Celle come fornaci, la dignità calpestata dei detenuti ogginotizie.it, 8 agosto 2017 La dignità delle persone sempre al primo posto, calpestarla significa commettere delle barbarie simili ai delitti più efferati. Tutti i giorni all’interno delle carceri italiane la situazione si fa sempre più degradante: sovraffollamento, numero ridotto degli agenti di Polizia Penitenziaria e le alte temperature peggiorano il quadro. Le celle si trasformano in vere e proprie minuscole fornaci. Con temperature prossime ai 50 gradi i detenuti stanno subendo la tortura di una calura asfissiante e senza possibilità di scampo. Molte carceri, specie quelle più recenti sono, infatti, costruite in cemento armato che diventa rovente con l’esposizione solare e con il vento caldo che trasforma in supplizio ogni ora della giornata. A parte il rimedio istantaneo della doccia, i detenuti adottano alcuni escamotages di fortuna come quello di mettere il corpo in sacchi di plastica riempiti d’acqua o i soli piedi nei secchi e stracci bagnati sulla fronte. Testimonianze riportate dal carcere di "Borgo San Nicola" a Lecce. Anche le ore d’aria concesse sono spesso evitate per l’irraggiamento eccessivo che colpisce i cortili all’uopo dedicati, rendendone impossibile la fruizione. Insomma, un vero e proprio girone dell’inferno dantesco che riporta la mente a condizioni di detenzione medioevali, con un rischio di ulteriore imbarbarimento di chi vive questa terribile situazione e con ricadute inevitabili sul principio primario di rieducazione che scompare di fronte alla realtà dei fatti. Le situazioni vissute all’interno delle carceri sono viste dalla collettività come un qualcosa di lontano, come se i detenuti siano meritevoli di subire certi trattamenti degradanti e quindi non occorre preoccuparsene. L’espiazione della pena o l’attesa degli esiti di un giudizio che potrebbe non può trasformarsi in tortura. Una seria politica di efficientamento energetico degli edifici penitenziari, attraverso la realizzazione d’impianti di autoproduzione dell’energia elettrica necessaria al sostentamento, potrebbe rappresentare una soluzione per la riduzione dei costi. L’appello va rivolto al Ministro della Giustizia Orlando affinché compia in questi giorni un giro di visite nei molteplici istituti penitenziari che si trovano in queste condizioni e avvii finalmente politiche di effettiva salvaguardia della dignità umana, calpestata dalla situazione reale che si vive nel Nostro Paese. In tre giorni 4 detenuti non rientrati da permessi. Orlando: "tutti gli evasi vengono presi" Il Fatto Quotidiano, 8 agosto 2017 Il ministro: "L’Italia è paese Ue con minor tasso di evasioni". L’ultimo caso a Livorno, nei giorni scorsi episodi analoghi a Torino e Cremona. I sindacati di polizia: "Amministrazione allo sbando". In tre giorni quattro detenuti hanno fatto perdere le proprie tracce approfittando di permessi premio in diversi centri e istituti d’Italia. L’ultimo caso, segnalato dall’Ansa, è avvenuto a Livorno: un italiano, con fine pena nel 2019, non è rientrato nell’istituto dove stava passando il permesso premio. Un caso analogo si era verificato ieri a Torino, mentre il 4 agosto era accaduto a Cremona con l’allontanamento di un presunto componente di una gang di latinos. Così, dopo l’evasione dell’ergastolano Johnny lo Zingaro (poi ritrovato dopo una "fuga d’amore"), torna la polemica dei sindacati di polizia penitenziaria sulla gestione delle strutture di detenzione. "L’amministrazione è notoriamente allo sbando, anche se mai aveva raggiunto i livelli di dissesto attuali - è l’allarme del segretario generale dell’Osapp, Leo Beneduci. E in questi ultimi tempi la giustizia minorile non sembra assolutamente da meno". Nel mirino del sindacato, in particolare, "il rapporto tra l’entità dei reati commessi e della pena, il comportamento tenuto in carcere e i benefici di cui fruire". Il ministro della Giustizia Andrea Orlando replica: "Tutti gli evasi, tutti coloro che si sono allontanati senza rientrare in carcere dopo un permesso premio sono stati presi anche se spesso si danno le notizie delle evasioni e non quelle delle catture". Orlando ha difeso la validità sul piano rieducativo dell’istituto dei permessi premio e ha ricordato che ogni giorno "migliaia di detenuti escono dal carcere, vanno a lavorare e poi rientrano". "L’Italia - ha aggiunto - è il Paese che in Europa ha il minor tasso di evasioni". Quanto alle recriminazioni della polizia penitenziaria per la carenza di organico, il ministro ha sottolineato che "con l’ultima legge di stabilità gli organici sono stati aumentati di centinaia di unità e questo non avveniva da anni: quindi quest’anno il numero degli agenti è superiore a quello dello scorso anno". Nel caso di Torino, il tunisino Mounir Blel, 18 anni compiuti venti giorni fa, era in carcere per rapina, doveva rientrare al carcere minorile Ferrante Aporti di Torino all’ora di pranzo, dopo aver fruito di un permesso premio di quattro ore per acquistare nel centro di Torino alcuni abiti. Al colombiano Carlos Andres Cabrera Castrillon, 19 anni il prossimo 28 agosto, era stato invece concesso un permesso di otto ore da trascorrere con la compagna. Nel caso di Cremona, che risale a venerdì scorso, si tratta di un detenuto cileno, recluso da meno di un anno nel carcere di Cremona con fine pena marzo 2018, che è sparito approfittando di un permesso premio concesso dal magistrato di sorveglianza. È scappato da una finestra del bagno di un polo di accoglienza gestito dalla Caritas Cremonese a Zanengo (Cremona), la "Isla de Burro", dove era momentaneamente ospite e dove avrebbe dovuto prestare servizio di volontariato nell’ambito delle attività di pet therapy per diversamente abili che in quel centro si svolgono. Claudio Gutierrez di 49 anni risulta pregiudicato per reati vari, dal sequestro di persona al possesso di armi, al furto, alla rapina e allo spaccio di droga. È sospettato di appartenere a una banda di latinos che controllano fette di territorio e di traffici illeciti tra Milano e l’hinterland, dove il sudamericano risulta residente, nella zona di via Padova, e dove si suppone possa essere tornato, per nascondersi lì, coperto da complicità che certamente non gli mancano. Un sistema-Coop nei grandi appalti. Ecco le accuse di Cantone a Consip di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 8 agosto 2017 L’Anticorruzione: imprese colluse e anomalie da parte dell’agenzia pubblica. Strane esclusioni, "doppio standard" sui controlli. Romeo, strada spianata al Sud. Un cartello di imprese che si spartiscono i grandi appalti pubblici (4,3 miliardi dal 2012 al 2014). Il sistema delle cooperative, nelle sue diverse articolazioni, a dare le carte. Una centrale pubblica di acquisti nata per ridurre tempi, opacità, costi e diventata fonte di lungaggini, opacità, costi. È la sintesi degli accertamenti di Antitrust e Anticorruzione sul caso Consip, e su cui sta lavorando anche la Procura di Roma. I soliti accordi - La manipolazione dell’appalto "scuole belle" da 1,6 miliardi, bandito nel 2012, è stata sancita dall’Autorità Antitrust con 110 milioni di multe e confermata dal Consiglio di Stato. Otto lotti su 13 vinti dai giganti delle coop. Protagonisti del "cartello" Csn, Manutencoop e Roma Multiservizi, che la Procura di Roma si appresta a processare. La stessa Antitrust e ora l’Anticorruzione guidata da Raffaele Cantone, con due istruttorie parallele, individuano nel successivo appalto Consip per la manutenzione degli edifici pubblici (FM4 da 2,7 miliardi, bandito nel 2014) analogie difficilmente catalogabili come casualità. Stessi soggetti, stesso schema a scacchiera, "analoghe geometrie e strategia di partecipazione", come scrive l’Anticorruzione. Le aziende si presentano scientificamente, facendo sospettare esiti precostituiti in chiave spartitoria, secondo quello che il recente saggio di un ex assessore della sinistra bolognese, Antonio Amorosi, ha definito "Coop Connection". Divergenze parallele - Il consorzio di cooperative Csn (764 milioni di fatturato) partecipa a 7 lotti su 18, Manutencoop (fatturato 727 milioni, aderente al Csn) a 5 lotti. Ma non s’incrociano mai. E nessuno dei due si presenta in Campania, Calabria, Sicilia, dove spadroneggia l’imprenditore napoletano Alfredo Romeo (224 milioni di fatturato). Addirittura in Campania e Basilicata (lotto da 221 milioni) si trova la strada spianata: zero concorrenti. In compenso, Romeo sta alla larga dal Centro-Nord, feudo delle coop: solo una sovrapposizione con Cns, nessuna con Manutencoop. Il gruppo di Ivrea Manital (247 milioni di fatturato, antichi legami dei suoi vertici con il mondo ex Pci-Pds) non si sovrappone mai con Cns e solo in un lotto con Manutencoop, riuscendo a prevalere grazie a un ribasso insolitamente basso (metà del consueto) da parte del colosso coop. Anche due operatori minori, TeamService e L’Operosa, si evitano. Uno si presenta in 5 lotti di gara, l’altro in 6. Senza mai incrociarsi. "Io non sono interessato a dare fastidio agli altri, come Manutencoop e Cns eccetera, perché questo è un mercato e dobbiamo andare avanti. Ma non dovete rompere o’ cazz’ a me!", dice Alfredo Romeo in una conversazione intercettata nell’ottobre 2016 dalla Procura di Napoli. Con lo schema a scacchiera, i quattro big (Cns, Manutencoop, Manital e Romeo) coprono tutti i 18 lotti con due sole sovrapposizioni, peraltro definite dall’Antitrust "non aggressive se non di appoggio". L’esito prefigurato tende a spartire i lotti confermando lo status quo del business. Il terzo livello - Altri elementi indiziari di un "contesto collusivo": l’esistenza di rapporti consolidati tra aziende concorrenti (scambi azionari, partecipazione a consorzi) e la scoperta, nell’indagine sull’appalto "scuole belle", di email interne per suggerire comportamenti soft con gli avversari e concordare riunioni non nelle sedi societarie, ma in più riservate sale alberghiere. Rispetto all’istruttoria dell’Antitrust, che si concluderà tra nove mesi, l’Anticorruzione fa diversi passi avanti, chiamando in causa la Consip. Che, mettendo in fila le puntuali contestazioni dell’Autorità di Cantone, appare non vittima-spettatrice della grande collusione, ma autrice di comportamenti anomali, quando non sospetti. Carte scoperte - Le "anomalie" sono numerose. In primo luogo, pur trattandosi di un appalto miliardario (il più ricco d’Europa) bandito da una centrale d’acquisto iperspecializzata, la procedura Consip non è esente da falle ed errori. Insufficiente e lenta (sette mesi, "un tempo ampiamente superiore alle previsioni normative") analisi dei requisiti economici e organizzativi dei partecipanti. Punteggi invertiti tra aziende diverse. Verifica dei requisiti di onorabilità dei partecipanti parziale e non conclusa. Controlli mancanti sulle autocertificazioni delle aziende in materia penale. Incompleta documentazione antimafia. Lacunose comunicazioni tra gli organi interni. Omesso deposito di verbali e relazioni. Assegnazione dei medesimi punteggi tecnici ai concorrenti, enfatizzando impropriamente la componente economica delle offerte. Lesione della concorrenza consentendo a quattro concorrenti di sanare una cauzione irregolare con quattordici mesi di ritardo e a costi inferiori. Ritiri ed esclusioni - Degna di attenzione da parte dell’Anticorruzione - e strana anche per un non addetto ai lavori - la scelta del consorzio Cns di ritirarsi dalla gara, a distanza di due anni dal bando e proprio mentre vengono aggiudicati i punteggi, nei quali risulta prima in cinque lotti su sette. L’Autorità di Cantone nota la coincidenza temporale di questo precipitoso defilarsi con la decisione dell’Antitrust di sanzionare il cartello di imprese (tra cui la stessa Cns) per l’appalto "scuole belle". C’è poi la "particolare singolarità" del trattamento ricevuto da Manital, unico tra 28 concorrenti a essere escluso a fronte di una gara caratterizzata da "ripetute omissioni" nella verifica dei requisiti di partecipazione. Secondo l’ipotesi dell’Antitrust, nella prima fase della gara (marzo 2014) l’azienda fa parte dello schema a scacchiera concordato con le cooperative. Sei mesi dopo, il quadro cambia: solo per la Manital (in particolare per una piccola azienda a lei collegata, la Pulistar), la Consip avvia una specifica verifica fiscale. Tanto puntuale e "irrituale" da suscitare sospetti sulla sua genuinità. L’accanimento - "Si tratta di un versamento Iva di poche decine di migliaia di euro risalente al 2009", spiega Gianluigi Pellegrino, avvocato della Manital. In una prima fase l’Agenzia delle entrate comunica alla Consip che la posizione fiscale è corretta. Poi con "comportamento contraddittorio" cambia idea e lo scrive solo all’azienda Pulistar, non alla Consip. Che però, chissà come, ne viene a conoscenza, tanto da richiedere copia di un atto citando esplicitamente il numero di protocollo della corrispondenza riservata Agenzia delle entrate-Pulistar. Non solo. Il Tar riammette la Manital (prima classificata in quattro lotti) spiegando che la irregolarità fiscale è marginale e sanabile, ma la Consip non s’arrende. Anziché applicare la sentenza, fa ricorso al Consiglio di Stato, vince e fa fuori la Manital. Il risultato è che quei quattro lotti vengono assegnati ai secondi classificati, con una maggiore spesa pubblica di 25 milioni di euro. La Manital perde così un affare da 664 milioni. In due lotti (valore 352 milioni), a beneficiarne è la Cofely (ora Engie Servizi), controllata dal colosso francese dell’energia Gdf Suez. Forme di sostegno politico da parte del senatore Denis Verdini nei confronti di Cofely sono stati evocate nell’inchiesta Consip, sia da parte dell’amministratore delegato di Consip, Luigi Marroni (interrogatorio), sia da parte di Alfredo Romeo (intercettazioni). Conti in sospeso - Alla fine Romeo, Cofely e Manutencoop risultano vincitori di 11 lotti su 18, per un totale di 1,7 miliardi su 2,7 dell’appalto. Ma per ora l’affare è virtuale. Romeo è stato escluso dopo l’arresto, solo due lotti sono stati aggiudicati. L’appalto che avrebbe dovuto concludersi nel 2016 non è ancora cominciato, la manutenzione degli uffici pubblici è affidata a proroghe e fai-da-te. Tutto il resto langue in attesa di eventi, per lo più giudiziari. Con queste premesse, non mancheranno. Rems. Ricovero obbligato se l’indagato non può "curarsi" da solo di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 8 agosto 2017 Corte di cassazione - Sentenza 38965/2017. Non si può evitare il "ricovero" in una Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza se la persona con problemi psichiatrici, considerata socialmente pericolosa, è incapace di seguire da sola un programma terapeutico. La Corte di cassazione (sentenza 38965) respinge il ricorso contro la decisione del Tribunale del riesame di disporre il ricovero in una Rems, per il ricorrente arrestato in flagranza, con un’imputazione per tentata violenza sessuale. Secondo la difesa il giudice del riesame si era mosso sulla falsariga della perizia psichiatrica, con la quale era stato sottolineato un apprezzabile grado di pericolosità sociale in senso psichiatrico dell’indagato che, privo di una rete familiare, viveva in una situazione di precarietà psico-sociale. Per questo non si poteva escludere - come era già avvenuto - che l’indagato potesse interrompere gli psicofarmaci e ripetere azioni anti-sociali. A parere del ricorrente il Tribunale aveva sovrapposto il concetto di pericolosità psichiatrica e quello di pericolosità giuridica, per l’accertamento della quale bisogna fare riferimento all’articolo 203 del Codice che esclude per il giudice qualunque automatismo. L’altra norma di riferimento è, secondo la difesa, l’articolo 3-ter del Dl 211/2011 (convertito in legge 9/2012), secondo cui l’accertamento della pericolosità va fatto sulla base delle qualità soggettive della persona a prescindere dalle condizioni di vita individuale, sociale e familiare del reo, dettate dall’articolo 133, secondo comma n.4 del Codice penale. Condizione non rispettata dal Tribunale che avrebbe indebitamente valorizzato la situazione di marginalità sociale dell’interessato. La Cassazione ricorda che la legge 9/2012 è stata modificata dal Dl n. 52/2014 che detta le disposizioni per il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari. Una norma che considera la Rems come un’extrema ratio, in assenza di altre misure utili ad assicurare le cure e a fronteggiare la pericolosità sociale, il cui accertamento fa fatto senza tenere conto del "contesto" socio-familiare e senza che incida l’assenza di programmi terapeutici individuali. Modifiche "salvate" dalla Consulta (sentenza 186/2015) e anche dalla Cassazione secondo la quale l’intervento puntava al superamento degli ospedali psichiatrici. La norma non ha modificato la nozione di pericolosità sociale ma ha inciso solo sui criteri di scelta delle misure di sicurezza e sulle condizioni per l’applicazione delle detentive. Per disporre il ricovero nella Rems il giudice deve guardare alle sole qualità soggettive. Nello specifico il giudice non si è "appiattito" sulla Ctu, ma ha spiegato perché una soluzione diversa dalla Rems, come la libertà vigilata provvisoria, non scongiurava il rischio di "recidiva" vista l’incapacità dell’indagato di seguire da solo il programma terapeutico. Poste, peculato per lo sportellista che sottrae denaro di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 8 agosto 2017 Corte d’appello di Roma - Sezione III penale - Sentenza 11 aprile 2017 n. 1744. L’addetto al servizio dei bollettini postali, a prescindere dal fatto che sia dipendente delle Poste o di una società interinale, esercita concreto funzioni di certificazione e non mansioni meramente esecutive e, conseguentemente, riveste la qualifica di incaricato di pubblico servizio. Se, pertanto, lo sportellista si impossessa di denaro versato dagli utenti in occasione del pagamento di bollettini, si configura il delitto di peculato e non quello di appropriazione indebita. Ad affermarlo è la Corte d’appello di Roma nella sentenza 1744/2017. Il caso - Protagonista della vicenda è una donna, all’epoca dei fatti lavoratrice interinale di una società privata e addetta al servizio pagamenti dei bollettini postali di Poste italiane. L’impiegata, in occasione del pagamento di un bollettino relativo al finanziamento concesso per l’acquisto di una autovettura da parte di un utente, dopo il versamento del denaro annullava l’operazione, trattenendo per sé la somma pari a 345 euro. In seguito, la sportellista, dispiaciuta per l’accaduto e pentita di quanto commesso, restituiva all’utente la somma illecitamente sottratta, ma ciò non impediva l’indagine e l’accusa penale nei suoi confronti. La qualifica giuridica - Nel processo di primo grado, fermo restando la commissione del fatto da parte dell’imputata, si poneva la questione della qualifica giuridica da attribuire a quest’ultima, in considerazione del fatto che la stessa era assunta come lavoratrice interinale, e per questa via del reato addebitabile all’impiegata: peculato in caso di qualifica di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio; appropriazione indebita in caso contrario, con improcedibilità per difetto di querela. Ebbene, il Tribunale risolveva il nodo interpretativo facendo leva sulle concrete mansioni svolte dall’impiegata, ovvero funzioni di certificazione e non mansioni meramente esecutive, riconoscendo il delitto di peculato, essendo irrilevante che la sportellista non fosse una dipendente diretta delle Poste, ma una lavoratrice interinale di una ditta privata. Le motivazioni - La questione si ripropone in appello dove la difesa dell’impiegata pone l’attenzione nuovamente sull’esatta qualifica giuridica da attribuire alla lavoratrice interinale. Tuttavia, anche per la Corte d’appello il reato commesso è quello di cui all’articolo 314 del codice penale, dovendosi guardare alle concrete mansioni svolte a prescindere dal fatto che l’agente sia dipendente o meno delle Poste. Ad esempio, affermano i giudici, la giurisprudenza di legittimità attribuisce la qualifica di incaricato di pubblico servizio anche "al portalettere che si impossessi del vaglia postale e di cui abbia la disponibilità per ragioni del suo servizio e ciò in ragione dei compiti di certificazione della consegna". E nel caso di specie, è chiaro che l’imputata era addetta al servizio dei bollettini postali e perciò aveva "in concreto funzioni di certificazione e non mansioni meramente esecutive, prive di qualsivoglia discrezionalità e di autonomia decisionale". Farsi giustizia da se in condominio è reato condominio.it, 8 agosto 2017 Tentare di recuperare le somme di denaro spese del condominio, con violenza o minaccia integra il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni. Il condomino che sostiene delle spese per il condominio, non può ottenere il rimborso delle stesse con la forza, infatti un comportamento di questo genere integra la fattispecie di reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni. La pronuncia della Corte di Cassazione - La Suprema Corte di Cassazione, con ordinanza numero 35342 del 2017, ha confermato la sentenza di secondo grado, con la quale la Corte d’Appello, aveva dichiarato estinto un procedimento penale, a seguito di prescrizione del reato per il quale era imputato un condomino. Si trattava infatti, di un condomino, che avendo anticipato delle spese per il condominio, aveva tentato di recuperarle autonomamente, facendosi giustizia da solo, utilizzando un’arma. Nel caso specifico, erano cinque euro spesi nell’interesse del condominio. Il condominio, venne condannato a risarcire 2.500 euro a titolo di danno morale nei confronti della parte civile. Il caso di specie trattato dalla Cassazione - In realtà, nel caso specifico, il reato non era stato consumato a seguito della reazione della persona offesa, che aveva schivato inaspettatamente l’uomo. La Corte di Cassazione sottolineò, che nel caso concreto l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni, previsto nell’articolo 393 del codice penale, è indifferente che l’evento si determini per effetto di violenza o di minaccia, ovverosia per effetto dell’una o dell’altra condotta tipizzate dalla norma. Ciò che rileva, è semplicemente che chi agisce, invece di rivolgersi all’autorità giudiziaria per far valere le proprie ragioni, preferisce farsi giustizia da solo, costui andrà punito penalmente, anche se si tratta di vicende condominiali. Made in Italy a tutela rafforzata di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 8 agosto 2017 Corte di cassazione - Sentenza 38931/2017. Basta anche un richiamo incidentale e decontestualizzato alla parola "Italia" per integrare il reato di vendita di prodotti industriali con segni mendaci. La Corte di cassazione - Terza sezione penale, sentenza 38931/17 depositata ieri - ribadisce la linea severa per la difesa del made in Italy, confermando la condanna di un imprenditore della provincia di Varese per aver importato poco più di 300 magliette con "fallace indicazione" circa la provenienza. Il fatto era stato scoperto sette anni fa alla dogana commerciale dell’aeroporto di Milano Malpensa, dove i funzionari avevano bloccato lo stock di t-shirts sulle quali era stata aggiunta un’etichetta con riferimenti più o meno vaghi al sito internet dell’azienda. In realtà questa seconda etichetta, a giudizio dei tribunali di merito, serviva a spostare l’attenzione del consumatore sull’estensione finale "Italy" rispetto alla provenienza (cinese) del prodotto stesso, peraltro neppure indicata nella prima e molto simile etichetta. Nel ricorso contro la condanna (poco più che simbolica, 1 mese di reclusione e 1.000 euro, ma con la contestuale confisca delle magliette "italianizzate") l’imprenditore lombardo sottolineava la (asserita) inconferenza dell’effettivo luogo di produzione. Secondo questo punto di vista - ripreso anche dalla sentenza 24043 del 2006 - l’espressione "origine o provenienza del prodotto" farebbe riferimento solo a un determinato produttore, garante in sostanza degli standard qualitativi del prodotto, e non invece ai luoghi della manifattura. La Cassazione ha tuttavia invece riconfermato l’orientamento ormai definito sul made in Italy, anche alla luce della norma chiara contenuta nella legge Finanziaria per il 2004: "Costituisce fallace indicazione, anche qualora sia indicata l’origine e la provenienza estera dei prodotti o delle merci, l’uso di segni, figure, o quant’altro possa indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana". Nel caso specifico il produttore/importatore aveva aggiunto una seconda etichetta che, richiamando la struttura di una stringa web, aveva per obiettivo proprio solo e quello di disorientare un consumatore anche "mediamente attento" ai requisiti del prodotto acquistato. La Terza sottolinea che il sito internet indicato nell’etichetta aggiuntiva era stato inizialmente creato per facilitare la commercializzazione del prodotto, ma che in realtà la fattispecie analizzata riguarda una semplice commercializzazione in Italia di capi interamente prodotti all’estero e "recanti fallaci indicazioni di provenienza italiana". Le condizioni per l’ammissione al gratuito patrocinio. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 8 agosto 2017 Reato ex articolo 95 dpr 115/2002 - Gratuito patrocinio a spese dello Stato - Dichiarazione della posizione reddituale/patrimoniale infedele - Falsità e/o omissioni - Sussistenza. Integrano il delitto di cui al D.P.R. n. 115/2002, articolo 95 le false indicazioni o le omissioni anche parziali dei dati riportati nella dichiarazione sostitutiva di certificazione o in ogni altra dichiarazione prevista per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, indipendentemente dalla effettiva sussistenza delle condizioni di reddito per l’ammissione al beneficio. La valutazione circa la penale irrilevanza della falsità o dell’omissione nella dichiarazione della situazione reddituale non può fondarsi unicamente sul fatto che la titolarità dei cespiti non dichiarati non avrebbe comunque comportato il superamento del reddito massimo previsto ai fini dell’ammissione al gratuito patrocinio. Infatti, la puntuale indicazione di qualsiasi elemento indicativo di reddito, anche inferiore a quello significativo ai fini del superamento della soglia, è necessaria onde consentire agli organi competenti di effettuare le valutazioni previste dal citato decreto. A nulla rileva poi il fatto che i redditi fondiari non dichiarati fossero di importo modesto, atteso che la titolarità degli stessi assume rilievo anche in relazione agli oneri economici (fiscali, assicurativi o di altra natura) che essa comporta per il proprietario, ed in questo senso anche i beni che non siano autonomamente produttivi di reddito (o che producano un reddito di modesta entità) sono potenzialmente valutabili ai fini del reddito percepito dall’instante. • Corte di Cassazione, sezione IV, sentenza 24 marzo 2017 n. 14648. Impugnazioni - Forma - In genere - Revoca dell’ammissione al gratuito patrocinio _ ricorso per cassazione proposto mediante posta elettronica certificata - Ammissibilità - Esclusione - Ragioni. È inammissibile il ricorso per cassazione avverso il provvedimento di revoca dell’ammissione al gratuito patrocinio proposto mediante l’uso della posta elettronica certificata (PEC), in quanto le modalità di presentazione e di spedizione dell’impugnazione, disciplinate dall’articolo 583 cod. proc. pen., sono tassative ed inderogabili e nessuna norma prevede la trasmissione mediante l’uso della PEC. • Corte di Cassazione, sezione IV, sentenza 5 maggio 2016, n. 18823. Difesa e difensori - Patrocinio dei non abbienti - Revoca del gratuito patrocinio - Ordinanza che decide sulla opposizione - Ricorso per cassazione - Modalità di presentazione - Articoli 582e 583 c.p.p. - Violazione - Inammissibilità del ricorso - Fattispecie. Nel procedimento per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato trovano applicazione le regole procedurali proprie del rito penale, per cui il ricorso in cassazione avverso l’ordinanza che decide sulla opposizione alla revoca del gratuito patrocinio deve essere presentato mediante deposito presso la cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato, ai sensi degli articoli 582- 583 cod. proc. pen. (Fattispecie in cui la Corte ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso in quanto notificato alle controparti entro il termine di legge ma non depositato presso la cancelleria del giudice competente). • Corte di cassazione, sezione IV, sentenza 27 gennaio 2016 n. 3628. Difesa e difensori - Patrocinio dei non abbienti - Revoca d’ufficio - Legge n. 125 del 2008 - Applicabilità ai processi pendenti - Conseguenze. In tema di gratuito patrocinio, la l. 24 luglio 2008 n. 125 - che ha introdotto una presunzione di reddito superiore a quello previsto dalla legge per alcuni gravi reati - si applica, in virtù del principio "tempus regit actum", a tutte le situazioni pendenti, trattandosi di normativa processuale; ne consegue che, essendo legittima la revoca dell’originario provvedimento di ammissione al gratuito patrocinio, atteso l’accertamento successivo del superamento dall’origine della soglia di reddito prevista dalla legge, è precluso il diritto del difensore a percepire qualsiasi compenso professionale. • Corte di cassazione, sezione IV, sentenza 23 settembre 2016, n. 39522. Difesa e difensori - Patrocinio dei non abbienti - Autocertificazione del richiedente - Potere di controllo del giudice nel merito - Esclusione. Ai fini dell’ammissibilità al gratuito patrocinio l’autocertificazione dell’istante ha valenza probatoria e il giudice non può entrare nel merito della medesima per valutarne l’attendibilità, dovendosi limitare alla verifica dei redditi esposti e concedere in base ad essi il beneficio, il quale potrà essere revocato solo a seguito dell’analisi negativa effettuata dall’intendente di finanza, cui il giudice deve trasmettere copia dell’istanza con l’autocertificazione e la documentazione allegata. • Corte di Cassazione, sezione IV, sentenza 15 dicembre 2016 n. 53356. Bologna: "mio fratello è molto malato e in cella rischia la vita" di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 agosto 2017 La denuncia di Katia Bondavalli sullo stato di salute di Marco, detenuto a Bologna. I familiari hanno chiesto l’incompatibilità carceraria e un differimento della pena. La Corte di appello di Bologna ha fissato una perizia per il 31 agosto e la camera di consiglio per il 31 ottobre. "È gravemente malato al carcere di Bologna e la sua vita è a rischio!". Un grido di allarme giunto dalla sorella del detenuto che ha seguito passo dopo passo l’evolversi della sua malattia e le complicanze che ha subito, tanto da ricoverarlo in ospedale, per poi però essere riammesso in carcere. Uno stato di salute che, secondo i famigliari, è incompatibile con l’ambiente penitenziario. Parliamo di Marco Bondavalli, 40 anni, condannato definitivamente a 10 anni per un cumulo di pene per truffa. Ha subito due interventi allo stomaco anni prima di essere arrestato. A causa di una complicanza delle operazioni, ha contratto la dumping syndrome, una sindrome debilitante che crea sudorazione, aumento dell’appetito, debolezza, fino a provocare lo svenimento. Quando era entrato nel carcere bolognese a luglio dello scorso anno, la sua malattia - secondo quanto denuncia la sorella del detenuto -, non era stata presa sul serio e dopo sei lunghi mesi, trascorsi con un catetere fisso e continue infezioni e svenimenti, era arrivato al punto di non riuscire più ad alzarsi dal letto della sua cella. A quel punto, il 9 febbraio di quest’anno, lo hanno ricoverato di urgenza in ospedale. Gli hanno diagnosticato una grave infezione che era giunta fino ai reni, mancanza di vitamine e risultava che non si alimentasse in modo appropriato. È rimasto lì per due mesi e mezzo, secondo i medici avrebbe dovuto subire un intervento e hanno consigliato di farlo operare dallo stesso specialista che l’aveva operato in precedenza all’ospedale di Reggio Emilia. A quel punto i famigliari sono riusciti a farlo trasferire, il 19 aprile, nell’azienda ospedaliera reggiana. Il primario però non poteva operarlo subito perché i suoi valori erano ancora di molti oltre i limiti. Nel frattempo, il 25 maggio, viene colto da uno choc settico, tanto da mettere in allarme i dottori che temevano non superasse la notte. Infatti - come si legge nel referto redatto dal dottor Stefano Bonilauri - Marco Bondavalli era stato trasferito presso il reparto di rianimazione. Dopo due giorni lo hanno dimesso e ritrasferito presso il reparto malattie infettive. Però la febbre continuava ad alzarsi e, dopo varie analisi, i medici hanno scoperto che ha un virus contro il quale non né stata ancora trovata una terapia efficace. Nonostante ciò, il 28 luglio scorso lo hanno dimesso e riportato in carcere a Bologna, ma la struttura penitenziaria non è dotato di un centro clinico ma di una sorveglianza medica h24. Sempre il referto del dottor Bonilauri conferma che Marco Bondavalli è affetto da disfagia e dumping syndrome post interventi e da un quadro infettivo da osservare e monitorare tramite trattamenti infettivologici. Il dottore si è inoltre raccomandato che il detenuto mangi correttamente, altrimenti si potrebbero creare infezioni all’intestino che potrebbero essere letali. Katia Bondavalli, la sorella di Marco, è molto preoccupata. "Da quando è ritornato al carcere di Bologna - denuncia al Il Dubbio -, non riesce ad alimentarsi ed è calato di 5 kg in pochi giorni". Bondavalli, dalla prima carcerazione ha perso in totale 50 kg. "L’infettivologo dell’ospedale di Reggio Emilia - aggiunge Katia - in un recente incontro con noi famigliari ha riferito che le complicanze che ha avuto mio fratello sono da attribuirsi al fatto che in carcere non sia stato curato con le dovute terapie". I famigliari, tramite il legale, hanno chiesto l’incompatibilità carceraria e quindi un differimento della pena. La corte di appello di Bologna, prima di pronunciarsi in merito, ha chiesto di nominare un perito medico legale. La sorella esprime la preoccupazione che i tempi si dilatino per avere il responso dei magistrati e nel frattempo il fratello è a rischio. "Le perizie medico legali inizieranno solo il 31 di agosto - spiega Katya Bondavalli -, dopo devono passare 40 giorni per depositarla e la camera di consiglio ci sarà solo il 31 di ottobre". Il caso è stato sollevato anche durante la puntata di "Lo Stato del Diritto", trasmissione su Radio Radicale ideata e condotta da Irene Testa, della presidenza del Partito Radicale. Durante la trasmissione, Katia Bondavalli ha lanciato un appello - rinnovato tramite il Dubbio - al garante nazionale dei detenuti Mauro Palma affinché si attivi per aiutare il fratello a trovare una soluzione prima che muoia. Firenze: la denuncia della Camera penale "il caldo in carcere come una tortura" di Franca Selvatici La Repubblica, 8 agosto 2017 Il caldo non dà tregua a chi può muoversi liberamente. Per i detenuti di Sollicciano, inchiodati dentro quelle mura di cemento, è un incubo, un inferno, una tortura. Lo denuncia la Camera Penale di Firenze. Ecco la dichiarazione di Luca Maggiora, responsabile dell’Osservatorio Carcere della Camera Penale di Firenze, e Massimo Lensi, associazione per l’iniziativa radicale "Andrea Tamburi". Il caldo torrido non accenna a diminuire a Firenze. L’altro giorno il museo degli Uffizi ha chiuso al pubblico per la rottura dell’impianto di aria condizionata e da oggi i cantieri della tramvia sospenderanno i lavori dalle 12 alle 17. E a Sollicciano, in carcere? Niente o poco più. Detenuti, agenti, operatori e volontari sono sotto scacco, dentro il forno dell’esecuzione penale. Il carcere è trattato come se non facesse parte del tessuto cittadino, un buco da cui il territorio urbano e metropolitano paiono volersi dissociare. Quando qualcosa non funziona in un plesso scolastico o in un ospedale si muovono le istituzioni, i sindacati e la società civile. Il carcere, invece, è un non-luogo, esiste ma allo stesso tempo non esiste e le condizioni di vita delle persone recluse raramente sono argomento di lotta politica; al più diventano materiale per convegni e dibattiti. Il carcere interessa a pochi. Ma è importante ricordare che le condizioni detentive sono lo specchio in cui uno stato di diritto si rivela, senza poi dimenticare che le attività educative e le iniziative volte al reinserimento sociale funzionano bene solo nel rispetto della dignità della persona. Per questa ragione ci rivolgiamo al sindaco di Firenze, Dario Nardella, affinché visiti al più presto l’istituto di Sollicciano proprio per evitare il rischio - da cui già Giovanni Michelucci metteva in guardia - che il carcere non sia compreso né come concetto né come luogo della città. Firenze: appello al Sindaco perché visiti il carcere "a Sollicciano 40 gradi in cella" Redattore Sociale, 8 agosto 2017 L’invito arriva da Luca Maggiora, responsabile dell’Osservatorio Carcere della Camera Penale di Firenze, e Massimo Lensi, associazione per l’iniziativa radicale "Andrea Tamburi". Un appello al sindaco di Firenze Dario Nardella "affinché visiti al più presto l’istituto di Sollicciano proprio per evitare il rischio che il carcere non sia compreso né come concetto né come luogo della città". L’invito arriva da Luca Maggiora, responsabile dell’Osservatorio Carcere della Camera Penale di Firenze, e Massimo Lensi, associazione per l’iniziativa radicale "Andrea Tamburi", in concomitanza del caldo torrido dentro al carcere fiorentino, dove le temperature in cella superano spesso i 40 gradi. "Il caldo torrido non accenna a diminuire a Firenze - è scritto nell’appello - L’altro giorno il museo degli Uffizi ha chiuso al pubblico per la rottura dell’impianto di aria condizionata e da oggi i cantieri della tramvia sospenderanno i lavori ?dalle 12 alle 17. E a Sollicciano, in carcere? Niente o poco più. Detenuti, agenti, operatori e volontari sono sotto scacco, dentro il forno dell’esecuzione penale". Secondo Maggiora e Lensi, "il carcere è trattato come se non facesse parte del tessuto cittadino, un buco da cui il territorio urbano e metropolitano paiono volersi dissociare. Quando qualcosa non funziona in un plesso scolastico o in un ospedale si muovono le istituzioni, i sindacati e la società civile. Il carcere, invece, è un non-luogo, esiste ma allo stesso tempo non esiste e le condizioni di vita delle persone recluse raramente sono argomento di lotta politica; al più diventano materiale per convegni e dibattiti". Siracusa: la "carovana" di Radicali fa tappa nelle carceri della provincia siracusanews.it, 8 agosto 2017 La Camera Penale "Pier Luigi Romano" di Siracusa insieme al Partito Radicale per la campagna di raccolta firme per la promozione di una legge costituzionale che determini la separazione delle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri. La "carovana" sta girando la Sicilia, facendo tappa negli istituti di detenzione. Oggi e domani toccherà alle carceri della provincia di Siracusa. Stamattina una delegazione si recherà nella Casa di Reclusione di Noto per la raccolta firme che avverrà sia all’interno che all’esterno dell’istituto penitenziario. Per la Camera Penale di Siracusa ci sarà l’avvocato Luca Partescano. Martedì 8 Agosto previsti due ulteriori appuntamenti per la raccolta delle firme dentro e fuori gli istituti di pena: in mattinata una delegazione dei radicali con l’avvocato Valentina Calcinella si recherà presso la Casa Circondariale di Cavadonna, mentre un’altra delegazione, accompagnata dal Presidente della Camera Penale "Pier Luigi Romano", Giuseppe Cristiano e dall’avvocato Rita Siringo, raccoglierà le firme presso la Casa di Reclusione di Brucoli. Tra gli esponenti del Partito Radicale che faranno tappa in provincia, la coordinatrice di Presidenza, Rita Bernardini e Maurizio Turco. Dalle 18,30, un gazebo per la raccolta firme sarà allestito in Ortigia, in Largo XXV Luglio, davanti al Tempio di Apollo. Obiettivo della Carovana dei Radicali è quello di consentire alla popolazione carceraria che ne abbia diritto di sottoscrivere la proposta. Dal 29 luglio dirigenti e militanti del Partito sono entrati in 13 carceri dell’isola. La delegazione radicale rimarrà in Sicilia fino al 13 agosto, per terminare ufficialmente il 15 con una conferenza stampa dinanzi il carcere romano di Regina Coeli. Oltre 1700 le firme raccolte sulla separazione delle carriere, sia negli istituti di pena che nei tavoli ed eventi pubblici organizzati con i penalisti delle Camere Penali Locali. Firenze: "nella mia Aula non si processano imputati fantasma" di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 8 agosto 2017 Il migrante è irreperibile e il giudice Salvini ferma le udienze. Ha sollevato molte polemiche l’ordinanza, ribattezzata dal deputato della Lega Nord Paolo Grimoldi "salva clandestini", con cui il giudice Guido Salvini, della Prima sezione penale del Tribunale di Milano, ha sospeso il mese scorso il processo nei confronti di un 29enne algerino accusato di possesso di banconote false. L’uomo, senza fissa dimora in Italia, era stato indagato in stato di libertà nel febbraio del 2014. Privo di un legale di fiducia, la polizia giudiziaria operante aveva provveduto alla nomina di uno d’ufficio. Il difensore, come capita nella quasi totalità di questi casi, negli anni non aveva però mai visto il suo assistito, pur continuando a ricevere gli atti processuali. Scrive il giudice: "Vi è da chiedersi se da tale elezione di domicilio, del tutto formale se non fittizia, possa ricavarsi la prova della conoscenza da parte dell’imputato della celebrazione dell’udienza a suo carico". E considerato che "quello che si celebrerebbe è un processo a un "fantasma", rinvia l’udienza disponendo che sia notificato avviso all’imputato personalmente ad opera della polizia giudiziaria, riservandosi qualora tale notificazione non sia possibile l’adozione di ordinanza di sospensione (insieme ai tempi di prescrizione del reato) del processo". Circa il 15% dei processi che si celebrano annualmente al Tribunale di Milano hanno imputati nelle medesima condizione del 29enne algerino. Soggetti perlopiù accusati di furto, ricettazione, truffa, occupazione abusiva di immobili e resistenza a pubblico ufficiale, reati cd "minori" ma di grande impatto sulla collettività. Si tratta di processi in cui l’avvocato d’ufficio non ha elementi per difendere il proprio assistito, né una sua procura per scegliere riti alternativi (rito abbreviato o patteggiamento), e dove la decisione del giudice si basa solo sugli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero. L’ordinanza, oltre a citare la sentenza n. 19388 dello scorso gennaio della Seconda sezione penale della Cassazione secondo cui l’elezione di domicilio presso il difensore d’ufficio di per sè non prova la conoscenza del processo, fa riferimento anche a due sentenze della Cedu, del 2004 e del 2007, che censurano la prassi dei tribunali italiani di portare a processo imputati stranieri ignari, violando quindi l’articolo 6 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo che disciplina il giusto processo e il divieto di discriminazione. Sul punto è intervenuto il recente ddl giustizia che consente agli avvocati di non accettare l’elezione di domicilio se non riterranno di potere davvero sostenere la difesa. A favore di Salvini si è schierata l’avvocatura. Monica Gambirasio, presidente della Camera penale di Milano, ha sottolineato come "in caso di incertezza della conoscenza del processo non rimane che sospenderlo. Così si risparmiano anche risorse economiche della giustizia, già limitate" . Andrea Del Corno, del Consiglio dell’Ordine del capoluogo lombardo, ha evidenziato come questo provvedimento dia "dignità" al ruolo del difensore d’ufficio, restituendogli un ruolo attivo e non solo "formale" nel processo. Il rischio che questa ordinanza si possa trasformare in una amnistia strisciante è molto concreto. Appare alquanto improbabile, infatti, che le Forze di polizia, nell’attuale contesto, si concentrino sulla ricerca di soggetti ritenuti responsabili di reati che non vanno sulle prime pagine dei giornali. Sarebbe, dunque, l’ammissione che lo Stato ha rinunciato alla sua pretesa punitiva. Fermo (Ap): i condannati in tribunale ora lavorano per il Comune di Barbara Satulli Corriere Adriatico, 8 agosto 2017 Intesa in giunta per le opere di pubblica utilità Garantito l’impegno al posto delle sanzioni. Una simbiosi virtuosa tra Comune e tribunale di Fermo: la giunta ha approvato il Protocollo d’intesa con il tribunale in cui mette a disposizione la propria struttura per l’esecuzione dei lavori di pubblica utilità. I campi - Possono essere effettuati nel campo della sicurezza e dell’educazione stradale, decoro urbano e manutenzione del patrimonio pubblico. Il lavoro di pubblica utilità è una sanzione penale che consiste nel prestare attività non retribuita a favore della collettività. Su richiesta dell’imputato e in casi di reati non particolarmente gravi, il giudice può condannare a tale attività, in sostituzione della pena detentiva o pecuniaria. La convenzione, sostenuta all’unanimità in giunta, potrà sostenere un numero massimo di 5 condannati per ogni anno. Dopo la sottoscrizione del Protocollo da parte del sindaco e del presidente del tribunale di Fermo, e dopo l’individuazione dei soggetti da coinvolgere nell’iniziativa, gli impegni che dovranno essere assunti saranno dettagliati sulla base di specifiche convenzioni, sulle linee generali fissate nell’intesa raggiunta. Da tempo il Comune sostiene l’interazione tra la comunità locale e i soggetti condannati, favorendo concrete opportunità rieducative, di miglioramento della qualità della vita e promuovendo i lavori di pubblica utilità nell’ambito dei percorsi rieducativi dei detenuti del carcere di Fermo. L’opportunità - Si apre un’ulteriore opportunità di riparazione del danno sociale procurato dal reato, ed è un’opportunità biunivoca: aiuto e manodopera sono infatti preziosi per gli stessi enti che si mettono a disposizione per lo svolgimento di lavoro di pubblica utilità. Spoleto (Pg): al carcere di Maiano detenuto tenta suicidio con i farmaci tuttoggi.info, 8 agosto 2017 Sottoposto alla massima sorveglianza aveva sottratto i medicinali ad altri detenuti autorizzati ad usarli. Salvato dalla prontezza di un agente della Penitenziaria. Nella Casa di Reclusione di Spoleto, Maiano, si è verificato un tentativo di suicidio da parte di un detenuto appartenente al circuito alta sicurezza protetto. Il detenuto sessantenne. ha tentato di porre fine alla sua esistenza ingerendo un cocktail di farmaci sottratti ad altri detenuti che ne avevano disponibilità terapeutica. Il tempestivo intervento della Polizia Penitenziaria e la capacità operativa dell’area sanitaria presente h24 all’interno della Casa di Reclusione, ha scongiurato un altro suicidio. È stata provvidenziale l a prontezza di spirito di un agente della Penitenziaria che ha avuto un dubbio sulle condizioni dell’uomo. Distinguere se un detenuto stia dormendo o si trovi in una diversa condizione di salute non è facile e ad insospettire l’agente è stato il fatto che, passando piu’ volte davanti alla cella del detenuto, apparentemente addormentato, questo non cambiasse di posizione nel letto. Non avendo reazioni al tentativo di svegliarlo, l’agente ha immediatamente dato l’allarme. Tempestivo è stato l’intervento dei medici ed infermieri che hanno rianimato il detenuto e lo hanno poi trasferito d’urgenza nel reparto di rianimazione dell’Ospedale S. Matteo degli infermi di Spoleto. Il detenuto non è più in prognosi riservata. Latina: Salvatore Striano presenta il suo progetto per gli studenti "Teatro e vita" di Alessandro Introcaso quotidianolavoce.it, 8 agosto 2017 Lo scrittore e attore napoletano, Salvatore Stirano, conosciuto come Sasà, ha presentato al sindaco di Latina Damiano Coletta il suo progetto "Teatro e vita". L’iniziativa proposta dall’ex detenuto che ha trovato il riscatto da una vita "sregolata" e la speranza di una rivincita nello studio, nella letteratura, nel teatro, è dedicata agli studenti degli istituti superiori. Al Primo cittadino e all’Assessore alla Cultura e alla Scuola Antonella Di Muro, Salvatore ha raccontato del progetto che da oltre dieci anni lo sta portando nelle scuole italiane per rendere ai ragazzi testimonianza della sua esperienza. "Sarà proprio in questo momento di confronto - ha spiegato Salvatore -che emergeranno gli sbagli e i fallimenti incontrati nella vita per non aver frequentato la scuola: la vita per strada, tra sangue, droga, armi, poi i collegi, poi la detenzione in carcere. L’intento è dare testimonianza diretta sul "non fascino" del crimine e su tutte le trappole nascoste nella malavita, che di onesto ha solo il nome". Rispetto a quello promosso finora, a Latina avrà la durata dell’anno scolastico, dunque i ragazzi verranno seguiti già a partire dalla prossima stagione con più continuità e costanza. Il tutto si articolerà attraverso una serie di lezioni che terrà lo stesso Striano e che includeranno la proiezione dei film di cui è stato protagonista, tra cui "Gomorra" di Matteo Garrone e "Cesare deve morire" dei fratelli Taviani, e a seguire un dibattito tanto sulla pellicola quanto sulla vita e l’esperienza del protagonista. Immigrazione: litighiamo, ma senza anatemi di Piero Sansonetti Il Dubbio, 8 agosto 2017 Vorrei provare ad evitare i due slogan contrapposti - e insensati - che in genere accompagnano questa discussione. Il primo è: "Sei un razzista". Il secondo, di risposta al primo, usatissimo dai leghisti: "Se ti piacciono tanto i profughi, perché non li porti a casa tua?". Magari è anche possibile discutere dei problemi della immigrazione senza riprodurre lo schema della competizione sportiva. Naturalmente, per tentare una impresa di questo genere, bisognerebbe decidere che problema dell’immigrazione e campagna elettorale non sono la stessa cosa. Operazione quasi impossibile per un esponente politico, ma che noi giornalisti, in fondo, possiamo permetterci. Personalmente sono convinto che una grande civiltà, come è quella europea nella quale viviamo, debba farsi carico del problema dell’immigrazione massiccia che è in corso dai paesi poveri del Sud del mondo. Il flusso di donne e uomini che fuggono dall’Africa è diventato molto consistente, ma comunque di dimensioni assolutamente compatibili con la nostra economica. Parliamo, per l’Italia, di alcune centinaia di miglia di persone giunte sulle nostre coste nel corso degli ultimi dieci anni, in un paese di sessanta milioni di persone. Considerando che molti profughi finiscono poi per andare a vivere in altri paesi europei, la percentuale dei rifugiati dall’Africa rispetto alla popolazione italiana è molto modesta. Tra lo 0,1 e lo 0,2 per cento. Chiunque capisce che con gli attuali standard della globalizzazione è assolutamente impossibile immaginare che si possa arginare questo flusso. Noi viviamo in un paese che dista poche centinaia di chilometri dalle cose dell’Africa. Quasi confinante. In Italia il reddito pro capite è di circa 35 mila dollari all’anno, nella maggior parte dei paesi africani è inferiore ai 5000 dollari, in alcuni non raggiunge i 1000 dollari. In media il rapporto è di uno a 10. È uno squilibrio lontanissimo da quello che esiste tra i paesi dell’Occidente. Calcolate che gli Stati Uniti hanno un reddito pro capite di circa 55 mila dollari, cioè una volta e mezza il nostro reddito. Mentre in Congo il reddito è di circa 700 dollari all’anno, e cioè è trentacinque volte più basso del reddito italiano. Voi capite bene che se persino l’immigrazione italiana verso gli Stati Uniti (o verso la Germania e il Belgio, che hanno un reddito di pochissimo superiore al nostro: circa 1,2 volte) è ancora in corso, figuratevi se è arrestabile l’immigrazione da paesi dieci o venti o trenta volte più poveri del nostro. Provate, per assurdo, a immaginare l’inverso. E cioè che a poche centinaia di chilometri di mare dall’Italia ci siano paesi dove il reddito medio pro capite sia di venti o trenta volte superiore al nostro, e cioè sia di mezzo milione o di un milione di dollari all’anno. Quanti italiani deciderebbero la traversata? Quasi tutti... Dunque le vie per affrontare il problema sono due. O si trova il modo per arrestare l’immigrazione, con soluzioni necessariamente di tipo poliziesco o militare, bloccando i confini; oppure ci si attrezza per ridurre l’impatto sociale dell’immigrazione, senza respingerla. Ed è esattamente su questa alternativa, e non sulle sue implicazioni ideologiche, che dovrebbe con- centrarsi la discussione. Invece, purtroppo, le implicazioni ideologiche hanno un effetto molto forte, dicono gli esperti, sui flussi elettorali. E questo rende quasi impossibile un dialogo sereno. Proviamo invece ad essere oggettivi. Chi propende per una soluzione militare adduce una ragione molto semplice: l’Italia non è ricchissima (pur essendo tra i venti grandi paesi più ricchi al mondo), la crisi morde, negli ultimi anni sono aumentate la povertà e il numero di poveri, di conseguenza esiste la priorità della battaglia sociale sul fronte interno, che deve assorbire tutte le risorse. Per questa ragione bisogna bloccare l’immigrazione clandestina. Perché i clandestini costano allo Stato, talvolta portano via il lavoro agli italiani poveri, talvolta si aggregano alla delinquenza. Chi invece propende per l’accoglienza (fondamentalmente la Chiesa cattolica, la piccola sinistra radicale e in forme talvolta contraddittorie una parte del Pd) pone i valori "umanitari" al di sopra della realpolitik, considera xenofoba e razzista ogni politica di respingimento, e pretende, di conseguenza, una azione di soccorso senza limiti, o la creazione di corridoi umanitari nel Mediterraneo. Trasversalmente tra queste due posizioni c’è chi dice: aiutiamoli a casa loro. Cioè collaboriamo allo sviluppo economico dell’Africa. Posizione nobilissima e incontestabile, che purtroppo, però, negli ultimi undici o dodici secoli ha portato risultati scarsissimi o addirittura, spesso, ha prodotto impoverimento del Sud del mondo. Difficile immaginare che in pochi anni un intervento un pochino più ingente possa davvero ridurre significativamente l’enorme gap di ricchezza del quale parlavamo qualche riga più sopra. Allora proviamo a dividere nuovamente in due il problema. Da una parte c’è la questione etica e dall’altra il problema politico- economico. La questione etica non può essere aggirata. Se un provvedimento di "blindatura" delle frontiere dovesse comportare un aumento delle morti in mare, naturalmente, non sarebbe possibile valutarlo senza tener conto delle implicazioni morali del provvedimento. E quando si parla di morti in mare si parla anche di morti prima o dopo il mare. Per capirci, se 700 persone, come è successo l’altro giorno, tra le quali molti bambini, vengono arrestate dai militari libici e condotte in un campo di concentramento, non possiamo considerare il problema come una questione non nostra. E questa non è solo una questione "platonica": è la sostanza della battaglia per lo Stato di diritto. Lo Stato di diritto, per essere tale, deve riguardare tutti. Non solo "i nostri", gli amici: anche gli altri, gli stranieri, perché lo Stato di diritto non può non avere un carattere universale. E il diritto degli altri è l’unica vera garanzia per il nostro diritto. Questo versante del problema, però, non può essere affrontato dai magistrati e dai responsabili dell’ordine pubblico. È necessario che le forze politiche se ne facciano carico, e il governo. E per affrontare la questione etica (e rispondere, per esempio, a Marco Revelli che chiede di sospendere la campagna di odio contro "il samaritano", cioè contro le Ong, contro i soccorsi, contro Msf) occorre che i partiti e i movimenti (e anche alcuni Procuratori della repubblica) rinuncino a considerare la questione migrazione (e la questione soccorsi) come un campo di battaglia per ottenere o perdere consensi. Non può essere aggirata però neppure la questione politica. La soluzione del nodo etico non risolve il nodo politico. E non ha senso bombardare chiunque voglia affrontare la questione politica, e cioè la gestione di un flusso più forte del previsto di migranti, con gli anatemi e con lo sbandieramento della questione etica o morale. La questione politica ha una sua autonomia. E deve rispondere alla seguente domanda: come si può impedire che la concentrazione dei immigrati solo in alcune parti del territorio (in genere le parti abitate da una popolazione più povera e più debole) crei inevitabili e drammatici conflitti tra popolazioni italiane e immigrati? Non è un problema da niente. Sia nelle piccole città sia nelle metropoli. E chiaro che il problema è meno sentito dai benestanti, che vivono in quartieri residenziali incontaminati, e più sentito dai ceti più poveri. La soluzione del problema sta nel respingere gli immigrati oppure nel distribuirli in modo più organico, vasto e ragionato, su tutto il territorio nazionale e cittadino? A me sembra che la soluzione giusta sia l’ultima. Non solo perché non entra in conflitto con i capisaldi dell’etica e della civiltà. Ma anche perché è più realistica e meno costosa. E rientra in un disegno armonico di società moderna e in corso di sviluppo. Migranti. Il Colle blinda Minniti, ma sul Codice Ong è scontro nel governo di Carlo Lania Il Manifesto, 8 agosto 2017 Il titolare del Viminale diserta il consiglio dei ministri. Gentiloni chiama in aiuto Mattarella che esprime "grande apprezzamento". Sono quasi le otto di sera quando il presidente della Repubblica Sergio Mattarella decide di intervenire per scongiurare che le liti tra i vari ministri sulle Ong impegnate nel salvataggio di migranti nel Mediterraneo si trasformino in una possibile crisi di governo. Con una nota tanto inusuale quanto decisa, il Quirinale si schiera quindi al fianco del ministro degli Interni Marco Minniti esprimendo "grande apprezzamento per l’impegno dimostrato nelle ultime settimane dal titolare del Viminale sul fenomeno migratorio, giudizio che il Colle estende anche al Codice per le Ong condiviso, si ricorda nella nota, dalla maggioranza del parlamento. Poco dopo, a ulteriore blindatura di Minniti, anche Palazzo Chigi ricorda come i risultati che si stanno ottenendo nel contenimento dei flussi dei migranti siano il prodotto del lavoro svolto "in particolare dal Viminale". Le due prese di posizione sono l’atto finale di una giornata convulsa in cui per qualche ora quella di una crisi di governo non è stata solo una possibilità. Una giornata in cui Minniti si è sentito quasi messo all’angolo dalle critiche piovutegli addosso da importanti esponenti del governo alle quali con il passare delle ore si aggiunta anche una netta presa di posizione a favore da parte del Vaticano a favore delle Ong. Al punto che a fine mattinata Minniti decide di non partecipare al previsto consiglio dei ministri fissato per il pomeriggio segnando in questo modo, come spiegano al Viminale, "una presa di distanze pesante" rispetto alle posizioni espresse da alcuni colleghi. "Vediamo adesso cosa faranno" si è sfogato il ministro con i suoi collaboratori. Se non proprio una minaccia di dimissioni, quasi. Numerose le critiche espresse alla linea scelta non solo dal Viminale ma più in generale dal governo per arginare gli sbarchi di migranti. Il primo a esprimere pesanti dubbi è stato domenica il viceministro degli Esteri Mario Giro, che in un’intervista ha duramente criticato la decisione di riportare i migranti in Libia e spiegato come "far rientrare quelle persone significhi condannarle all’inferno". Posizione condivisa - sebbene non espressa pubblicamente - anche dal viceministro all’Agricoltura Andrea Olivero, mentre dal titolare della Giustizia Andrea Orlando è arrivato l’invito a usare maggiore prudenza nei confronti delle Ong. "Dobbiamo disciplinare il settore senza correre il rischio di una criminalizzazione indiscriminata", spiega. Ma a far infuriare Minniti sarebbe stato soprattutto il comportamento di Graziano Delrio. Il ministro dei Trasporti non ha mai fatto mistero di non voler chiudere i porti alle navi delle Ong - cosa per altro vietata dal diritto internazionale - e di privilegiare i salvataggi. E proprio dai Trasporti dipende la Guardia costiera che coordina i soccorsi di fronte alle acque libiche. Guardia costiera che, secondo il Viminale, non si atterrebbe come dovrebbe alle linea guida dettate dal Codice. La prova sarebbe stato il permesso accordato due giorni fa alla nave Prudence di Medici senza frontiere, Ong che non ha sottoscritto le nuove regole, per il trasbordo dei migranti salvati sulle proprie motovedette. Un fuoco di fila che il premier Paolo Gentiloni ha cercato in tutti i modi di far cessare. Prima richiamando all’ordine Giro: "Così rischi di rovinare tutto", gli avrebbe detto in una telefonata domenica pomeriggio. "Rovinare cosa? Non si può far finta che quelle persone finiscono in carcere", è stata la risposta del viceministro. Poi sperando di risolvere il conflitto in sede di consiglio dei ministri. Dove però l’assenza di Minniti gli avrebbe fato capire che la crisi si stava aggravando pericolosamente. Da qui la decisione di chiedere l’intervento del Quirinale e di blindare il ministro degli Interni. E sostegno a Minniti arriva anche dal Nazareno a ulteriore dimostrazione di come il Pd, e Renzi in particolare, sia d’accordo con la linea dura imposta dal Viminale. Intanto anche per le Ong che hanno firmato il Codice continuare a fare il proprio lavoro resta complicato. Ieri la spagnola Proactiva open arms ha denunciato che la Guardia costiera libica ha avvicinato e poi sparato contro la nave "Open Arms" che si trovava a 13 miglia dalla costa, quindi fuori dalle acque territoriali libiche. I miliari avrebbero anche minacciato di uccidere l’equipaggio se non si fosse allontanato subito. Un’altra nave della stessa Ong, la "Porto Azzurro", è invece ferma da domenica notte fuori dalle acque maltesi per il rifiuto della Valletta di far sbarcare tre migranti di origine libica tratti in salvo a 100 miglia dalla Libia. Ius soli. Con i nuovi italiani ma anche no, il Pd naviga a vista di Daniela Preziosi Il Manifesto, 8 agosto 2017 Non solo abbracci e baci, stavolta Giuliano Pisapia, schierandosi a favore dell’approvazione dello ius soli ("va votato entro la legislatura") sparge una manciata di sale su una ferita aperta dentro il Pd, dopo che a Capalbio due giorni fa l’ex premier Renzi si era dichiarato ormai pessimista sull’approvazione della legge ("è difficile", aveva detto). Mpd e Sinistra italiana attaccano il presidente Gentiloni, nelle stesse ore in cui è alle prese con il montare della protesta delle associazioni umanitarie contro il ministro Minniti. "La sinistra tutta si è detta disponibile a votare la fiducia. Che aspetta il governo a metterla? O è troppo impegnato a mettere sul banco degli imputati tutte le Ong?", è l’affondo del presidente della Toscana Rossi. Toni duri che di qui a settembre aumenteranno di intensità: non è un mistero che Mdp ha in animo di sfilarsi dalla maggioranza. È in atto una campagna xenofoba "aberrante", rincara Loredana De Petris (Si), urge una diga tanto più che per lo ius soli "ci sono anche i numeri, dal momento che Si è disposta a votare una fiducia di scopo pur di vedere approvata una legge di pura civiltà". Ma le parole di Renzi - e la risposta di Pisapia - hanno soprattutto l’effetto di riaccendere la polemica dentro un Pd già solcato dai malumori per lo schieramento "anti-Ong" a cui è stato costretto dall’attivismo inutilmente muscolare del ministro dell’interno. Per il franceschiniano Luigi Zanda, capogruppo dem al senato, i tempi per l’approvazione ci sono: "Ius soli e fine vita per noi mantengono una priorità assoluta e prima o subito dopo la legge di bilancio ritengo ci sia il tempo per approvarli. E li approveremo", ha assicurato ieri a Repubblica. A prima vista sembra il contrario di quello che dice Ettore Rosato, capogruppo alla camera, per il quale dopo la manovra non resterà che sciogliere il parlamento e votare. In realtà la "priorità assoluta" del Pd è non scoprirsi troppo il fianco sinistro. E scaricare sulle altre forze politiche l’eventuale fallimento di una legge che due anni fa Renzi considerava una delle bandiere della sua stagione. Quando, a differenza di oggi, i sondaggi davano lo ius soli gradito alla maggioranza degli italiani. Dal Nazareno c’è chi giura: "In autunno ci riproveremo". Il sì allo ius soli, viene spiegato, arriverà perché rientra in un accordo più ampio con Angelino Alfano sulle elezioni siciliane di novembre. Intanto Maurizio Martina, vicesegretario del partito, bolla le polemiche come "inutili" perché - è il ragionamento che ha fatto ieri alla fine del consiglio dei ministri - non è il Pd a frenare, "i problemi vengono dalle difficili condizioni parlamentari". È appunto la linea difensiva del segretario, impegnato nel vano tentativo di tenersi alla larga dal dibattito interno. Ma non disposto a accollarsi la parte del cattivo con gli 800mila nuovi italiani cui aveva promesso la cittadinanza. "Sui diritti è solo grazie al Pd se in questi anni si sono fatti passi avanti storici", rivendica Martina, e oggi definire l’approvazione dello ius soli "difficile" come ha fatto Renzi "significa solo essere consapevoli del lavoro da fare". Stati Uniti. Core Civic: "dateci 300 detenuti in più, o dobbiamo licenziare 200 dipendenti" di Alessandro Avvisato contropiano.org, 8 agosto 2017 Discutere in astratto se funziona meglio "il pubblico" o "il privato" rischia sempre di essere un’esibizione ideologica. Nel senso che gli argomenti astratti pro o contro sono dialogicamente sullo stesso piano, dunque impossibili da soppesare senza scendere sul terreno reale. Naturalmente, bisogna preventivamente stabilire che quel "funziona meglio" sia applicato a qualsiasi settore produttivo. L’articolo del giornale statunitense Alternet, che qui di seguito traduciamo, ci mostra un esempio lampante di follia privatistica. Una corporation della detenzione - gestisce prigioni private, dove vengono detenute persone condannate penalmente dallo Stato (locale o federale, non fa differenza) - pretende dal governo locale e da quello nazionale che si trovino al più presto altri 300 detenuti da infornare nel carcere di Estancia, sennò si chiude e si licenziano 200 dipendenti. Noi siamo abituati a questo meccanismo di ricatto con le aziende di ogni ordine e grado, ma qui stiamo parlando di una prigione. Eppure "l’impresa" non fa differenza tra uomini e bielle o mozzarelle. I prigionieri sono la materia prima, tenerli dentro è il "servizio" (stavamo per dire il "prodotto"), i prigionieri ci vogliono, altrimenti non si guadagna. Leggendo tra le righe traspare una certa ostilità verso qualche depenalizzazione (non sappiamo quale, né che di che entità) operata dall’amministrazione Obama. Ma la critica non è affatto "ideologica": semplicemente ha ridotto il numero di carcerati a disposizione del profitto privato. "Servono leggi più dure", insomma, non per ridurre il tasso di criminalità, ma per aumentare quello di profitto. Non importa se sono innocenti o se hanno commesso "reati" per cui sarebbe stata sufficiente una multa: ci vuole gente che stia in galera, perché "il privato" gestisce "posti letto", proprio come farebbe un qualsiasi albergatore. La "funzione della pena", in questo quadro concettuale, è una battuta di spirito: serve che ci siano dei detenuti sui cui un privato possa guadagnare. E basta. Se poi il detenuto, una volta scontata la pena (naturalmente queste "società" possono tener dentro solo detenuti a bassa pericolosità, con condanne di breve durata), torna a delinquere… meglio! C’è più lavoro, no? "La prigione privata del New Mexico e i federali chiedono di trovare 300 prigionieri in 60 giorni, sennò chiude", di Steven Rosenfeld (Alternet) La seconda più grande corporation nazionale delle prigioni private sta tenendo in ostaggio i politici del Nuovo Messico, minacciando di chiudere, a meno che lo Stato o le autorità federali non trovino più di 300 detenuti da rinchiudere lì. "L’azienda che ha gestito una prigione privata in Estancia per quasi tre decenni ha annunciato che chiuderà la prigione di Torrance County e licenzierà più di 200 dipendenti, a meno che non si possano trovare 300 detenuti statali o federali per riempire i letti vuoti entro i prossimi 60 giorni". Lo ha riferito la settimana scorsa il giornale messicano di Santa Fè. Il giornale ha affermato che i funzionari della contea hanno rilasciato una dichiarazione citando la minacciata chiusura e hanno sottolineato che virtualmente ogni politico della regione, dai funzionari della contea ai funzionari statali, ai congressisti, si stanno preoccupando ora di "salvare posti di lavoro" piuttosto che di chiudere una prigione privatizzata da un imprenditore che è stato denunciato molte volte per molestie sessuali, aggressioni sessuali, morti, abuso della forza, assalti fisici, trattamenti medici, lesioni e violazioni dei diritti civili. "Questa è un grande problema per noi", afferma il direttore della Contea di Torrance, Belinda Garland, al giornale di Santa Fè. Il giornale ha citato Jonathan Burns, portavoce di Core Civic - precedentemente noto come Corrections Corporation of America - mentre diceva: "La città di Estancia e la comunità circostante sono stati un ottimo partner di Core Civic negli ultimi 27 anni… Una popolazione detenuta in diminuzione, in generale, ha costretto a prendere decisioni difficili per massimizzare l’utilizzo delle nostre risorse". Questa è una panoramica perfetta di cosa si è capovolto con la privatizzazione: la mancanza di opportunità economiche e politici che si genuflettono davanti a chi porta posti di lavoro, a prescindere dalle maggiori implicazioni sociali, spingendo le forze dell’ordine nel lavoro sporco di passar sopra arresti e convinzioni, in modo da consentire alle imprese private e i relativi azionisti di fare più soldi. La dichiarazione ufficiale dei funzionari della contea afferma che la maggior parte degli occupanti i 700 posti letto erano prigionieri federali. I funzionari della società, nelle riunioni locali. hanno affermato che le riforme penali federali hanno portato a una riduzione della popolazione prigioniera. Il giornale ha riferito: "L’azienda ha dichiarato che la contea tra trattenendo meno detenuti federali per reati di immigrazione e dogana, ha dichiarato Garland. "Stiamo contattando chiunque possa aiutarci. Odiamo vedere questa struttura chiusa". La relazione di bilancio annuale di Core Civic, relativa al 2016, riporta che i suoi ricavi erano diminuiti leggermente negli ultimi anni dell’amministrazione Obama. "I ricavi statali provenienti da contratti nei centri di correzione, detenzione e rientro residenziale (semiliberi, NdT) che stiamo gestendo costituivano rispettivamente il 38%, il 40% e il 46% del totale delle nostre entrate nel 2016, 2015 e 2014 e sono diminuiti del 2,0%, da 725,1 milioni di dollari nel 2015 a $ 710,4 milioni nel 2016. "Possediamo circa il 58% di tutti i posti letto privati per detenuti negli Stati Uniti, gestendo quasi il 41% di tutti i letti gestiti privatamente e attualmente siamo il secondo più grande proprietario privato e fornitore di servizi di comunità di correzione nel paese". I funzionari eletti che sono stati invitati a trovare altri detenuti includono i democratici del Nuovo Messico, come il senatore americano Tom Udall, e la repubblicana Michelle Lujan-Grisham. La contea ha dichiarato che la città di Estancia perderebbe annualmente $ 700.000 nel commercio e la contea perderebbe 300.000 dollari di entrate fiscali se la prigione si chiudesse a fine settembre. Libia. L’orrore dei 34 centri di detenzione. "Donne e bimbi rinchiusi tra gli escrementi" di Francesca Paci La Stampa, 8 agosto 2017 L’Unhcr: almeno 8 mila persone trattenute dal governo di Tripoli. Ma le agenzie internazionali: impossibile fare dei campi profughi già nel Paese nordafricano. Di cosa parliamo quando parliamo dei campi libici che il viceministro agli Esteri Mario Giro ha paragonato all’inferno? Attraverso i tre organismi internazionali che vi hanno parzialmente accesso - l’agenzia Onu per i rifugiati Unhcr, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni e Medici senza Frontiere - sappiamo che si tratta di centri di detenzione dove vengono portati gli "irregolari", che tra Tripoli, il Nord-Ovest del Paese e Sebha ne esistono 34 (noti) con una capienza totale di 8 mila persone e che sono ufficialmente sotto il controllo dell’autorità per la lotta all’immigrazione clandestina (Directorate for combating illegal migration) ossia Tripoli. Il resto è la cronaca di chi li visita. "Entriamo più volte alla settimana in una ventina di centri per organizzare ritorni umanitari e portare kit medici, materassi, aiuti non alimentari ma anche cibo, possiamo testimoniare condizioni inaccettabili", racconta il direttore dell’Ufficio di coordinamento per il Mediterraneo dell’Oim Federico Soda, reduce da un’audizione al Comitato parlamentare su Schengen. Tutte le strutture dipendono dal governo, insiste, ma diverse sono gestite da milizie e si tratta verosimilmente di quelle interdette agli stranieri: "Parliamo della Libia come se fosse un corpo omogeneo con un’unica catena di comando. Non è così. Nei campi vige l’arbitrio, la situazione cambia da un luogo all’altro, alcuni migranti ci dicono di essere stati picchiati per soldi, altri di aver subito torture o abusi sessuali, altri denunciano malnutrizione". L’ultimo in cui è stato ammesso, tre mesi fa, si trova nella capitale libica: "È una specie di caserma con un muro intorno e un cortile a cielo aperto con le baracche. Dentro ci sono decine di uomini, donne, bambini, mamme che partoriscono da sole: tutti insieme, alcuni sulle poche brandine e altri in terra. Non c’è ventilazione, la luce filtra da finestre molto piccole, i bagni sono pochi e gli escrementi sono ovunque. Ero lì per rimpatriare 176 uomini e una trentina di donne: una minima parte dei detenuti stipati in uno spazio più che sovraffollato". Un’impressione analoga emerge dalle parole dell’Alto commissario Onu per i Rifugiati Filippo Grandi all’indomani della sua visita a Tripoli e ad alcuni centri di detenzione. "Sono rimasto scioccato dalle condizioni in cui sono detenuti migranti e rifugiati", ripete Grandi spiegando di aver visto persone dormire le une sulle altre. Il personale internazionale dell’Unhcr ha lasciato la Libia nel 2014 e è attualmente basato in Tunisia ma, nonostante le forti limitazioni, ha deciso di espandere la propria presenza nel Paese. A oggi ha accesso a 15 centri dai quali nel 2016 ha ottenuto il rilascio di 578 persone ma dei quali denuncia l’assenza di cure mediche, servizi igienici e privacy, il sovraffollamento, la detenzione prolungata. Il quadro è quello di compound in cui vengono portati i migranti intercettati dalla Guardia Costiera ma anche gente arrestata in blitz notturni o da singole persone. Lo staff di Medici senza Frontiere visita circa 1300 detenuti al mese (nei centri accessibili) e parla di "disponibilità quotidiana d’acqua in quantità minima per bere o lavarsi, correnti interruzioni di corrente elettrica, cure mediche permesse in un ambiente altamente militarizzato e non sempre in piena libertà". Ma allora perché non creare centri gestiti direttamente dall’Unhcr in collaborazione con gli altri organismi internazionali, una struttura tipo quelle dell’Oim in Niger? La risposta è corale: "In Libia oggi è impossibile raccogliere il consenso per una scelta del genere. Intorno ai centri di detenzione girano troppo soldi, i migranti sono un business da assai prima che raggiungano il Mediterraneo". Iraq. Linda Wenzel, la 16enne tedesca catturata a Mosul, rischia la pena di morte di Marta Serafini Corriere della Sera, 8 agosto 2017 In Iraq rischia la pena di morte. E ora le autorità tedesche stanno cercando di capire se c’è la possibilità di riportarla a casa, assieme ad altre quattro concittadine. La storia di Linda Wenzel, 16 anni, sposa del jihad che si era unita a Isis l’estate scorsa, aveva già fatto il giro del mondo. Ma ora le immagini della sua cattura a Mosul, mentre i soldati iracheni la trascinano via tra le urla, sono destinate a sollevare di nuovo il dubbio. Le donne reclutate da Isis sono complici dei jihadisti o sono loro stesse delle vittime? Il viaggio di Linda Wenzel inizia a Pulsnitz, cittadina della Sassonia, quando l’estate scorsa dopo essersi radicalizzata in rete ed essere stata reclutata via internet, falsifica la procura dei genitori richiesta ai minori per poter viaggiare all’estero, racconta loro di star andando a fare un weekend con gli amici e fugge in Siria via Istanbul. Poi, con modalità che non sono ancora chiare, da Idlib passa a Mosul. Qui, dopo aver cambiato nome in Meriem o Dania ed essersi convertita all’Islam sposa un miliziano ceceno che viene poi ucciso. Immediatamente si fa notare e viene soprannominata la Belle di Mosul. Secondo alcune fonti sarebbe addirittura diventata una cecchina dell’Isis, secondo altri avrebbe fatto parte della Al Khansaa Brigade, la polizia femminile creata dai seguaci di Al Baghdadi per controllare e torturare le altre donne ma non è chiaro se sia stata costretta o meno a collaborare. Dopo la caduta di Mosul, Linda, come altre donne, viene catturata dai soldati dell’antiterrorismo iracheno che la trovano in una casa da sola, ferita con una sciarpa al collo che usa per coprirsi al capo. "Fate spazio, fate spazio lei è cristiana, non ce la fa più, è debole, è ferita, è bionda ed è tedesca. Il suo nome è Dania, non si chiama Linda. Allah, Allah, fa che questi ragazzi trovino la via e la lascino andare", grida uno dei soldati. La ragazza, che dalle immagini della cattura pare sofferente e forse ferita, ora è in custodia dei militari iracheni che la stanno interrogando e si dice pentita della scelta fatta. I genitori, disperati, dalla Germania, una volta avuta notizia che la figlia è ancora viva, si sono mobilitati con le autorità di Berlino affinché la giovane possa essere rimandata nel suo Paese di origine. Secondo alcune testimonianze raccolte dal Times, Linda potrebbe anche aver avuto un figlio. Bahrein. L’infinita serie di processi contro il più importante difensore dei diritti umani di Riccardo Noury Corriere della Sera, 8 agosto 2017 Nabil Rajab, presidente del Centro per i diritti umani del Bahrein, è il più importante difensore dei diritti umani del piccolo regno del Golfo persico. Ha preso il testimone da Abdulhadi al-Khawaja, condannato all’ergastolo nel 2012. Al-Khawaja finché ha potuto, poi le sue due figlie Mariam e Zainab finché hanno potuto (sono entrambe in esilio) e Rajab (a sua volta, come vedremo subito, finché ha potuto) hanno compiuto lo stesso "reato": aver denunciato al mondo le violazioni dei diritti umani con cui, a partire dalla rivolta del febbraio 2011, la famiglia reale al-Khalifa ha cercato di reprimere ogni forma di dissenso. Rajab aveva già trascorso due anni in carcere, dal 2012 al 2014, per aver preso parte a manifestazioni non autorizzate e per "disturbo della quiete pubblica". Poi era tornato in carcere tra aprile e luglio del 2015 per aver pubblicato dei tweet "offensivi nei confronti dei ministri dell’Interno e della Difesa". Rilasciato per motivi di salute, Rajab era stato nuovamente arrestato il 13 giugno 2016. Aveva trascorso nove mesi in totale isolamento prima che nell’aprile di quest’anno venisse trasferito presso una struttura ospedaliera gestita dal ministero dell’Interno, dove è stato sottoposto a due interventi chirurgici. Le sue condizioni di salute non sono affatto buone. Il 10 luglio Rajab è stato condannato a due anni di carcere per "pubblicazione e diffusione di voci e notizie false relative alla situazione interna del paese", per due interviste televisive rilasciate nel 2015 e nel 2016. Non si conosce ancora la data dell’appello. Rajab è atteso da altri processi. Due riguardano, rispettivamente, un editoriale pubblicato sul New York Times il 4 settembre 2016 e un articolo pubblicato su Le Monde il 19 dicembre 2016. L’accusa è sempre la stessa: aver parlato male del Bahrein con l’aggiunta, in entrambe le occasioni, di aver criticato l’intervento militare in Yemen da parte dell’Arabia Saudita e di altri paesi del Golfo, Bahrein compreso. Poi c’è quello in corso, per cui oggi è stato deciso il 15° rinvio, all’11 settembre: per aver criticato su Twitter l’intervento militare in Yemen e aver denunciato, sempre su Twitter, le torture compiute nel 2015 nella prigione di Jaw a seguito di una rivolta, rischia altri 15 anni di carcere per "diffusione di notizie false in tempo di guerra", "insulto a pubblico ufficiale" (il ministro dell’Interno) e "insulto a un paese straniero". Russia. Fermate 2 Pussy Riot: chiedevano la liberazione del regista ucraino Sentsov di Rosalba Castelletti La Repubblica, 8 agosto 2017 Rilasciate in serata, l’udienza è stata rinviata. Maria Aliokhina era stata arrestata e condannata, e poi graziata da un’amnistia approvata dalla Duma, nel febbraio 2012 quando, insieme ad altre quattro compagne, misero in scena a Mosca una performance contro il capo del Cremlino nella cattedrale di Cristo Salvatore. Chiedevano la liberazione del regista ucraino Oleg Sentsov, ma sono finite dietro le sbarre a loro volta, seppure per poche ore. Marija Aljokhina e Olga Borisova, due donne della band Pussy Riot, sono state fermate stamattina a Jakutsk, in Siberia per aver tenuto una manifestazione non autorizzata. Ieri avevano usato dei fumogeni rossi e blu e issato uno striscione con la scritta Free Sentsov. Sono state rilasciate in serata dopo che il giudice ha rinviato l’udienza del processo a loro carico perché la polizia correggesse degli errori nei verbali dell’arresto. Era stata la stessa Maria Aljokhina a pubblicare su Facebook foto e video protesta scrivendo: "Jacuzia, Repubblica russa di Sacha, un ponte sul Lago di Sajsar. La colonia penale numero 1, dove è detenuto Oleg Sentsov, è a venti minuti e sette chilometri e mezzo da qui. Abbiamo usato lenzuola e uno spray rosa per preparare uno striscione e lo abbiamo appeso sul ponte così che passanti e residenti potessero vederlo". E aveva poi aggiunto: "Il caso Sentsov e Aleksandr Kolchenko è uno dei casi politici chiave e principali nella storia del nostro Paese". Per il regista Oleg Sentsov e l’attivista Aleksandr Kolchenko, entrambi originari della Crimea, la penisola auto-annessa alla Russia, ancor prima delle Pussy Riot si sono mobilitati Ong ed esponenti del cinema, da Pedro Almodovar a Mike Leigh e Stephen Daldry fino allo stesso Nikita Mikhalkov, vicino al Cremlino. Sentsov e Kolchenko erano stati arrestati dai servizi speciali russi in Crimea nel maggio 2014 con l’accusa di "pianificare attacchi terroristici". Un anno dopo un tribunale del Caucaso del Nord aveva condannato Sentsov a 20 anni di carcere in una prigione di massima sicurezza. Pena che sta scontando in Jacuzia. Kolchenko è invece stato condannato a 10 anni di carcere ed è attualmente detenuto a Kopejsk, una cittadina negli Urali. L’organizzazione russa per i diritti umani Memorial, bollata come "agente straniero" dal governo russo, ha riconosciuto entrambi come "prigionieri politici". Anche le Pussy Riot, punk band d’opposizione tutta al femminile, sono note per le loro vicende giudiziarie. Maria Aljokhina era stata condannata a due anni di carcere nel 2012 insieme a Nadja Tolokonnikova e a Ekaterina Samutsevich per essersi esibita dentro la Cattedrale del Cristo Salvatore di Mosca. Era stata liberata nel dicembre 2013 in seguito a un’amnistia approvata dalla Duma. Il loro caso aveva sollevato dispute sulla libertà di parola e sull’influenza della Chiesa russa ortodossa nella Russia di Putin.