Sovraffollamento in aumento, ma le misure alternative sono più efficaci dell’indulto Adnkronos, 7 agosto 2017 Il sovraffollamento carcerario tocca ancora tassi preoccupanti, nonostante negli ultimi anni si sia intervenuti con piani di edilizia penitenziaria e con provvedimenti legislativi, che non sempre però hanno prodotto gli effetti sperati. In particolare l’ultimo indulto, quello del 2006, non si è rivelato efficace nel determinare una diminuzione duratura della popolazione detenuta, mentre a risultati migliori portano interventi normativi a regime, come ad esempio le misure alternative. A certificarlo è uno studio compiuto dall’Ufficio valutazione impatto del Senato, il nuovo organismo di palazzo Madama che studia gli effetti sociali ed economici legati a leggi e regolamenti approvati o da approvare. Al 30 giugno 2017, con quasi 57mila detenuti, il tasso di affollamento è pari al 113%, 5 punti in più del 2016. Otto Regioni sono oltre il 120%, la Puglia al 148, vicino a quell’indice che nel 2013 costò all’Italia la condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo per i "trattamenti disumani o degradanti" inflitti ai reclusi. Una situazione di fronte alla quale più volte sono stati sollecitati provvedimenti di clemenza, anche in sedi e occasioni solenni. Tuttavia si tratta di interventi che nell’immediato producono effetti, ma non in maniera duratura. Amnistie e indulti infatti, fino alla riforma costituzionale del 1992 che ha portato ai due terzi la maggioranza richiesta per la loro approvazione, hanno rappresentato un mezzo ricorrente per far fronte al sovraffollamento nei penitenziari. L’ultimo indulto risale così al 2006 e il risultato fu la diminuzione dei detenuti da 59.523 a 39.005, con un tasso di affollamento rispetto ai posti disponibili passato da 139 a 91.Un effetto deflattivo immediato e nel breve periodo, come nota lo studio dell’Ufficio valutazione impatto: nel mese di agosto di quell’anno uscirono dal carcere 22.476 persone, altre 3mila circa entro dicembre e 2.300 circa nei 3 anni successivi, di cui solo 8.745 hanno poi fatto ritorno in carcere (intorno al 31 per cento). Negli anni seguenti però le celle hanno cominciato a riempirsi di nuovo, tanto che nel 2010 è stato raggiunto il picco storico di 67.961 detenuti, ben 22.839 in più rispetto alla capienza regolamentare di 45.022, con un tasso di affollamento di 151. Da quel momento è iniziato un lento calo: 66.897 detenuti nel 2011 (tasso 146), 65.701 nel 2012 (tasso 140), 62.536 nel 2013 (tasso 131). È di quell’anno la cosiddetta sentenza Torreggiani della Corte europea dei diritti dell’uomo, quando a marzo i reclusi erano 65.906 a fronte di una capienza regolamentare di 44.041 unità, con un’eccedenza di 18.865 rispetto ai posti previsti. Per l’Italia diventa così obbligatorio adeguarsi agli standard europei e il legislatore decide di seguire due strade: un piano di edilizia penitenziaria straordinario, varato già dal 2010, e misure normative volte a favorire l’espiazione extra muraria o a limitare gli ingressi in carcere. Nel primo caso, a fronte di una previsione di 18 nuovi istituti con complessivi 21.700 posti e un investimento di 675 milioni di euro, in realtà la capienza aumenta tra il 2010 e il 2014 di sole 4.415 unità. Per quanto riguarda invece gli interventi legislativi, nel 2010 viene introdotta la detenzione domiciliare per le pene non superiori a un anno, che porta ad una diminuzione dei detenuti di 20.521 persone tra il 2011 e il 2016, con un picco di 4.304 nel 2011 e di 4.701 nel 2012. Con l’esecuzione penale esterna, prevista a partire dal 2013, 127.049 soggetti vengono sottratti alla detenzione in cella, andando dai 29.747 del 2013 ai 33.827 del 2016. Nel 2014 viene invece introdotta la cosiddetta "messa alla prova" con affidamento dell’imputato ai servizi sociali, che interessa 503 persone nel 2014, 6.557 nel 2015 e 9.090 nel 2016. Infine la riforma della custodia cautelare in carcere, che con vari provvedimenti, l’ultimo del 2015, viene limitata ai casi di presunta assoluta pericolosità, porta dai 150.237 detenuti in custodia registrati al 31 dicembre 2006 ai 101.995 del 2016 (circa il 30 per cento in meno). Lo studio dell’Ufficio valutazione impatto si sofferma poi ad analizzare altri due tipi di fenomeni: quello delle detenute madri e quello dei condannati per reati legati al traffico e all’uso di sostanze stupefacenti. Nel 2011 viene disposta la detenzione extra-carceraria per donne con figli al seguito: 53 con 55 bambini nel 2008, un picco di 70 e 73 nel 2009, 37 nel 2016. Dal 2014 ad oggi ne hanno però beneficiato solo 3 o 4. L’abolizione della distinzione tra sostanze stupefacenti leggere e pesanti nel 2006, fa sì che nel periodo tra il 2009 e il 2012 dal 40 al 42 per cento dei detenuti sia composto da condannati per droga. Le modifiche del testo unico del 2013 e 2014, con pene più leggere nel caso di detenzione e spaccio di droghe leggere, porta ad una diminuzione dei detenuti legati a questi reati dai 26.931 del 2009 (42 per cento del totale) ai 18.702 del 2016 (34 per cento). L’8 marzo 2016 il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa ha deciso di archiviare la procedura contro l’Italia, valutando positivamente l’attuazione del piano presentato nei 6 mesi successivi alla sentenza Torreggiani. Tuttavia, proprio a partire dal 2016 il tasso di affollamento del nostro sistema carcerario, pur essendo di gran lunga più basso rispetto al picco raggiunto nel 2010 (151), appare in lenta risalita. Nel 2015 gli istituti penitenziari italiani ospitavano 49.592 persone, pari al 105 per cento dei posti letto disponibili (cioè c’erano 105 persone ogni 100 posti). Nel 2016 la popolazione detenuta è salita a 50.228, con un tasso di sovraffollamento pari al 109 per cento. Un trend che sembra essere confermato dalle ultime rilevazioni dell’amministrazione penitenziaria: al 30 giugno 2017 i detenuti risultavano quasi 57mila, con un tasso di sovraffollamento intorno al 113 per cento. Ma ancora più evidenti (sempre secondo le rilevazioni al 30 giugno 2017) sono i tassi di sovraffollamento rilevabili a livello regionale. Sono ben 10 le regioni d’Italia con un tasso di sovraffollamento carcerario superiore al totale nazionale: la Puglia (148), il Molise (145), la Lombardia (134), il Friuli Venezia Giulia (132), la Liguria (123), l’Emilia Romagna (123), la Basilicata (121), il Veneto (120), il Lazio (119) e la Campania (118). Un fenomeno che si lega ai dati altrettanto preoccupanti sugli episodi di autolesionismo (8.540 casi nel 2016 e 1.262 nei primi due mesi del 2017); dei suicidi tentati (1.006 e 140) e compiuti (40 e 12). Emergenza caldo in carcere. Servono azioni concrete, non parole. di Nerina Dirindin* quotidianosanita.it, 7 agosto 2017 Le condizioni di caldo estremo di queste settimane mettono a dura prova la salute di coloro che vivono o lavorano in carcere: operatori penitenziari, volontari e detenuti. I detenuti vivono in celle sovraffollate, fermi per lunghe ora nelle loro brande, aspettando che dalla finestra entri un filo d’aria, senza doccia (7 celle su 10 non hanno una doccia), nella migliore delle ipotesi con i piedi immersi in secchi di acqua fredda per un po’ di refrigerio (come nella casa circondariale Dozza di Bologna); in altri casi con ridotto approvvigionamento idrico (come nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, Caserta) o senza acqua fredda (come nel carcere di Capanne, Perugia); senza condizionatori o con impianti che non funzionano (come nel carcere di Spini a Trento), senza ventilatori o con ventilatori che non possono essere accesi perché l’impianto elettrico non regge (come a Sollicciano, Firenze). Gli spazi esterni sono per lo più in cemento armato, dove è impossibile trovare un po’ d’ombra, nonostante la circolare del Ministero della Giustizia raccomandi la creazione di zone ombreggiate. In tale situazione si trovano anche le donne che hanno appena partorito, le persone con disagio mentale (fra le più a rischio di fronte al grande caldo) e i bambini ospitati in carcere insieme alle loro mamme (a fine 2016 erano 37 i bimbi in carcere). Altrettanto grave è la situazione degli operatori penitenziari, che da tempo lamentano condizioni di lavoro non più accettabili: personale in servizio insufficiente (molti sono distaccati fuori dal carcere), ridotta presenza dei volontari nelle ore pomeridiane (a causa della carenza di personale penitenziario); assenza di figure professionali indispensabili per migliorare la qualità del lavoro (educatore penitenziario, psicologo, mediatore culturale, referente del benessere organizzativo); divise logore e non sostituite da tempo (nel carcere Lorusso e Cotugno di Torino gli agenti denunciano la mancanza di nuove uniformi da ben 14 anni); ambienti degradati la cui ristrutturazione è rinviata all’infinito (non ci sono le risorse neanche per la manutenzione ordinaria); rischi reali di logoramento psicologico e di malessere lavorativo, assenza di iniziative concrete da parte dell’amministrazione penitenziaria per contrastare il disagio degli agenti. E intanto, negli ultimi tre anni, si sono suicidati oltre 50 poliziotti. Il tutto nel quasi totale disinteresse dell’amministrazione sanitaria, centrale e locale, come se le ondate di calore non colpissero anche la salute della popolazione che vive o lavora nel carcere, come se il carcere non facesse parte del territorio su cui operare per prevenire i rischi legati al grande caldo. Eppure la riforma del 2008 sancì il passaggio delle competenze in materia di tutela della salute delle persone detenute dalla Giustizia alla Sanità. Ma molto resta ancora da fare. A fronte di una situazione così degradata, non bastano le parole. Il Ministero della Giustizia, unica amministrazione che ha manifestato una qualche attenzione all’emergenza caldo, ha recentemente (e forse tardivamente) emanato alcune circolari raccomandando interventi che i responsabili delle strutture penitenziarie faticano a mettere in atto, se non altro perché non hanno i soldi. Gli interventi di buon senso, quelli possibili nelle condizioni date, sono spesso già stati messi in atto, ma "riformulare i menù giornalieri", "implementare la disponibilità di frigoriferi", "assicurare i nebulizzatori", "realizzare aree ombreggiate" (tanto per fare qualche esempio) non sono azioni che possono essere realizzate rapidamente e a risorse invariate. In vista del prossimo anno, bisognerà iniziare a programmare interventi concreti. In attesa che l’importante lavoro svolto nel 2016 dagli Stati Generali dell’Esecuzione Penale possa tradursi in un qualche risultato pratico, sarà bene iniziare con un semplice programma volto ad adeguare rapidamente gli impianti e le attrezzature (efficientamento energetico, approvvigionamento idrico, condizionamento dell’aria, frigoriferi, ecc.). Sarà inoltre necessario che il Servizio sanitario si attivi con azioni di tutela della salute degli operatori delle carceri e delle persone detenute (a partire dal rischio suicidario). Interventi che naturalmente dovrebbero essere adeguatamente finanziati fin dalla prossima legge di Bilancio. Una cosa è certa: non si può più continuare a chiedere a chi opera in prima linea nelle carceri di attivarsi per il benessere delle persone, scaricando su di loro responsabilità che devono essere affrontate in primo luogo dalla Giustizia e dalla Sanità. *Presidente Forum Nazionale Salute in Carcere "Emergenza carceri, le celle sono forni". Un appello al Ministro della Giustizia approdonews.it, 7 agosto 2017 Il gran caldo di questi giorni sta creando enormi problemi ai detenuti. Parte l’appello al ministro Orlando per trovare una soluzione dignitosa per i detenuti. La dignità delle persone sempre al primo posto. Perché calpestarla completamente significa barbarie, parificabile ai delitti più efferati. Ed in questi giorni bollenti per le ripetute "bolle africane" che stazionano, attanagliando l’Italia, la barbarie si sta consumando nella gran parte degli istituti di detenzione italiani, con i locali comuni ed in particolare le celle, ridotte a vere e proprie minuscole fornaci, con temperature prossime ai 50 gradi in alcuni casi, dove i reclusi, oltre all’ordinario problema del sovraffollamento, stanno subendo la tortura di una calura asfissiante e senza possibilità di scampo. Molte carceri, specie quelle più recenti sono, infatti, costruite in cemento armato che diventa rovente con l’esposizione solare e con il vento caldo che trasforma in supplizio ogni ora della giornata, senza possibilità di alcun rimedio se non quello "istantaneo" della doccia o in escamotages di fortuna come quello di mettere il corpo in sacchi di plastica riempiti d’acqua o i soli piedi nei secchi e stracci bagnati sulla fronte, come ci riportano le numerose e convergenti testimonianze di tanti che si sono trovati ristretti a "Borgo San Nicola" a Lecce o in altre località del territorio nazionale. Anche le ore d’aria concesse sono spesso evitate per l’irraggiamento eccessivo che colpisce i cortili all’uopo dedicati, rendendone impossibile la fruizione. Insomma, un vero e proprio girone dell’inferno dantesco che riporta la mente a condizioni di detenzione medioevali lette nei libri di storia, con un rischio di ulteriore imbarbarimento di chi vive questa terribile situazione e con ricadute inevitabili sul principio primario di rieducazione che scompare di fronte alla realtà dei fatti. È bene che tutti conoscano un problema che viene percepito come lontano dalla vita di tutti i giorni dalla collettività, come se coloro che si trovano in carcere siano degli alieni o addirittura meritevoli di subire i trattamenti degradanti cui sono sottoposti. L’espiazione della pena o l’attesa degli esiti di un giudizio che potrebbe - come accade in molti casi - veder assolto il prevenuto, non può trasformarsi in tortura, rileva Giovanni D’Agata, presidente dello "Sportello dei Diritti". Una seria politica di efficientamento energetico degli edifici penitenziari, attraverso la realizzazione d’impianti di autoproduzione dell’energia elettrica necessaria al sostentamento, potrebbe rappresentare una soluzione per la riduzione dei costi e quindi un investimento a medio termine, anche per la dotazione di adeguati impianti di condizionamento dell’aria, assolutamente indispensabili in periodi come questi per rendere minimamente vivibili gli ambienti. Rivolgiamo, quindi, un appello al Ministro della Giustizia Orlando affinché compia in questi giorni un giro di visite nei molteplici istituti penitenziari che si trovano in queste condizioni e avvii finalmente politiche di effettiva salvaguardia della dignità umana, calpestata dalla situazione reale che si vive nel Nostro Paese. Il popolo dei diritti civili negati. "Noi dimenticati dalla politica" La Stampa, 7 agosto 2017 Dalla cittadinanza al fine vita, le storie degli italiani che aspettano le riforme I tempi stretti in Parlamento e le divisioni ritardano l’approvazione. Fino a quando?. Ius soli, testamento biologico, cannabis, cognome della madre, norme anti-omofobia. Sono alcune delle riforme che rischiano di non vedere la luce prima della fine della legislatura. Camera e Senato riaprono il 12 settembre, ma l’agenda parlamentare autunnale sarà monopolizzata da legge di stabilità e riforma elettorale. Poi ci saranno le vacanze di Natale e verosimilmente a metà febbraio il Capo dello Stato scioglierà le Camere per le elezioni. I diritti civili avrebbero potuto essere il tratto distintivo di questa legislatura, ma solo alcune leggi sono andate in porto. La riforma più controversa resta quella dello Ius soli. Renzi ha ammesso che sarà difficile approvarlo prima delle elezioni. "Bravo Matteo", gioiscono i centristi di Ap, che a giugno avevano indotto Gentiloni allo stop. Pisapia però insiste: "Bisogna votarlo". E, mentre la politica discute, ai cittadini non resta altro da fare che continuare ad aspettare l’approvazione delle leggi sui diritti civili. Ecco le loro storie. Ius Soli - "In casa sono tutti italiani tranne me". Ayoub Moussaid è arrivato in Italia dal Marocco a 16 anni e suo padre ha ottenuto la cittadinanza quando lui era già maggiorenne, quindi il risultato è che i suoi fratelli sono italiani, lui no. Adesso Ayoub di anni ne ha 30, vive a Fossano, in provincia di Cuneo, è un musulmano "non integralista", parole sue, ha un diploma da geometra e fa un mestiere curioso: è sessatore di pulcini, insomma è lui che, quando escono dall’uovo, verifica se sono futuri polli o future galline. "Uno dei dieci lavori più strani al mondo, l’ho letto su Internet", ride. Parla un italiano perfetto, fa teatro da dieci anni e adesso lo insegna pure ai ragazzini di una parrocchia di Cuneo. È stato presidente della Consulta alle politiche giovanili di Bra e prima faceva pure "clown-terapia" per i bambini malati. Insomma, un ragazzo italiano come tanti, il lavoro, il volontariato, "solo che ho il passaporto marocchino. Curioso, no? Potrei votare in Marocco, dove non so nulla della situazione politica. Non posso farlo in Italia, dove invece mi interesserebbe". All’approvazione dello Ius soli, ormai, non crede più. "È chiaro che sui nostri diritti si sta giocando una partita politica. Ma noi abitiamo qui, studiamo qui, lavoriamo qui. Io sono un italiano, mi sento italiano. Quel che vorrei si capisse è che le persone come me non chiedono che si faccia loro una concessione, ma semplicemente di venir riconosciuti per quello che siamo: italiani". Biotestamento - Quei malati senza più speranza: "Vogliamo solo poter scegliere". "Sa quanti testamenti biologici ci sono arrivati? Quindicimila. E 120 Comuni hanno già istituito il relativo registro. Un recente sondaggio indica che il 67% degli italiani è favorevole alla legge sul fine vita. Del resto, l’Italia e l’Irlanda sono gli unici due Paesi della Ue che ancora non l’hanno". Parole e cifre di Filomena Gallo, segretario nazionale dell’Associazione Luca Coscioni. Qui la storia delle persone che aspettano la legge è particolarmente doloroso. "Sono vicende come quello della ragazzina in coma a Venezia da dodici anni di cui hanno scritto i giornali. O il piccolo Charlie, per citare gli ultimi casi che hanno fatto discutere". Eppure la legge è ferma al Senato, dopo l’approvazione a larghissima maggioranza alla Camera. "Il testo è in Commissione ed è chiaro che c’è chi sta facendo di tutto per rallentarlo. Le audizioni previste sono il triplo di quelle effettuata alla Camera, gli emendamenti più di 3 mila. È chiaro che, se le cose resteranno così, la legge non sarà mai approvata prima della fine della legislatura". Ma c’è un ma. "Il testo potrebbe arrivare in Aula senza relatore. Questo farebbe decadere gli emendamenti. E allora il tempo per approvarlo ci sarebbe. Certo, ci vuole la volontà, in primo luogo del Pd. Serve coraggio da parte di una politica che rimanda tutto ai giudici salvo poi lamentarsi di esserne espropriata. Ma gli italiani, e soprattutto quelli prigionieri senza speranze in un letto, chiedono soltanto di poter scegliere". Cognome della madre - La legge sul doppio cognome per i figli, approvata dalla Camera, è spiaggiata al Senato da tre anni. Una coppia di Genova, lei, Manuela Magalhaes, brasiliana, lui, Marcello Galli, italiano, la battaglia l’ha già vinta. Sono arrivati fino alla Corte costituzionale che ha sentenziato che è anticostituzionale negare il diritto ai coniugi di imporre al bambino, dalla nascita, entrambi i cognomi. "Del resto - spiega Magalhaes - mio figlio li avrebbe avuti in Brasile, dove questo diritto esiste, e non in Italia. Per noi è stata una battaglia di principi, conforme ai nostri ideali di una famiglia dove padre e madre sono su piano di parità. E il doppio cognome è un simbolo importante". Intanto, come al solito in Italia, il legislatore è in ritardo sul giudice. Dice Magalhaes: "Credo cha la legge sia importantissima, anche se mi auguro che sia rivista rispetto a com’è uscita dalla Camera". "Non è solo un diritto dei genitori, ma anche del bambino - chiosa l’avvocato Susanna Schivo, che ha seguito il lungo percorso giudiziario - La legge ci vuole perché la sentenza della Consulta è certo già applicabile, ma è l’intera materia che va disciplinata. È in atto una rivoluzione culturale e bisogna prenderne atto. Sempre più donne vogliono che la loro genitorialità sia riconosciuta anche a livello sociale, sempre più uomini sono consapevoli che si tratta di un processo utile per tutti. Non so se le coppie interessate siano tante, ma di certo sono in crescita". Norme anti-omofobia. Stefano, picchiato perché gay: "Il Senato ascolti la società". "È necessario approvare una legge per tutelare una minoranza discriminata come la nostra. Sarebbe un segnale di modernità per un Paese che solo recentemente ha approvato le Unioni civili". Stefano Sechi, 24 anni, è il ragazzo torinese aggredito da due coetanei perché omosessuale su un pullman al ritorno da una serata in discoteca. Dopo quella violenza di tre anni fa, ha fondato Wequal, associazione che si batte contro la discriminazione Lgbt con cui ha girato l’Italia per sensibilizzare i giovani sull’urgenza di una norma contro queste aggressioni. "Attacchi di questo tipo hanno sempre delle conseguenze psicologiche. Il pestaggio che ho subito su quel bus è stato un atto di odio ingiustificato. Quei pugni e quegli insulti, mi hanno ferito nel profondo: hanno colpito la definizione di me stesso". Con la sua Onlus ha lanciato una raccolta firme sul web per spingere una proposta di legge anti-omofobia. "Una petizione on-line, che ha raccolto migliaia di adesioni in pochi giorni a significare quanto la società civile sia più avanti della politica", aggiunge Sechi. Una proposta che, però, rischierebbe di rimanere in coda nelle altre "leggi di civiltà" che giacciono ferme nei meandri del Parlamento. Come un’altra legge contro l’omofobia che ha mosso i primi passi esattamente quattro anni fa. "Per l’omofobia ci vogliono pene sicure - chiosa Sechi. Perché in molti casi le aggressioni non sono fisiche, ma rischiano di essere ancora più violente". La giustizia amministrativa non è la vera anomalia di Giulio Napolitano* Corriere della Sera, 7 agosto 2017 Sbagliato accusare i Tar di rallentare il Paese. Ma vanno attuate, e valutate negli effetti, le tante misure di riforma introdotte nell’ordinamento. Caro direttore, in un Paese segnato da anni di dura crisi economica e che soltanto da poco ha ricominciato timidamente a crescere, è normale che si apra la "caccia" ai tanti "mali" che affliggono l’Italia. Ma il rischio di sbagliare bersaglio, magari facendo sparare (metaforicamente si intende) chi non ha mai preso un fucile in mano o ha altre mire, è molto elevato. Esemplare in proposito è il dibattito sulla giustizia amministrativa (affiorato da ultimo anche sulle pagine del Corriere lo scorso 4 agosto), spesso accusata di rallentare il Paese, se non addirittura di impedire la crescita del Pil o di bloccare le riforme. Intendiamoci: queste accuse, ancorché un po’ grossolane, sono talora comprensibili se si guarda a singole vicende giudiziarie, a volte davvero sconcertanti. Ma se si affronta la questione in termini istituzionali, bisogna innanzitutto superare un approccio provinciale. L’organizzazione della giustizia amministrativa italiana e l’ambito della sua giurisdizione, infatti, non costituiscono affatto un’anomalia del nostro Paese, ma sono in linea con quanto avviene in quasi tutta Europa. Basti pensare che, in Francia, la giurisdizione amministrativa, articolata in ben tre gradi di giudizio, è ben più ampia della nostra. Ma anche in Paesi che, diversamente dall’Italia, non sono stati direttamente influenzati dal modello francese, la situazione non è molto diversa. In Germania, ad esempio, dove pure non costituiscono un ordine autonomo e separato, le corti amministrative si pronunciano su tutte le controversie di diritto pubblico. Persino nel Regno Unito, la tanto decantata esperienza degli administrative tribunals conferma l’esigenza di una tutela specializzata nei confronti del potere pubblico (ancorché esercitata in forme non giurisdizionali). Alcune aree importanti del contenzioso, come quella degli appalti, d’altra parte, sono rette da regole comuni europee, a garanzia della parità concorrenziale dei partecipanti alle gare. Ciò significa che non c’è nulla da fare o che tutto funziona per il meglio? Non è certo così, come si evince anche dal rigoroso bilancio, pieno di luci e di ombre, offerto dal presidente del Consiglio di Stato, Alessandro Pajno, in occasione dell’inaugurazione del corrente anno giudiziario. È vero: negli ultimi anni, si è rafforzata la tutela dei diritti fondamentali e si sono accelerati i tempi per la soluzione dei contenziosi più rilevanti. Eppure, lo stock dei ricorsi pendenti e il flusso di quelli nuovi rimangono notevoli, lasciando così insoddisfatta una parte della domanda di giustizia e rendendo instabili molte decisioni pubbliche, che spesso toccano gli interessi di molti cittadini o di intere collettività. Ma la soluzione a questi problemi non può certo essere la soppressione del giudice amministrativo, la cui funzione peraltro è costituzionalmente garantita, o la riduzione dell’ambito della sua giurisdizione, con la conseguente devoluzione al giudice ordinario di un numero maggiore di controversie con la Pubblica amministrazione. Poiché la Costituzione stabilisce che è sempre ammessa la tutela nei confronti di quest’ultima, infatti, lo spostamento della giurisdizione non ridurrebbe certo il numero dei ricorsi. Mentre si accrescerebbe l’intasamento delle aule giudiziarie, dato che, alla prova dei fatti, il principale vantaggio competitivo del giudice amministrativo rispetto al giudice civile risiede proprio nella sua maggiore celerità ed efficacia nel risolvere le dispute tra cittadini e poteri pubblici. Ecco perché vanno invece coerentemente attuate e misurate nei concreti effetti, prima di introdurre nuovi cambiamenti, le tante misure di puntuale riforma della giustizia amministrativa ancora di recente introdotte nel nostro ordinamento, come i riti super accelerati, il processo telematico, gli obblighi di sinteticità negli atti processuali, il contrasto alle liti temerarie. Se poi ciò non bastasse, si potrebbe pensare a ulteriori e più innovative misure, come ad esempio la tipizzazione degli atti politici sottratti al sindacato giurisdizionale, un più rigoroso controllo sui presupposti della legittimazione a ricorrere, la più severa sanzione delle azioni pretestuose, la soluzione alternativa delle controversie tra amministrazioni, la previsione di casi di giudizio in unico grado. Non bisogna infine dimenticare che le cause di molti problemi che si manifestano davanti ai giudici amministrativi risiedono spesso altrove: nella cattiva qualità delle leggi, nella sempre più scarsa capacità tecnico-giuridica delle amministrazioni, nella cultura "litigiosa" dei nostri concittadini (e della vasta schiera dei loro avvocati). Sono tutti elementi che aiutano a spiegare, pur in presenza di istituzioni simili, i dati talora diversi registrati dalle statistiche giudiziarie internazionali. La buona amministrazione della giustizia nella sua interezza, d’altra parte, richiede lo sviluppo di giochi cooperativi, senza cedere alla facile tentazione di additare il "cattivo" o il "nemico" di turno: magari per scaricare su altri le proprie responsabilità, per rivendicare inesistenti primati tra toghe, o per difendere spazi di manovra corporativa. Soltanto con diagnosi attente e terapie ben calibrate si possono curare i "mali" dell’Italia, ivi compresi quelli che riguardano il funzionamento della giustizia. *Ordinario di Diritto amministrativo all’Università di Roma Tre Niente stalking se l’accusato mette mano al portafogli di Brunella Bolloli Libero, 7 agosto 2017 C’è una norma nella legge di riforma del codice penale da poco approvata che si chiama "Estinzione del reato per condotte riparatorie" e riguarda anche lo stalking, che colpisce, nella stragrande maggioranza dei casi, le donne. In sintesi afferma: se lo stalker paga, non c’è più reato. E ciò anche a prescindere dalla volontà della vittima. È la norma contenuta nel nuovo articolo 162 ter del codice penale: una vera mazzata nei confronti di signore oppresse da pericolosi molestatori e la fine per molte associazioni che da anni si battono per contrastare la violenza contro il gentil sesso. "Non basta versare una somma", dicono stizzite, "lo stalking è un reato e come tale va riconosciuto e punito". Infuriate anche le sindacaliste di Cgil, Cisl, Uil, Taddei, Ocmin e Menelao: "Da settembre, alla ripresa dei processi, per molti stalker si aprirà la possibilità di estinguere il reato pagando una congrua cifra", avvertono allarmate, "anche in comode rate e senza interpellare la persona offesa". La richiesta, all’attenzione del Parlamento, è che venga cassata la norma incriminata dalla riforma del processo penale e lo stesso ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha ben chiaro il problema. In pratica, la riforma ha allargato la portata delle condotte riparatorie e per le fattispecie di reato in cui la querela è revocabile, come lo stalking,il giudice può decretare che basta un risarcimento del danno, riconosciuto anche in seguito a "offerta reale formulata dall’imputato e non accettata dalla persona offesa". Tradotto: basta il placet del magistrato e il persecutore è salvo, con tanti saluti alla vittima, la quale non viene consultata se è d’accordo o meno con tale decisione. Il suo parere, insomma, non conta. La riparazione integrale, dice il testo dell’articolo, deve avvenire entro il termine massimo della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado. Il giudice può fissare un ulteriore termine per il pagamento di quanto dovuto, anche in forma rateale, comunque non superiore a sei mesi. Il legislatore, introducendo questo nuovo articolo, ha forse mirato a chiudere in fretta, con ristoro della vittima e per via stragiudiziale, molti dei processi che vanno avanti da anni. Ma sostenere che "una volta che le condotte riparatorie dell’imputato abbiano dato esito positivo", cioè una volta messo mano al portafoglio, "il giudice dichiara l’estinzione del reato", è quanto di più avvilente e misogino possa accadere nei confronti del genere femminile. L’uomo che paga la sua vittima per mettere a tacere una colpa, paga per non considerarsi più colpevole, paga per poi magari continuare a esercitare una violenza che, spesso, non si esplica con aggressività fisica, ma che è qualcosa di più psicologico e profondo. Una forma sadica di controllo che può devastare una donna. Ora, ridurre tutto a una quantificazione monetaria è un assurdità. Un modo sbagliato per tornare indietro nel tempo. Tenuità del fatto, la bussola dei giudici sulla non punibilità di Selene Pascasi Il Sole 24 Ore, 7 agosto 2017 L’articolo 131-bis del Codice penale, introdotto dal Dlgs 28/2015, libera dalla tenaglia sanzionatoria i reati puniti con pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, o con pena pecuniaria, sola o congiunta alla prima, purché l’offesa sia particolarmente tenue e il comportamento non abituale. Niente sconti, quindi, per chi uccide, causa lesioni gravissime, agisce per motivi abietti, futili, con crudeltà o approfitti della minorata difesa della vittima, è delinquente abituale, professionale o per tendenza o ha commesso più reati della stessa indole. Questi i criteri dettati dal Codice. Sono i giudici, però, a disegnarne i confini. Vediamo come. La tenuità riconosciuta - La non punibilità è stata riconosciuta in caso di parziale occultamento di redditi, tentato borseggio, detenzione occasionale di film pedopornografici, rivelazione non abituale di notizie d’ufficio (Cassazione, 19932/2017) o appropriazione di banconote di scarso valore da distributore automatico (Corte d’appello di Taranto, 23/2017). L’applicazione della non punibilità, cui non osta la sola presenza di precedenti o il fatto che la tenuità sia circostanza attenuante del reato, è ormai applicata - superato l’orientamento contrario (Cassazione 55039/2016) - anche ai reati di competenza del giudice di pace. A incidere, infatti, sono il requisito oggettivo della tenuità dell’offesa e quello soggettivo della non abitualità (Tribunale di Cassino, sentenza 60/2017). E quella negata - Al contrario, la non punibilità è stata esclusa in caso di molestie sessuali su minori, reiterato esercizio abusivo di professione, dolo rilevante (Tribunale di Trento, 179/2017), precedenti specifici (Tribunale di Salerno, 472/2017), reato continuato o recidiva che aumenti la pena oltre i cinque anni. Negata, anche per l’espulso che rientri (Cassazione, 21286/17), per il detentore di grandi quantità di Dvd contraffatti, per il gestore di locale che disturbi la quiete con musica ad alto volume (Cassazione, sentenza 42063/16), per l’avvocato che chieda compensi per attività mai svolte ledendo gravemente il vincolo di fiducia che lo lega al cliente o per chi trasporti oggetti lesivi senza addurre giustificazioni salvo che, accusato del porto di coltello, non sia un incensurato (Tribunale di Ferrara, sentenze 1364 e 1320 del 2016). Ancora, niente tenuità per l’omesso reiterato versamento di contributi (Cassazione, 42083/16) o di Iva se la somma evasa superi sensibilmente la soglia di punibilità dei 250mila euro (Cassazione, 13218/16) o per chi presenti più dichiarazioni infedeli. I casi limite - Per l’automobilista ubriaco, la non punibilità è stata riconosciuta nell’ipotesi in cui abbia rifiutato di sottoporsi all’alcool test (Cassazione, Sezioni unite, 13682/2016). Discussa - ma poi affermata - l’applicabilità nell’ipotesi di guida in stato d’ebbrezza, non ritenendosi in astratto incompatibile con il giudizio di particolare tenuità la presenza di soglie di punibilità rapportate ai valori di tassi alcolemici accertati (Cassazione, Sezioni unite, 13681/2016). Molte le pronunce anche in materia edilizia: sfugge alla sanzione chi realizzi un manufatto abusivo di scarsa incidenza sul carico urbanistico ma non chi costruisca senza autorizzazione un soppalco sulla facciata esterna di un palazzo in zona vincolata (Cassazione, 44319/16) o realizzi una lottizzazione abusiva (Corte d’appello di Trento, 197/2016). Sul versante infortunistico, poi, salvo concorso di colpa dell’operaio, è stato stabilito che paga per intero il datore di lavoro che non predisponga adeguate misure di prevenzione (Cassazione, 35280/2016). Tenuità negata, infine, per la madre che lede il diritto del figlio alla bigenitorialità, ostacolando, per ritorsione al mancato pagamento dell’assegno mensile, le visite paterne (Cassazione, 42012/16). Intercettazioni: niente utilizzazioni per i restanti reati dello stesso procedimento di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 7 agosto 2017 Cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 9 maggio-12 giugno 2017 n. 29151. In tema di intercettazioni, qualora il mezzo di ricerca della prova sia legittimamente autorizzato all’interno di un determinato procedimento concernente uno dei reati di cui all’articolo 266 del Cpp, i suoi esiti sono utilizzabili anche per tutti gli altri reati relativi al medesimo procedimento, purché, si tratti di reati per i quali queste avrebbero potuto essere disposte ai sensi dell’articolo 266 del Cpp. Lo ha stabilito la sezione VI penale con la sentenza 9 maggio-12 giugno 2017 n. 29151. Le motivazioni della Cassazione - In termini, ex pluribus, sezione II, 18 dicembre 2015, Roberti e altri. La Corte prende consapevolmente le distanze da altro orientamento secondo cui le intercettazioni disposte in relazione a un reato possono essere utilizzate, a fini di prova, in relazione a qualunque altro reato oggetto del medesimo procedimento senza i limiti di cui all’articolo 266 del Cpp (tra le altre, sezione VI, 25 novembre 2015, M. e altri). Vale comunque ricordare che vi è invece concordia di opinione nel senso che nel caso in cui si tratti di reati oggetto di un procedimento diverso ab origine, l’utilizzazione è subordinata alla sussistenza dei parametri indicati espressamente dall’articolo 270 del Cpp, e, cioè, l’indispensabilità e l’obbligatorietà dell’arresto in flagranza (tra le altre, sezione VI, 15 novembre 2016, Cocivera). È quest’ultima un’affermazione ampiamente condivisibile giacché esula dall’ambito di applicabilità dell’articolo 270 del Cpp, come si evince dal suo tenore letterale, l’ipotesi in cui nell’ambito del medesimo procedimento vengano disposte intercettazioni per un reato e da esse emergano gli estremi di un altro reato. Infatti, in tale evenienza si tratta di utilizzare le intercettazioni agli effetti di prova di un reato diverso da quello per il quale la captazione è stata autorizzata e non di utilizzare i contenuti delle conversazioni intercettate in un procedimento diverso da quello nel quale l’intercettazione è stata disposta (cfr., di recente, sezione VI, 15 luglio 2015, Rosatelli e altro; nonché, sezione VI, 8 giugno 2016, Proc. Rep. Trib. Roma in proc. Proietti e altro). E ciò, del resto, tenuto conto anche dell’altro principio autorevolmente affermato in giurisprudenza in forza del quale, comunque, ai fini del divieto di utilizzazione previsto dall’articolo 270, comma 1, del Cpp, la nozione di "diverso procedimento" va ancorata a un criterio di valutazione sostanzialistico, che prescinde da elementi formali, quale il numero di iscrizione del procedimento nel registro delle notizie di reato, essendo invece decisiva, ai fini dell’individuazione dell’ "identità" dei procedimenti, l’esistenza di una "connessione" sotto il profilo oggettivo, probatorio o finalistico tra il contenuto della originaria notizia di reato, per la quale sono state disposte le intercettazioni, e i reati per i quali si procede (sezioni Unite, 26 giugno 2014, Floris e altro). In altri termini, ai fini del divieto di utilizzazione previsto dall’articolo 270, comma 1, del Cpp, occorre far riferimento a una nozione sostanziale di "diverso procedimento", secondo cui la "diversità" va collegata al dato dell’insussistenza, tra i due fatti - reato, storicamente differenti, di un nesso ai sensi dell’articolo 12 del Cpp, o di tipo investigativo, e, quindi, all’esistenza di un collegamento meramente fattuale ed occasionale (sezione III, 5 novembre 2015, Pulvirenti e altri). Il musicista di strada disturba la quiete se usa l’amplificatore di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 7 agosto 2017 Corte di cassazione, terza sezione penale, sentenza 34780/2017. Disturbo della quiete pubblica per il violoncellista di strada che suona oltre i limiti consentiti dalle norme disposte dal regolamento comunale per gli artisti di strada. La Corte di cassazione (sentenza 34780/2017) respinge il ricorso del musicista che, oltre a "sforare" negli orari, aveva utilizzato anche un impianto di amplificazione vietato a chi si esibisce "on the road". Per lui era scattata un’ammenda di 100 euro per il reato di disturbo all’occupazione e al riposo delle persone, come previsto dall’articolo 659, comma 2, del Codice penale, che punisce chi esercita un mestiere rumoroso senza rispettare le regole. Doppi vetri contro il rumore - Il musicista, che si era esibito a Roma nella centralissima piazza San Silvestro, la parte civile (un condomino che abita nella zona) aveva chiesto anche il risarcimento dei danni: ovvero le spese sostenute per installare i doppi vetri e isolarsi, in modo da non sentire il suono del violoncello. Una pretesa che secondo i giudici si rivela fondata, visto che la sostituzione degli infissi era stata eseguita proprio in coincidenza con le contestazioni mosse al musicista, il quale aveva invece negato l’esistenza di un collegamento tra le sue esibizioni e i lavori alle finestre. Violazioni reiterate - Inutile per il ricorrente mettere in discussione l’attendibilità della persona offesa, in assenza di altri "reclami" nei suoi confronti da parte di abitanti, negozianti o passanti, e di rilevazioni della soglia del rumore. La Suprema corte - richiamando la giurisprudenza in materia - ricorda infatti che in sede di legittimità non si può mettere in discussione la credibilità del teste, analizzata dai giudici di merito, se questi l’hanno considerato attendibile senza contraddirsi. Nel caso esaminato, inoltre, il testimone era stato supportato dal barbiere di zona e contro il violoncellista c’erano anche un paio di multe già collezionate per aver suonato in orari proibiti (un "abuso" commesso per più giorni). Le violazioni avevano quindi fatto ricadere la condotta nel raggio d’azione del Codice penale, articolo 659, comma 2, perché per i giudici non c’era stato un semplice illecito amministrativo (ex articolo 10, comma 2, legge 447/95). Una piena sovrapponibilità tra le due fattispecie (penale e amministrativa), nel caso dell’esercizio di un mestiere rumoroso, si verifica solo nell’ipotesi in cui siano stati semplicemente superati i valori limite stabiliti dai criteri della legge quadro, senza rumori generati anche da altre fonti. Nella fattispecie in questione, dunque, la meno grave sanzione amministrativa era esclusa sia dall’uso dell’amplificatore, sia dal mancato rispetto degli orari imposti agli artisti di strada. Le regole comunali - Andato in soffitta il codice Rocco, che prevedeva "tolleranza zero" nei confronti di quanti si esibivano nella pubblica via (considerandoli "straccioni e saltimbanchi"), i Comuni hanno stabilito tempi, modi e luoghi per esercitare l’arte a cielo aperto. Dai madonnari ai "fachiri", dai giocolieri ai mangiafuoco, chiunque può esibirsi, osservando però alcune regole, come ad esempio quella di restare nel perimetro dei marciapiedi. Dall’elenco degli artisti di strada, le amministrazioni comunali hanno di recente "estromesso" gli esoterici lettori di carte o di mani, ora considerati a tutti gli effetti commercianti, e dunque tenuti a pagare l’occupazione del suolo pubblico. Lazio: carceri roventi, cresce il sovraffollamento di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 7 agosto 2017 Nei 14 istituti del Lazio ci sono 1.1015 reclusi in più. Quasi 300 solo a Regina Coeli. Rischio suicidi ed evasioni. L’ultimo, un romeno in cella per omicidio, si è ucciso a fine luglio a Rebibbia, nell’ormai noto reparto G9, già al centro delle polemiche dei sindacati degli agenti della polizia penitenziaria per le carenze e le difficili condizioni che sia i poliziotti sia i detenuti, sono costretti a sopportare ogni giorno. Dall’inizio dell’anno sono già cinque i reclusi che si sono tolti la vita nelle carceri di Roma e provincia. Fra loro anche Marc Prato, in galera in attesa di processo per aver torturato e assassinato Luca Varani nell’abitazione al Collatino dell’amico Manuel Foffo, già condannato con rito abbreviato. Un suicidio che ha fatto notizia, rispetto ad altri quasi ignorati che tuttavia denunciano una situazione sempre più delicata dietro le sbarre, che quest’anno comprende anche numerosi tentativi di togliersi la vita, evasioni (fra riuscite e fallite) e aggressioni fra detenuti e al personale di vigilanza. Segnali che i sindacati di categoria, come la Fns Cisl, collega direttamente al sovraffollamento delle carceri romane e laziali. In dieci mesi la situazione è peggiorata: sono infatti 1.015 i detenuti in più rispetto a quelli previsti nei vari istituti (6.250 su una capienza regolamentare di 5.235), e 211 in più rispetto a quelli censiti nel settembre dell’anno scorso sempre dallo stesso sindacato. Spicca la situazione di Rebibbia Nuovo Complesso dove attualmente (al 31 luglio) dai 1.172 detenuti previsti si passa a 1.420 (+248), una sessantina in più rispetto all’ultimo rapporto. Circa trecento in più anche a Regina Coeli (912 invece di 622). Ma quello che preoccupa è il fatto che solo il sovraffollamento attuale nei quattordici istituti di pena nel Lazio rappresenta il 15 per cento circa di quello nazionale attestato su 6.564 reclusi in più (56.766 su una capienza complessiva di 50.202). Le cronache carcerarie del 2017 raccontano anche di episodi al limite, come quello dell’ottantenne ancora detenuto, era un ladro di biciclette, a Regina Coeli, o l’aggressione subìta poche settimane fa sempre nel complesso sul lungotevere da comandante delle guardie carcerarie intervenuto per sedare una lite violenta fra due reclusi. Fino a luglio sono stati una decina gli episodi di agenti rimasti feriti durante i turni di servizio con una dozzina di operatori finiti in ospedale, alcuni dei quali anche con diversi giorni di prognosi. Nonostante questo sono stati sventati numerosi tentativi di evasione, spesso durante i "passeggi" dei detenuti, ma anche da strutture sanitarie. Dopo i casi del 2016 (con i tre albanesi fuggiti da Rebibbia e ancora latitanti), nel 2017 in quattro sono riusciti a scappare. Gli ultimi due erano albanesi rinchiusi a Civitavecchia, uno è stato ripreso quasi subito. "Qui - ha spiegato il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Maria Ferri, in visita nel penitenziario nei giorni scorsi - occorre certamente verificare la possibilità di rafforzare la dotazione organica del personale in servizio presso l’istituto". Puglia: le carceri scoppiano, troppi detenuti e pochi poliziotti Corriere Salentino, 7 agosto 2017 A settembre la polizia penitenziaria tornerà in piazza a protestare. L’estate nelle carceri pugliesi è da bollino nero: situazione ancora invivibile e nessuna soluzione proposta dai vertici: i sindacati interrompono il dialogo e organizzano una nuova strategia di protesta. "I poliziotti costretti ad assistere sempre più impotenti al declino di un sistema penitenziario seriamente in crisi ed il cui scorrimento e fluidità dei servizi, ad oggi, vengono garantiti soltanto dallo spirito di sacrificio, abnegazione e senso di appartenenza allo Stato degli appartenenti al Corpo" - spiegano dall’Osapp. Carenza dell’organico, apertura di nuovi reparti detentivi negli istituti di Taranto e Trani, avviamento di un reparto psichiatrico a Lecce e conversione della struttura sita a Monteroni di Lecce (un tempo luogo di detenzione per i minori) sono i punti principali all’ordine del giorno che l’Osapp pone all’attenzione delle autorità preposte. "A quanto già enucleato - dichiara Pasquale Montesano, segretario generale aggiunto dell’Organizzazione Sindacale Autonoma di Polizia Penitenziaria - si aggiungono la carenza di automezzi per la traduzione dei detenuti (atteso che quelli in uso sono anche privi di sistema di climatizzazione), i turni di lavoro estenuanti, l’assenza totale di sistemi di automazione posti a garanzia della sicurezza intramuraria ed il costante aumento della popolazione detenuta". Fatti, peraltro, reiteratamente denunciati e puntualmente ignorati da chi dovrebbe invece avere a cuore l’efficienza e l’efficacia dei luoghi di detenzione. "Il perseverare delle aggressioni a danno degli agenti di Polizia Penitenziaria - aggiunge Montesano - l’attività dei gruppi collegati alla criminalità organizzata tendente, sempre più, attraverso intimidazioni e violenze, ad ottenere il predominio nell’ambiente penitenziario (ossia nei confronti del personale e dei detenuti), il silenzio colpevole delle autorità di Governo in ogni ordine e grado, non possono continuare a passare sotto traccia". La decisione irrevocabile, a detta del Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria (Dap), di avviare, proprio a Lecce, dal prossimo 19 settembre, un nuovo reparto destinato a detenuti con problemi psichiatrici, decisione peraltro che ignora o fa finta di non conoscere l’attuale condizione della Penitenziaria, determina un grave rischio per l’utenza e per gli operatori, oltre che per il cittadino, naturalmente. A tutto questo l’Osapp si oppone strenuamente, dice NO a strategie e proclami politici e da settembre porrà in essere ogni forma di protesta che si opponga a qualsivoglia tipo di decisione affrettata e che non tiene conto delle legittime istanze degli addetti ai lavori. "Appare urgentissima una risposta concreta e risolutiva - conclude Pasquale Montesano - perché si provveda quanto prima all’invio di nuove risorse di Polizia Penitenziaria". Non è ultroneo ribadire, infine, che l’intera Regione Puglia, ad oggi, può ospitare a pieno regime strutturale 2284 detenuti mentre allo stato attuale ne ospita circa 3.400 e registra una carenza negli organici di circa 300 unita. Puglia: rapine, furti, droga; numeri da allarme per i minori di Maddalena Mongiò Quotidiano di Puglia, 7 agosto 2017 La mappa dei reati e la brutta sorpresa: il 16% dei casi italiani riguarda la Puglia. La geografia dei reati commessi dai minori penalizza la Puglia. Le statistiche elaborate sulla base dei minori a carico dei servizi della giustizia minorile parlano chiaro: su 12.744 ragazzi che hanno commesso un reato, 2.031 si trovano in Puglia e sono il 16 per cento dei casi in carico al sistema giudiziario. Rapine, furti, violenza, omicidi e droga. Così macchiano la loro fedina penale gli adolescenti che non riescono a farla franca. Reati in crescita, basta fare un confronto tra maggio e luglio 2017, ma il dato più singolare, e che apre a un’infinità di domande, riguarda la presenza di questa delinquenza, spesso micro (piccoli furti, spaccio di poche dosi), che risulta più massiccia rispetto a città che nella percezione comune dovrebbero essere a più alto tasso di reati: Napoli e Palermo, ad esempio sono indietro rispetto a Bari e in questo caso è cosa buona, per loro. Le cifre. I casi in Puglia vedono Bari in testa con 246 nuovi reati commessi da minori, sino a metà luglio (a metà maggio 2017 risultavano 154 nuovi casi e quindi c’è un incremento del 38 per cento), compresi i ragazzi già in carico si ha un totale di 1.099 minorenni in carico alla giustizia contro i 1.002 di maggio. Segue Lecce con 169 nuovi casi registrati sino al 15 luglio 2017 (115 a maggio), mentre la restante parte (368) riguarda casi già in carico dall’anno precedente: totale 537 minori nelle maglie della giustizia (484 a maggio). Chiude Taranto con 95 nuovi casi sino a luglio (59 a maggio), 300 già in carico (erano 298 a maggio), per un totale di 395 (357 a maggio). Dati che nel confronto con Napoli sono sorprendenti. Il capoluogo partenopeo lascia volentieri lo scettro a Bari e conta 716 minori che hanno commesso reati di cui 139 nuovi casi tra maggio e luglio. Anche Palermo non supera Bari: 933 i minorenni in carico alla giustizia, con 248 nuovi casi tra maggio e luglio. In questa triste classifica nazionale, al numero uno troviamo Bologna con 2.293 minorenni che hanno commesso reati vari, seguita dalla Capitale 1.399 casi, tallonata da Catania con 1.241 ragazzi che stanno pagando per i reati commessi. Bari è quarta. E ci sono altri dati che fanno riflettere. Milano ha in carico 480 ragazzi colpevoli di reati, nonostante sia una città popolosa e sia attraversata da tanti fenomeni sociali e culturali. Alcol e droga le due principali molle che spingono i ragazzi a delinquere e non c’è ceto sociale che ne sia immune anche se più fragile è la famiglia e il tessuto sociale in cui il ragazzo vive, maggiore il rischio di caduta nell’inferno come pure di ricaduta se i servizi della giustizia riescono a portare positivamente a termine il recupero della persona che riguarda ragazzi sopra i 14 anni e sino ai 25 se hanno commesso il reato quando erano minorenni. Le ragazze sono meno toccate dalla devianza: su base nazionale, sono 11.375 i maschi e 1.369 le femmine per un totale di 12.744. a questi si aggiungono i minorenni di altra nazionalità pari a 4.517 di cui 614 femmine. E capita che il primo incontro con la giustizia avvenga anche in età giovanissima. Dal primo gennaio al 15 luglio, su base nazionale, sono stati 54 i maschi e 11 le femmine con meno di 14 anni che hanno commesso reati; mentre i bambini stranieri sono stati 20 e le bambine 6. Complessivamente sono stati pizzicati per la prima volta (sempre da gennaio a luglio) 2.546 ragazzi e 367 ragazze, a cui si aggiungono 849 ragazzi stranieri e 121 ragazze straniere. La lista dei reati commessi da questi minori fa impallidire. Si parla di delitti contro la persona (omicidi tentati o consumati, lesioni personali, percosse, risse, sfruttamento della pornografia minorile, stalking e l’elenco potrebbe continuare); non mancano i maltrattamenti in famiglia, le rapine, l’estorsione, la ricettazione, l’uso di stupefacenti e alcol, incendi. "L’utenza dei Servizi minorili è prevalentemente maschile - si legge nel rapporto statistico del Dipartimento giustizia minorile e di comunità -, le ragazze sono soprattutto di nazionalità straniera e provengono dall’area dell’ex Jugoslavia e dalla Romania. La presenza degli stranieri è maggiormente evidente nei servizi residenziali; i dati sulle provenienze evidenziano come, negli ultimi anni, alle nazionalità tipiche della criminalità minorile, quali il Marocco, la Romania, l’Albania e i Paesi dell’ex Jugoslavia, tutt’ora prevalenti, si siano affiancate altre nazionalità, singolarmente poco rilevanti in termini numerici, ma che hanno contribuito a rendere multietnico e più complesso il quadro complessivo dell’utenza. La criminalità minorile è connotata dalla prevalenza dei reati contro il patrimonio e, in particolare, dei reati di furto e rapina. Frequenti sono anche le violazioni delle disposizioni in materia di sostanze stupefacenti, mentre tra i reati contro la persona prevalgono le lesioni personali volontarie". Sicilia: i Radicali raccolgono 1700 firme per la separazione delle carriere in magistratura ilfogliettone.it, 7 agosto 2017 La Carovana per la Giustizia, promossa dal Partito Radicale e dall’Unione delle Camere Penali, è giunta a metà del suo percorso in Sicilia. Dal 29 luglio dirigenti e militanti del Partito Radicale sono entrati in undici carceri dell’isola, a cui oggi si aggiungono quelle di Caltagirone e Gela, per raccogliere sottoscrizioni alla proposta di legge per la separazione delle carriere tra pm e giudici e iscrizioni al Partito di Marco Pannella. La delegazione radicale rimarrà in Sicilia fino al 13 agosto, per terminare ufficialmente il 15 con una conferenza stampa davanti al carcere romano di Regina Coeli. Ben 1700 le firme fino ad oggi raccolte sulla separazione delle carriere, sia negli istituti di pena che nei tavoli ed eventi pubblici organizzati con i penalisti delle Camere Penali Locali. A fare un primo bilancio dell’iniziativa è Maurizio Turco, della Presidenza del Partito Radicale: "Registriamo la patente, pervicace e reiterata "conventio ad escludendum" del Partito Radicale, delle sue lotte, dell’apporto dei suoi militanti ad opera dei mezzi di informazione nazionali - radiofonici televisivi, cartacei, sia pubblici che privati - tranne lodevoli eccezioni. Silenzio tombale perché il regime ha unanimemente deciso - tant’è che tacciono tutti, tranne l’Unione delle Camere Penali - che non deve essere oggetto di pubblico dibattito la questione centrale della causa del sottosviluppo economico e sociale del Paese: la Giustizia. Continueremo fino al 31 dicembre a cercare i 3000 iscritti al Partito Radicale che altrimenti cesserà le sue attività e con esse quelle di Radio Radicale. Per scongiurare tutto questo abbiamo messo in vendita il primo 10% delle quote della Radio. Ma la coltre di assordante silenzio viola il diritto dei cittadini di conoscere per decidere, e viola il nostro diritto ad essere conosciuti per essere giudicati. Paghiamo il prezzo, non ci rassegniamo, resistiamo e andiamo avanti per battere la democrazia reale nella quale stanno soffocando il popolo per riaffermare lo Stato di Diritto". Venezia: il figlio morì in carcere, la madre si oppone all’archiviazione del caso La Nuova Venezia, 7 agosto 2017 La famiglia di Stefano Borriello passa al contrattacco. Dopo la seconda richiesta di archiviazione, avanzata dalla procura di Pordenone in merito al detenuto di Portogruaro di 29 anni deceduto in carcere quasi due anni fa, il 7 agosto 2015, i familiari presenteranno opposizione a questa richiesta entro la fine di questa estate, attraverso l’avvocato di Latisana, Daniela Lizzi. Si muoverà anche il legale dell’associazione Antigone, Simona Filippi. Il referto dell’autopsia sulla morte del giovane incarcerato parlava di polmonite, ma restano dei dubbi se il ragazzo si potesse salvare con un ricovero più tempestivo. "Le parole della Procura ci offendono enormemente", dice la madre di Stefano, Laura Gottai, "questa seconda richiesta di archiviazione è inaccettabile; sostenere infatti che con adeguata e tempestiva cura Stefano non si sarebbe potuto salvare è come affermare, "signori, è inutile curarsi da una qualsiasi malattia, tanto non vi è la certezza di guarigione". Ma scherziamo? Aver letto le parole della procura di Pordenone è doloroso e imbarazzante. Parlare di "omissioni gravi e ripetute" e di "prestazioni del medico non corrispondenti agli standard della buona pratica professionale" la dice lunga, Diventa difficile riporre fiducia nelle istituzioni a fronte di tali decisioni". Anche il difensore civico dell’associazione Antigone, Simona Filippi, promette battaglia. "Ci sono contraddizioni molto evidenti. Come si può dare atto delle molteplici e gravi omissioni del medico del carcere e sostenere che l’avanzamento dell’infezione polmonare sarebbe stato così aggressivo da non essere curato? Sarebbe stato necessario ascoltare i compagni di detenzione. E", conclude Filippi, "sarebbe stato opportuno sentire anche uno specialista infettivologo". Roma: a Regina Coeli agenti in protesta "senza ventilatori, turni massacranti, in pochi" di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 7 agosto 2017 La "battaglia" di fine luglio, ancora in corso, è per ottenere gli stessi diritti dei detenuti e poter montare negli uffici e nei posti di guardia almeno dei ventilatori per attenuare il caldo torrido. Potrebbe sembrare assurdo, ma è proprio così. Una richiesta dei sindacati degli agenti della Penitenziaria che segue la disposizione del Dap, l’amministrazione penitenziaria, di migliorare le condizioni di vita dei detenuti e dotare le celle di dispositivi per rinfrescare gli ambienti. Ma questo è solo l’ultimo dei problemi nelle carceri romane. "Occorrono interventi mirati affinché il sovraffollamento diminuisca e si provveda a mettere in sicurezza gli istituti di pena - spiega Massimo Costantino, segretario generale aggiunto della Fns-Cisl, dove seppur carente, il personale della polizia penitenziaria quotidianamente e silenzio salva tante vite da suicidi e affronta altri eventi critici. Inoltre - aggiunge il sindacalista - è necessario potenziare i sistemi di allarme e bisogna adeguare alle esigenze reali le dotazioni organiche del personale della Penitenziaria". Gli esempi non mancano. Come il G9 di Rebibbia. "Un luogo di lavoro - dice ancora Costantino - dove servono interventi urgenti, ci sono pavimenti rotti e altro. Tutto sembra, tranne un posto dove si possa operare quotidianamente: condizioni che gli agenti non possono sopportare. E nemmeno i detenuti". Sulla carenza di organico era intervenuto nei giorni scorsi anche il segretario generale Pompeo Mannone che aveva parlato di "assunzioni insufficienti e turni massacranti", e della "necessità di aprire nuovi padiglioni e migliorare architettonicamente quelli esistenti con la creazione di più spazi a disposizione per tutti". Milano: la "difficile" estate dei detenuti, a San Vittore pochi frigo e ventilatori di Mario Consani Il Giorno, 7 agosto 2017 Secondo il ministero ci sono 940 carcerati a fronte di 757 posti. Ventilatori da cella, per chi li può acquistare. Frigoriferi sui piani, dove tenere al freddo almeno una bottiglietta a testa. E per fortuna non è come nella torrida estate del 2003, quando l’acqua corrente venne razionata per il troppo consumo e di notte i rubinetti restarono a secco. Il grande caldo di questi giorni a San Vittore si affronta così, con piccoli accorgimenti di buon senso, le porte blindate lasciate aperte il più possibile e i muri spessi che in qualche modo aiutano contro il calore. Certo non è un posto come un altro, il vecchio convento di piazza Filangieri 2. I 40 gradi e l’afa per i detenuti sono una sofferenza in più, oltre alla libertà che non c’è. Fra l’altro gli ospiti del carcere in queste settimane tornano a sfiorare il migliaio. Stando agli ultimi dati forniti dal ministero, a fine luglio erano 940 per 757 posti regolamentari. Un sovraffollamento del 25 per cento: in pratica, ogni 4 detenuti uno sarebbe di troppo. Licia Roselli è tra i volontari storici che partecipa al progetto Ekotonos per conto della Cgil. È entrata a San Vittore anche tre giorni fa, nel pieno dell’ondata di calore. "Nella saletta del sotterraneo dove teniamo i nostri incontri si riusciva anche a respirare - racconta - certo tra i detenuti più che parlare di lavoro e jobs act, che era il tema della giornata, si è discusso ovviamente del caldo. Ventilatori non ne hanno, ma per fortuna di notte non chiudono i "blindi" delle celle, altrimenti quelli dentro soffocherebbero". Ventilatori per tutti aiuterebbe, probabilmente. Ma, come ricorda l’avvocato Alessandra Naldi, Garante milanese per i diritti delle persone private della libertà, "l’impianto elettrico di San Vittore, vecchio com’è, non lo consentirebbe". Però chi ha i soldi per comprarselo lo può fare. "L’acquisto del ventilatore è autorizzato per chiunque voglia - spiega la direttrice del carcere Gloria Manzelli - anche per chi non ha particolari problemi di salute. Però non so in quanti li abbiano potuti comprare". Per il resto, il grande caldo si combatte con "piccoli accorgimenti, di più non si può fare" ammette la direttrice. "Le celle sono comunque aperte fino alle 17.30-18 e durante la giornata i detenuti possono stare nei laboratori per le varie attività, dove si respira certamente meglio". Per una bibita fresca, ci sono i piccoli frigoriferi. "Ne abbiano a disposizione in tutti i reparti - spiega la direttrice - è quello che si può fare in attesa che quest’ondata di caldo si esaurisca". Sì, i frigoriferi ci sono, ma forse un po’ troppo piccoli. "I detenuti si lamentano un po’ - racconta la volontaria Raselli - perché dicono che due soli per un intero corridoio sono davvero un po’ poco. Ci sta al massimo una bottiglietta per ogni recluso. Sempre meglio di niente, in ogni caso. Nell’estate caldissima del 2003 fu ancora peggio, lo ricordo bene. Allora i frigoriferi non c’erano e i detenuti nelle celle tenevano i rubinetti praticamente sempre aperti per tentare di raffreddare le bottiglie: il risultato fu che quel consumo d’acqua esagerato portò al razionamento. Di notte dai rubinetti non usciva niente. Un inferno". L’Aquila: carceri come forni, situazione al limite della sopportazione ilcapoluogo.it, 7 agosto 2017 Le Costarelle e il carcere di Sulmona sono praticamente dei forni, in questi mesi di caldo intenso, per reclusi e personale della Polizia Penitenziaria. Le strutture di ferro e cemento diventano incandescenti d’estate e sono gelide d’inverno: succede così che per stare caldi in inverno si è costretti a dover sborsare dieci volte di più rispetto a una abitazione qualunque. Viceversa, rinfrescarsi in estate diventa un’impresa, non essendoci un apparato climatizzante nelle camere nelle quali vengono ubicati i detenuti e, più in generale, in tutti corridoi del carcere nei quali operano gli agenti preposti alla sorveglianza. Malori e malumori si susseguono senza sosta, sottolinea Mauro Nardella, segretario generale territoriale Uil-Pa Polizia penitenziaria: Trovare il modo di rendere più vivibile un carcere trasformato in un forno porterebbe migliori condizioni non solo per i detenuti sottoposti al massimo dello stress ma anche per tutti gli operatori che ivi prestano servizio i quali, oltre al malessere fisico dettato dell’eccessivo calore, devono sopportare e supportare il grado di elevato disagio vissuto da chi il carcere lo deve vivere come dimora. Non è un caso che il numero di eventi critici riguardanti malesseri e gesti autolesionistici si concentri nei mesi più caldi. Quali le soluzioni? "Per noi della Uil sarebbe auspicabile, così come lo stiamo chiedendo da tempo immemore, l’implementazione immediata delle docce in ciascuna camera detentiva. In questa maniera si offrirebbe l’opportunità non solo di rendere più sopportabile il caldo infernale come quello di questi giorni ma si farebbe della prevenzione sanitaria, soprattutto in un contesto come quello carcerario, una virtù inalienabile. Risulta a tal proposito un peccato non utilizzare lo spazio immenso che caratterizza l’area carceraria per mettere su un impianto fotovoltaico. Questo non solo consentirebbe la possibilità di estendere a tutti gli spazi detentivi la possibilità di climatizzare gli ambienti ma permetterebbe l’abbattimento delle spese di riscaldamento in inverno troppo esose per uno Stato, come quello italiano, alla deriva dal punto di vista finanziario". Una situazione emergenziale, nella quale gli appelli si perdono nel vuoto: la Regione Abruzzo non ha un Garante dei Detenuti ormai da anni, con la sua nomina diventata ormai una questione politica. In Regione non si raggiunge l’accordo - bipartisan, poiché non bastano i soli voti della maggioranza - sul nome di Rita Bernardini: ed è così che stancamente, ad ogni seduta del consiglio regionale il punto all’ordine del giorno viene rimandato. Ma i disagi e i problemi dei detenuti sono quotidiani. Salerno: "il carcere di Sala Consilina va riaperto" di Erminio Cioffi La Città di Salerno, 7 agosto 2017 Lettera del presidente del tribunale di Lagonegro al Ministero della Giustizia in attesa della sentenza del Consiglio di Stato. Dopo la chiusura del carcere di Sala Consilina, disposta alla fine del 2015 dal Ministero della Giustizia, il circondario del Tribunale di Lagonegro, il terzo in Italia per ampiezza di territorio, si è ritrovato senza un istituto penitenziario e conseguenza di ciò sono stati una serie di problemi che hanno finito per colpire non solo gli addetti ai lavori ma anche i detenuti ed i loro familiari. È quanto emerge da una lunga lettera che Matteo Claudio Zarrella, presidente del Tribunale di Lagonegro, ha inviato al Ministero della Giustizia per mettere in evidenza l’indispensabilità di una struttura carceraria nel circondario del tribunale lucano. Leggendo la lettera si ha l’impressione che a scriverla sia stato un padre di famiglia, preoccupato per il mancato rispetto dei diritti dei detenuti dopo la chiusura della casa circondariale di Sala Consilina. "Un circondario di tribunale - scrive il magistrato - senza una casa circondariale sarebbe una contraddizione in termini. Non a caso si parla di Casa Circondariale". Il presidente ripercorre i passaggi precedenti e successivi alla chiusura del carcere salese, soppressione motivata in ragione dell’anti-economicità della struttura, in termini di costi-benefici, considerata la sua modesta ricettività. Zarrella fa sue le motivazioni alla base della decisione del Tar che ha annullato il provvedimento di chiusura (ora si attende la sentenza definitiva del Consiglio di Stato) perché viene violato il principio delle territorialità dell’esecuzione penale con un pregiudizio per le comunità locali, gli operatori di diritto, i detenuti e le loro famiglie. "La giustizia - si legge nella missiva - non può essere considerata soltanto il termini di costi, non confrontati adeguatamente con i benefici". Attualmente le strutture penitenziarie più vicine, di fatto sono tutte a notevole distanza. "In mancanza di una casa circondariale - sottolinea - il rapporto tra detenuto in custodia cautelare e i suoi giudici è ostacolato. Il detenuto allontanato dal suo circondario trova ostacolati i suoi diritti. È discriminato rispetto ad altri detenuti ristretti in istituti vicini al luogo di residenza delle famiglie". Dalle parole di Zarrella si capisce quanto abbia a cuore la situazione dei detenuti del circondario, costretti a stare lontani dalle loro famiglie e non esita ad evidenziare come questa situazione costituisca una "violazione dell’articolo 3 della Costituzione - scrive nella parte conclusiva della lettera - e del principio di territorialità dell’esecuzione penale che assicura al detenuto il diritto di essere assegnato in un istituto carcerario prossimo al luogo di residenza della sua famiglia. Un detenuto ostacolato nei suoi diritti può sentirsi leso nella propria dignità e sentirsi ridotto ad oggetto di detenzione per il quale una prigione vale l’altra". Alla lettera di Zarrella il Ministero ha risposto ipotizzando la riapertura, dopo lavori di ristrutturazione particolarmente onerosi, del carcere di Lagonegro o di Chiaromonte, chiusi da oltre 30 anni, senza fare però alcun riferimento a quello di Sala Consilina che invece necessita solo di piccoli interventi. Prima che si muova qualcosa però bisognerà attendere la sentenza del Consiglio di Stato. Torino: approfitta del permesso premio e non rientra nel carcere minorile di Carlotta Rocci La Repubblica, 7 agosto 2017 Un ragazzo tunisino ha usato quattro ore di libertà per sparire. Non ha fatto ritorno al Ferrante Aporti anche un detenuto colombiano. Aveva ottenuto un permesso premio per fare shopping in centro uno dei due detenuti evasi dal carcere minorile Ferrante Aporti. Il ragazzo è un detenuto tunisino di 18 anni. Aveva ottenuto quattro ore di permesso per fare acquisti in centro in compagnia di una mediatrice culturale. È uscito ieri alle 9 e avrebbe dovuto ritornare in carcere alle 13. Il ragazzo - detenuto per rapina - invece si è allontanato dalla sua accompagnatrice e non ha più fatto ritorno in carcere. Dopo 12 ore è scattata ufficialmente la segnalazione per evasione. La denuncia arriva dall’Osapp, il sindacato di polizia penitenziaria. "Non si è assolutamente compreso quale debba essere il rapporto tra l’entità della pena e i benefici di cui fruire in ragione dell’entità dei reati commessi e dei comportamenti tenuti in carcere dai detenuti - commenta il segretario generale dell’Osapp Leo Beneduci. Di errori simili sono sempre più responsabili i direttori e i responsabili regionali delle infrastrutture penitenziarie e a farne le spese sono i poliziotti penitenziari e i cittadini che oltre a pagare le tasse per qualcosa che non funziona subiscono i rischi della criminalità proveniente dal carcere". Il tunisino non è l’unica evasione dal Ferrante Aporti in questi giorni. Anche un colombiano di 19 anni - anche lui in carcere per rapina - che aveva ottenuto un permesso di 8 ore per stare con la compagna non è più rientrato in cella. "Chiediamo l’istituzione di una commissione parlamentare che riveli le inefficienze di un sistema penitenziario, anche minorile, che non produce sicurezza". Roma: progetto "Free From Chains", quando la poesia spezza le catene agensir.it, 7 agosto 2017 Dodici detenuti per dodici poesie, il Sir dà voce al progetto "Free From Chains (liberi dalle catene)" che dà voce ad alcuni carcerati di Rebibbia. La poesia come strumento e opportunità di tornare a parlare e fare chiarezza dentro di sé. La poesia trova radici anche tra le mura di un carcere, e dona le ali a chi sa farsene trasportare. A Rebibbia, Roma, dal 2015 un gruppo di detenuti si riunisce ogni settimana intorno a Zingonia Zingone, poetessa, che porta con sé testi poetici provenienti da diverse aree geografiche, linguistiche e temporali. I partecipanti leggono a voce alta e lasciano che la poesia li accenda e li smuova nel profondo. Dopo un po’ di tempo, e alcuni primi esercizi, anche loro hanno cominciato a scrivere, a iniziare un percorso di liberazione da schemi mentali e catene interiori. Nasce il progetto Free From Chains (liberi dalle catene) che fornisce alle voci recluse un’opportunità di tornare a parlare. Grazie al sostegno di tanti poeti internazionali e di altri gruppi, come le associazioni di promozione sociale "Oratorium" e "Mandorlo in Fiore", e il gruppo editoriale indiano Paperwall Media and Publishing Pvt Ltd, le poesie dei detenuti escono dal carcere con letture pubbliche, stampa su magliette, piccole raccolte pubblicate e l’affissione in un angolo di strada a Roma, adiacente all’ingresso dell’Oratorio di San Filippo Neri (via della Chiesa Nuova angolo via del Governo Vecchio). Il Sir le propone qui in un percorso scandito da dodici appuntamenti, dodici nomi di detenuti - Devis, Giuseppe, Patrizio, Francesco, Alessio, Faysel, Piero, Oggey, Aurelio, Tino, Mauro, Carlo - che rivelano un pezzo di sé attraverso una poesia. Persone ritrovate, che scrivono con la testa e con il cuore, generando poesie cariche di una singolare intensità emotiva. Soldati italiani all’estero. Afghanistan, Iraq, Libano: è nel nostro interesse restare? di Paolo Valentino Corriere della Sera, 7 agosto 2017 Facciamo un lavoro straordinario, elogiate dalle autorità locali e dagli alleati. Alcuni impegni però possono essere rivisti man mano che gli scenari evolvono. Non è mai facile né scontato parlare di "interesse nazionale" in Italia. Lo ha fatto la scorsa settimana alla Conferenza degli ambasciatori il presidente del Consiglio, in un discorso che forse avrebbe meritato maggiore attenzione. "Non dobbiamo averne paura", ha detto Paolo Gentiloni, spiegando che l’appartenenza alla Nato e alla Ue, pur rimanendo pilastri fondamentali della nostra collocazione internazionale, "non bastano più a definire i contorni della nostra politica estera". Ed è nella centralità del Mediterraneo, dalla Libia ai Balcani, al Medio Oriente, che il premier ha indicato il "core business" dell’interesse nazionale italiano. Uno degli strumenti cruciali di questa visione sono le missioni internazionali delle nostre Forze Armate e di polizia. Come spiega nel Libro Bianco per la sicurezza e la difesa la ministra Roberta Pinotti, "la stabilità della regione euro-mediterranea è un vitale interesse nazionale. È necessario dunque assumere responsabilità maggiori per risolvere le situazioni di crisi". Sono 31 le missioni all’estero in cui è impegnata l’Italia, con un totale di oltre 7 mila donne e uomini. In molte operazioni - fra cui Libano, Afghanistan, Iraq, Kosovo - siamo fra i contingenti più numerosi con parecchie centinaia di soldati e carabinieri. Le nostre forze fanno un lavoro straordinario, elogiate dalle autorità locali e dagli alleati. Nel campo della formazione, dell’addestramento, della protezione dei siti strategici, del peacekeeping, gli italiani costituiscono molto spesso il benchmark, sul quale si verifica la qualità di un’operazione. Tutto va bene nel migliore dei mondi possibili, quindi? Non esattamente. Non parliamo qui tanto della riluttanza a essere coinvolti nel cuore di alcune missioni, preferendo di regola assumere ruoli "non combattenti", indispensabili e non meno rischiosi, ma comunque percepiti come accessori rispetto alla prima linea dell’operazione. In Iraq, per ricordare un esempio che ha fatto discutere, i nostri caccia puntavano gli obiettivi per conto terzi, ma non sparavano. Vorremmo invece concentrarci su un altro aspetto della proiezione italiana nel mondo, quello di una certa forza inerziale per cui, una volta cominciate, le missioni militari durano all’infinito. Cambiano le situazioni dei conflitti, vengono raggiunti gli obiettivi all’origine dell’intervento, ma le missioni restano, immutabili e immutate. Il rischio di "over-stretching", eccessiva estensione degli impegni, è reale. Pesano probabilmente gli interessi legittimi dei militari, che nelle missioni trovano la loro raison d’être. Ma pesa soprattutto l’assenza di una riflessione politico-strategica sul perché di ogni missione e sul suo proseguimento, più in generale sul ruolo del Paese: ne vale ancora la pena dal punto di vista dell’interesse nazionale? È il caso di adeguarle a nuovi equilibri, cambiandone dimensioni e compiti? Gli esempi - Partiamo da una vittoria, quella recente di Mosul contro Daesh. L’Italia vi ha contribuito con circa 1.400 soldati in Iraq e Kuwait. Di questi, 500 sono stati schierati a protezione dei lavori di una ditta italiana alla diga di Mosul, a ridosso del teatro delle operazioni. Ma ora? Cosa o chi dobbiamo proteggere una volta messi in fuga i combattenti islamici? Sono ancora necessari tutti i 500 o non avrebbe più senso negoziare un progressivo rientro e rimpiazzo con iracheni e curdi, recuperando così forze pronte a nuovi impegni? Oppure guardiamo all’Afghanistan, dove ormai da 15 anni abbiamo circa 1.000 soldati (nei momenti di massimo impegno furono quasi 5 mila). Schierati nella provincia di Herat fanno sostanzialmente due cose: addestramento e sorveglianza di un aeroporto e un ospedale. La sorveglianza l’abbiamo presa su richiesta americana dagli spagnoli, che hanno pensato bene di andarsene. Secondo molti esperti, nelle attuali condizioni afghane basterebbe un numero molto inferiore. Vecchi impegni - Se poi andiamo in Libano, torniamo alla Prima Repubblica: con qualche pausa, siamo lì dal 1982. Come parte della missione Unifil, garantiamo la zona cuscinetto al confine con Israele con oltre 1.100 uomini. Possiamo stare in Libano tutta la vita? E quali sono i ritorni politici da un Paese che continua ad avere la Francia come sua stella polare? "Per quello che c’è da fare, potremmo tranquillamente ridurre della metà la nostra presenza", dice un generale in pensione che conosce bene l’area. Anche sulla Libia potremmo farci qualche domanda. Ci sono 300 militari stanziati nella zona di Misurata, nell’ambito dell’ospedale militare che abbiamo aperto per curare i feriti della battaglia di Sirte contro gli islamisti. Solo che la battaglia è finita, è vinta, il nemico è in fuga e da mesi, in quella struttura, di pazienti ce ne sono pochi. È così vero, che ogni mattina un gruppo di ufficiali medici italiani va a prestare servizio all’ospedale civile di Misurata per rendersi utile. Forse sarebbe sbagliato far rientrare i 300, visto quanto succede in Libia in queste settimane. Ma non si potrebbe pensarne un impiego diverso? Fuori dal tavolo dei grandi - Potremmo ancora continuare con i 100 uomini a Gibuti, i 100 in Turchia con una postazione antimissile che protegge i turchi da eventuali razzi siriani (ma Ankara non fa più la guerra ad Assad) o gli oltre 500 in Kosovo. Sono tutti funzionali ai nostri interessi strategici? Sarebbero più decisivi in altri teatri? Si può razionalizzare la spesa? E non è che nella storia delle missioni all’estero non vi siano esempi opposti. Nel 2006 per esempio il governo Prodi decise la fine della missione in Iraq "Antica Babilonia", in accordo con alleati e governo iracheno dopo aver portato a termine gli impegni assunti, e il ministro della Difesa Arturo Parisi organizzò con lo Stato maggiore il rientro del nostro contingente da Nassiriya. Ma sono l’eccezione e non la regola. Le missioni vanno fatte per garantire la sicurezza internazionale. "Sono la misura della credibilità e della reputazione dell’Italia" dice il generale. Ma vanno pensate e ripensate. E soprattutto vanno sempre valutate col metro dell’interesse nazionale e modulate in funzione di quello. Anche perché la scelta probabilmente giusta degli ultimi decenni, quella di esserci sempre e comunque, non ha pagato i dividendi attesi in termini della nostra presenza al tavolo dei grandi. Restiamo troppo piccoli per farlo. Molto meglio concentrarci soprattutto sulle cose che ci riguardano direttamente. Sulla missione italiana in Libia primo strappo nel governo di Francesca Schianchi La Stampa, 7 agosto 2017 Gentiloni riprende Giro dopo l’intervento sulle condizioni dei migranti. Ma il fronte del dissenso si allarga nell’area cattolica della maggioranza. "Caro Mario, potevi evitare di porre il problema dalle colonne di un giornale". Nella prima torrida domenica d’agosto, una telefonata tra il premier Paolo Gentiloni e il viceministro agli Esteri Mario Giro cerca di porre rimedio al più presto alla prima crepa nel fronte compatto del governo sulla missione navale in Libia. Ad aprirla, ieri dalle pagine de La Stampa e del Secolo XIX, proprio Giro: "Riportare i migranti in Libia, in questo momento, vuol dire riportarli all’inferno", è il suo grido d’allarme verso un problema che l’esecutivo si è posto - il trattamento delle persone che, intercettate dalla Guardia costiera libica in mare col nostro aiuto, vengono riportate sulle coste di Tripoli - ma che ha risolto chiedendo un massiccio coinvolgimento dell’Unhcr e dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni. Cattolico già impegnato nella Comunità di sant’Egidio, grande esperto di Africa, il viceministro però chiede pubblicamente di fare attenzione, viste le condizioni dei campi libici: la sua intervista ha fatto sobbalzare il responsabile dell’Interno Marco Minniti, l’esponente di governo più impegnato nello spinoso dossier libico e, secondo varie fonti, fatto alzare il telefono direttamente al premier Gentiloni per discuterne e "mediare" con la linea "dura" di Minniti. Perché il timore è che Giro possa essere il primo a parlare, ma portavoce in realtà di una sensibilità più diffusa di quel che sembra, nel governo e in Parlamento, tra i cattolici e nell’ala sinistra della maggioranza. Se alla Farnesina assicurano che il ministro Alfano considera la posizione del suo vice in linea col governo, solo con un’attenzione più specifica al piano umanitario considerata la sua provenienza cattolica e di impegno sociale, è al Viminale che l’uscita viene letta come fuori linea rispetto al lavoro che si sta facendo. Nessun altro, nell’esecutivo, ha espresso per ora così chiaramente gli stessi timori. Ma frizioni e distinguo sottotraccia si sono già delineati. La posizione del ministro Delrio sull’uso dei porti italiani è molto diversa da quella di Minniti: il capo dell’Interno li chiuderebbe alle Ong che non hanno firmato il codice di condotta, il titolare dei Trasporti è contrario. Lo disse pubblicamente in un’intervista un mese fa e non ha cambiato idea. E da tempo si racconta dell’esistenza di una sensibilità più "morbida" e solidale nel governo rispetto a quella "legge e ordine" di Minniti, che coincide con alcune personalità di formazione cattolica, da Delrio alla sottosegretaria Maria Elena Boschi, che potrebbero condividere molto delle preoccupazioni espresse da Giro. O ancora come il viceministro dell’Agricoltura, Mario Olivero, ex presidente delle Acli, che ieri non a caso ha ritwittato l’intervista del collega. Mostrando di mantenere qualche inquietudine su una missione che, dalla Libia, continua a ricevere critiche e minacce più o meno velate: ieri è stata la volta della Commissione esteri del Parlamento di Tobruk, nell’Est del Paese, di definire la missione una "aggressione flagrante contro la sovranità libica", di mettere in guardia Roma e Tripoli sulle possibili conseguenze e di chiedere a Onu, Ue e Unione africana di intervenire. "Io ho scritto un messaggino a Giro: incredibile che per sentire una voce critica debba affidarmi a un cattolico piuttosto che a uno che viene dalla mia storia", rivela Arturo Scotto di Mdp. Ma anche dal Pd arriva qualche gesto di appoggio alla linea del viceministro: "Con Giro che oggi ci ricorda che tenere i profughi in Libia è come tenerli in un inferno. Occorrono garanzie", scrive in un tweet la deputata prodiana Sandra Zampa, della minoranza dem, mentre la collega Ileana Piazzoni condivide l’intervista postata su Facebook dal viceministro. "Ci sono due esigenze, quella di far rispettare le regole e quella dell’accoglienza, e le stiamo tenendo insieme", assicurano da Palazzo Chigi. Ma un retweet qua, una critica bisbigliata là, piccoli segnali potrebbero essere spia di un malumore più esteso del previsto. Migranti dalla nave di Msf alla Guardia costiera. Il "passaggio" diventa un caso politico di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 7 agosto 2017 Le divergenze tra i ministri Delrio e Minniti. Opposizioni all’attacco. Haftar: l’accordo è un’aggressione. Il chiarimento dovrebbe avvenire oggi a margine del Consiglio dei ministri. E potrebbe servire per alleggerire un clima che altrimenti rischia di restare avvelenato. Il trasbordo di 127 migranti in acque internazionali dalla Vos Prudence di Medici senza frontiere a due unità della Guardia costiera, che li hanno poi fatti sbarcare a Lampedusa, è ormai un caso fra il ministero dell’Interno e quello dei Trasporti e delle Infrastrutture. Oltre che una polemica politica, con il centrodestra che accusa il governo di non aver fatto rispettare il Codice di condotta delle ong voluto dal responsabile del Viminale Marco Minniti e appena entrato in vigore. Le posizioni del ministro e del suo collega Graziano Delrio appaiono al momento molto distanti. Il ministero dell’Interno ha disposto che, in caso di richiesta di autorizzazione di entrare in porto da parte di una nave di una ong che non ha voluto firmare il Codice, non si debba rispondere visto che il ministero è competente solo per le decisioni da prendere sulla terraferma, mentre quello dei Trasporti lo è in mare: così a quest’ultimo spetterà la scelta del porto di attracco, ma senza la sicurezza che venga poi attivata la procedura per il foto-segnalamento dei migranti e il loro trasferimento nelle strutture di accoglienza. La situazione è delicata, anche perché al Viminale il trasbordo di due giorni fa sulle navi della Guardia costiera non è stato molto apprezzato, sebbene effettuato fuori dalle acque italiane. Negli ambienti vicini al ministero di Porta Pia invece si sottolinea come le regole del soccorso debbano comunque tenere presente quelle del diritto internazionale in mare, che non sono derogabili e come nello stesso codice di comportamento delle ong sia scritto che si debbano rispettare "le normative nazionali e internazionali, nell’interesse di salvare vite, garantendo nel contempo un’accoglienza condivisa e sostenibile dei flussi migratori". Per il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri, a questo punto "la Guardia costiera deve ribellarsi di fronte a ordini contra legem". E Roberto Calderoli, vicepresidente del Senato ed esponente della Lega Nord, si chiede: "Facciamo il servizio taxi aggiuntivo alle navi ong, prendendo con le nostre navi gli immigrati che le organizzazioni pescano nelle acque libiche?". La replica del centrosinistra è affidata a Giorgio Tonini, senatore pd e presidente della commissione Bilancio, per il quale invece "il governo sta riuscendo a coniugare rigore e umanità. Questo ci dicono i dati sugli sbarchi delle settimane più recenti. Tutto il resto sono polemiche strumentali e dannose". E anche i libici sembrano essere più attivi: la Guardia costiera di Tripoli ha riferito di aver salvato 300 migranti diretti in Italia su due gommoni. "Hanno ottenuto aiuti umanitari e sono stati consegnati all’immigrazione", è stato spiegato. Sullo sfondo però c’è un’altra questione: il Parlamento libico di Tobruk, che fa riferimento al generale Khalifa Haftar, ha bocciato l’accordo fra Italia e governo di Tripoli per la missione navale anti migranti, parlando di "aggressione flagrante contro la sovranità libica" e chiedendo un intervento di Onu, Ue e Unione Africana. Migranti. Ong, i muri alzati dalle parole di Ilvo Diamanti La Repubblica, 7 agosto 2017 Nel linguaggio comune sempre più spesso le organizzazioni non governative vengono associate a respingimenti e barriere. Ormai le Ong rischiano di cambiare significato. Non per colpa loro, ma di chi intende ri-definirle. Con intenti (anti)politici strumentali. È una questione di linguaggio, assai più che di contenuto sociale. Perché le parole non sono semplici simboli che "significano" la realtà. Ma contribuiscono, a loro volta, a "costruire" la realtà sociale. Oppure a modificarne il senso, dunque: la percezione. Così negli ultimi mesi - e non certo per propria scelta e responsabilità - Ong è divenuto un suono dagli echi ambigui e inquietanti. Che evoca la "deportazione" e il "riciclaggio" degli immigrati, nel nostro Paese. Ormai le Ong rischiano di cambiare natura, ma, anzitutto, significato. È una questione di linguaggio, oltre che di contenuto sociale e reale. Perché le parole, l’ho già detto e lo ribadisco, non sono semplici simboli che "significano" la realtà. Ma contribuiscono, a loro volta, a "costruire" la realtà sociale. Oppure a modificarne il senso, dunque: la percezione, la definizione. Così oggi le Ong stanno perdendo il significato di Organizzazioni Non Governative. E stanno diventando un suono dagli echi ambigui e inquietanti. Perché evoca il traffico di esseri umani. Peggio, il concorso alla "deportazione" e al "riciclaggio" degli immigrati, nel nostro Paese. Clandestini da sfruttare come braccia a basso costo. Oppure nei circuiti illegali. Dallo spaccio, al crimine organizzato, alla prostituzione. Esportati in altri Paesi. Se possibile. Perché i muri intorno a noi si ergono dovunque. Sempre più alti. Per renderci "stranieri in Europa". E "a casa nostra", come recitano gli slogan minacciosi che evocano l’invasione. Anche se, nel luglio 2017, gli sbarchi dei migranti risultano in sensibile calo rispetto agli anni precedenti (dati Unhcr, confermati dal Quirinale, agosto 2017). D’altronde, la presenza degli stranieri supera di poco l’8%. Ma, nella percezione degli italiani, va oltre il 26% (come registra la ricerca di Nando Pagnoncelli Dare i numeri, Edb, 2016). Gli stranieri: nella considerazione generale appaiono - tutti o quasi - in arrivo dall’Africa. Mentre le comunità più numerose provengono dai Paesi dell’Est europeo. Anzitutto, dalla Romania e dall’Albania. Dove le Ong italiane non sono presenti. Non organizzano sbarchi oppure viaggi "clandestini". Per trasferire "clandestini". Personalmente, quando sento parlare delle Ong, oltre alle sigle di cui tanto si parla, polemicamente, in questi giorni, penso al Cuamm. L’associazione dei Medici "con" l’Africa. Animata per oltre cinquant’anni da Don Luigi Mazzucato. Un crocevia della solidarietà fra l’Italia e l’Africa. Dove ha inviato oltre 1.000 medici volontari, negli ospedali dell’area sub-sahariana. Fra le più colpite da malattia, miseria, povertà. Le origini principali delle grandi ondate migratorie che, da tempo, si dirigono in Europa. Perché i "migranti" non vengono da noi in gita. Attraversano il Mediterraneo, spinti dalla disperazione. Oggi, ad esempio, nel Sud Sudan, fra le zone più colpite dalla miseria e dalle guerre, c’è il mio amico Vincenzo Riboni. Per decenni, primario al pronto soccorso di Vicenza. Per decenni, ha dedicato il tempo delle ferie e del riposo al Cuamm. Cioè agli "altri". Ogni anno, ha trascorso settimane, mesi, in Sudan, ma anche in Mozambico e in Sierra Leone. Mentre infuriava Ebola. So bene che per qualcuno si tratta di un ultrà-solidarista. Più Ultrà che Solidarista. Che dovrebbe dedicarsi alle emergenze di casa propria (come, peraltro, ha sempre fatto) piuttosto che recarsi altrove. Ma io continuo a pensare che non sia così. Perché noi abbiamo bisogno degli altri per conoscere e riconoscere noi stessi. Non solo per generosità e per altruismo. Ma per auto-tutela, per autorevolezza. Al Cuamm per questo, hanno dedicato molto tempo e opere importanti i miei amici Carlo Mazzacurati e Paolo Rumiz. D’altronde, come possiamo pensare di dare lezioni di con-vivenza quando non siamo in grado di dare aiuto a chi e dove ci è richiesto? Come possiamo pensare, noi stessi, di chiedere aiuto - e aiuti - agli altri "quando" e "se" ne avremo bisogno? Domani, ma anche oggi? Così, non solo mi sento d’accordo con il testo scritto oggi da Roberto Saviano. Ma non riesco a capire come ci potremmo distanziare dalle sue parole. Che dovremmo fare? Lasciarli affondare? Meglio, dovremmo affondarli noi stessi? O infine: "Aiutarli a casa loro", come si sente dire spesso? Nonostante che i nostri investimenti nei territori di crisi siano davvero minimi? Personalmente, ritengo che dobbiamo accogliere e integrare, in modo serio: cioè garantendo loro inserimento ma anche affermando il rispetto delle nostre regole. Per non diventare, noi per primi, "stranieri in casa nostra". Di fronte a noi stessi. D’altronde, gli immigrati, come rammenta Tito Boeri nel suo recente saggio (Populismo e stato sociale, Laterza, 2017) contribuiscono a "pagare" le nostre pensioni. Soprattutto se sono integrati, nella società e nel lavoro. Ma il problema, come ho scritto all’inizio, si complica, se le parole perdono il loro significato. Noi, infatti, abbiamo grande rispetto e fiducia verso la parola Volontariato. Molto meno verso Ong. Forse perché, detto così, in modo secco, ha un suono minaccioso. Basta aggiungere, all’inizio, una G. E diventa Gong. Ma Ong, nel linguaggio degli italiani è lontano dal Volontariato. Lo conferma la Mappa delle Parole, realizzata attraverso un sondaggio di Demos-Coop, nelle scorse settimane. Solo un terzo di coloro che hanno fiducia verso il Volontariato dimostrano confidenza anche nelle Ong. Meglio: verso la parola Ong. Che, nella rappresentazione sociale, è associata a Ius soli e a Respingere gli Immigrati. Risulta, cioè, un simbolo di chiusura e di auto-difesa dagli altri. Mentre il Volontariato viene accostato, fino quasi a coincidere, a Cuore e Speranza. Detto altrimenti: si tratta di due mondi distinti e distanti. Da un lato: l’apertura. Dall’altro: i confini e le barriere. Anche se, ovviamente, nella realtà non è così. Perché le Ong sono soggetti di solidarietà, nei confronti di persone e popoli lontani. Il fatto che alcune Ong abbiano agito diversamente, perfino in modo opposto, non può indurre a generalizzare. A stigmatizzare un intero mondo associativo, impegnato a sostegno degli altri. Lontani eppure vicini. Ma oggi ormai il problema si è radicato. Ha assunto significato nel linguaggio "politico". Non per caso la parola Ong è deprecata soprattutto dagli elettori di destra, Lega, ma anche Fi e FdI. Un orientamento che rischia di tradursi nel senso comune. Per questo è meglio intervenire presto. Subito. Per evitare che questa rappresentazione "faziosa" sedimenti. E dilaghi. Senza rimedio. Così io propongo di cambiare - presto e subito - etichetta. Basta con le Ong, Organizzazioni Non Governative. Chiamiamole Associazioni per il Bene Comune. Abc. Prime lettere dell’alfabeto della solidarietà e dell’integrazione. Vicino ma anche Lontano. Da casa nostra. Siria. Cyber attivista ucciso. La moglie: "Giustiziato due anni fa in carcere" di Marta Serafini Corriere della Sera, 7 agosto 2017 Khartabil era stato rappresentante di Wikipedia e Creative Commons ed era stato arrestato nel 2012. L’annuncio della compagna: "L’hanno torturato e ammazzato". "Non posso scriverti una poesia per il giorno di San Valentino, dovrei vederti, avrei bisogno di rubare le parole dai tuoi occhi. Ma posso solo immaginarli i tuoi occhi, ora. Ora sto pensando alla Siria, mio adorato Bassel, e fa male. Ogni volta che pronuncio il suo nome, io piango, per tutto l’amore che ho. Caro Bassel tu sei la mia metà e io vivo in te, tu sei la mia metà palestinese, mi manca tutto, mi manchi tu, la Siria e la Palestina che ci sono in te". Erano le parole che Noura Ghazi Safadi, avvocatessa siriana, scriveva al marito Bassel Safadi, per la festa degli innamorati due anni fa. Noura già sapeva che difficilmente avrebbe rivisto il compagno vivo. Ma ha continuato a sperare per mesi. Fino a martedì, quando ha dato la notizia al mondo via Facebook: "Bassel è stato giustiziato nell’ ottobre 2015 dopo essere stato trasferito dalla prigione di Adra". Bassel Khartabil, meglio noto come Bassel Safadi, classe 1981, era un attivista informatico che aveva aderito alla primavera siriana. Di origini palestinesi, Khartabil aveva diretto la sezione siriana di Creative Commons. Sostenitore della programmazione open source e dei diritti umani, Bassel sosteneva l’idea di un cambiamento in Siria e aveva messo al servizio della primavera siriana le sue competenze informatiche. E tutto sembrava andare per il verso giusto. La rivista internazionale Foreign Policy lo aveva inserito tra i migliori "pensatori mondiali" del 2012, accanto ad Aung San Suu Kii e Barack Obama, per la "sua determinazione a mantenere pacifica la rivoluzione siriana, nonostante tutto". Ma la scure del regime stava già per abbattersi su di lui. Due settimane prima delle nozze con Noura, conosciuta durante le proteste, e nel giorno dell’anniversario della prima rivolta siriana, i poliziotti di Assad si presentano a casa della coppia a Damasco. Ed è allora che l’ingegnere informatico viene trascinato via come un criminale. Immediata la reazione dei suoi colleghi che hanno lanciato al grido di #FreeBassel e #whereisbassel una campagna per la sua liberazione capeggiata dall’attivista per i diritti digitali Jon Phillips. Ma, uscire vivi dalle carceri di Assad, si sa è difficile, come ha dimostrato l’inchiesta di Amnesty International (leggi qui e qui) o come hanno fatto emergere le immagini di Caesar. Ed è ancora più difficile soprattutto se si è un oppositore politico. Khartabil era parecchio conosciuto anche all’estero. L’anno successivo l’Index of Censorship lo aveva premiato con il riconoscimento di Digital Freedom Award. Ed è forse per questa attenzione dei media internazionali che il regime non l’ha ucciso subito come invece ha fatto negli stessi mesi con tanti altri oppositori. Agli inizi del 2013 Bassel era ricomparso nel carcere di Adra, a pochi chilometri dal carcere militare di Sednaya diventato tristemente famoso per i massacri. Ad Adra aveva potuto sposare Noura, senza che però gli venisse fatto un regolare processo con accuse formali. Poi, dall’ottobre 2015, di nuovo l’oblio. Da allora il suo nome viene cancellato dai registri del penitenziario e la famiglia non può più fargli visita. Dopo mesi di attesa, l’angoscia della moglie e dei familiari ha iniziato a trasformarsi in terrore. Già, perché come da prassi, il regime ha iniziato a far circolare la voce che Bassel era stato giustiziato senza però mai dare conferme ufficiali alla famiglia. Così per quasi due anni Noura e gli amici hanno continuato a sperare di vederlo ricomparire. Invano. Fino al post di Facebook di martedì con cui la moglie ha dato l’annuncio straziata."Bassel non c’è più, è una perdita per la Siria, una perdita per la Palestina, una perdita per me". Tante le reazioni alla notizia. Da Londra, Anna Neistat, direttice per la ricerca di Amnesty International su Sednaya ha dichiarato: "Bassel Khartabil sarà sempre ricordato come un simbolo di coraggio". "Oggi riceviamo una notizia terribile", ha scritto su Twitter Jimmy Wales, il fondatore di Wikipedia, che ha ricordato come nel 2005 Bassel avesse creato un archivio digitale proprio per ricreare in 3d quelle stesse rovine di Palmira che sarebbero diventate un simbolo di devastazione della guerra civile. Egitto. Shawkan, da quattro anni in carcere. Il reato? Essere foto-giornalista di Riccardo Noury Corriere della Sera, 7 agosto 2017 Al 1453° giorno di detenzione, l’ennesima udienza del processo contro il foto-giornalista egiziano Mahmoud Abu Zeid (detto Shakwan) ha prodotto soltanto l’ennesimo rinvio. Dalla prima volta che è comparso di fronte a un giudice, il 14 maggio 2015, il processo viene sistematicamente aggiornato. Prossima udienza il 12 agosto, alla vigilia dell’inizio del quinto anno di detenzione, in condizioni di salute sempre più precarie a causa dell’epatite C contratta in carcere. Shawkan è stato arrestato il 14 agosto 2013 mentre si trovava, per conto dell’agenzia fotografica Demotix di Londra, in piazza Rabaa al-Adawiya, al Cairo, a documentare il violentissimo sgombero di un sit-in della Fratellanza musulmana. Fu un massacro con centinaia e centinaia di morti in un solo giorno. Per aver svolto il suo lavoro, Shawkan rischia una condanna all’ergastolo per questo lungo elenco di pretestuose accuse: "adesione a un’organizzazione criminale", "omicidio", "tentato omicidio", "partecipazione a un raduno a scopo di intimidazione, per creare terrore e mettere a rischio vite umane", "ostacolo ai servizi pubblici", "tentativo di rovesciare il governo attraverso l’uso della forza e della violenza, l’esibizione della forza e la minaccia della violenza", "resistenza a pubblico ufficiale", "ostacolo all’applicazione della legge" e "disturbo alla quiete pubblica". Il suo "reato" è solo quello di aver fatto il suo lavoro. Venezuela. Il business della coca tra politici e parenti: la rete del Narcostato di Rocco Cotroneo Corriere della Sera, 7 agosto 2017 Narcostato. Narcodittatura. Lo si legge sui muri di Caracas, lo si ascolta dalla voce di analisti e politici d’opposizione. "C’è un Pablo Escobar al vertice dello Stato in Venezuela", ha attaccato il senatore Marco Rubio, estrema destra della Florida, riferendosi al potente Diosdado Cabello. Quanto c’è di vero nelle pesanti accuse sul vertice del potere chavista, che arrivano soprattutto dagli Stati Uniti? Molti indizi e alcuni testimoni di peso, finora, collegano al regime il traffico di ingenti quantità di polvere bianca verso l’Europa e gli Usa. Il Venezuela ha una geografia privilegiata: un lungo confine incustodito con la Colombia, produttore numero uno di cocaina, e un litorale molto esteso. Se poi politici e militari sono complici, garantendo il lasciapassare su porti e aeroporti, ecco che il gioco è fatto. C’è anche chi spiega l’escalation degli ultimi mesi con l’avanzare delle indagini. "Al vertice del Venezuela ci sono uomini i quali, alla caduta del regime, potrebbero finire i loro giorni in una prigione Usa. Resisteranno fino alla fine", ci spiegava nei giorni scorsi a Caracas un osservatore dall’interno del chavismo. Le indagini - Dai primi indizi nel 2008, con Chávez ancora al potere e tre militari di alto rango indiziati per traffici illeciti con la guerriglia delle Farc, fino alle accuse odierne che arrivano al vicepresidente Tareck El Aissami e a Cabello, l’uomo che ha voluto la Costituente e conta almeno quanto Maduro. Nel mezzo due vicende che sembrano tratte da serie tv. L’arresto di due nipoti della moglie di Maduro, i narco-sobrinos. Detenuti a New York, la sentenza per narcotraffico è attesa tra un mese. Prima ancora la scoperta di un carico di 1,2 tonnellate di coca su un aereo Air France a Parigi. Imbarcata come se nulla fosse a Caracas. I carichi di stupefacenti - El Aissami è il vice di Maduro dallo scorso gennaio. La sua nomina ha suscitato vari interrogativi: perché la scelta è caduta su un personaggio così discusso? L’uomo, di origini siriane, era governatore dello Stato di Aragua quando il suo nome venne fatto da Rafael Isea, suo predecessore ed ex ministro delle Finanze. Fuggito negli Usa nel 2013, Isea raccontò che El Aissami era l’uomo di riferimento del più potente narcotrafficante del Paese, Walid Makled. Grazie a lui tonnellate di cocaina venivano imbarcate a Puerto Cabello in direzione Messico e Centroamerica, previo pagamento di ingenti percentuali al politico. La settimana scorsa, dopo essere stato incluso nella lista Trump dei 13 sanzionati del regime, El Aissami è stato colpito da congelamenti di beni "da centinaia di milioni di dollari", tra case a Miami e un jet privato, secondo il Tesoro Usa. Lui ha smentito. "Non ho nemmeno un conto. È un attacco dell’impero alla nostra rivoluzione. Come i due ragazzi di Maduro, un falso positivo creato dalla Dea". Quanto hanno raccontato agli americani Efrain Campo e Francisco Flores, nemmeno trentenni, arrestati ad Haiti nel novembre 2015 mentre negoziavano la spedizione di 800 chili di cocaina? I due nipoti della first lady Cilia Flores, cresciuti da Maduro come figli, rischiano vent’anni di galera a testa dopo essere caduti in una trappola dell’antidroga Usa, che ha registrato mesi di negoziazioni sulla maxi-partita. Già sull’aereo che li deportava negli Stati Uniti i due avevano confessato che la coca arrivava da ambienti vicini a Cabello, all’epoca presidente del Parlamento. Secondo 007 americani sarebbe lui il capo assoluto del cartello "de los Soles", un gruppo formato da militari, paramilitari e politici in grado di far transitare senza controlli la coca dalla Colombia e poi imbarcarla verso l’estero. Un’altra accusa circostanziata su Cabello è arrivata dal suo ex guardaspalle, Leamsy Salazar, un militare fuggito anche lui negli Stati Uniti e sotto protezione: ha raccontato di aver sentito in più occasioni Cabello dare ordini su spedizioni di cocaina, attraverso Cuba. Salazar è stato per anni anche al fianco di Chávez, era un uomo di assoluta fiducia del regime. Il pilota - La vicenda dei due nipoti è ancora in divenire. Sapremo a breve cosa hanno raccontato per tentare di ridurre la loro pena, così come sono attese le dichiarazioni di Yazenky Lamas, un pilota venezuelano che la Colombia ha appena estradato negli Stati Uniti. Lamas ha pilotato un centinaio di voli della droga tra il Venezuela e i Caraibi. Guarda caso anche lui ha un legame diretto con la moglie di Maduro: era il suo pilota personale. Il governo di Caracas ha fatto di tutto per evitare che Lamas fosse spedito negli Usa, chiedendone l’estradizione in Venezuela. Com’era riuscito a fare con il boss Makled, anch’egli catturato in Colombia. Ma i rapporti tra i due Paesi oggi sono molto più tesi e il governo di Bogotá non ha avuto dubbi. Il pilota dirà tutto quello che sa alla Dea. Perù. Il Paese dei 5 presidenti detenuti, ricercati o indagati di Omero Ciai La Repubblica, 7 agosto 2017 Non se ne salva uno degli ultimi cinque ex presidenti del Perù. O sono in carcere, oppure sono ricercarti dalla giustizia, o sono indagati e sotto processo. L’ultimo a finire nei guai e che per la decisione di ieri di una corte peruviana deve restare in carcere è Ollanta Humala, arrestato due settimane fa assieme alla moglie, Nadine Heredia, con l’accusa di aver incassato una tangente di 3 milioni di dollari dalla multinazionale brasiliana Odebrecht, e condannato a 18 mesi di detenzione preventiva. Gli altri sono: Alberto Fujmori (1990-2000), Alejandro Toledo (2001-2006), Alan Garcia (2006-2011), e Francisco Morales Bermudez (1975-1980). Della tangente pagata a Ollanta Humala ha raccontato ai giudici lo stesso presidente della multinazionale, Marcelo Odebrecht, condannato in Brasile per corruzione e riciclaggio nel caso Petrobras. Humala si presentò per la prima volta candidato nelle presidenziali del 2005 come paladino locale della rivoluzione bolivariana di Hugo Chávez ma venne sconfitto. Cinque anni dopo cambiò casacca, moderò gli eccessi del socialismo bolivariano, e con l’aiuto dei brasiliani, Luiz Inácio Lula da Silva e Dilma Rousseff, e i soldi di Odebrecht, divenne presidente superando nel ballottaggio Keiko, la figlia di Alberto Fujimori, l’ex presidente protagonista di un autogolpe, quando chiuse il Parlamento, e che oggi è in prigione condannato a 25 anni per violazioni dei diritti umani. Alejandro Toledo, leader della primavera peruviana dopo la dittatura, invece è inseguito da un ordine di cattura e da una richiesta di estradizione della giustizia peruviana - ora vive negli Stati Uniti sempre per le confessioni di Odebrecht. Toledo avrebbe ricevuto una mazzetta da 20 milioni di dollari per favorire la multinazionale in una gara d’appalto miliardaria. Ma anche un altro ex presidente è nei guai con la giustizia. È Alan García che all’epoca del suo primo mandato, dal 1985 al 1990, divenne famosissimo anche da noi - era legato a Bettino Craxi - per i soldi gettati dalla cooperazione italiana nel progetto della costruzione di una parte della metropolitana di Lima di cui, a futura memoria, rimasero solo i cartelli che ne indicavano le stazioni. García fuggi all’estero ma all’inizio del nuovo secolo tornò in patria, si candidò e vinse. Ora è di nuovo indagato per riciclaggio e arricchimento illecito. L’ultimo presidente da citare, Francisco Morales Bermúdez. È un generale golpista che appartiene ai tempi oscuri delle dittature militari negli anni Settanta dell’America Latina. Oggi ha 95 anni ed è stato condannato all’ergastolo dal Tribunale di Roma per il Piano Condor, gli omicidi dei dissidenti politici commessi in collaborazione tra le varie dittature della regione. Il caso di Ollanta Humala potrebbe essere lo spunto per un feuilleton, o meglio per la sceneggiatura di un serial televisivo. Dopo l’arresto Humala è stato portato nella base navale di Barbadillo, alla periferia di Lima. Qui ha ritrovato un suo grande nemico, quell’Alberto Fujimori contro cui si ammutinò quando era un semplice militare. Fujimori, che secondo i giornali peruviani in carcere vive nel lusso, è stato molto ospitale con Humala. Un figlio di Fujimori, Kenji, ha raccontato che suo padre ha preparato personalmente dei sandwich per il nuovo ospite che era affamato e gli ha regalato una coperta perché aveva freddo. Ma a Barbadillo in realtà c’è gran parte della storia recente del Perù. Gli altri reclusi infatti sono l’ex braccio destro di Fujimori e capo dei suoi servizi segreti, Wladimiro Montesinos; il capo dei guerriglieri maoisti di Sendero Luminoso, Abimael Guzman; e anche il leader dei Tupac Amaru, quelli che assaltarono l’ambasciata del Giappone nel 1996, Victor Polay Campos. E, per finire con lo sceneggiato, nella prigione militare c’è anche un fratello maggiore di Humala, Antauro.