti e avvocati, per tangenti in cambio di una transazione fiscale molto "agevolata" che si sarebbe dovuta chiudere con il pagamento di soli due milioni di euro a fronte di una richiesta di 26 milioni. Accolto, però, il ricorso nella parte che metteva in evidenza l’inesistenza dei presupposti per la custodia cautelare in termini di rischi di inquinamento del quadro probatorio. Quanto alla qualificazione del reato, la sentenza ricorda che la società in questione aveva avanzato una proposta di transazione con l’amministrazione finanziaria per un importo di due milioni a fronte di un’esposizione complessiva di 26 milioni formalizzata all’agenzia delle Entrate di Genova. Nell’ambito dell’iter procedurale all’Agenzia provinciale spettava l’istruzione con la formulazione di un parere, sia pure non vincolante, mentre la decisone finale restava di competenza dell’Agenzia regionale. Nell’impugnazione si metteva in evidenza la natura non vincolante dell’atto di competenza del direttore provinciale. Tuttavia la posizione della Cassazione, dopo avere precisato il venire meno dell’imparzialità nella valutazione discrezionale, ricorda che "il delitto di corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio può essere integrato anche mediante il rilascio di un parere non vincolante, allorché esso assuma rilevanza decisiva nella concatenazione degli atti che compongono la complessa procedura amministrativa e, quindi, incida sul contenuto dell’atto finale". La pronuncia conferma poi che la sola prova della dazione di denaro non basta per attestare la gravità degli indizi a carico. La dazione indebita di un’utilità a favore del pubblico ufficiale, dal corruttore al corrotto, deve avere come obiettivo la realizzazione oppure l’avvenuta realizzazione di un atto contrario ai doveri di ufficio. "Abuso" se l’inchiesta è rallentata di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 9 agosto 2017 Corte di Cassazione, sesta sezione penale, sentenza n° 38991 /17. L’indebito rallentamento del corso della giustizia, con inevitabile danno alle parti civili, è idoneo a integrare il reato di abuso d’ufficio in capo al procuratore della Repubblica. Rallentamento che può consistere anche nella co-assegnazione al capo medesimo dei fascicoli affidati al sostituto procuratore titolare dell’indagine. La Sesta penale della Cassazione - sentenza 38991/17, depositata ieri - chiude la complicata vertenza dell’ufficio di Siracusa, respingendo i ricorsi del capo pro tempore e del suo aggiunto per fatti avvenuti alla fine del decennio scorso. Il vertice dell’ufficio delle indagini era in sostanza accusato di aver interferito in un paio di procedimenti - uno di natura penale tributario, l’altro di diffamazione - in forza di rapporti di amicizia con un avvocato e il di lui figlio. Secondo la Corte d’appello di Messina, che aveva riformato il giudizio di primo grado, sul procuratore incombeva un vero e proprio dovere di astensione dal procedimento. Se è vero che l’articolo 52 del codice penale, riformato dal decreto legislativo 109/2006, prevede una semplice "facoltà" di astensione ogniqualvolta il ruolo del pubblico ministero può essere contaminato da un interesse personale o familiare, la lettura incrociata con l’abuso d’ufficio regolato dal codice penale (articolo 323) impone di considerare tale opzione come un "obbligo" giuridico. L’omissione di "astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto" è infatti punito con la reclusione se l’imputato "intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto". A giudizio della Sesta penale, l’intromissione del procuratore nell’indagine penale tributaria (in cui l’avvocato amico e la moglie avevano subito anche un sequestro preventivo) e poi nella causa di diffamazione collegata è idonea alla realizzazione di un danno ingiusto a carico delle parti civili e un correlativo vantaggio per gli "amici". L’estensore argomenta che le parti civili sono certamente "titolari di un qualificato e giuridicamente rilevante interesse a vedere esaminate nel processo penale le loro pretese risarcitorie". Inoltre, la nozione di danno ingiusto conseguente all’abuso d’ufficio "non può intendersi limitata solo situazioni soggettive di carattere patrimoniale e nemmeno a diritti soggettivi perfetti, ma riguarda anche l’aggressione ingiusta alla sfera della personalità per come tutelata dalle norme costituzionali"; in questo contesto la ragionevole durata del processo penale e del suo carattere equo rappresenta un’ulteriore ingiustizia provocata alle parti civili che, a causa della eccessiva durata dell’indagine, si sono viste dichiarare l’intervenuta prescrizione dei reati contestati. E sempre a proposito dell’abuso d’ufficio, il pubblico ministero che si era visto coassegnato il fascicolo degli amici del capo è parte offesa di un’ingiusta e ingiustificata "perdita di decoro e di prestigio personale" provocata dallo "spossessamento" del fascicolo d’indagine. Da qui la conferma definitiva delle condanne ai vertici pro tempore dell’ufficio siracusano. Per il diritto all’oblio non basta da solo il fattore tempo di Antonello Cherchi Il Sole 24 Ore, 9 agosto 2017 Il diritto all’oblio non può basarsi solo sul tempo trascorso dalla vicenda che si intende cancellare dalla Rete, ma deve valutare anche altri elementi, come il diritto all’informazione. Per questo, un funzionario pubblico che attualmente ricopre un elevato incarico nelle Forze dell’ordine, ha avuto dal Garante della privacy soddisfazione solo a metà. L’interessato era stato coinvolto sedici anni fa, quando ricopriva nella Pa un altro incarico, in una vicenda giudiziaria per la quale aveva subito una condanna penale. La sentenza di condanna gli aveva, però, concesso sia il beneficio della sospensione condizionale della pena sia quello della non menzione nel casellario giudiziale. Nel 2013, poi, il tribunale di Roma aveva disposto la riabilitazione, grazie alla quale l’interessato risulta oggi esente da qualsiasi pregiudizio penale. Nonostante questo, anche di recente era sufficiente digitare su Google il nome de l soggetto o anche il nominativo insieme alla parola "condannato", per ottenere una serie di articoli di tanti anni fa, non aggiornati con le più recenti evoluzioni della vicenda. L’interessato aveva, dunque, chiesto al motore di ricerca di applicare il diritto all’oblio e rimuovere quelle vecchie notizie. Google non aveva, però, dato seguito alla richiesta. Secondo i legali della società, infatti, in questo caso non ci si poteva rifare alla sentenza della Corte di giustizia del 13 maggio 2014 (cosiddetta "sentenza Costeja" o "Google Spain", che ha accolto il diritto all’oblio), perché lì si affermava che potevano essere cancellati dalla Rete i risultati di una ricerca che partiva dal solo nome e cognome del soggetto. Nel caso di specie, invece, bisognava aggiungere anche la parola "condannato". Questo, secondo Google, dimostrava che le persone che consultavano internet conoscevano comunque la vicenda personale dell’interessato. La questione è finita davanti al Garante della privacy, che non ha accolto la tesi della società californiana. Per l’Authority, la sentenza spagnola autorizza a prendere in considerazione i risultati di una ricerca effettuata a partire dal nome del soggetto, senza però escludere che si possano associare ulteriori parole. Dunque, considerato il tempo trascorso dalla vicenda giudiziaria, l’avvenuta riabilitazione dell’interessato e il fatto che apparivano sulla Rete notizie datate e non aggiornate, il Garante ha imposto a Google di applicare il diritto all’oblio. Discorso diverso, invece, per articoli più recenti, pubblicati tra il 2012 e il 2016, i quali, pur ricordando la vicenda giudiziaria, la inseriscono in un contesto più ampio, nel quale sono forniti anche altri elementi. In questo caso, il diritto all’oblio non si può applicare, perché prevale quello all’informazione, anche in considerazione del ruolo istituzionale ricoperto dall’interessato. Automobile non confiscabile se manca uno stabile collegamento con il reato di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 9 agosto 2017 Corte d’appello di Roma - Sezione III penale - Sentenza 11 aprile 2017 n. 2914. L’automobile impiegata per il trasporto della droga e in modo anomalo ed occasionale usata come mezzo per commettere i reati di lesioni personali e di resistenza a pubblico ufficiale non è confiscabile ai sensi dell’articolo 240 del codice penale. In tal caso, infatti, manca il collegamento stabile con l’attività delittuosa che tenga viva l’idea del reato. Ad affermarlo è la Corte d’appello di Roma nella sentenza 2914/2017. Il caso - Protagonista della vicenda è un uomo, in possesso di diverse dosi di cocaina, il quale, fermato ad un posto di blocco, per evitare di essere sottoposto a controlli da parte degli agenti di polizia accelerava con la sua vettura colpendo sul fianco uno degli operatori, non riuscendo però a fuggire. Tratto a giudizio per rispondere dei reati di lesioni personali, resistenza a pubblico ufficiale e detenzione di stupefacenti, l’imputato veniva condannato dal giudice di primo grado, che disponeva, altresì, la confisca ex articolo 240 c.p., delle dosi di droga e dell’automobile. Tuttavia, l’uomo ricorreva in appello chiedendo l’assoluzione per i fatti commessi, nonché la revoca del provvedimento di confisca della sua autovettura, in quanto non esisteva alcun collegamento qualificato tra il mezzo e i reati a lui contestati, ma, al più, un nesso meramente occasionale. La decisione - La Corte d’appello conferma la condanna per i reati contestati all’imputato, ma accoglie la sua richiesta in merito alla revoca della confisca dell’automobile. I giudici spiegano, infatti, che la confisca prevista dall’articolo 240 c.p. è una misura di sicurezza patrimoniale "tendente a prevenire la commissione di nuovi reati mediante l’espropriazione a favore dello stato di cose che, essendo quanto meno collegate alla esecuzione di illeciti penali, manterrebbero viva l’idea e la attrattiva del reato". Tale misura, cioè, ha carattere cautelare e necessita di un "rapporto di asservimento effettivo tra cosa e reato", dovendo sussistere un nesso strumentale e non meramente occasionale con l’attività delittuosa posta in essere. E ancora, ricorda la Corte, in relazione all’autovettura utilizzata per il trasporto di droga, per la confisca del mezzo non basta il semplice impiego, ma occorre "un collegamento stabile con l’attività criminosa, che esprima con essa un rapporto funzionale, evincibile, ad esempio, da modifiche strutturali apportate al veicolo o, comunque, dal costante inserimento di esso nell’organizzazione esecutiva del reato". Presupposti evidentemente non integrati nel caso di specie. Sardegna: politiche sociali, ripartite risorse alle Comunità d’accoglienza per detenuti regione.sardegna.it, 9 agosto 2017 Parte delle risorse arriva dal Fondo istituito dal Consiglio regionale e finanziato con 600.000 euro per gli anni 2016, 2017 e 2018. Le restanti somme sono state integrate dall’assessorato attingendo dal Fondo nazionale politiche sociali 2016 per un importo pari a 210.093 euro, così da dare copertura alle richieste arrivate. Le risorse, messe a disposizione tramite avviso pubblico, hanno finanziato cinque Comunità d’accoglienza per l’attuazione di programmi di inclusione di persone sottoposte a misure penali. Poco meno di un milione di euro è stato ripartito dalla Giunta regionale, su proposta dell’ assessore della Sanità e Politiche sociali, Luigi Arru, a favore delle comunità per l’accoglienza di persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. Parte delle risorse arriva dal Fondo istituito dal Consiglio regionale e finanziato con 600.000 euro per gli anni 2016, 2017 e 2018. Le restanti somme sono state integrate dall’assessorato attingendo dal Fondo nazionale politiche sociali 2016 per un importo pari a 210.093 euro, così da dare copertura alle richieste arrivate. Le risorse, messe a disposizione tramite avviso pubblico, hanno finanziato cinque Comunità d’accoglienza per l’attuazione di programmi di inclusione di persone sottoposte a misure penali. Arru. L’assessore ha ricordato che, per dare continuità all’attività, la legge di stabilità regionale del 2017 ha disposto che "le strutture ammesse a finanziamento nel 2016 siano da intendersi provvisoriamente accreditate, fino all’attuazione del sistema di accreditamento dei servizi e delle strutture sociali". "La stessa norma - ricorda - ha anche disposto che gli Enti che gestiscono le strutture beneficino, nel 2017, di un contributo massimo di 200.000 euro nei limiti delle spese sostenute e rendicontate nel corso dell’anno e sulla base di un programma annuale di intervento assistenziale". Programma delle Comunità. La Direzione generale delle politiche sociali ha invitato gli Enti ad inviare, entro il 10 giugno 2017, il proprio Programma annuale di intervento assistenziale che tenesse conto dell’approccio socio educativo adottato dalla Comunità; delle attività riferite all’anno 2017, comprese quelle già svolte dal primo gennaio, in corso di svolgimento o che dovranno essere svolte; il numero di ospiti accolti negli ultimi tre anni; una stima del numero di ospiti per l’annualità 2017; il numero degli operatori con i relativi titoli professionali e i rispettivi ruoli; il numero di ore di attività svolte dagli operatori; il costo orario per ciascun operatore; le spese sostenute o che si ipotizza di sostenere per tirocini, inserimenti lavorativi e per qualsiasi altra attività rivolta agli ospiti; le spese di gestione della struttura sostenute per gli ospiti. Enti. Il contributo massimo di 200 mila euro è stato assegnato all’associazione Cooperazione e confronto, alla cooperativa sociale Il Samaritano, alla cooperativa sociale San Lorenzo, all’associazione Giovani in Cammino, alla cooperativa sociale Comunità Il Seme. Dall’istruttoria condotta dalla Direzione generale delle politiche sociali emerge che tutti gli enti hanno inviato nei tempi indicati il proprio Programma annuale di intervento assistenziale, fornendo in modo puntuale ed esaustivo le informazioni richieste e formulando le richieste di contributo. Risorse 2016. Sempre su proposta dell’assessore Arru, la Giunta ha deciso di mettere a bando gli 80 mila euro non spesi nel 2016, così da consentire la presentazione di progetti a quegli enti che non hanno avuto risorse lo scorso anno. Abruzzo: emergenza caldo nelle carceri, la senatrice Pezzopane (Pd) interroga Orlando abruzzoweb.it, 9 agosto 2017 "Un’interrogazione urgente al ministro della Giustizia per sollecitare il governo a intervenite sull’emergenza caldo nelle carceri del territorio". È l’iniziativa messa in campo dalla senatrice aquilana del Partito democratico Stefania Pezzopane, dopo il grido d’allarme dei sindacati. "La mia iniziativa prende le mosse da una sollecitazione che mi è arrivata dalla Uil-Pa, che di recente ha stigmatizzato le condizioni di estremo disagio dovute al caldo di queste settimane, nelle carceri di Sulmona e L’Aquila - scrive - La situazione è drammatica per detenuti e per operatori penitenziari. I detenuti vivono in celle sovraffollate, per lo più senza docce, 7 celle su 10 ne sono sprovviste". Per la Pezzopane, "la situazione è particolarmente critica nelle carceri di L’Aquila e Sulmona - prosegue la senatrice - Entrambi gli edifici sono costruiti in cemento armato e ferro, dunque a forte conducibilità termica, pertanto in inverno per riscaldare le strutture si è costretti a spendere 10 volte di più rispetto a una abitazione qualunque; viceversa, in estate è difficile rinfrescare i locali, non essendoci un apparato climatizzante nella celle e più in generale in tutti corridoi del carcere, dove operano gli agenti preposti alla sorveglianza". "La situazione diventa invivibile tanto che si sono verificati parecchi malori che hanno interessato sia i detenuti che gli operatori penitenziari. Quest’ultimi da tempo lamentano condizioni di lavoro non più accettabili anche per via del personale in servizio insufficiente - conclude - Nell’interrogazione sollecito il governo a intervenire subito per mettere in campo misure preventive e azioni mirate per alleviare i disagi di detenuti ed operatori penitenziari". Firenze: a Sollicciano arriveranno 60 ventilatori compatibili con l’impianto elettrico di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 agosto 2017 L’invio dei ventilatori per alleviare le sofferenze dei detenuti all’interno del carcere di Sollicciano sembrava non più fattibile, per fortuna è stata trovata una soluzione. Nei prossimi giorni arriveranno 60 ventilatori compatibili con le caratteristiche dell’impianto elettrico. Nei giorni scorsi - come riportato da Il Dubbio - l’associazione radicale fiorentina "Andrea Tamburi" guidata dal radicale Massimo Lensi e il cappellano del carcere, don Vincenzo Russo, avevano sollecitato interventi. La regione Toscana aveva colto l’appello e aveva predisposto l’invio di un centinaio di ventilatori, ma poi era giunto lo stop da parte dell’Amministrazione penitenziaria: le celle sono a bassa tensione e quindi l’impianto non reggerebbe il carico. Don Russo, però, ha chiesto di non rinviare la soluzione troppo a lungo e ha invitato la Regione a trovare una soluzione. Il cappellano ha comunque fatto recapitare al carcere tredici ventilatori con nebulizzatore, uno per ogni area di passeggio. "Don Russo ha ragione - dice Massimo Lensi dell’associazione radicale "Tamburi" - i ventilatori devono essere consegnati il prima possibile al carcere in modo che sia la direzione autonomamente a decidere dove è possibile collocarli". Sempre Lensi lancia un appello affinché si mobiliti tutta la società. "Il caldo di questi giorni - scrive Lensi - è duro per tutti, ma per chi è rinchiuso, o lavora, dentro l’istituto penitenziario di Sollicciano si profila l’emergenza sanitaria. Le celle sono tutto il giorno esposte al sole e diventano formi che propagano calore a tutta la struttura trasformandola in un inferno che non risparmia nessuno. Un carcere di cemento armato, come Sollicciano, assorbe e trattiene le ondate di calore, rendendo vani i miseri tentativi di protezione dal caldo da parte della popolazione ristretta. Gli stessi educatori e gli agenti del corpo di polizia penitenziaria ne risentono, mettendo a rischio non solo i percorsi rieducativi e di reinserimento sociale, previsti dalla nostra costituzione, ma la salute fisica e psichica di centinaia di persone". Il radicale fiorentino denuncia che non è più possibile tollerare che questa situazione si protragga. "Non in Toscana - chiosa Lensi, dove per la prima volta si è avuto il coraggio di dire no alla vendetta abolendo la pena di morte, e ancor meno a Firenze, che sempre si è schierata in prima linea per la difesa della dignità umana. Ognuno può fare qualcosa. La Regione, per esempio, potrebbe rafforzare i presidi sanitari, Comune di Firenze e Città Metropolitana potrebbero organizzare, insieme alla Direzione del carcere, una presenza strutturata e continua all’interno dell’istituto per dare un segnale politico di forte di raccordo tra territorio, carcere, istituzioni e tutti i soggetti coinvolti nel Pianeta Carcere. Questo permetterebbe di ripartire tutti insieme per affrontare subito, con rapidità e efficacia, i problemi, strutturali e non, che hanno reso Sollicciano l’inferno abbandonato che è ora". Napoli: sovraffollamento a Poggioreale, scatta l’allerta di Giuseppe Letizia Cronache di Napoli, 9 agosto 2017 L’istituto può contenere 1.624 detenuti: ce ne sono 2.019 ed è allarme per i mesi più caldi dell’anno. Il direttore del carcere: i flussi non dipendono da noi ma da fattori esterni. In Campania ci sono 7.096 detenuti in carcere. ma gli istituti ne possono contenere al massimo 6.114. Il dato risale al 31 luglio, comprende anche i reclusi in semilibertà. Questo è il perìodo più caldo dell’anno: l’emergenza sovraffollamento si fa sentire in modo particolare nei mesi di luglio e agosto, quando le celle diventano roventi. La Lombardia fa peggio: su 6.122 posti disponibili, gli istituti ne ospitano 8,130. Il carcere di Secondigliano ospita 1.280 detenuti (la capienza massima è 1.026). Mentre il complesso a Poggioreale accoglie 2.109 persone, ma ne può contenere 1.624 (un surplus di 485 unità). I sindacati e le associazioni hanno spiegato più volle che la situazione e le condizioni dei reclusi nel carcere di Poggioreale sono andate lentamente migliorando negli ultimi anni, con la gestione di Antonio Fullone. Qualche tempo fa l’istituto aveva anche toccalo quota 2.700. un vero record negativo. Ma le altre carceri non stanno messe meglio: l’istituto femminile dì Pozzuoli ha una capienza di 109 posti, ma ospita 171 donne, Il carcere di Santa Maria Capua Vetere ospita 956 detenuti a fronte di una capienza dì 819. Insomma è un problema diffuso e non solo in Campania. Ma quali sono le soluzioni? "Per quanto riguarda gli afflussi non è merito mio - spiega il direttore del carcere di Poggioreale Antonio Fullone - dipende dai flussi. Quando io arrivai qui tre anni fa, c’erano 1.800 reclusi. Ci siamo tenuti su questo livello fino ad ora. Di recente sono aumentali gli ingressi, ma a livello nazionale e abbiamo raggiunto quota 1.624". Il presidente dell’associazione ex Detenuti organizzati napoletani. Pietro loia, cerca di fare il punto della situazione: "Purtroppo il numero dei reclusi nelle ultime settimane sta lentamente aumentando. E i detenuti non ce la fanno, le mura e le celle sono roventi. Sono esausti. Alcuni dormono a terra. I materassi sono di spugna. Molti bagnano le tovaglie con l’acqua fredda e se le mettono addosso, per rinfrescarsi. Ci vorrebbero i ventilatori nelle celle. Negli istituti di mezza Europa ci sono i condizionatori, gestiti dall’esterno dalla polizia penitenziaria. Noi non abbiamo nemmeno i ventilatori". Livorno: l’allarme del Sindaco "nel carcere infiltrazioni di acqua, docce non funzionano" agenziaimpress.it, 9 agosto 2017 Il carcere di Livorno preoccupa il sindaco Filippo Nogarin che sulla sua pagina Fb esprime i suoi timori "per le condizioni in cui versa la Casa circondariale di Livorno, che ospita circa 230 detenuti. L’armatura in ferro di molte parti della struttura è esposta alle intemperie, due interi padiglioni, il C e il D, sono chiusi da tempo e, più in generale, le infiltrazioni d’acqua sono presenti in alcune aree dell’edificio, alcuni corridoi, alcune celle e in alcuni spazi comuni". Problema di sicurezza per le docce Il primo cittadino si dice pronto ad agire "in prima persona" per portare queste criticità all’attenzione del Ministro della Giustizia, del Dipartimento e del Provveditorato generale. "Ma c’è di più - prosegue Nogarin - nelle scorse settimane l’Asl e i Vigili del fuoco hanno vietato l’utilizzo delle docce in un braccio del Reparto Transito. Con il risultato che ogni giorno 69 detenuti devono scendere al piano di sotto per utilizzare le docce riservate a un altro braccio. Questo come è ovvio comporta problemi di sicurezza, oltre a un carico di lavoro extra per gli agenti della polizia penitenziaria che sono costretti a lasciare la loro postazione per scortare i detenuti nel reparto adiacente". La cucina all’avanguardia inutilizzata Nogarin solleva inoltre un terzo problema: "Nel 2015 - dice - è stato inaugurato un nuovo reparto di alta sicurezza al cui interno è stata allestita una cucina straordinariamente all’avanguardia, in grado di servire 1000 pasti al giorno. Una cucina mai stata consegnata all’amministrazione penitenziaria perché manca una certificazione antincendio. Uno spreco di denaro pubblico inaccettabile". Ragusa: Carovana per la Giustizia e raccolta firme, interviene Rita Bernardini newsicilia.it, 9 agosto 2017 La delegazione della camera penale di Siracusa e la Carovana per la Giustizia, del Partito radicale, hanno raccolto le firme sulla proposta amministrativa popolare per la separazione delle carriere. Infatti, proprio l’esponente del Partito radicale, Rita Bernardini, insieme al gruppo della Carovana per la Giustizia, ha fatto un sopralluogo al carcere di Ragusa, parlando della raccolta firme. "È vero - dichiara Bernardini - che la Sicilia è l’ultima regione che ha messo in atto il passaggio della gestione sanitaria dal Ministero di Giustizia alle regioni e Asl territoriali ma la situazione è critica. Io personalmente ho assistito oggi ad una crisi epilettica fortissima di un ragazzo: era tenuto da 5 persone che hanno fatto quello che potevano. Non dovrebbe stare qui, lui come altri. Necessaria è la medicina preventiva che possa evitare che si arrivi per alcune malattie all’ultimo stadio". Continua la Bernardini "Qui inoltre ci sono seri problemi con la magistratura di sorveglianza: non voglio entrare nel merito del comportamento dei singoli magistrati però è lo stesso direttore a dirci che vengono nel carcere pochissimo, a differenza di quello che prevede l’ordinamento penitenziario". "Poi ci sono le responsabilità della Regione: da due anni sono stati sospesi tutti i corsi professionali per i reclusi; si è passati da un eccesso di corsi che servivano solo ad arricchire i formatori a zero corsi. Questo è un carcere dal quale ci sono arrivati i primi bollettini con cui i detenuti a rate si sono iscritti al Partito radicale - conclude la Bernardini. Mi auguro che l’amministrazione penitenziaria abbia la massima attenzione: io ho raccolto le istanze di diverse persone che chiedono di avvicinarsi alla proprie famiglie, di altre con problemi sanitari, e che saranno trasmesse alle autorità competenti". Frosinone: carceri sovraffollate, appello di Abbruzzese (Fi) al ministro Orlando perteonline.it, 9 agosto 2017 "I dati che vengono evidenziati dal sindacato Fns-Cisl sul sovraffollamento delle carceri sono allarmanti. Nel Lazio si registra a fine luglio un sovraffollamento di 1.015 detenuti considerato che 6.250 risultano i detenuti reclusi nei 14 Istituti di pena della regione, rispetto ad una capienza regolamentare di 5.235 posti". Lo ha dichiarato il consigliere regionale di Forza Italia, nonché presidente della Commissione Speciale Riforme Istituzionali, Mario Abbruzzese. "In provincia di Frosinone - ha specificato l’esponente azzurro - c’è un esubero di 154 detenuti, in quanto la Casa Circondariale del Capoluogo ha un eccedenza di 57 unità mentre a Cassino sono addirittura 97 i detenuti in più. La Polizia penitenziaria, a livello provinciale, è chiamata quindi a un lavoro straordinario per gestire queste percentuali in eccesso. Pertanto, devono essere presi in tempi brevi seri provvedimento al fine di potenziare il suo organico. Già il mese scorso - ha concluso Abbruzzese - dopo una visita nella Casa Circondariale di Frosinone ho richiesto, tramite una lettera al Ministro della Giustizia Orlando, il suo autorevole intervento, allo scopo di restituire le condizioni minime di gestione e sicurezza nel penitenziario con l’invio di un numero adeguato, rispetto alla popolazione carceraria presente, di personale di vigilanza. Aspetto una risposta concreta". Verona: il Comune cede in comodato d’uso 6 bici abbandonate al carcere di Montorio veronasera.it, 9 agosto 2017 I mezzi, recuperati dall’ente, saranno a disposizione "di quei detenuti che, gratuitamente, sono attualmente impiegati sul territorio in attività di aiuto sociale a supporto dei settori Strade, Giardini e Arredo urbano". Nelle prossime settimane il comune di Verona consegnerà alla casa circondariale di Montorio 6 biciclette usate, che rientrano fra i mezzi abbandonati recuperati dall’ente sul territorio cittadino. "Il Comune, come indicato dalla Giunta - precisa l’assessore alla Programmazione e approvvigionamenti Edi Maria Neri - fornirà, in comodato d’uso, le biciclette alla struttura carceraria che, a sua volta, le destinerà a servizio di quei detenuti che, gratuitamente, sono attualmente impiegati sul territorio in attività di aiuto sociale a supporto dei settori Strade, Giardini e Arredo urbano del Comune, con lavori di sistemazione strade e manutenzione verde pubblico. L’utilizzo delle biciclette consentirà alla struttura carceraria di sgravarsi dei costi oggi sostenuti per lo spostamento dei detenuti". L’iniziativa rientra fra i progetti promossi dalla convenzione stipulata dal Comune con la Direzione del Carcere di Montorio, la Garante dei Diritti delle persone private della libertà personale, la Direzione dell’Ufficio Distrettuale di Esecuzione Penale Esterna di Verona e Vicenza (Uepe), l’Ufficio di Sorveglianza di Verona e Progetto Esodo - Caritas Verona, volta a garantire il recupero e reinserimento delle persone private della libertà personale. Roma: nuova stagione per l’Atletico Diritti, chieste nuove regole per far giocare i rifugiati Redattore Sociale, 9 agosto 2017 Nuova avventura per il progetto nato nel 2014 grazie a Antigone e Progetto diritti. Presentata l’iscrizione al campionato di Terza categoria del Lazio. Ora si spera di avere in campo anche i rifugiati che fino alla passata stagione potevano solo allenarsi senza partecipare alle partite ufficiali. Con la richiesta di iscrizione al campionato di Terza categoria del Lazio di qualche giorno fa, inizia ufficialmente la quarta stagione dell’Atletico Diritti, la squadra di calcio cui l’associazione Antigone e Progetto Diritti hanno dato vita nel giugno del 2014. Un progetto che anche quest’anno vedrà un team composto da studenti dell’Università di Roma Tre e delle altre università romane, da migranti e da detenuti ed ex detenuti, insieme per promuovere l’inclusione. "Un tema questo che ci sta particolarmente a cuore - spiega Antigone -, essendo quello dell’inclusione e della lotta al razzismo attraverso lo sport una delle ragioni fondanti dell’Atletico Diritti". Ora la speranza è quella di avere in campo anche i ragazzi rifugiati che, fino alla passata stagione sportiva, potevano solo allenarsi senza partecipare alle partite ufficiali a causa dei regolamenti della Federazione, spiega Antigone. "Nell’ottobre dello scorso anno abbiamo presentato un dossier sulle discriminazioni del calcio dove raccontavamo gli ostacoli burocratici e formali che venivano posti ai cittadini stranieri - si legge in una nota dell’associazione -. Abbiamo inoltre aderito a "We Want To Play". Nell’ambito di questa campagna promossa da numerose realtà calcistiche popolari italiane, nei giorni scorsi abbiamo scritto agli organi competenti affinché venga modificato il regolamento Noif (Norme Organizzative Interne della Figc) al comma 1.1. (punti B e C) dell’art. 40". Quello dell’inclusione dei rifugiati, tuttavia, non è un tema che attraversa solo i campi di periferia. "Lo scorso mese di giugno siamo stati invitati dalla F.C. Barcellona al Camp Nou dove il club catalano, insieme all’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati ha lanciato la campagna #Signandpass sull’inclusione dei rifugiati - aggiunge la nota -. Nel piccolo della nostra società abbiamo aderito. L’appello che rivolgiamo è che lo facciano anche squadre ben più blasonate della nostra, a partire da tutte quelle impegnate nel campionato di Serie A". Migranti. Perché non vinca la propaganda di Mario Calabresi La Repubblica, 9 agosto 2017 "Non possono esistere due Italie: quella che sta con gli italiani e un’altra che sta con gli scafisti. I diritti degli uomini e le regole che li governano devono stare assieme". Un’onda melmosa, composta di false percezioni, di paure e di sconsiderata propaganda, sta sommergendo il nostro dibattito pubblico, rendendolo sterile e spaventoso. La razionalità è scomparsa da un pezzo, sostituita da emozioni, immagini forti e pericolose semplificazioni. È diventato molto complicato riuscire a ragionare chiamando le cose con il loro nome, rispettando la realtà e le sue sfumature. Si sono persi di vista numeri e contesti: nessuno ha più il coraggio di far notare che 100mila persone che arrivano dalle coste africane sono certo tantissime e destano allarme (una richiesta di sicurezza che le Istituzioni troppo a lungo hanno sottovalutato) ma sono pur sempre quanto i tifosi di due partite della Roma o del Milan. Li si può contenere in uno stadio e mezzo di un Paese che di abitanti ne ha sessanta milioni. Questo non significa non condividere la necessità di provare a controllare e gestire i flussi migratori e il dovere di combattere i trafficanti di esseri umani, ma significa chiamare le cose con il loro nome e non accendere allarmi sociali che rischiano di devastare la nostra società. Che il senso della realtà sia smarrito lo racconta la percezione dei numeri: gli italiani sono convinti che ormai un quinto della popolazione sia di religione islamica, quando lo è meno di un trentesimo. L’onda melmosa chiude gli occhi e rende tutto dello stesso colore, impedisce di cogliere differenze fondamentali, così un immigrato che spaccia cancella tutti quelli che riempiono le cucine dei ristoranti, scaricano le cassette ai mercati generali, fanno il pane la notte, tengono vivi i pascoli, vendemmiano o si prendono cura dei nostri vecchi. Allo stesso modo la legge che viene definita Ius Soli è stata criminalizzata, snaturandone completamente senso e finalità. Non c’entra nulla con sbarchi e accoglienza e serve a integrare chi è nato in Italia, ma questo poco interessa a chi gioca con le paure e subdolamente insinua che i compagni di classe dei nostri figli potrebbero essere terroristi in erba. Questa propaganda e questo imbarbarimento del discorso hanno fatto breccia e, come ci ha raccontato domenica Ilvo Diamanti, stanno vincendo. L’ultima vittima sono le Ong, le associazioni di volontariato e quella parte della Chiesa che è più impegnata nell’assistenza. Colpevoli di non sottomettersi al nuovo politicamente corretto, che è l’esatto ribaltamento di quello vecchio e proclama a gran voce che ci siamo rotti le scatole dei bisogni e delle sofferenze degli altri. Lo slogan berlusconiano "padroni a casa propria", coniato per favorire le ristrutturazioni, ora è diventato una filosofia e un modo di essere che giustifica qualunque comportamento e assolve da ogni responsabilità. Ammette addirittura la rinuncia al pensiero razionale. Non possono esistere due Italie: quella che sta con gli italiani e un’altra che sta con gli scafisti. È il senso profondo che si può cogliere anche nel messaggio di Mattarella: i diritti degli uomini e le regole che li governano devono stare assieme. Certo, c’è chi ha sbagliato, ma di fronte a singoli e circoscritti episodi di presunto favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, mai - secondo gli stessi magistrati che hanno mosso l’accusa - per motivi di lucro, si criminalizza un mondo di cui invece dovremmo andare orgogliosi. Non importa che esistano Organizzazioni non governative che agiscono su scala globale e piccole associazioni nazionali, che ci siano organizzazioni umanitarie che si dedicano all’emergenza e altre che fanno assistenza, prevenzione, non contano le storie di ognuna di loro, la competenza e la trasparenza, non hanno valore le biografie di medici, ingegneri, agronomi, sacerdoti, insegnanti, cooperanti, conta solo colpire nel mucchio per poter rafforzare il nuovo paradigma. Perché funzioni, il discredito va diffuso ad ampio raggio, va usato come un’accetta e nessuna distinzione è possibile. Se poi si condisce il tutto con una buona dose di volgarità e di insinuazione, allora si arriva al risultato di gettare il sospetto su un intero mondo. Un mondo che è tanto italiano, perché siamo un Paese che si è sempre speso in silenzio, dando esempi di impegno e di volontariato incredibili. Se gli si può rimproverare qualcosa è proprio di essere stati troppo silenziosi, loro che potevano spiegare a tutti noi cosa succede dall’altra parte del Mediterraneo, aprendoci gli occhi sulle situazioni di crisi e le possibili ricette. Finora ci siamo accorti di quel mondo solo quando arrivava la notizia di una morte, penso a persone come Maria Bonino, pediatra piemontese morta in Angola mentre cercava di contenere un’epidemia di febbre emorragica. Di fronte all’onda melmosa, un giornale ha una sola possibilità: restituire ai fatti e alle parole il loro significato e cercare di ripulire il dibattito dalle scorie e dai veleni. Lo dobbiamo fare ogni giorno e per questo da oggi vi raccontiamo cosa sono davvero le Ong e chi sono le donne e gli uomini che ci lavorano. Migranti. Dalla parte del diritto, contro il delirio disumano di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 9 agosto 2017 Antigone andò incontro alla morte per avere disobbedito all’ordine di Creonte che voleva impedirgli di seppellire il fratello Polinice. Rispose alla legge degli Dei e non a quella ingiusta, fallace degli uomini. Chi salva una vita risponde sempre a una legge superiore. Noi siamo dalla parte di Medici senza Frontiere per lo stesso motivo per cui da decenni ci occupiamo di diritti umani, di giustizia, di lotta al proibizionismo, di galere illegali e di pseudo-prigioni legali. Il motivo è sempre lo stesso, ossia mettiamo al centro la persona, la sua libertà, i suoi diritti e primo tra tutti il diritto alla vita. Come non si può capire tutto questo. Da aprile scorso l’Italia è caduta in un delirio autoritario, crudele, disumano, reazionario e nazionalista. Non si distinguono più le argomentazioni dell’estrema destra da quelle di opinionisti dei giornali della zona grigia borghese. Una massa acritica e ignorante fatta di cultori asettici della legalità mette sullo stesso piano scafisti e Ong che salvano vite. Chiunque rompe il muro del sentimento unanime anti-stranieri è visto come se fosse un criminale, un ladro, una spia, un corrotto, un anti-patriota. Il linguaggio, talvolta, diventa quello del ventennio. Solo che ora vi è un fascismo frammentato, non organizzato. Da più di vent’anni dedico il mio tempo a quella che più o meno è una Ong e da qualche anno abbiamo dato vita a una Coalizione di Ong. Sono entrato mille volte in conflitto con le istituzioni, ma sempre sentendo il rispetto da parte della zona grigia borghese, anche quando abbiamo espresso posizioni anti-popolari. Ma mai ci siamo sentiti veramente soli. È la solitudine dei soggetti liberi e critici che dovrebbe preoccupare tutti perché conduce alle derive autoritarie. Quando partiti di maggioranza (quasi per intero il Pd), di opposizione (M5S e Lega in primis), movimenti extraparlamentari di destra, pezzi della magistratura, media di massa e opinionisti di vario tipo (da quelli pseudo-legalitari a quelli tardo-nazionalisti) si muovono tutti con lo stesso linguaggio e nello stesso solco c’è seriamente da preoccuparsi. Fortunatamente da qualche giorno, oltre alla Chiesa e a questo giornale, abbiamo iniziato a leggere e sentire voci contrarie (da Roberto Saviano a Massimo Giannini, da Mario Calabresi fino al ministro Graziano del Rio che ha aperto una contraddizione nel Governo). Le ringraziamo. Infine, alcune osservazioni riguardanti la specifica questione del codice di condotta, il ruolo delle Ong e la legalità. Mai un protocollo, una circolare e persino una legge nazionale (se mai anche su questo il ministro dell’Interno Marco Minniti dovesse assecondare il vice-presidente M5S della Camera Luigi Di Maio) possono disattendere una convenzione internazionale a cui la nostra Carta Costituzionale da valore primario. E la Convenzione di Montego Bay impone il soccorso in mare. Obbligare al divieto di trasbordo significa costringere alla violazione di norme internazionali e dal punto di vista etico significa subordinare la vita umana al realismo politico. Non si può chiedere questo alle Ong. Ong sta per organizzazioni non governative. Chi intende disciplinarle o renderle illegali o infangarle si mette sullo stesso piano di Orban. Infine veniamo al culto della legalità. Come ci ha insegnato Luigi Ferrajoli la legalità per essere legittima deve essere conforme ai valori costituzionali. Chi ama la legalità deve rispettare chi la critica o chi disobbedisce ad essa assumendosene le responsabilità. La legge non è un totem da venerare. Non è il bene o il male. Antigone ha dato la sua vita contro la legge ingiusta di Creonte. *Antigone-Cild Migranti. L’inversione morale di Ezio Mauro La Repubblica, 9 agosto 2017 Di questa estate italiana resterà una svolta nel senso comune dominante, dove per la prima volta il sentimento umanitario è finito in minoranza. E peserà sul futuro. Che cosa resterà dell’estate italiana che stiamo vivendo, e che ha trasformato la crisi dei migranti nel suo problema principale, ben prima del lavoro che non c’è, della crescita che arranca, del precariato permanente di un’intera generazione? Non certo un cambiamento nel flusso di disperazione che porta i senza terra a cercare libertà e futuro lungo il Mediterraneo, o nel riflusso di gelosia nazionale dei Paesi che ci circondano, dove si sta frantumando ogni giorno l’idea comune di Europa. Ciò che resta - e che peserà in futuro - è una svolta nel senso comune dominante, dove per la prima volta il sentimento umanitario è finito in minoranza, affondato dal realismo politico, dal sovranismo militante, da una declinazione egoista dell’interesse nazionale. Naturalmente il senso comune è qualcosa di diverso dall’opinione pubblica, soggetto attivo di qualsiasi democrazia funzionante, autonomo e distinto dal potere, dunque capace di giudicarlo. Si tratta di una deformazione del buon senso, costruita su sentimenti e risentimenti, nutrita di pregiudizi più che di giudizi, che opera come ha scritto Roberto Saviano con la logica della folla indagata da Le Bon, pronta a gonfiarsi e sgonfiarsi come le foglie al vento, e spesso il vento è quello del potere: capace, soprattutto in un’età segnata dal cortocircuito emotivo del populismo, di interpretare il senso comune, ma anche e soprattutto di crearlo e nutrirlo traendone profitto politico ed elettorale. Ora il governo può certo esercitarsi a svuotare il mare col cucchiaino di un codice per le organizzazioni umanitarie che operano nel Mediterraneo, e le procure possono trarre teoremi giudiziari dagli errori o anche dalle complicità e dai reati di qualche singola ong. Ciò che interessa va ben al di là, perché la proiezione fantasmatica di tutto questo sta producendo sotto i nostri occhi un effetto spettacolare: l’inversione morale, per cui non potendo fermare le vittime prima che partano dai loro Paesi, e non riuscendo a colpire i carnefici, cioè gli scafisti, si criminalizzano i soccorritori, che salvano chi sta morendo in mare. Per arrivare a questo bisogna necessariamente spogliare l’intervento umanitario, la neutralità del soccorso, l’azione dei volontari di ogni valenza etica e di qualsiasi spinta valoriale, riducendoli a pura "tecnica" strumentale, fuori dalla logica della responsabilità, dalla sfera della coscienza e dall’imperativo morale dei doveri. La destra e i grillini (basta leggere i loro giornali: identici) parlano delle Ong come un attore tra i tanti nel Mediterraneo, liquidando il salvataggio dei naufraghi in una riga di circostanza, come se gli scopi per cui si va in mare non contassero nulla, come se non avessero rilevanza le bandiere morali che quelle navi battono. Diciamolo: come se il problema politico che i migranti creano fosse più importante delle loro vite salvate. Delle ong in quanto tali, della loro azione di supplenza di cui hanno parlato qui Mario Calabresi e Massimo Giannini ovviamente alle diverse destre italiane non importa nulla. A loro interessa ciò che rappresentano, la loro ragione sociale, la persistenza di un dovere gratuito e universale che nel loro piccolo testimoniano. Quel sentimento umanitario che fa parte della civiltà italiana, anche per il peso che qui ha avuto la predicazione della Chiesa, e che fino a ieri consideravamo prevalente perché "naturale", prodotto di una tradizione e di una cultura. Laicamente, si potrebbe tradurre nella coscienza della responsabilità, quella stessa cui si richiamava Giuliano Ferrara parlando della spoliazione civile dei Paesi da cui si emigra in massa. Solo che la responsabilità, a mio parere, vale sotto qualsiasi latitudine, dunque anche a casa nostra, ma non soltanto nei confronti di noi stessi, i "cittadini", garantiti dalla costituzione e dalle leggi. Qui si sta decidendo se i ricchi del mondo (ricchi di diritti, di benessere) possono ritenersi definitivamente sciolti dai poveri del pianeta, visto che non ne hanno più bisogno, oppure se in qualche misura anche dopo la crisi permane quel vincolo politico e non solo umano che nella differenza di destino tiene insieme i sommersi e i salvati della mondializzazione, cercando un futuro comune. Se la sinistra non capisce che la posta in gioco è addirittura questa, oggi, subito, significa che è giunta al suo grado zero e qualcun altro riscriverà il contratto sociale. Si deve dare sicurezza alle nostre popolazioni impaurite, soprattutto alle fasce più deboli e più esposte. Ma si può farlo ricordando insieme i nostri doveri e la nostra responsabilità, che derivano proprio dalla cultura e dalla civiltà che diciamo di voler difendere. Questo è lo spazio politico della sinistra oggi, invece di inseguire posture mimetiche a destra. Uno spazio utile per tutto il Paese: perché l’interesse nazionale non si difende privatizzandolo, magari con decreto di Grillo e Salvini. Migranti. La Libia, le Ong, la politica del caos nel Mediterraneo di Barbara Spinelli Il Manifesto, 9 agosto 2017 Un paese fuori dalla Convenzione di Ginevra, senza una vera sovranità, non può accogliere i rimpatriati. È in atto un’offensiva per screditare le Ong Il Parlamento italiano ha autorizzato l’invio di navi da guerra nelle acque territoriali libiche con il compito di sostenere la guardia costiera di Tripoli nel contrasto ai trafficanti di uomini e nel rimpatrio di migranti e richiedenti asilo in fuga dalla Libia. La risoluzione, affiancata al tentativo di ridurre le attività di ricerca e soccorso di una serie di Ong, è discutibile e solleva almeno sei interrogativi: 1) Come può la Libia, la cui sovranità sarà, secondo il governo italiano, integralmente garantita, "controllare i punti di imbarco nel pieno rispetto dei diritti umani", quando non è firmataria della Convenzione di Ginevra, dunque non è imputabile se la viola? 2) Come può dirsi rispettata la sovranità in questione, quando di fatto quest’ultima non esiste? È infatti evidente che il governo di Fayez al-Sarraj non esercita alcun monopolio della violenza legittima - presupposto di ogni autentica sovranità - come si evince dalla condanna dell’operazione militare italiana ed europea da parte delle forze politiche e militari che fanno capo al generale Khalifa Haftar. 3) Come può esser garantito il pieno "controllo" dell’Unhcr e dell’Oim sugli hotspot da costruire in Libia, e rendere tale controllo compatibile con la sovranità territoriale libica affermata nella risoluzione parlamentare? E come possono Unhcr e Oim gestire "centri di protezione e assistenza" in un Paese in cui, stando a quanto dichiarato il 16 maggio dallo stesso direttore operativo di Frontex, Fabrice Leggeri, "è impossibile effettuare rimpatri", visto che "la situazione è tale da non permettere di considerare la Libia un Paese sicuro"? 4) Come proteggere i migranti e rifugiati dai naufragi, se lo scopo è quello di screditare e ridurre le attività di ricerca e soccorso in mare delle Ong in assenza di robuste operazioni europee di ricerca e soccorso, e senza che sia ancora stata definita una "zona Sar" (Search and Rescue) di competenza libica che abbia come fondamento la Convenzione di cui sopra, e in particolare gli articoli che vietano i respingimenti collettivi (principio di "non-refoulement")? 5) Come garantire che migranti e profughi soccorsi in mare non verranno riportati a terra e chiusi in centri di detenzione dove, come affermato dalla vicedirettrice di Amnesty International per l’Europa Gauri Van Gulik, "quasi certamente saranno esposti al rischio di subire torture, stupri e anche di essere uccisi"? Qualunque cooperazione con le autorità libiche che porti alla detenzione di migranti da parte della Libia, ha affermato il 2 agosto Judith Sunderland, direttrice di Human Rights Watch per l’Europa e l’Asia centrale: "Dovrebbe verificarsi soltanto in presenza di prove chiare che questo tipo di iniziative sia conforme agli standard sui diritti umani, a partire da un miglioramento dimostrabile nel trattamento dei migranti. Ciò richiede un monitoraggio indipendente e trasparente, ma non è stato stabilito alcun sistema di monitoraggio indipendente né per il programma di addestramento, né per i centri di detenzione libici". 6) Come intende il governo italiano rispettare la sentenza con cui, nel febbraio 2012, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha affermato che il trasferimento di rifugiati verso la Libia viola l’articolo 3 della Convenzione di Ginevra secondo il quale "nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti"? Su una cosa il governo italiano ha ragione: come nel caso dei rifugiati approdati in Grecia, l’Unione europea si è dimostrata incapace di solidarietà. L’impegno a ricollocare in altri Paesi membri un numero minimo di migranti e rifugiati che giungono in Italia o in Grecia è rispettato in minima parte, mentre aumentano i rimpatri in Italia dei rifugiati che a dispetto del sistema Dublino hanno raggiunto altri Paesi dell’Unione. Questo non giustifica tuttavia la violazione del principio di non respingimento, e tantomeno spiega l’offensiva contro le Ong: in particolare quelle che non hanno firmato il codice di condotta predisposto per loro dal governo italiano con l’appoggio dell’Unione europea. A tutt’oggi, sono del tutto ingiustificate le accuse di collusione con i trafficanti rivolte a organizzazioni come Jugend Rettet e Medici senza frontiere. In assenza di vie legali offerte a chi vuol chiedere asilo in Europa, è abusivo confondere l’attività dei "facilitatori" delle fughe con quella dei trafficanti di esseri umani. Ed è comunque pretestuoso attaccare le Ong in assenza di operazioni europee aggiuntive o alternative di ricerca e soccorso. Ancor più riprovevole è continuare a reclamare il rispetto dell’antiquata legge Bossi-Fini, confondendo clandestini, migranti privi di documenti e richiedenti asilo. *Deputata europea, gruppo Gue-Ngl Droghe. Una diffida al governo di Leonardo Fiorentini Il Manifesto, 9 agosto 2017 Le associazioni contestano la violazione della norma fondamentale dell’articolo 1 della legge Iervolino-Vassalli sulla convocazione della Conferenza nazionale sulle droghe. Antigone, Forum Droghe, Lila, l’Associazione Luca Coscioni e la Società della Ragione hanno inviato lo scorso 31 luglio una diffida al governo per contestare la violazione della norma fondamentale dell’articolo 1 della legge Iervolino-Vassalli sulla convocazione della Conferenza nazionale sulle droghe. Il Testo unico sulle droghe (Dpr 309/90) prevede infatti che "Ogni tre anni, il Presidente del Consiglio dei Ministri convochi una conferenza nazionale sui problemi connessi alla diffusione delle sostanze stupefacenti e psicotrope, alla quale invita soggetti pubblici e privati che esplicano la loro attività nel campo della prevenzione e della cura della tossicodipendenza. Le conclusioni di tali conferenze sono comunicate al Parlamento anche al fine di individuare eventuali correzioni alla legislazione antidroga dettate dall’esperienza applicativa". La diffida ricorda che l’ultima conferenza nazionale sui problemi connessi con la diffusione delle sostanze stupefacenti si è tenuta a Trieste dal 12 al 14 marzo 2009; da 8 anni manca quindi un momento di condivisione dei dati e di riflessione sugli effetti della legislazione sulle droghe rispetto alla salute e i diritti umani e civili dei consumatori, alla sicurezza sociale e alla giustizia e questo a fronte di ripetute sollecitazioni nonché e incontri istituzionali promossi dalle associazioni che hanno presentato la diffida. Va ricordato che quell’appuntamento organizzato dalla coppia Giovanardi-Serpelloni si caratterizzò per la netta chiusura al confronto con le organizzazioni che contestavano la scelta proibizionista e punitiva della legge 49 del 2006 approvata con un colpo di mano e finalmente bocciata dalla Corte Costituzionale nel febbraio del 2014. I firmatari della diffida sottolineano di fronte ai cambiamenti legislativi parziali e non coerenti e rispetto agli sviluppi internazionali che comprendono forme diffuse di legalizzazione della cannabis e al dibattito che si è sviluppato all’Assemblea generale dell’Onu a New York nell’aprile 2016, come sia sempre più necessario convocare con urgenza una nuova conferenza nazionale sui problemi connessi con la diffusione delle sostanze stupefacenti e psicotrope per porre fine alla inadempienza all’obbligo di legge che dura da troppi anni. La conclusione è chiara con la comunicazione che, "decorso inutilmente il termine di cui all’art. 3 comma 1 D.Lgs n. 198/2009, si procederà alla tutela dei diritti e degli interessi dei propri associati dinanzi alle competenti autorità giudiziarie". A febbraio di quest’anno molte Associazioni avevano lanciato un appello al Governo con precise richieste, dalla nomina di un responsabile politico per dare un indirizzo alla politica delle droghe alla convocazione della Conferenza nazionale, dalla riorganizzazione dei Servizi pubblici nella prospettiva del rilancio della riduzione del danno prevista dai Lea con la previsione di interventi per la prevenzione dei rischi connessi all’abuso e alla clandestinità dei consumi, alla analisi delle sostanze e verso la sperimentazione delle stanze del consumo e dei trattamenti con eroina, alla convocazione di un seminario per discutere il documento conclusivo di Ungass. Il silenzio è stato la eloquente risposta. il 26 giugno, assieme agli altri gruppi che compongono il Cartello di Genova, è stato presentato l’ottavo libro bianco sulle droghe che ha confermato i gravi effetti collaterali della legislazione antidroga sulla giustizia e sul carcere. Il rispetto della legge è un principio che non può essere violato dalle istituzioni. La diffida ha un valore formale, ma la contestazione al Governo è tutta politica. Ora la parola è al Presidente Gentiloni. Droghe. Depenalizzare la cannabis per finanziare le pensioni: proposta dei Verdi svizzeri di Franco Zantonelli La Repubblica, 9 agosto 2017 L’iniziativa del partito di orientamento ecologista: tassare il consumo e utilizzare i proventi per finanziare le rendite previdenziali. Il vice-presidente Pascal Vuichard: "Oggi un giro di affari da 600 milioni di franchi l’anno, con un aliquota del 25% ne incasseremmo 150". Depenalizzare il consumo di canapa per poi tassarla e, con il ricavato, finanziare le rendite pensionistiche che, anche in Svizzera, hanno il respiro corto. A proporlo sono i Verdi Liberali, un combattivo partito di orientamento ecologista, rappresentato al Parlamento Federale da 7 deputati. La loro proposta si inserisce nel dibattito sulla revisione del meccanismo previdenziale, su cui gli elettori elvetici saranno chiamati a votare in settembre. Una revisione che riguarda, innanzitutto, il pilastro centrale di quel sistema, l’AVS, acronimo di Assicurazione Vecchiaia e Superstiti che, in un futuro prossimo, soprattutto a causa dell’innalzamento della speranza di vita, l’ente preposto farà fatica ad erogare. La riforma prevede, in particolare, l’innalzamento dell’età pensionabile delle donne, da 64 a 65 anni. Inoltre, si pensa di destinare all’AVS lo 0,6% dell’Iva, attualmente utilizzato per risanare le casse dell’assicurazione invalidità. Come pure di aumentare, dello 0,3%, i contributi dei lavoratori all’Assicurazione Vecchiaia e Superstiti. Sta di fatto che, mentre la destra esprime il proprio scetticismo sostenendo la necessità di aumentare, per tutti, l’età pensionabile a 67 anni, i Verdi Liberali se ne escono con la provocazione di utilizzare i proventi della canapa, espressamente liberalizzata a quello scopo, per far sì che le rendite vengano garantite almeno fino al 2030, come promesso dal Governo. "La canapa comporta un giro d’affari di 600 milioni di franchi all’anno, le imponiamo una tassa del 25% e incassiamo 150 milioni che destiniamo all’AVS", il ragionamento che il vice-presidente del partito, Pascal Vuichard, ha fatto al quotidiano Tages Anzeiger. Il che significa, tradotto in valuta unica, ricavare 130 e rotti milioni da oltre 520. Senza dimenticare che, ogni anno, i costi giudiziari derivanti dallo spaccio e dal consumo di canapa, ammontano a più di 260 milioni di euro che, a detta dei Verdi Liberali, potrebbero pure loro finire nelle casse dell’AVS. L’obiezione più pertinente è giunta da una parlamentare socialista, Yvonne Ferì, secondo la quale se "da un lato è corretto mettere la canapa sullo stesso piano di altre sostanze che danno dipendenza, quali alcool e tabacco, dall’altro c’è il rischio di finire per incitare la gente ad abusarne, per finanziare i costi della previdenza". Libia. Arrivano meno migranti, che così finiscono nel lager di Sabha La Repubblica, 9 agosto 2017 Lo dicono i numeri delle ultime settimane: si assiste ad una drastica riduzione del flusso migratorio dalla Libia verso l’Italia. È l’effetto dell’accordo italo-libico, sostenuto dall’Unione Europea. Decine di migliaia di migranti subsahariani bloccati. Lo raccontano le duemila testimonianze raccolte da Medici per i Diritti Umani (Medu). I numeri delle ultime settimane sembrano evidenziare, se non un arresto, una drastica riduzione del flusso migratorio dalla Libia verso l’Italia. L’accordo italo-libico, sostenuto dall’Unione Europea, produce i suoi primi effetti lasciando intrappolate decine di migliaia di migranti subsahariani, e non solo, nel territorio del paese nordafricano. Che cosa sia questo cul de sac lo raccontano le duemila testimonianze raccolte da Medici per i Diritti Umani (Medu): è la Libia di oggi, ossia un lager, come quello di Sabha, una fortezza nel deserto nel sud est della Libia, circodato da filo spinato, miliziani armati di mitragliatrici lungo tutto il perimetro; dentro, due settori separati: uno per uomini, l’altro per donne e bambini, dove si consumano nei confronti dei migranti atrocità degne dei peggiori campi di sterminio del XX secolo. Un calo drastico di arrivi rispetto al 2016. Nel mese di Luglio sono stati 11.322 i migranti sbarcati nei porti italiani; meno della metà rispetto al 2016 (23.552). È la prima volta nel 2017 che si registra un calo così drastico rispetto all’anno precedente. L’inversione di tendenza di Luglio sembra essere confermata nei primi sette giorni di Agosto con un numero di migranti sbarcati (1.137) che è meno di un quinto rispetto a quello della stessa settimana dell’anno precedente (5.902). Si può dunque tirare un sospiro di sollievo davanti a questi numeri che sembrano evidenziare, se non un arresto, una drastica riduzione del flusso migratorio dalla Libia verso l’Italia? Bisogna rallegrarsi dei primi risultati concreti dell’accordo italo-libico firmato a febbraio scorso dai governi Gentiloni e Serraj, con il sostegno dell’Unione Europea? La Libia, "Un lager dove si consumano atrocità". Si apprende in questi stessi giorni che la Guardia Costiera libica ha fermato in mare 826 migranti per poi arrestarli e consegnarli all’organismo che si occupa della lotta alla migrazione clandestina. Il collo di bottiglia della rotta mediterranea centrale sembra dunque chiudersi lasciando decine di migliaia, o più probabilmente centinaia di migliaia, di migranti subsahariani, e non solo, nel territorio libico. Ma che cosa sia questo cul de sac è necessario ripeterlo ancora una volta con chiarezza e a gran voce: è la Libia di oggi, ossia un lager dove si consumano nei confronti dei migranti atrocità degne dei peggiori campi di sterminio del XX secolo. Gli aguzzini di questi lager, dove viene perpetrata la tortura di massa, sono i più svariati: bande e organizzazioni criminali, milizie armate e certamente anche coloro che dovrebbero rappresentare quello Stato che ha firmato gli accordi con l’Italia, ossia poliziotti e militari. Gli abusi e le privazioni subite. Secondo i dati raccolti quest’anno dalla clinica mobile di Medici per i Diritti Umani che a Roma ha prestato assistenza ad oltre seicento migranti da poco sbarcati in Italia e provenienti dall’Africa subsahariana, l’85% ha subito in Libia torture e trattamenti inumani e degradanti e nello specifico il 79% è stato trattenuto/detenuto in luoghi sovraffollati ed in pessime condizioni igienico sanitarie, il 60% ha subito costanti deprivazioni di cibo, acqua e cure mediche, il 55% gravi e ripetute percosse e percentuali inferiori ma comunque rilevanti stupri, ustioni, falaka (percosse alle piante dei piedi), torture da sospensione, obbligo ad assistere alla tortura o all’uccisione di terzi e ancora altre efferatezze. Questi dati, probabilmente sottostimati poiché raccolti in contesti di precarietà dove spesso non è stato possibile fornire un’assistenza prolungata nel tempo, rappresentano, a nostro avviso, un quadro fedele delle violenze sistematiche a cui vengono sottoposti tutti i migranti che giungono dalla Libia nel nostro paese. Nel caos libico funziona solo lo sfruttamento dei migranti. In questo caos libico, dove l’unica cosa che sembra funzionare alla perfezione è l’industria dello sfruttamento dei migranti, "non ci sono campi o centri per i migranti, ma solo prigioni, alcune controllate dalle autorità, altre da milizie e trafficanti" lo afferma lo stesso inviato speciale dell’Unhcr, aggiungendo che in questi luoghi "sussistono condizioni orribili". Negli ultimi quattro anni Medu ha raccolto circa duemila testimonianze di migranti sia nei suoi progetti per la riabilitazione delle vittime di tortura sia in interventi di prima assistenza per i migranti vulnerabili (si veda la webmap interattiva Esodi ) e sempre le condizioni di detenzione nelle carceri libiche rappresentano uno degli aspetti più raccapriccianti dei racconti dei testimoni. Alcune delle decine di testimonianze raccolte negli ultimi mesi. X.Y., uomo, Camerun, 25 anni. "La prima volta che sono partito in mare la guardia costiera libica ci ha intercettato e ci ha riportato a terra. Ci ha condotto in una prigione a Zawia che si chiama Ossama Prison...Quello che differenzia questa prigione dalle altre è il fatto che se si paga il riscatto si è sicuri che si verrà rilasciati, cosa non sempre vera per le altre prigioni. Avvengono infinite crudeltà e torture lì dentro ma finalizzate ad ottenere i soldi, non la violenza diffusa che si vede negli altri posti. Questa prigione viene monitorata da una commissione di europei una volta al mese. Durante la visita mensile le guardie fanno sparire tutti gli strumenti di tortura, le catene e aprono tutte le celle così che sembri un campo profughi piuttosto che una prigione. Poi quando la visita è finita tutto ricomincia come prima." (Hotspot di Pozzallo, Luglio 2017) M.K., uomo, 30 anni, Bangladesh. "La detenzione più dura è stata in una prigione a Gargaresch, un quartiere di Tripoli. Mi hanno legato insieme le caviglie e i polsi e per i primi 5 giorni mi hanno tenuto così. Non mi davano da mangiare, non mi permettevano di andare in bagno. Venivano e mi picchiavano. Poi mi hanno levato le corde ma non è andata meglio. Per circa un mese mi hanno tenuto nel buio più completo. Mi picchiavano con dei bastoni sul corpo e sotto la pianta dei piedi e tutt’ora non riesco a camminare senza sentire dolore. Mi torturavano con le scosse elettriche. Una volta mi hanno puntato un fucile alla tempia e hanno minacciato di uccidermi. Quando mi sono messo a piangere si sono messi a ridere, non mi hanno sparato ma mi hanno colpito al capo col calcio del fucile". (Hotspot di Pozzallo, Luglio 2017) I.S. uomo 22 anni, Costa D’Avorio. "Non so il nome della prigione ma per sei mesi sono stato detenuto in un carcere non distante da una strada che da Sabha conduce a Tripoli. Eravamo tanti e nella cella non c’era spazio a terra per dormire. Le guardie portavano poco cibo e acqua disgustosa. Mi hanno picchiato col bastone e col fucile in diverse parti del corpo. Le guardie erano armate e violente e ci colpivano senza pietà. Sparavano nel mucchio e uccidevano a caso i detenuti per terrorizzarci. Ho subito violenze sessuali continue ed hanno usato anche una fiamma per bruciarmi sulle braccia. Non c’era acqua per lavarci, il fetore era insopportabile e ricordo ancora le urla di paura e di dolore degli altri detenuti." (Cara di Mineo, Aprile 2017) Iran. Droga e pena di morte, il parlamento esamina un progetto di legge di Riccardo Noury Corriere della Sera, 9 agosto 2017 Nei primi sette mesi dell’anno, l’Iran ha messo a morte 319 prigionieri, 183 dei quali per reati di droga. L’anno scorso le esecuzioni per reati di droga erano state 328 su un totale di 567. Dal 1988, secondo fonti giudiziarie iraniane, le condanne a morte eseguite per reati di droga sono state circa 10.000. Per Iran Human Rights, sono state 2990 tra il 2010 e il 2016. Un bagno di sangue, dunque, che ha colpito e continua a colpire per lo più consumatori e piccoli spacciatori provenienti dai settori più poveri della società o dall’Afghanistan. Alcuni paesi europei si stanno chiedendo quanto sia lecito, a fronte di una politica estera dichiaratamente abolizionista, finanziare - attraverso i programmi antidroga delle Nazioni Unite - una strategia di contrasto alla droga che si basa prevalentemente sull’uso della pena capitale. Una strategia che oltretutto non pare funzionare. Lo ammettono sempre più spesso le stesse autorità iraniane: i reati di droga sono collegati ad altri problemi come la disoccupazione e la povertà, che le esecuzioni non risolvono. Nei bracci della morte del paese si trovano circa 5.000 condannati a morte per reati di droga, il 90 per cento dei quali dai 20 ai 30 anni di età e privo di precedenti penali. Per questo, da due anni il parlamento iraniano discute una proposta di legge che, lungi dall’abolire la pena di morte per i reati di droga, potrebbe ridurne sensibilmente l’applicazione. Sul contenuto, è scontro aperto tra la Commissione giustizia del parlamento e gli apparati di sicurezza responsabili dei programmi di contrasto alla droga. Dopo una serie di emendamenti, il testo attualmente all’esame del parlamento prevede la pena di morte per spaccio di oltre due chili di eroina, morfina, cocaina e loro derivati (per la legge in vigore, bastano 30 grammi) e più di 50 chili di bhang (una bevanda a base di cannabis), oppio e cannabis (10 volte di più rispetto alla legge in vigore). Non si sa se prima di essere approvato dal parlamento (il voto è previsto tra qualche settimana), il testo subirà altre variazioni. Poi, una volta votato, dovrà passare il vaglio del Consiglio dei guardiani. Anche se riduzionista e non abolizionista, potrebbe salvare molte vite umane. Sempre se entrerà in vigore. Venezuela. Le Nazioni Unite denunciano l’uso "sistematico di forza eccessiva" di Luana Pollini interris.it, 9 agosto 2017 Le violazioni riguarderebbero "incursioni di casa, tortura e maltrattamento di detenuti in connessione con le proteste". Tajani: "Sanzioni contro i beni di Maduro in Europa". In Venezuela c’è un "uso diffuso e sistematico" di forza eccessiva, detenzione arbitraria e altre violazioni dei diritti nei confronti dei manifestanti e dei detenuti. A dirlo è Ravina Shamdasani, portavoce dell’Ufficio Onu per i diritti umani. Secondo quanto raccolto dal suo team le violazioni hanno riguardato "incursioni di casa, tortura e maltrattamento di detenuti in connessione con le proteste". Un rapporto completo sui risultati della squadra - ha spiegato - sarà diffuso entro agosto. Dopo l’insediamento dell’Assemblea Costituente voluta da Nicolas Maduro, all’esito di elezioni contestate dall’opposizione interna e da gran parte della comunità internazionale, si torna a parlare di sanzioni contro il regime di Caracas e il suo capo. A tal proposito il presidente dell’Europarlamento, Antonio Tajani, a RaiNews24 ha detto di aver scritto una lettera "al presidente della Commissione europea Juncker e al presidente del Consiglio Tusk perché l’Europa adotti delle sanzioni che colpiscano i beni di Maduro e dei suoi in Europa". Anche l’amministrazione Usa, secondo quanto riportato dai media americani, sarebbe pronta a varare un nuovo pacchetto di sanzioni contro il Venezuela. In particolare si sta pensando di congelare gli asset di altre 20 persone legate al presidente Nicolas Maduro. Non è però possibile escludere uno slittamento, visto che le autorità americane stanno cercando di mettere a punto una risposta coordinata internazionale nell’imporre sanzioni al regime di Maduro per non mettere in pericolo la democrazia. Caracas è, intanto, sempre più isolata, specie nel panorama sudamericano. Il presidente argentino, Mauricio Macri, rivolgendosi a Maduro ha usato parole durissime: "Che difficile che deve essere andare a dormire con così tanti morti sulla tua testa". In un’intervista al portale news Infobae, Macri - al quale era stato chiesto cosa aveva voglia di dire a Maduro - ha anche aggiunto: "Sei andato troppo al di là del dovuto, e la storia questo non te lo perdonerà". Venezuela. L’Onu accusa Maduro per la morte di almeno 46 manifestanti Reuters, 9 agosto 2017 L’alto Commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite ha inviato nel paese una squadra di funzionari per indagare sulle vittime degli scontri di piazza in corso dall’inizio di aprile. Il Consiglio delle Nazioni Unite per i diritti umani ha condannato l’uso eccessivo della forza da parte delle autorità venezuelane contro i manifestanti, nelle proteste che hanno insanguinato il paese negli ultimi mesi. L’Onu attribuisce alle forze guidate dal governo Maduro la responsabilità della morte di 46 persone su 124 vittime totali negli scontri di piazza iniziati lo scorso aprile. Altre 27 vittime sono state invece causate dalle azioni di manifestanti pro-Maduro. I risultati dell’inchiesta delle Nazioni Unite ha riconosciuto diverse violazioni dei diritti umani nel paese da quando sono cominciate le proteste di massa. In assenza di risposte alle richieste di accesso ai dati e alle indagini interne da parte delle autorità venezuelane, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani Zeid Ràad Al Hussein ha inviato in Venezuela una squadra di funzionari internazionali per un’indagine sulla situazione dei diritti umani nel paese. La squadra delle Nazioni Unite ha lavorato dal 6 giugno al 31 luglio. Il team ha condotto 135 interviste con le vittime delle proteste e le loro famiglie, ha sentito testimoni, organizzazioni della società civile, giornalisti, avvocati, medici, funzionari dell’ufficio della procuratrice generale e del difensore civico del Venezuela. I risultati preliminari provano che, su 124 morti accertate durante le manifestazioni di piazza, 46 sono attribuibili alle forze di sicurezza venezuelane e 27 a gruppi armati fedeli al governo. Le autorità venezuelane, in particolare la Guardia nazionale bolivariana, la polizia nazionale e le forze di polizia locali, hanno sistematicamente utilizzato una forza eccessiva e sproporzionata per instillare paura, schiacciare il dissenso e impedire ai dimostranti di riunirsi, manifestare liberamente e presentare petizioni pubbliche alle istituzioni democratiche del paese. "Poiché l’ondata delle violenze ha avuto inizio nel mese di aprile, c’è stata una chiara evoluzione della forza utilizzata nei confronti dei manifestanti, migliaia di persone sono state arrestate arbitrariamente, molte delle quali sono state sottoposte a maltrattamenti e addirittura torture, mentre diverse centinaia sono state portate davanti a tribunali militari invece di essere giudicati da corti civili", ha detto Zeid Ràad Al Hussein, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani. Zeid ha anche esortato le autorità a porre fine immediatamente all’uso della forza contro i dimostranti e a liberare tutti i prigionieri politici attualmente detenuti nelle carceri del paese. L’Alto Commmissario ha anche sottolineato la problematica situazione istituzionale del paese. "Queste violazioni dei diritti umani sono avvenute in seguito alla sconfitta dello stato di diritto in Venezuela, con attacchi costanti da parte del governo contro l’Assemblea nazionale e l’ufficio della procuratrice generale", ha detto Zeid, condannando anche la destituzione di Luisa Ortega Dìaz da parte della nuova assemblea costituente venezuelana. L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani ha quindi accusa direttamente il presidente Maduro. "La responsabilità per le violazioni dei diritti umani che stiamo registrando è da attribuire ai massimi livelli del governo". Un rapporto completo con i risultati dell’inchiesta sarà pubblicato alla fine di agosto del 2017. Gaza. Due milioni di persone senza acqua corrente con 2 ore di elettricità al giorno La Repubblica, 9 agosto 2017 È l’allarme lanciato oggi da Oxfam, a tre anni dalla fine della guerra che in 50 giorni devastò la Striscia. Una crisi umanitaria provocata dalle tensioni che hanno portato al taglio da parte di Israele del 40% dell’erogazione di elettricità su richiesta della stessa Autorità Nazionale Palestinese. La popolazione di Gaza affronta oggi una crisi energetica peggiore di quella che si è verificata durante la guerra del 2014. Con la conseguenza che oggi circa 2 milioni di persone non hanno quasi nessun accesso a servizi essenziali, come acqua corrente e servizi igienici e moltissimi hanno a disposizione solo 2 ore di luce elettrica al giorno. È l’allarme lanciato oggi da Oxfam, a tre anni dalla fine della guerra che in 50 giorni devastò Gaza. Una crisi - iniziata quattro mesi fa - a causa delle tensioni che hanno portato al taglio da parte di Israele del 40% dell’erogazione di elettricità sulla Striscia, su richiesta della stessa Autorità Nazionale Palestinese. La diffusione delle malattie. Una situazione che sommata alla scarsità di carburante, alla crisi sanitaria e salariale rende impossibile la vita della popolazione di Gaza. "La crisi energetica a Gaza costringe centinaia di migliaia di persone al limite della sopravvivenza, dovute alle tensioni tra le autorità israeliane e palestinesi - dice Paolo Pezzati, policy advisor per le emergenze umanitarie di Oxfam Italia - questa emergenza deve essere risolta al più presto, perché a farne le spese è la popolazione intrappolata all’interno della Striscia, che adesso è seriamente minacciata dalla diffusione di malattie causate dalla quasi totale carenza di servizi igienici e sanitari. Dopo la guerra nel 2014, il 50% dei centri di trattamento delle acque reflue non funzionava più. Oggi non funziona più nessun impianto. Ad agosto del 2014, 900 mila persone necessitavano di acqua e servizi igienici, oggi questo numero è salito a 2 milioni. Dopo l’ultima guerra, l’80% della popolazione viveva solo con 4 ore di elettricità al giorno, oggi la maggioranza della popolazione solo con 2". L’impatto umanitario della crisi a Gaza. Quella di oggi non è che l’ultima fase di un’escalation, iniziata già nel 2006, con il bombardamento dell’unica centrale elettrica di Gaza, che aveva costretto famiglie e imprese a poter usare l’elettricità solo per otto ore al giorno. La situazione infatti è il risultato di 12 anni di blocco su Gaza, che sta mettendo a repentaglio anche la capacità delle organizzazioni umanitarie come Oxfam di soccorrere la popolazione. "Non c’è progetto, tra i tanti realizzati da Oxfam a Gaza per portare alla popolazione acqua, servizi sanitari e sostenere i piccoli agricoltori e lo sviluppo economico, che non sia stato condizionato dalla mancanza di energia elettrica. - continua Pezzati - Senza elettricità è impossibile qualunque tentativo di ripresa: non si possono riattivare le centrali di desalinizzazione, i pescatori non possono conservare la propria merce e gli agricoltori non possono irrigare. Chi è impegnato in progetti informatici non può lavorare e le aziende sono costrette a operare tagli del personale. I costi economici e umanitari di questa crisi sono altissimi". In una delle aree più densamente popolate. Il tutto nel contesto di una delle aree più densamente popolate del pianeta, dove si registra il più alto tasso disoccupazione al mondo: oltre il 43%. "Anche senza la guerra, i palestinesi a Gaza subiscono un’emergenza umanitaria che non dà tregua. - conclude Pezzati - È vergognoso non aver agito e aver consentito che si arrivasse a questo punto, mettendo ancora di più alla prova 2 milioni di persone, che già soffrono gli effetti di un blocco illegale. Una crisi che si inserisce in quella - pure gravissima a cinquant’anni dall’inizio dell’occupazione israeliana - che colpisce tutto Il Territorio Occupato Palestinese: qui 2,3 milioni di uomini, donne e bambini dipendono ormai dagli aiuti umanitari per sopravvivere e 1,6 milioni non hanno cibo a sufficienza." "E la popolazione non sia più oggetto di scambio". Il taglio dell’elettricità a Gaza rappresenta una misura illegale e punitiva contro un’intera popolazione, per questo motivo Oxfam chiede che cessi immediatamente e che tutte le parti coinvolte in questa crisi, garantiscano agli abitanti il ripristino del normale approvvigionamento di elettricità e carburante. Per questo motivo Oxfam ha lanciato oggi - in partnership con le agenzie digitali palestinesi - la campagna #LightsOnGaza, chiedendo di garantire energia elettrica alla popolazione della Striscia. Di fronte a un’emergenza umanitaria di questa portata l’Autorità Nazionale Palestinese, le autorità che de facto controllano Gaza e Israele, devono prima di tutto garantire la sopravvivenza a Gaza, smettendo di usare la popolazione come merce di scambio per la risoluzione di dispute politiche. Il 75% vive con meno di 2 dollari al giorno. Lo scorso giugno, a cinquant’anni esatti dall’inizio dell’occupazione israeliana - cominciata nel 1967 con la Guerra dei Sei Giorni - Oxfam ha denunciato la grave situazione socio-economica in cui versa il Territorio Occupato Palestinese (OPT), attraverso il rapporto "Una crisi senza fine". Una crisi umanitaria cui 2,3 milioni di uomini, donne e bambini, infatti, oggi dipendono dagli aiuti per sopravvivere e 1,6 milioni non hanno cibo a sufficienza. Una situazione che non accenna a migliorare in modo significativo, nonostante gli ingenti aiuti umanitari, stanziati nel tempo da Nazioni Unite, donatori e agenzie internazionali, che non avranno alcun impatto sulla vita della popolazione palestinese finché l’occupazione sarà in corso. In OPT, infatti, il 27% della popolazione è disoccupato, in gran parte donne - e 1 persona su 4 vive in povertà. Solo a Gerusalemme-est il 75,4% dei residenti vive con meno di 2 dollari al giorno. L’assenza dell’azione politico-diplomatica. Tra le cause di questa crisi c’è l’assenza di un’azione politica e diplomatica da parte della comunità internazionale, che ha il compito di frenare l’escalation del conflitto e la conseguente crisi umanitaria. Fino ad ora infatti - agli aiuti arrivati nei territori della Cisgiordania, Gerusalemme Est e nella Striscia di Gaza - non è infatti corrisposta un’azione a livello internazionale capace di porre fine alle continue violazioni del diritto internazionale da parte di Israele. Per questo Oxfam chiede alla comunità internazionale di intervenire prima possibile per trovare una soluzione che porti giustizia e pace, sia per i palestinesi che per gli israeliani.