L’agenda dei diritti su un binario morto. Ecco le leggi che non vedranno la luce di Gabriele Martini La Stampa, 6 agosto 2017 Dallo Ius soli al biotestamento, mancano numeri e tempi per l’approvazione entro febbraio. C’è chi le chiama leggi di civiltà. Unioni gay, divorzio breve, disposizioni sul "dopo di noi", introduzione del reato di tortura. Per un momento sembrò che i diritti civili potessero essere il tratto distintivo di questa travagliata legislatura. Poi nella maggioranza qualcosa s’è inceppato. E le riforme ancora da approvare rischiano di non vedere la luce. Il copione è sempre lo stesso: i contrari fanno ostruzionismo, il dibattito s’infiamma, i tempi s’allungano e le proposte finiscono nel dimenticatoio. Ma quello che finora era un rischio, sta diventando una certezza: il fischio finale della legislatura potrebbe arrivare prima che i nuovi diritti diventino legge. Dal fine vita alla cannabis - Lo Ius soli "temperato" prevede che il bambino nato in Italia acquisisca automaticamente la cittadinanza se almeno uno dei due genitori si trova legalmente nel Paese da almeno 5 anni. Gli alfaniani hanno minacciato la crisi di governo, il Pd non se l’è sentita di forzare la mano prima della pausa estiva e il dibattito è stato rinviato all’autunno. I centristi sono riusciti a bloccare anche il testamento biologico (zavorrato in Commissione Igiene e Sanità da 3 mila emendamenti), dietro cui i falchi cattolici scorgono un’introduzione mascherata dell’eutanasia. Anche la legge sugli orfani di femminicidio non convince gli alfaniani: approvata all’unanimità alla Camera, da cinque mesi è arenata nelle secche del Senato dopo il dietrofront del centrodestra. Sorte ancor peggiore è toccata alla legge contro omofobia: il via libera di Montecitorio arrivò il 19 settembre del 2013 (per capirci: all’epoca governava Enrico Letta e Guglielmo Epifani era segretario del Pd), ma da quasi quattro anni il testo giace nel congelatore di Palazzo Madama. È ferma al Senato da 34 mesi anche la norma che consente ai genitori la possibilità di dare al figlio il cognome della madre: nel mentre la Consulta ha dichiarato illegittima "l’automatica attribuzione" di quello paterno in presenza di una diversa volontà della famiglia. Il ddl sulla cannabis, invece, è stato affossato già alla Camera: le norme riguardanti la legalizzazione sono state stralciate dal testo base, che ora punta a regolamentare soltanto l’uso terapeutico della marijuana. Conto alla rovescia - Per districarsi nel groviglio delle riforme in cantiere conviene sfogliare il calendario. Finora c’è un’unica data sicura: Camera e Senato, chiusi per ferie, riaprono il 12 settembre. Gli onorevoli non lesinano sulle vacanze estive e torneranno a solcare i corridoi del Transatlantico fra 40 giorni. L’altro appuntamento da cerchiare sull’agenda è la data delle elezioni politiche. Come previsto da Mattarella, dovrebbero svolgersi all’inizio della primavera 2018. Fossero ai primi di aprile, le Camere andrebbero sciolte entro la metà di febbraio (tra i 70 e i 45 giorni prima delle urne, recita la Costituzione). Sulla carta, quindi, i parlamentari hanno davanti a loro cinque mesi di lavoro. È un periodo sufficiente per approvare le leggi sui diritti? La risposta è no. Perché quei cinque mesi sono solo virtuali. Parlamento intasato - Il conto è presto fatto. Deputati e senatori siedono in Aula mediamente tre giorni a settimana. Inoltre ci sono di mezzo le vacanze di Natale. Tocca poi sottrarre le giornate in cui l’attività parlamentare sarà monopolizzata dall’esame della legge di bilancio: la regola prevede che in quel periodo non possa essere esaminata nessuna altra legge che comporti anche un solo euro di spesa per le casse dello Stato. Rimangono quindi 40-45 giorni netti. Senza contare che in quel mese e mezzo c’è chi vorrebbe portare a casa anche una nuova legge elettorale. La riforma caldeggiata da Mattarella è in alto mare e molto probabilmente finirà per riempire l’agenda dei partiti per almeno un paio di settimane. Morale della favola: il tempo da dedicare a ius soli, testamento biologico, legge sugli orfani da femminicidio e norme anti-omofobia rischia di ridursi a un pugno di giorni. Non più di una ventina, ammettono dalle file del Pd. Probabilmente anche meno. Di certo non sufficienti per discutere e approvare leggi sulle quali per di più gravano divisioni politiche. Priorità alla manovra - Da qualche settimana nella maggioranza si respira un clima da liberi tutti. Lo stallo sui diritti è emblematico: da una parte i centristi frenano riforme care alla sinistra; dall’altra Mdp non ha intenzione di accettare mediazioni al ribasso. In mezzo a questa tenaglia c’è il Pd, che promette - senza troppa convinzione - di voler andare fino in fondo per lo meno sullo ius soli. Ma i tempi sono stretti e al Senato i numeri sono risicati. Anche perché i grillini quasi mai si sono dimostrati disponibili a votare provvedimenti altrui. Infine c’è la variabile Gentiloni: il premier, per non restare stritolato, governa con passo felpato, consapevole di dover blindare la maggioranza in vista della manovra. Così l’agenda dei diritti è finita su un binario morto. E mentre i partiti sono pronti a gettarsi a capofitto nella campagna elettorale, i cittadini aspettano. Processo penale, come la società può influenzare le scelte dei giudici di Luca D’Auria Il Fatto Quotidiano, 6 agosto 2017 La giustizia penale non è un corpo estraneo alla società ed alle sue dinamiche più profonde. Pensare il contrario sarebbe un grave errore; almeno decisivo come quello di ammettere questa osmosi continua tra processo e società, senza però comprendere quali siano le pulsioni che realmente contraddistinguono l’epoca di riferimento. Sarebbe, ad esempio, fuorviante pensare che, in questi decenni, la scienza "la faccia da padrone" e per questo il processo si debba avvalere di essa e degli strumenti più sofisticati dalla medesima perché "scientificamente certi". Su tutti la genetica con la prova del Dna. Questo errore prospettico causa proprio lo scivolamento a cui stiamo assistendo e cioè pensare che quando si introduce la genetica nel processo, si introduce la scienza e in specie quell’assodata certezza secondo cui il patrimonio genetico di ciascuno è unico e personale. Capire quale sia l’istanza fondamentale di oggi vuol dire anche non cadere in questa trappola. Il mondo di oggi è, non già quello della scienza (che pure riveste un ruolo importante) ma quello della tecnica, cioè di strumenti che possono avere alle spalle un loro paradigma scientifico ma che rappresentano, piuttosto, una declinazione pratica, umana e gestita dall’uomo di metodi scientifici. La differenza tra tecnica è scienza è dunque radicale ed irriducibile: la certezza (quando c’è) della scienza non ha nulla a che vedere con la natura "umana" della tecnica. La scienza è quella che scopre le proprietà che permettono alla mongolfiera di volare; la tecnica è come la mongolfiera viene guidata e detta le condizioni che, di volta in volta, debbono essere affrontate. L’essere umano di oggi, affidandosi alla tecnica per dare maggiore certezza alla sua evoluzione culturale antropologica, utilizza la tecnica in un campo sempre più vasto di "saperi", tra cui il processo. Quello di cui l’homo faber non si accorge è che tra tecnica ed evoluzione culturale si è scatenata una guerra di civiltà in cui la prima sta erodendo, fagocitando e nullificando la seconda. Come se l’essere umano accettasse la compressione e la distruzione della propria evoluzione, pur di non perdere tracce di tecnica. Il processo è la cartina di tornasole di tutto questo. A fronte di una legislazione che presuppone una serie assai corposa di norme che garantiscono il migliore accertamento, l’avvento della tecnica ha nullificato tutto questo, riportando le lancette del tempo culturale-processuale ad epoche che si ritenevano superate. Oggi la regola imporrebbe una strada e la tecnica ne desertifica ogni valore ed istanza, in nome del risultato, qualunque esso sia. L’evoluzione culturale vuole che l’accusa raccolga le prove e le presenti alla difesa. Questa, a sua volta può verificarle. A seguito di questa dialettica gnoseologica, un giudice, terzo e imparziale, decide. La tecnica cancella tutto ciò: la possibilità per l’accusa di valutare la capacità probatoria degli elementi a disposizione ed il diritto alla contro-prova per la difesa. Di conseguenza mette il giudice nella posizione di chi decide su dati del tutto virtuali ed assunti come veri o non veri sulla base di un atto di fede. In questo consiste lo scontro di civiltà, da un lato la tecnica a cui la civiltà culturale ha chiesto un aiuto, dall’altro la tecnica stessa, che spazza via ogni baluardo di evoluzione culturale, offrendo un risultato incompatibile con le regole su cui si fonda la vita di colui che ha richiesto il suo intervento. Oggi, il Dna è "visto" solamente dal tecnico che assume di repertarlo. È conservato solamente dal tecnico che assume di averlo conservato; è analizzato solamente dal tecnico che assume di averlo analizzato; è valutato solamente dal tecnico che assume di averlo valutato. Chiunque faccia parte del mondo che quel dato deve gestire (magistrati, avvocati, ecc.) è tagliato fuori da ogni possibile intervento. In questo scontro di civiltà, la civiltà giuridica non ha nessuna "coscienza di classe" ed è incapace di reagire, facendo valere le proprie istanze di giustizia. Il magistrato si piega supinamente a questa sconfitta pur di ottenere il risultato processuale. L’avvocato avanza attacchi frontali all’accusa, che divengono delle battaglie di retroguardia. L’ulteriore effetto perverso è che, complice la tecnica, la regola, che dovrebbe rappresentare il limite ed il baluardo contro l’ingiustizia ed i soprusi, si correda sempre più di nuove garanzie che, al lato pratico, divengono dei simulacri utili solamente a dare voce a un vacuo dissenso processuale, senza che però questo possa realmente trovare una forma dialettica utile all’accertamento. Questa è la triste fine fatta dalla riforma dell’articolo 111 della Costituzione, che vuole il contraddittorio come mezzo di formazione della prova, così come della riforma dell’indagine difensiva e di tutte quelle disposizioni che vengono genericamente definite "garantiste". Laddove l’unica garanzia che salvaguardano è quella di un teatrino delle marionette di stampo pre-inquisitorio. Almeno, al tempo della tanto vituperata inquisizione, l’accusato era fisicamente portato davanti al Santo Uffizio e al tribunale che doveva giudicarlo. Oggi il Dna fantasma e la tecnica fantasma bypassano anche questo rito. Come sostenuto dal genetista forense Marzio Capra, tutto ciò non ha nulla di scientifico, atteso che la scienza, da Newton e Galileo in avanti, vuole la ripetibilità dell’esperimento e il confronto delle tesi. Ecco quindi che le vicende di Bossetti e di Rosa Bazzi e Olindo Romano diventano dei momenti di verifica dello scontro tra civiltà della tecnica e civiltà del diritto. Da queste vicende scaturisce il futuro di questa battaglia che non può vedere il mondo giuridico arroccato in retroguardia, con la magistratura che si trincera dietro la propria interpretazione delle regole e l’avvocatura, di converso, che gioca una sua partita giuridica solitaria e donchisciottesca. Questa è la battaglia campale in atto nella nostra società, quella tra una tecnica trabordante e un’evoluzione culturale oramai arresa alla propria autodistruzione. Questo vale in tutti campi, nella politica (contro le tecnicalità dell’economia) come nella creazione (contro le tecnicalità della digitalizzazione massiccia). È lo specchio di quanto preconizzato dal filosofo ungherese Lukacs quando parlava di "idiotismo specialistico". La giustizia e l’insidia di una libertà precaria di Vincenzo Maiello Il Mattino, 6 agosto 2017 Nell’articolo "Intercettazioni, perché non basta non avere nulla da nascondere" (Il Mattino, 1° agosto), Francesco Petrelli ha fermato l’attenzione sull’immaturità con cui la nostra vita democratica affronta una delle questioni di fondo del governo politico della società, vale a dire la dialettica tra esigenze di tutela della convivenza collettiva e libertà individuali. Ha rammentato come nel nostro Paese avanzi da anni - nel dibattito pubblico e nell’agire istituzionale - l’idea che i diritti della persona siano nient’altro che un vezzo illuministico, peggio una pruderie intellettuale coltivata da quanti hanno interesse a lucrarvi i vantaggi legati ad un ridimensionamento del controllo penale. Su questi diritti, lo "spirito del tempo" vorrebbe far prevalere la logica di una giustizia penale espansiva - equivalente di un Panopticon cui delegare la gestione di parte della complessità sociale, nonché il disciplinamento etico di quegli ambiti della vita di relazione esposti a contaminazioni affaristico-collusive. Il diritto e il processo penale vengono in tal modo condannati ad una mutazione genetica: cessano di proteggere il singolo dagli abusi della coercizione statale e assumono le sembianze di Golem punitivi. Divengono, cioè, creature mostruose a cui viene chiesto di sovradimensionare gli spazi di manovra riservati ai poteri coattivi di autorità e, conseguentemente, di sublimare le ansie giustizialiste del discorso pubblico. Vale a dire, quegli impulsi ossessivo-compulsivi attraverso i quali la vulgata corrente in tema di "diritto" e di "legalità" tenta di esorcizzare le insicurezze nevrotiche di un tempo in crisi, assecondando una parabola degenerativa ove il destino delle garanzie si lega al doppio regime degli usi strumentali del loro corredo di civiltà. Accade così che di esse se ne predichi il rango di valori supremi, quando ciò appaia funzionale a neutralizzare accuse ritenute ingiuste, e - viceversa - se ne stigmatizzi il carattere di stratagemmi avvocateschi allorché in discussione siano fatti e comportamenti di quanti vengono additati, a turno, nemici della società, dello Stato o anche solo del ristretto gruppo dei parlanti. La strisciante e corrosiva pervasività di questo trend, ne fa fenomeno pericoloso per gli equilibri e la tenuta della democrazia costituzionale. Il cui carattere identitario è una disciplina del rapporto tra Stato e individuo costruita su una prospettiva di netto ribaltamento della tradizione ottocentesca. Nella cornice dello Stato liberale, il singolo è titolare di diritti di libertà se ed in quanto i medesimi siano elargiti dallo Stato per il tramite di una auto-limitazione della propria sovranità. Nella differente configurazione fornita dal costituzionalismo novecentesco - di cui la Carta del 1948 rappresenta coerente espressione - quei diritti vantano una fondazione autonoma ed originaria, in virtù della quale essi rilevano quali apriori rispetto alla nascita stessa dello Stato, che resta obbligato a riconoscerne la inviolabilità ed a garantirne l’effettività. Per questo, la conformazione costituzionale del diritto e del processo penale - strumenti per antonomasia di aggressione a diritti fondamentali dell’uomo - è dominata da logiche e culture garantistiche che ne sottolineano il ruolo di Magna Charta degli autori di reati - potenziali e/o effettivi che siano. Ed anche per questo gli sbandamenti illiberali in atto nel discorso, e nelle prassi della nostra democrazia, recano i segni di un carattere eversivo, dal momento che pongono a rischio le pietre angolari della democrazia costituzionale e ne dissolvono le corrette chiavi di lettura. Di questa grammatica occorre ricordarsi sia quando si prospettano modifiche del diritto sostanziale e dei congegni processuali volti ad ampliare la portata delle norme penali ed a flessibilizzare i congegni processuali dell’accertamento, sia quando il foro della discussione pubblica si esercita nella riflessione sui grandi temi e sulle piccole storie della giustizia penale. La dismisura del diritto penale non è cifra della civiltà democratica di una società, né sul piano dei suoi valori, né su quello della effettiva soluzione dei problemi: dal primo punto di vista, in quanto determina il soffocamento di una libera vita individuale e di relazione; dal secondo, poiché induce l’illusione del superamento del fenomeno che si intende combattere, lasciandone inalterate le cause. Dal canto suo, un processo penale che si vorrebbe ispirato ad una logica di "dolce inquisizione" che coltiva l’obiettivo del "ne crimina remaneant impunita" rende tutti noi titolari di una libertà precaria e di diritti fondamentali tanto solennemente proclamati, quanto pericolosamente insidiati. Quelle riforme solo a parole di Giorgio La Malfa Il Mattino, 6 agosto 2017 Concettualmente, la riforma di un certo ambito della Pubblica amministrazione, quale che sia il campo specifico cui essa si riferisce - dalla scuola alla sanità, dai rapporti fra lo Stato e i cittadini alle politiche per il Mezzogiorno, dal fisco alla giustizia - comporta due ordini di interventi molto diversi fra loro. Il primo intervento riguarda la fase della legislazione, cioè la traduzione delle linee di un progetto di riforma in un testo legislativo. Il secondo riguarda la riorganizzazione degli organi e degli uffici della pubblica amministrazione, chiamati a realizzare concretamente il disegno riformatore. Ciascuno di questi interventi è indispensabile al successo dell’eventuale riforma, ma altrettanto necessario è che essi siano strettamente coordinati fra loro se si vuole che la riforma non rimanga sulla carta fin dall’inizio o non si impantani progressivamente nel corso dei tentativi di attuarla. La stesura della legislazione è un’attività tecnicamente complessa, ben più difficile a concretizzarsi dell’idea contenuta in un progetto di riforma. C’è la stessa differenza fra uno schizzo architettonico e i calcoli per la costruzione di un edificio che realizzi le idee delineate nello schizzo. E questo è un primo aspetto del problema. La nuova legge deve anche superare l’esistente, modificando, integrando o abrogando quanto già legiferato: vanno eliminate le scorie degli edifici precedenti per costruire una casa su solide fondamenta. Ma poi c’è il problema della preparazione della pubblica amministrazione ai nuovi compiti. Se si scrive in una legge per cui da domani un certo corpo dello Stato dovrà fare le cose in maniera diversa da ieri, bisogna sapere se quel corpo è in grado, con un’accurata preparazione, di svolgere i nuovi compiti e procedere alla necessaria istruzione. Le carenze nell’esperienza riformatrice italiana, come conferma la clamorosa inchiesta di oggi del Mattino, riguardano ambedue le fasi del processo riformatore. Le leggi in cui si descrive una qualche riforma assai raramente modificano o abrogano la legislazione che potrebbe essere in contraddizione con il nuovo testo. Si è creata così una stratificazione che assomiglia a una foresta impenetrabile nella quali coesistono affermazioni in totale contraddizione fra loro e che dà luogo e materia ai ricorsi davanti alla giustizia amministrativa che spesso ricorrono nelle cronache. A questo fine non basta la formula di rito che si intendono tacitamente abrogate le norme in contraddizione con un certo testo, perché per stabilire se una norma sia o non sia abrogata è legittimo il ricorso alla giustizia amministrativa. C’è infine, a proposito della fase di legislazione, il problema dei decreti attuativi delle leggi, che richiedono mesi per essere elaborati e altrettanto per essere approvati dal "concerto" dei ministri coinvolti. Le buone leggi di riforma dovrebbero essere accompagnate, già nell’esame parlamentare, dai decreti attuativi che il governo si impegnerebbe a emanare una volta approvata la legge. Se in Italia la legislazione è frettolosa, la cura nei confronti dell’organizzazione degli uffici che dovranno assicurare il funzionamento delle riforme è sostanzialmente nullo. A questo si aggiunga l’effetto devastante delle riforme Bassanini e poi Frattini che hanno consentito di precarizzare le posizioni dei dirigenti della pubblica amministrazione e di procedere alla loro sostituzione quando cambia il ministro. In sostanza i problemi nascono dal fatto che non solo le leggi sono scritte male ma la loro attuazione è sostanzialmente abbandonata a se stessa. Ministri e presidenti del Consiglio preoccupati soprattutto di potere elencare sui media il numero delle riforme che essi hanno fatto in una settimana o in un mese o in un trimestre considerano l’attività esecutiva qualcosa di cui persone del loro livello non hanno ragione di occuparsi. Come se ne esce? Se qualche aspirante leader politico cercasse il consenso sul buon funzionamento di quello che c’è piuttosto che con l’introduzione di magiche pozioni per stare meglio tutti, si scoprirebbe probabilmente che l’Italia è stufa di chiacchiere e desiderosa di un sano realismo e del ritorno all’etica che un tempo si chiamava del "buon governo". Il 99,7% dei magistrati riceve valutazioni positive. E così lo stipendio aumenta Libero, 6 agosto 2017 Il sistema giudiziario italiano è lento e inefficiente, i casi di malagiustizia sono all’ordine del giorno. Eppure la magistratura è bravissima. Il Csm: "Questa percentuale non ha riscontro in nessuna organizzazione istituzionale complessa". Fare chiarezza sul rapporto tra toghe e politica. Facile a dirsi, in un Paese come l’Italia dove i magistrati entrano ed escono dalla politica, per poi tornare in magistratura, con estrema disinvoltura. Naturalmente senza dimettersi dalla carica, con il rischio poi di trovarsi a giudicare un avversario politico. Prassi di pessimo gusto, questa delle porte girevoli, in auge soprattutto dalle parti della sinistra. Il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini dice che sarebbe anche ora di promulgare una legge decorosa in materia: "Il Parlamento - afferma in un’intervista al Dubbio - ha a disposizione una grande opportunità: quella di approvare una legge che regolamenti con chiarezza il rapporto tra l’esercizio della funzione giurisdizionale e l’elettorato passivo o gli incarichi di governo, con il divieto di utilizzare in un determinato territorio il credito acquisito da magistrato per proiettarsi nell’agone politico e preclusione della possibilità di tornare indietro dopo aver scelto la politica". Quanto alle progressioni di carriera dei magistrati, Legnini dà ragione al presidente della Cassazione Giovanni Canzio, che ha fatto notare come in nessun sistema organizzato, come appunto la magistratura, succeda che il 99,7% dei componenti abbia una valutazione positiva. Canzio ha sottolineato che "questa percentuale non ha riscontro in nessuna organizzazione istituzionale complessa". Insomma lorsignori, i magistrati, se la cantano e se la suonano. E sono tutti bravissimi, meritevoli appunto di inarrestabili progressioni di carriera con relativi aumenti di stipendio, madama la marchesa. Osserva, Legnini, che "il Csm può e deve fare di più, ma solo il legislatore potrebbe davvero modificare i criteri di valutazione della professionalità dei magistrati, rendendoli più efficaci e selettivi, nonché potenziando gli effetti delle valutazioni di professionalità per il prosieguo della carriere del singolo magistrato". Reati minorili, sintomi da curare non da punire di Maria Gabriella Gatti Left, 6 agosto 2017 Il tribunale minorile italiano è stato preso come esempio dal Parlamento europeo per la compilazione della direttiva europea del "Giusto processo penale minorile" sollecitando tutti gli Stati membri a seguirne le linee guida mettendo in atto "misure appropriate per garantire che i giudici e i magistrati inquirenti che si occupano di procedimenti penali riguardanti minori abbiano una competenza specifica in tale settore". Il disegno di legge di riforma della giustizia che nasce per rendere più efficiente il processo civile prevede l’inserimento dei tribunali minorili nei tribunali ordinari, nei quali verrà istituita una sezione speciale dedicata ai minori. La preoccupazione degli operatori del settore minorile è vedersi togliere le già scarse risorse a vantaggio della giustizia ordinaria. Sappiamo dalle statistiche che il 70 per cento dei detenuti, messi in libertà alla fine della detenzione ritorna negli istituti di pena per aver commesso ulteriori crimini. Il carcere così come è previsto non solo rende impossibile alcun processo di recupero, ma toglie dignità e identità umana alla persona potenziando le valenze delinquenziali e favorendo un processo di destrutturazione dell’identità. Concepire un percorso di ricostruzione della personalità di chi ha commesso un crimine dovrebbe prevedere un investimento di risorse da parte dello Stato che possono essere pensate solo a partire da un cambiamento di mentalità o addirittura come in vero e proprio un salto di paradigma culturale. Si pensa erroneamente che scontare la pena sia "l’espiazione" di una colpa attraverso la quale si dovrebbe favorire una catarsi e un rinnovamento: quest’ultimo non può avvenire senza uno specifico processo di cura psicoterapica. La pena non può essere vista come un risarcimento, se non addirittura una vendetta richiesta dalle vittime che ricorderebbe molto il biblico "occhio per occhio". Non voglio banalizzare il problema ed affermare: aprite le carceri, come una volta è stato detto aprite i manicomi in quanto la malattia mentale non esisterebbe ma sarebbe solo un modo di esistere. Penso che la maggior parte dei detenuti abbiano problemi dovuti a disagi sociali o a problemi mentali che potrebbero trarre beneficio da percorsi di cura e di inserimento in comunità, con vantaggi sia economici che di benessere sociale. Ma come dicevo prima è necessario un salto culturale. Allo stato attuale, una società non può definirsi civile se non mette in atto programmi di cura e integrazione sociale per gli adulti che commettono crimini. Consip, cartello di tre aziende. "Così si spartirono 2,7 miliardi" di Giovanni Bianconi e Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 6 agosto 2017 L’appalto per la gestione dei servizi nella pubblica amministrazione potrebbe essere truccato: questa la clamorosa conclusione contenuta nella relazione dell’Anac, l’autorità Anticorruzione guidata da Raffaele Cantone. L’appalto Consip da 2,7 miliardi di euro per la gestione dei servizi nella pubblica amministrazione potrebbe essere stato truccato. C’è il fondato sospetto di un "accordo di cartello" fra tre imprese concorrenti per spartirsi i lotti principali escludendo così le altre aziende. Quattro mesi dopo l’avvio dell’istruttoria, è questa la clamorosa conclusione contenuta nella relazione dell’Anac, l’autorità Anticorruzione guidata da Raffaele Cantone. Il dossier - Il dossier è stato trasmesso alla Procura di Roma, titolare dell’inchiesta sull’aggiudicazione di quei lavori che ha fatto finire in carcere l’imprenditore Alfredo Romeo per corruzione, mentre Tiziano Renzi e il suo amico Carlo Russo sono indagati per traffico di influenze illecite; nell’ambito della stessa indagine sono coinvolti anche il ministro Luca Lotti, il comandante generale dell’Arma dei carabinieri Tullio Del Sette e il generale Emanuele Saltalamacchia, inquisiti per la fuga di notizie che mise sull’avviso i vertici Consip degli accertamenti della magistratura. Ma adesso si apre un altro filone nel quale si dovrà verificare l’operato dei vertici della "centrale acquisti", per stabilire che ruolo abbiano avuto rispetto alla divisione tra le aziende delle commesse per la manutenzione e la ristrutturazione di centinaia di edifici pubblici. La richiesta degli atti - L’indagine di Cantone viene avviata nel marzo scorso con una richiesta di trasmissione di atti alla Consip proprio per valutare l’esistenza di eventuali irregolarità nella procedura. Si scopre così che nell’elenco di chi ha presentato offerte ci sono le stesse aziende sanzionate dall’Antitrust per aver siglato un patto illecito nella gestione dei servizi di facility management per gli istituti di istruzione. È il famoso appalto "belle scuole" assegnato nel 2015 che per questo si è stati poi costretti ad annullare. La delibera dell’Antitrust era infatti perentoria: "Il consorzio Cns, Manutencoop, Kuadra spa e Roma Multiservizi spa hanno posto in essere un’intesa restrittiva della concorrenza consistente in una pratica concordata avente la finalità di condizionare gli esiti della gara con Consip, attraverso l’eliminazione del reciproco confronto concorrenziale e la spartizione dei lotti da aggiudicarsi nel limite massimo fissato dalla legge". Le sanzioni inflitte andavano dai 56 milioni di euro per l’assegnazione dei lotti maggiori a quasi 6 milioni di euro per quelli più piccoli. Su questo la Procura di Roma ha terminato qualche settimana fa gli accertamenti, ipotizzando il reato di turbativa d’asta, e si appresta a chiedere il rinvio a giudizio degli amministratori delle ditte coinvolte. L’azienda esclusa - Nel corso delle verifiche sull’appalto Fm4, Anac analizza la posizione delle aziende finite sotto accusa, ma anche quella di Manital, esclusa dalla gara dopo aver vinto quattro lotti per una contestazione di tipo fiscale, e che per questo aveva presentato ricorso al Tar. Secondo Anac la decisione di Consip di non consentire la partecipazione "presenta ripetute omissioni in materia di verifica", e l’avvio della procedura che determinò l’esclusione viene definito "irrituale". Inoltre, si sottolinea come il successivo ricorso al Consiglio di Stato da parte di Consip, che annullò la riammissione di Manital decisa dal Tar, avvenne dopo la scoperta che l’offerta di Manital era risultata vincente con un risparmio per le casse dello Stato di 25 milioni. Tra le "anomalie" contestate ai vertici Consip ci sono anche quelle relative alle offerte tecniche ed economiche per la "mancata allegazione ai verbali della Commissione delle valutazioni effettuate nelle sedute riservate e in quelle pubbliche" ma anche "la scelta di assegnare a tutti i concorrenti il medesimo punteggio vanificando l’incidenza di tali elementi sulla valutazione complessiva e quindi riducendo il peso dell’offerta". La divisione dei lavori - Elementi sufficienti per decidere di analizzare le offerte presentate da ogni azienda già sanzionata per precedenti accordi di "cartello". Si è così scoperto che "l’Ati Cns ha presentato offerta per sette lotti di gara mentre Manutencoop ha presentato offerta per cinque lotti di gara senza mai sovrapporre le proprie offerte". Ed ecco le conclusioni di Anac: "La probabilità del verificarsi di tale evento risulta essere evidentemente assolutamente marginale. Tale probabilità scende ulteriormente allorché si osservi la distribuzione geografica delle istanze dei due concorrenti nella quale si rileva una disposizione a scacchiera, con l’Ati Cns e Manutencoop che si sono spartite tutte le Regioni escludendo Campania, Calabria e Sicilia. Il patto illecito - Quanto basta per convincere Anac sull’esistenza di "possibili intese fra Cns, Manutencoop e Kuadra, che fa parte dell’Ati Cns". E infatti nella relazione trasmessa ai magistrati di Roma è scritto: "Appare ragionevole pensare che per la gara Fm4 siano state adottate intese restrittive della concorrenza. A rafforzare tale ipotesi contribuisce il ritiro delle proprie offerte per tutti i sette lotti da parte dell’Ati Cns alla vigilia dell’apertura delle offerte economiche". Gli "investigatori" dell’Anac sottolineano anche altre criticità a riscontro del possibile accordo illecito, con una vera e propria spartizione preventiva degli appalti: "Per Manital non risultano mai sovrapposte le quattro offerte con le sette di Cns e solo per un lotto è in competizione con Manutencoop; la Romeo Gestione non si sovrappone mai con Manutencoop e solo per un lotto è in competizione con Cns". L’avviso alle imprese - La relazione è stata notificata alle aziende coinvolte che adesso potranno presentare le proprie controdeduzioni per evitare le sanzioni dell’Anticorruzione. I magistrati dovranno invece stabilire se - proprio come accaduto per l’appalto delle "belle scuole" - per l’accordo tra le imprese ci siano anche contestazioni penali per i responsabili delle imprese coinvolte. Femminicidio. La violenza maschile viene da lontano di Emanuela Fellin* Corriere del Trentino, 6 agosto 2017 Non solo nel senso dei secoli trascorsi all’insegna del maschilismo ma anche in senso educativo, si può sostenere che la violenza contro le donne sia il risultato di un continuo processo di costruzione relazionale e collettivo. Gli episodi di violenza distruttiva e omicida nei confronti delle donne, in particolare quelli messi in atto da maschi molto giovani, meritano una riflessione a partire dagli stili educativi con cui oggi si allevano i bambini. Da anni si assiste a una costante esaltazione dell’infanzia con relativa disattenzione o negazione della centralità dei compiti di crescita. I bambini fin dai primissimi mesi di vita, probabilmente anche per il vistoso calo demografico, sono trattati con una particolare disposizione a concedere di tutto e di più, molto spesso senza domandarsi quali siano le conseguenze sulla costruzione della personalità. Si pensi solo ai rituali che accompagnano la quotidianità e i percorsi di crescita: dai compleanni, i cui festeggiamenti sono sempre più esasperati e oggetto di competizioni ed esibizioni, alle prestazioni sportive in cui ogni risultato viene considerato come eccezionale e le aspettative sono sempre portate all’estremo. Manifestazioni di crescita del tutto anomali e appartenenti da sempre allo sviluppo individuale sono oggetto di documentazione filmata ed esibita attraverso i social media. Tutto ciò e altro ancora non può che generare personalità autoriferite e narcisistiche, le quali difficilmente saranno in grado di gestire la benché minima esperienza di negazione o di sconfitta, una delusione o un’esperienza di dolore. Le aspettative crescenti e sostanzialmente illimitate che una situazione del genere tende a produrre possono diventare facilmente la base per manifestazioni di possesso indiscutibili nel momento in cui l’immagine complessiva della donna subisce una regressione rispetto ai tentativi, almeno in parte riusciti, di emancipazione e libertà femminile come si era verificato nell’ultima parte del secolo scorso. Se quel periodo ha prodotto certamente degli importanti cambiamenti nel ruolo sociale della donna e nell’emancipazione femminile, si ha l’impressione che ciò abbia inciso poco sulla relazione uomo-donna. Grazie al loro impegno, le donne sono riuscite certamente a cambiare parecchio nella loro esperienza di vita e di lavoro, ma il problema rimane grave per quanto riguarda la relazione tra i generi e l’educazione all’affettività. In un simile campo sembra cambiata, purtroppo, solo l’apparenza e la forma esteriore, ma non la sostanza. Non si tratta di una questione di perbenismo e di comportamenti politicamente corretti o di qualche forma di gentilezza più o meno riuscita, in quanto il cambiamento che sarebbe necessario è profondo e richiede una costante e attenta elaborazione dei conflitti di genere con la relativa ricerca di equilibrio e di giustizia tra i codici affettivi maschile e femminile. Qui interviene il tema dell’educazione con la relativa esigenza di porre al centro compiti di crescita in grado di temperare e limitare l’esaltazione narcisistica dei piccoli maschi, la propensione a considerarli degli eroi e, soprattutto, l’orientamento a non dire mai di no o a coccolare subito dopo aver detto un no. È difficile che così si possa sviluppare un principio di autorità interna in grado di autocontrollo, sia per ogni fondamento etico, sia per la capacità a cogliere sconfitte senza disintegrarsi o senza disintegrare le vittime di turno. Una via educativa come quella oggi predominante rischia evidentemente di produrre, benché vada, persone fragili di fronte agli eventi, mammisti e falsi deboli che o parassitano la donna di turno o, nel peggiore dei casi, la maltrattano fino alle estreme conseguenze. Se rispetto alla violenza praticata non può che esserci la giustizia più rigorosa nel medio periodo, è l’educazione nelle relazioni primarie, cioè in famiglia, la priorità fondamentale per favorire un equilibrio sentimentale accettabile e lo sviluppo di personalità in grado di riconoscere i propri limiti e le effettive possibilità. *Pedagogista clinica La strage dimenticata e i misteri dell’Italicus quei 12 morti e 48 feriti perduti nella galleria di Valerio Varesi La Repubblica, 6 agosto 2017 SEMPRE d’agosto e sempre una bomba. Stavolta sei anni prima, ma di nuovo sui binari. Ieri, nel momento in cui il sindaco di Forlì Davide Drei deponeva una corona di fiori davanti al cippo che ricorda l’eroico ferroviere Silver Sirotti, la mente è andata pure a quella notte tra il 3 e il 4 agosto del 1974, quando saltò in aria la carrozza 5 del treno Italicus, partito da Roma e diretto a Monaco di Baviera. La perfidia degli attentatori, mai individuati ma provenienti dal mondo piduista e dai gruppi neofascisti toscani, volle che l’ordigno scoppiasse dentro la lunga galleria Direttissima, nel comune di San Benedetto Val di Sambro. Solo un provvidenziale recupero del ritardo sulla tabella di marcia del treno evitò che l’esplosione avvenisse al centro del tunnel anziché a 50 metri dallo sbocco. Ciò non impedì la strage: 12 morti e 48 feriti. Oggi, quella dell’Italicus, uno degli opachi tasselli della "strategia della tensione", iniziata con la bomba alla Banca nazionale dell’Agricoltura di Milano il 12 dicembre 1969, appare una tragedia dimenticata, fagocitata dalle celebrazioni del 2 agosto di cui è appendice, col treno che parte per la stazioncina sul crinale appenninico e l’omaggio a Sirotti (che perse la vita a 24 anni per salvare dal fuoco i passeggeri), ricordato da una lapide sul marciapiede del primo binario. Eppure quello dell’Italicus fu uno degli episodi più turpi e oscuri della storia eversiva repubblicana, in quel terribile anno in cui un’altra bomba esplose il 28 maggio in piazza della Loggia a Brescia, provocando 8 morti e 102 feriti. Su quel treno doveva prendere posto anche Aldo Moro, per raggiungere la famiglia a Bellamonte, ma fu fatto scendere dai suoi funzionari per un impegno urgentissimo. Forse l’impiccio lo salvò da una possibile fine quattro anni prima che le Brigate Rosse l’uccidessero dopo averlo rapito. Il mistero che ancora grava su quell’attentato contempla anche il sospetto che fosse proprio l’esponente democristiano artefice del progetto politico del compromesso storico assieme a Enrico Berlinguer, il bersaglio della bomba. Quest’ultima fu rivendicata il 5 agosto da una formazione neofascista che si definì Ordine nero, tramite un volantino fatto trovare in una cabina telefonica di Bologna. Seguì una telefonata anonima al Resto del Carlino il cui autore fu identificato come appartenente all’estrema destra, ma altresì affetto da problemi psichici. La vicenda attraversa varie fasi giudiziarie in cui vengono coinvolti ancora una volta i servizi segreti, per via di una telefonata sospetta di una collaboratrice dell’allora Sid che parlava di bombe e passaporti per l’espatrio. Poi il 15 dicembre del 1975 avviene la strana evasione di tre detenuti dal carcere di Arezzo uno dei quali, il neofascista Luciano Franci, finisce per raccontare cose poi rivelatesi vere, sull’origine negli ambienti di estrema destra dell’attentato. Sta di fatto che, pur sfiorata, la verità non venne mai a galla e al processo tutti gli imputati furono assolti per mancanza di prove. A circoscrivere ciò che accadde realmente ha pensato la commissione parlamentare sulla Loggia P2 che ha individuato nel neofascismo toscano gli esecutori e nella loggia di Gelli "la responsabilità non in termini giudiziari ma storico-politici, quale essenziale retroterra economico, organizzativo e morale". Lecce: detenuto morto in carcere, tre medici indagati, disposta perizia medica corrieresalentino.it, 6 agosto 2017 Una perizia medico legale, tramite incidente probatorio, per accertare eventuali responsabilità a carico dei tre medici in servizio nel carcere di Lecce accusati della morte di Donato Cartelli. Il gip Edoardo D’Ambrosio conferirà l’incarico a metà settembre alla dottoressa Gabriella Cretì che avrà 60 giorni per depositare il proprio elaborato. Le varie parti coinvolte nel procedimento potranno nominare un proprio perito di parte. L’indagine è coordinata dal pubblico ministero Francesca Miglietta. Gli accertamenti sono scattati dopo una denuncia querela depositata direttamente in Procura dai familiari della vittima, assistiti dall’avvocato Andrea Conte. Cartelli, 59 anni, di Ugento, morì il 19 febbraio scorso. Si trovava in carcere per scontare una condanna a 9 anni di reclusione per reati contro la persona. Quel giorno il corpo del detenuto venne ritrovato ormai privo di vita all’interno della propria cella. A causare la morte, un arresto cardiaco. Cartelli, a dire dei propri familiari, non aveva mai lamentato alcun problema di salute. E non aveva mai accennato a qualche malanno. Anzi, nel corso dei colloqui, il detenuto avrebbe sempre rassicurato i propri familiari augurandosi di poter beneficiare della liberazione anticipata alla luce della buona condotta tenuta dietro le sbarre. L’unico malanno segnalato risaliva ad un mese prima ed era legato ai fastidi causati da un’influenza stagionale. Il detenuto venne sottoposto ad un trattamento farmacologico consistito in quattro iniezioni. Sulle circostanze del decesso, invece, le informazioni fornite ai parenti sarebbero risultate del tutto frammentarie e lacunose. Da qui la decisione di presentare una denuncia con cui i familiari di Cartelli hanno chiesto di fare piena luce sulle cause della morte "e fugare così qualsivoglia sospetto sui fatti e sulle circostanze che, purtroppo, quando accadono all’interno delle mura carcerarie tendono ad avere contorni poco precisi". Il magistrato inquirente ha deciso di approfondire il caso. L’accertamento medico legale dovrà valutare l’eventuale nesso "tra eventuali condotte colpose, negligenti e imperite dei sanitari intervenuti nella vicenda e il verificarsi dell’evento letale". Inoltre la perizia servirà ad accertare se la diagnosi dei sanitari intervenuti nella vicenda nonché le cure prescritte al detenuto siano state appropriate e corrette. I medici - la cui iscrizione nel registro degli indagati con l’accusa di omicidio colposo è un atto dovuto in vista dei primi accertamenti - sono assistiti di fiducia dagli avvocati Vincenzo e Antonio Venneri; d’ufficio da Flavio Santoro e Maurizio Memmo. Pordenone: morto dopo il malore in carcere, chiesta l’archiviazione veneziatoday.it, 6 agosto 2017 Dolore della madre: "Indagate". Chiesta l’archiviazione nel procedimento penale per la morte di Stefano Borriello dopo un malore in carcere a Pordenone. È la seconda nel procedimento penale per accertare le eventuali responsabilità del decesso del 29enne Stefano Borriello: forti critiche dalla madre e dall’associazione Antigone. Una seconda richiesta di archiviazione definita "inaccettabile". Per una madre, un dolore che si rinnova. È la vicenda, ancora dai contorni oscuri, del decesso di Stefano Borriello, di Portogruaro, morto il 7 agosto 2015 (all’epoca 29enne) all’ospedale di Pordenone. Vi era stato trasportato dal carcere cittadino, dove era detenuto, dopo aver accusato un malore. Le sue condizioni erano già gravi e non si è ripreso. Sull’ipotesi che non sia stato fatto tutto il necessario per salvarlo, le indagini sono in corso. Ma adesso dalla procura di Pordenone arriva la domanda di archiviazione del caso, la seconda. "Sostenere che anche con adeguata e tempestiva cura Stefano non si sarebbe potuto salvare è come affermare che è inutile tentare di curarsi da una qualsiasi malattia perché non vi è certezza di guarigione - commenta la madre, Laura Gottai - Leggere le parole della procura è doloroso oltre che imbarazzante. Parlare di "omissioni gravi e ripetute" e di "prestazioni del medico non corrispondenti agli standard della buona pratica professionale", e nel contempo chiedere l’archiviazione del caso è contraddittorio e deludente. Diventa difficile riporre fiducia nelle istituzioni a fronte di tali decisioni". Anche il difensore civico dell’associazione Antigone, l’avvocato Simona Filippi, che segue il caso dall’inizio, evidenzia le "contraddizioni ancora non chiarite rispetto alla morte del giovane". "Come si può dare atto delle molteplici e gravi omissioni del medico del carcere - si chiede - e sostenere che comunque l’avanzamento dell’infezione polmonare sarebbe stato così aggressivo da non poter essere curato? Non sarebbe necessario sentire in modo attento e scrupoloso i compagni di cella e chiedere loro come stava il giovane già nei giorni precedenti al decesso? Non sarebbe opportuno sentire uno specialista infettivologo che riferisca sulle modalità di diagnosi e i tempi di intervento per curare una infezione polmonare batterica?" Caltanissetta: Carovana per la Giustizia, la lettera dei detenuti ai Radicali blogsicilia.it, 6 agosto 2017 "Anche noi abbiamo diritto ad una seconda chance!" Si sono concluse ieri le visite al carcere di Caltanissetta per una delegazione della Carovana per la Giustizia composta da esponenti del Partito Radicale e da penalisti della Camera Penale locale. All’interno dell’Istituto di pena sono state raccolte 123 sottoscrizioni dei detenuti sulla proposta di legge per la separazione delle carriere tra pm e giudici. Alcuni di loro - quelli del secondo reparto - hanno voluto condividere una lettera pubblica indirizzata al Partito Radicale. La lettera firmata da Settimo Spinelli, bibliotecario carcere di Caltanissetta: "Un cordiale saluto e benvenuto dai detenuti del secondo reparto del carcere di Caltanissetta. Innanzitutto vi ringraziamo per l’impegno giornaliero dato alla causa dei detenuti; fidiamo che attraverso la vostra lotta politica si raggiunga quell’agognato bilanciamento tra la politica e il potere giudiziario. Quest’ultimo è sempre più prevaricante e a tal proposito crediamo che, come da voi peraltro evidenziato in tante occasioni, (sia necessaria) una più effettiva applicazione dell’articolo 111 della Costituzione dove il giudice terzo, dinanzi all’accusa e alla difesa, giudichi serenamente senza spirito di corpo. Vi preghiamo perciò di non abbandonare mai la lotta pacifica che vi è propria come le tante fatte dal compianto on. Marco Pannella. Noi, così come i nostri familiari, ci adopereremo affinché si possa mantenere in vita il vostro partito, ultimo baluardo per la difesa e il riconoscimento di tanti diritti e dei benefici come l’amnistia e l’indulto, la rivisitazione del 41 bis e dell’ergastolo, non ultima la separazione delle carriere dei magistrati; a questo proposito non volendoci sottrarre alle nostre responsabilità chiediamo tuttavia che questi benefici, se ottenuti, possano trovare applicazione anche nei reati cosiddetti ‘ostativi’. Anche noi abbiamo diritto ad una seconda chance!" All’uscita dal carcere di Caltanissetta, l’Avvocato Valter Tesauro, Presidente della Camera Penale di Caltanissetta, alla domanda di Emiliano Silvestri per Radio Radicale sulla condizione del carcere risponde: "dal punto di vista della custodia c’è efficienza da parte del personale. È una struttura antica, che cercano di migliorare ma non ha le caratteristiche che possono garantire la vivibilità della struttura" Rita Bernardini con altri membri della Carovana era invece al carcere di Agrigento dove si è iscritto l’avvocato Gianfranco Pilato della Camera Penale di Agrigento e sono state raccolte 133 firme che si uniscono alle 75 di ieri. "Questa è una battaglia di civiltà giuridica che l’Italia deve condurre in maniera ferma e senza alcun tentennamento. Oggi abbiamo assistito alla raccolta firme dei detenuti che sono veramente informati, seguono Radio Radicale e ci chiedevano, veramente con fiducia, dell’esito di questa iniziativa e delle molte che il Partito Radicale sta portando avanti". La Carovana ha poi raggiunto il Sindaco e la Giunta di Palma di Montechiaro per un incontro e il primo cittadino Stefano Castellino si è iscritto al Partito Radicale. Motivando la sua scelta, Castellino, ha anche dichiarato di essere un cattolico praticante e di guardare alcune delle battaglie del Partito con distanza - come per esempio l’aborto- ma, ritiene doveroso unirsi per combattere affianco per i numerosi obbiettivi, che invece, condivide. Il sindaco ha proposto, per il 21 settembre, di organizzare una proiezione pubblica del docu-film Spes contra Spem, di Ambrogio Crespi, che vede tra i protagonisti proprio dei cittadini di Palma. Prima di raggiungere il tavolo di Favara, una delegazione ha raggiunto Racalmuto e la fondazione Leonarso Sciascia. Al termine di un dibattito disponibile da domani su Radio Radicale, si sono recati alla tomba di Maria e Leonardo Sciascia. Il tour della Carovana X la Giustizia continua, gli appuntamenti per il 5 agosto sono: alle 10 raccolta firme al carcere di Enna 1° gruppo, il secondo gruppo sarà, dalle 11, impegnato nella raccolta firme al carcere di Piazza Armerina e dalle 19 tavolo raccolta firme a Nissoria (En) organizzato da Paolo Garofalo già Sindaco di Enna. Prato: troppi detenuti, pochi agenti e traduttori di Francesco Albonetti Il Tirreno, 6 agosto 2017 Delegazione regionale alla Dogaia dopo le proteste del sindacato: "Rispetto a Sollicciano 200 poliziotti in meno". "Siamo costretti a convivere con topi, scarafaggi e detenuti violenti". Lo scrivevano il 22 luglio scorso i rappresentanti sindacali degli agenti di polizia penitenziaria in servizio nel carcere della Dogaia, che dopo quattro giorni hanno fatto un sit-in davanti all’ingresso del carcere, in via Montagnola. Proprio sulla scorta di quelle accorate proteste, ieri mattina i consiglieri della commissione regionale sanità hanno effettuato un sopralluogo, accompagnati dal direttore della casa circondariale, Vincenzo Tedeschi e dal vicesindaco del Comune di Prato, Simone Faggi. C’erano Nicola Ciolini del Pd, Manuel Vescovi (Lega Nord), Paolo Sarti (Sì Toscana a sinistra), Monica Pecori (Gruppo misto) e Andrea Quartini (5 Stelle). Al centro della visita condizioni e numeri di una struttura complessa, organizzata tra reparto di massima sicurezza, di media sicurezza, per i collaboratori di giustizia, un’area protetta per i colpevoli di reati sessuali che debbono essere protetti dagli altri detenuti. Cinquanta detenuti in più, sessanta tra agenti e mediatori in meno. A fronte di una cinquantina di detenuti in più di quanto il carcere ne possa contenere, il vero problema, secondo il vicesindaco Simone Faggi, non è però il sovraffollamento, ma la carenza di personale. "Quanto parlo di personale mi riferisco sia alla polizia penitenziaria che ai mediatori culturali e traduttori - dice Faggi - Non abbiamo situazione di sovraffollamento paragonabili ad altre realtà, con sette detenuti per cella. Qui al massimo sono tre, ma tre è già abbastanza se si pensa ai 40 gradi di questi giorni. I sindacati di polizia penitenziaria hanno sostanzialmente ragione: il carcere di Prato, che dovrebbe avere più o meno gli stessi numeri di Sollicciano, è invece sottodimensionato come personale". Il paragone con Sollicciano viene fatto anche da Nicola Ciolini, quando parla di "650 detenuti, quaranta meno di Sollicciano, eppure circa 200 unità di personale in meno per assicurare il servizio". Anche Ciolini accenna alla carenza di educatori e mediatori culturali: "mancano e il 65 per cento della popolazione carceraria è extracomunitaria". Degrado e problemi strutturali. "In varie sezioni il degrado è importante, evidenti le difficoltà di gestione, di spazio, di pulizia - spiega Ciolini - le condizioni sono ai limiti della vivibilità". Sono le strutture destinate ai nuovi arresti, quelle "dove si sta in tre in una singola cella, non è sostenibile". "Capisco anche la frustrazione del personale a dover lavorare in certi reparti", aggiunge il consigliere. Le cose che vanno bene. Ciolini parla di "un carcere attento, dove ci sono spazi ben tenuti e ben organizzati. I detenuti contribuiscono alla manutenzione ordinaria, c’è la palestra, fanno teatro, c’è anche un reparto universitario, con i professori che vengono a tenere vari corsi, e negli ultimi anni ci sono stati 35 laureati". Un buon andamento che si conferma anche per l’assistenza sanitaria "con tutte le specialistiche presenti, il servizio odontoiatrico ogni giorno, la guardia medica 24 ore su 24 con infermiere". La Lega: situazione insostenibile. "L’attuale situazione degli agenti penitenziari che lavorano al carcere della Dogaia - afferma Manuel Vescovi, capogruppo regionale Lega Nord - è, ormai, non più sostenibile e siamo sinceramente perplessi di come tale problematica non venga, finalmente, affrontata e risolta da chi di dovere". Vescovi cita i "mille disagi" in cui gli agenti sono costretti a vivere e le aggressioni che subiscono dai detenuti, "il 65% dei quali è extracomunitario (a loro disposizione anche una sorta di moschea)". "Insomma - conclude la struttura pratese, sicuramente sovraffollata, meriterebbe maggiore attenzione da parte delle autorità competenti che dovrebbero sanare le varie criticità". Alessandria: al Cristo una casa per i detenuti e le loro famiglie alessandrianews.it, 6 agosto 2017 Il progetto, avviato grazie al contributo della Fondazione SociAL, è stato realizzato dall’Associazione Betel Onlus: "un alloggio dove "abitare" relazioni significative con se stessi e con i propri cari e dove ripensarsi in un contesto di vita più autentico". C’è uno spazio, nel quartiere Cristo, destinato ad accogliere i detenuti presenti nelle due case di reclusione alessandrine dando loro la possibilità di trascorrervi i permessi premio sia da soli che con i propri famigliari al fine di favorire la ripresa e il rafforzamento delle relazioni socio-familiari. Si chiama "Casa Betel". Il progetto, sostenuto dalla Fondazione SociAL nell’ambito del Bando 2016, nasce da una riflessione a lungo maturata in seno all’Associazione Betel Onlus sul tema della genitorialità in carcere e degli affetti dei detenuti. "Alla necessità di offrire uno spazio per tutelare e fortificare i legami genitoriali inevitabilmente frammentati e resi precari dall’esperienza del carcere - spiegano dall’associazione - Casa Betel offre un alloggio dove "abitare" relazioni significative con se stessi e con i propri cari e dove ripensarsi in un contesto di vita più autentico". "Casa Betel" è costituita da due bilocali che nei primi mesi del 2017 sono stati imbiancati, puliti e arredati con mobili ed elettrodomestici e sono, ora, adatti ad accogliere fino a 10 persone. "I primi sei mesi - spiegano dall’Associazione - sono stati di predisposizione e di diffusione del progetto di ospitalità. Adesso siamo pronti a ospitare i detenuti in premesso premio, i loro famigliari e gli scarcerati in attesa di espulsione o di collocazione abitativa". Le unità abitative si trovano in una palazzina di civile abitazione e, quindi, la tipologia degli ospitati sarà sempre valutata con attenzione dall’area educativa degli istituti di detenzione. L’Associazione Ex Allievi del Cnos di Alessandria (con sede nel quartiere di Casa Betel) si è resa disponibile alla manutenzione degli immobili ed alla creazione di una rete per inserire ex detenuti in attività lavorative. "La possibilità per un detenuto di usufruire della casa - concludono da Betel - è anche una opportunità per riproporsi al mondo del lavoro". Livorno: l’isola di Pianosa tra progetti di rieducazione e turismo sostenibile tenews.it, 6 agosto 2017 L’isola piatta e le prospettive future a convegno. Il dibattito al tramonto. Saranno questi gli argomenti al centro di un incontro che si svolgerà a Pianosa la sera di martedì 8 luglio. Un appuntamento che vedrà protagonista l’isola piatta e le sue prospettive future. A quasi venti anni dalla chiusura del carcere saranno il direttore del carcere Francesco D’Anselmo, la presidente di Antigone Toscana Chiara Barbetto, il sindaco di Campo nell’Elba Davide Montauti e il direttore dell’Ente Parco Franca Zanichelli a tracciare le linee guida dello sviluppo futuro dell’ex isola carcere. La serata organizzata dalla biblioteca comunale e dal comune di Campo dell’Elba sarà condotta dalla giornalista Michela Gargiulo e dedicherà uno spazio speciale alla presentazione del XIII rapporto sulle condizioni dei carceri in Italia. Saranno poi messe a confronto ide, proposte e progetti che. come anticipato dall’amministrazione comunale saranno orientati alla tutela dell’ambiente e il turismo sostenibile. Lo scopo della serata sarà quello di capire quanti e quali sono i progetti di sviluppo economico e sociale dell’ex isola carcere e chi sono i promotori delle nuove proposte. Un appuntamento da non perdere anche perché a fare da scenario alla serata sarà Pianosa e il suo tramonto. La partenza da Marina di Campo è prevista alle 18.00 e, dopo una breve passeggiata al tramonto fra le meraviglie dell’Isola, verrà offerto un’aperi-cena con i prodotti dell’orto di Pianosa. Seguirà quindi il dibattito. La serata terminerà alle ore 23.00 con lo spettacolare rientro in barca sotto le stelle. Bologna: il teatro in carcere? Si impara a scuola di Massimo Marino Corriere di Bologna, 6 agosto 2017 Paolo Billi ha fondato all’Istituto minorile del Pratello la prima serie di corsi sperimentali per chi vuole lavorare su drammaturgia, recitazione e danza con i detenuti: "Aumentano i volontari, la formazione è necessaria". Si chiama "Patascuola", con il prefisso ispirato alla "patafisica", da Alfred Jarry, l’autore di Ubu re. Si terrà al PraT, sede del Teatro del Pratello nella via omonima al 53, dal novembre 2017 al luglio 2018 (Facebook del Teatro del Pratello) La cura il regista Paolo Billi, che dal 1998 lavora in carcere, prima al minorile e ora anche alla Dozza È la prima scuola di teatro in carcere. Anzi è una "patascuola", con il prefisso ispirato alla "patafisica", la scienza delle soluzioni dell’immaginazione di Alfred Jarry, l’autore di Ubu re. Si terrà a Bologna, presso il PraT, sede del Teatro del Pratello nella via omonima al 53, dal novembre 2017 al luglio 2018 (info sulla pagina Facebook del Teatro del Pratello). Diretta da Paolo Billi, che dal 1998 lavora in carcere, prima al minorile e ora anche alla Dozza, si articolerà in tre fasi: una propedeutica, da novembre a gennaio; una sui fondamenti, fino ad aprile; una di tirocinio, nell’ultimo trimestre, con esperienze sul campo. Ci racconta Billi: "L’idea di fondare la Patascuola nasce dalla constatazione che sono aumentate le richieste di collaborazione all’attività che svolgo nelle carceri. Alla Dozza solo quest’anno sono entrate con noi cinque ragazze. Arriva un sempre maggior numero di richieste di tirocinio universitario. Molti entrano come volontari in prigione e fanno attività teatrali. Ho verificato che non bastano né la volontà, né la pratica. C’è la necessità di formare chi vuole operare con il teatro o la danza con i detenuti". Questo primo anno di corso è sperimentale: si tratta di definire strumenti per strutturare una formazione efficace: "È un progetto pilota di un lavoro da ripensare a livello di coordinamento teatro-carcere dell’Emilia-Romagna, formato da compagnie che operano da Parma a Ferrara a Forlì e Ravenna, passando per Modena e Bologna, da proporre poi alle istituzioni della formazione regionale. Non è rivolto solo a teatranti o danzatori ma anche a insegnanti ed educatori che fanno attività di volontariato negli istituti di reclusione". Accanto alle materie artistiche, insegnate da Billi e dai suoi collaboratori, sono previsti incontri dedicati alla vittimologia, a cura di Maria Rosa Dominici, su vittima e aggressore, e alla giustizia riparativa, a cura di Paola Ziccone, sulle pratiche miranti a sanare la frattura sociale creata dal reato. Ci saranno anche seminari sulla storia del teatro in carcere (Cristina Valenti), sulla psicologia dei gruppi (Giusy Speltini), sulla mediazione umanistica (Maria Rosa Mondini). Spiega Billi: "L’insieme degli insegnamenti servono a dare le basi per poter lavorare. Anche se non tutto si può imparare in un corso scolastico. Dall’esperienza acquisita, credo che il fattore essenziale sia la capacità di ascolto. Come sia giusto intervenire lo impari con la pratica. Fondamentale è una certa capacità "maieutica"; hai di fronte persone che non hanno scelto di fare teatro: devi tirar fuori da loro quello che hanno, non dare qualcosa da riprodurre". Chiediamo a Billi quale è stata la carta vincente nel lavoro di questi anni. "Credo la capacità di proporre argomenti o autori impegnativi e non accontentarmi della trappola autobiografica. La storia personale, che i detenuti spesso vogliono mettere in primo piano, verrà fuori attraverso altro; sarà più interessante se la giochi di sponda con una storia o dei personaggi. Con i minori devi continuamente alzare l’asticella; ma è così anche con gli adulti. In giugno abbiamo fatto uno spettacolo al femminile della Dozza, ispirato a Ubu re. All’inizio si chiedevano: chi sono questi? Poi vinci ritrosie e diffidenze, ti viene data fiducia, e voli". Ma perché "Patascuola"? "Perché con le altre compagnie del Coordinamento Emilia-Romagna stiamo sviluppando un progetto triennale su Ubu e sulla Patafisica. Ci sono il Teatro dei Venti a Modena, Associazione Con… tatto a Forlì, Teatro Nucleo a Ferrara, Lady Godiva Teatro a Ravenna, Le mani parlanti a Parma". A fine agosto il Teatro del Pratello presenterà in uno dei cortili della strada un’installazione, Evasioni patafisiche. A gennaio debutterà all’Arena del Sole Mère Ubu, impresaria di teatro in carcere ("prendo in giro gli stereotipi del genere e il mio stesso teatro" confida Billi), per finire, a Bologna in giugno, con Mere Ubu Variété al femminile della Dozza. Altri spettacoli saranno presentati dai partner del progetto in regione, entro l’estate 2018. Fondamentale è una certa capacità maieutica Hai di fronte persone che non hanno scelto di fare teatro: devi tirar fuori da loro quello che hanno, non dare qualcosa da riprodurre. Venezia: D’Alatri "porto alla Mostra le speranze dei detenuti" La Repubblica, 6 agosto 2017 "L’unico modo per riscattarsi è creare un confronto, dare ai detenuti la possibilità di esprimersi, fargli conoscere la bellezza" spiega il regista Alessandro D’Alatri "da diversi anni collaboro con i premi Goliarda Sapienza-Racconti dal carcere. Ogni anno da una storia viene realizzato un cortometraggio". Quest’anno "La legge del numero uno", di cui ha curato la regia, sarà uno degli eventi alle Giornate degli Autori alla Mostra di Venezia. "Sono felice della visibilità che ci ha offerto Venezia. Abbiamo lavorato tutti in condizioni di volontariato" dice il regista, che ha collaborato anche al carcere minorile Beccaria "ma un lavoro come questo è importante. In carcere viaggi dentro il dolore degli esseri umani, c’è il dramma di chi è consapevole degli errori commessi ma anche di chi li ha subiti". Interpretato da Marco Palvetti, Andrea Sartoretti e Pietro Bontempo (la sceneggiatura è di Antonella Bolelli Ferrera e Massimiliano Griner) La legge del numero uno intreccia i destini di un malavitoso romano, di un faccendiere e di un cittadino dell’est specializzato in traffici illeciti. Aspettano il colloquio con il magistrato accomunati dalla convinzione - infondata - che solo chi riuscirà a entrare per primo otterrà il permesso premio. D’Alatri è convinto che anche il teatro possa aiutare. "Penso al lavoro fantastico fatto a Napoli al rione Sanità" dice il regista "molti ragazzi hanno trovato una strada facendo gli attori. L’unica reazione è fare quello che le scuole non fanno più. Sentir dire dai giovani in carcere: "Non ho avuto l’opportunità di conoscere tutto questo", fa male". Napoli era nel destino: ha girato In punta di piedi (questo inverno su Rai1) una storia anticamorra di riscatto, tutta al femminile, ispirata a una vicenda vera, con Cristiana Dell’Anna, Bianca Guaccero, Marco Palvetti e la piccola Giorgia Agata. "Racconta la storia di una bambina che sogna di diventare ballerina classica ma è la figlia di un capoclan e vive blindata" spiega D’Alatri "la madre la accompagna di nascosto alle lezioni di danza strappandola al mondo a cui appartiene". "Napoli" continua il regista "è bellissima e complessa. Ci passerò ancora diversi mesi per girare la seconda serie di I bastardi di Pizzofalcone, sono felice di aver raccolto il testimone da Carlei. La scrittura di Maurizio De Giovanni è meravigliosa, la cosa che mi piace di più è l’interclassismo. La capacità di accoglienza mi ricorda un po’ New York". Quindi è ottimista sul futuro. "Anche i napoletani" osserva D’Alatri "sono stanchi di essere rappresentati come "quelli dei problemi". La cultura di questa città, che ha digerito chiunque l’abbia invasa, mi affascina. Ma anche la sua forza di reagire. Penso a Le quattro giornate di Napoli di Nanni Loy. I nazisti li hanno cacciati i napoletani, da soli. L’immagine degli scugnizzi che portano via il soldato tedesco è indimenticabile". Il pericoloso successo dei leader illiberali di Daniel Gros Il Sole 24 Ore, 6 agosto 2017 L’ascesa delle "democrazie illiberali" in Europa è una delle tendenze più nocive del nostro tempo. Questi regimi sono tipicamente centrati su un leader che concentra il potere nelle proprie mani prevaricando - e in alcuni casi eliminando - controlli e bilanci istituzionali. Vladimir Putin in Russia, Recep Tayyip Erdogan in Turchia e Viktor Orbán in Ungheria rappresentano tre delle manifestazioni più evidenti di questo fenomeno. Ma ciò che è davvero degno di nota - e pericoloso - è come questi regimi siano stati capaci di conservare il sostegno popolare. Il controllo sui media tradizionali, come televisione, radio e giornali, è ovviamente una delle ragioni per cui questi sistemi mantengono le loro maggioranze elettorali. Ma la manipolazione, o addirittura il controllo totale dei media, non può spiegare la persistente popolarità dei leader illiberali, confermata dai sondaggi d’opinione. Il motivo principale del successo politico di questi leader è che questi regimi, nonostante si attestino su posizioni anti-occidentali, hanno perseguito il cosiddetto "Washington Consensus", che prescrive politiche macroeconomiche prudenti e mercati aperti. La Russia di Putin è l’emblema di questo approccio, con il governo che in genere gestisce eccedenze di bilancio e accumula enormi riserve in valuta estera. Anche l’Ungheria sotto Orbán ha perseguito una prudente politica di bilancio; ed Erdogan ha fatto lo stesso in Turchia da quando è andato al potere. Il debito pubblico in tutti e tre i Paesi è quindi già basso o (come in Ungheria) in diminuzione. In due di questi tre casi, i predecessori liberali del regime avevano perso credibilità perché avevano portato il Paese a una crisi finanziaria. Gli "uomini forti" illiberali hanno comunque accettato il principio fondamentale del "Washington Consensus" - cioè che a lungo termine prudenti politiche macroeconomiche offrono i migliori risultati - e hanno in genere delegato la gestione dell’economia a esperti apolitici. Essi hanno resistito alla tentazione di utilizzare stimoli fiscali e monetari a breve termine per accrescere la loro popolarità, basandosi invece su politiche identitarie per mantenere il dominio elettorale. Il risultato a più lungo termine è stato una performance economica relativamente solida - ed elettori relativamente soddisfatti. Questo contrasta nettamente con l’approccio di Hugo Chávez, l’ultimo "uomo forte" leader del Venezuela, che ha mantenuto il sostegno popolare per 14 anni spendendo i proventi di un lungo boom dei prezzi petroliferi in generosi programmi sociali. Oggi, con i prezzi del petrolio scesi di circa la metà a partire dal 2014 - e nessun ammortizzatore fiscale in atto per sostenere le importazioni - il successore di Chávez, Nicolás Maduro, sta affrontando una catastrofica crisi economica e montanti disordini popolari. Le politiche prudenti costituiscono quindi un’efficiente strategia a lungo termine per la salvaguardia dei regimi. Gli "uomini forti" illiberali d’Europa hanno realizzato che se una spesa eccessiva conduce a una crisi finanziaria e alla necessità di chiedere assistenza al Fondo monetario internazionale, i loro giorni in carica saranno contati Le politiche macroeconomiche prudenti supportano la crescita, ma possono funzionare solo se l’economia rimane relativamente libera. Fino a oggi, né Putin né Erdogan hanno abbinato la loro retorica nazionalistica a politiche protezioniste. Al contrario, la Russia di Putin è entrata a far parte dell’Organizzazione mondiale del commercio; ed Erdogannon ha mai messo in discussione l’unione doganale della Turchia con l’Unione europea, anche se le relazioni bilaterali con la Ue sono andate di male in peggio. La sfida a lungo termine per gli "uomini forti" consiste nel mantenere economicamente liberali i loro regimi politici illiberali. Nel corso del tempo, la tentazione di consegnare il controllo di una parte crescente dell’economia ad amici e parenti diventa più forte e la corruzione tende ad aumentare, poiché la cosa più importante diventa sviluppare relazioni politiche e ingraziarsi il regime. Quando ciò accade, la crescita è destinata a declinare. Questa minaccia a lungo termine è ora particolarmente evidente in Russia. Putin è andato al potere in un momento in cui i prezzi del petrolio hanno cominciato a risalire da un minimo storico. Non ha quindi sorpreso che la Russia abbia potuto crescere fortemente durante il successivo "super ciclo delle materie prime", che si è concluso solo di recente. La gestione macroeconomica durante il boom del prezzo del petrolio era stata abbastanza prudente da consentire al regime di sopportare la recente diminuzione dei prezzi del petrolio. Ma ora, quasi tre anni dopo la fine del "super ciclo delle materie prime" le prospettive per la Russia sono desolanti. Gli standard di vita sono stagnanti; e il tasso di crescita potenziale dell’economia viene ampiamente stimato essere solo dell’1,5%, un livello che implica che la Russia rimarrà permanentemente più povera del resto d’Europa. La Turchia potrebbe aver raggiunto un simile punto di svolta. Il Partito Giustizia e Sviluppo (Akp) di Erdogan ha ereditato un’economia che si stava riprendendo da una profonda crisi finanziaria e aveva un sostanziale potenziale di crescita a causa dell’urbanizzazione in corso e dei miglioramenti nel livello educativo della popolazione. Fino a poco tempo fa, il governo Akp ha limitato la sua interferenza alla sfera domestica dell’economia, come gli appalti pubblici e le spese per infrastrutture. Ma dopo il fallito colpo di stato militare dello scorso anno, il regime si è conferito il potere di rilevare le imprese di proprietà di coloro che sono accusati di simpatizzare con il cosiddetto movimento "Gulenista", che Erdogan accusa di aver orchestrato il tentativo di colpo di stato. Centinaia di imprese sono già state sequestrate e sottoposte all’amministrazione degli stretti collaboratori di Erdogan. Se questo continuerà, gli imprenditori smetteranno di investire e la crescita diminuirà. Il problema è che una volta che un regime illiberale si sia avviato su questa strada, non riesce facilmente a ristabilire un impegno credibile per rispettare i diritti di proprietà, perché le istituzioni che assicurano ciò all’interno delle democrazie liberali, come un potere giudiziario indipendente e un servizio civile professionale, non esistono più. Gli attuali "uomini forti" europei hanno conservato il sostegno popolare mantenendo la relativa libertà economica su cui dipende la prosperità a lungo termine. Ma poiché questi regimi diventano sempre più autoritari, la loro capacità di rendere contenti gli elettori sta diventando sempre più dubbia. Il blitz in mare delle navi di Tripoli: migranti intercettati e portati a terra di Rino Giacalone e Grazia Longo La Stampa, 6 agosto 2017 In 826 costretti a lasciare i gommoni. Voci di arresti, poi la smentita: "Li abbiamo salvati". E a Trapani indagate 15 persone della Iuventa sotto sequestro da mercoledì scorso. Oltre 800 migranti fermati dalla Guardia costiera libica e riaccompagnati sulla terraferma. Continua senza sosta il monitoraggio per affrontare l’emergenza dei flussi migratori dalla Libia. "Grazie alle nostre dieci motovedette contribuiremo a rendere la Guardia costiera libica la più importante struttura nella lotta al traffico di esseri umani", aveva dichiarato appena un mese fa il ministro dell’Interno Marco Minniti. E le operazioni degli ultimi giorni confermano la previsione: la Guardia costiera libica ha "recuperato e salvato" 826 migranti in due diverse operazioni a nord di Sabrata. Lo riferisce il portavoce della Marina militare libica, Ayoub Qassem, in un comunicato. In un primo momento si era anche diffusa la voce che i migranti fossero stati arrestati ma non è stata confermata. I migranti tra cui anche bambini, provengono da Marocco, Tunisia, Algeria, Siria, Libia, Sudan e altri Paesi subshariani. Viaggiavano a bordo di tre gommoni e due barche di legno. Il portavoce ha inoltre riferito che i migranti sono stati consegnati all’organismo di lotta alla migrazione clandestina. Più nel dettaglio, tra gli 826 migranti, ci sono i 464 recuperati dalla Guardia costiera di Zawia da due barconi e 362 persone imbarcate su gommoni bloccati dai guardacoste di Sabrata. I numeri degli sbarchi del mese di luglio, del resto, rivelano un’inversione di tendenza rispetto a un anno fa. Praticamente dimezzati: 11.183 i migranti approdati in Italia via mare rispetto ai 23.552 dello stesso mese del 2016 (-52,5%). Il potenziamento del controllo delle coste libiche, alla pari di quello lungo il confine meridionale della Libia, dà insomma i suoi frutti. E c’è da immaginare che il contrasto alle partenze dei migranti potrà essere rafforzato dalle due navi della Marina militare inviate dal nostro Paese come supporto dell’attività della Guardia costiera libica. Prosegue intanto l’inchiesta della Procura di Trapani che mercoledì scorso ha sequestrato la nave Iuventa dell’Ong tedesca Jugend Rettet. Al momento sono 15 le persone iscritte sul registro degli indagati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Si tratta dei componenti dei tre equipaggi a bordo della Iuventa durante i tre episodi contestati dal procuratore Ambrogio Cartosio e dai pm Andrea Tarondo e Antonio Sgarella, che hanno condotto le indagini in collaborazione con la Squadra mobile di Trapani e lo Sco (il Servizio centrale operativo della polizia). Sono stati infatti identificati i giovani che il 10 settembre 2016 e il 18 e 26 giugno scorso erano sulla nave. Sono sospettati di essere stati complici dei trafficanti di esseri umani. Le "consegne concordate" sono state fotografate da un poliziotto sotto copertura che ha ripreso scene inequivocabili: migranti non salvati ma accompagnati a bordo della Iuventa, scafisti aiutati a tornare indietro dai volontari tedeschi. Le indagini si concentrano ora sui quindici indagati per accertare contatti telefonici, a conferma che siano stati chiamati direttamente dagli scafisti per andare a recuperare i migranti. Nel decreto di sequestro preventivo della Iuventa firmato dal gip Emanuele Cersosimo si legge che la leader del team, Katrin, e un ragazzo, ignari di essere intercettati in mezzo al mare, "parlano del previsto inizio missione per la mezzanotte del giorno successivo". Com’è possibile che sapessero con 24 ore di anticipo che ci sarebbero stati migranti da soccorrere? Su questo stanno lavorando inquirenti e investigatori. Per quanto concerne, invece, le voci di altre Ong sotto inchiesta, Medici Senza Frontiere (che lunedì scorso non ha firmato il Codice di condotta al Viminale) precisa di "non aver ricevuto alcuna comunicazione ufficiale dalla Procura di Trapani né da altre Procure in merito alla presunta inchiesta sulla nostra attività di ricerca e soccorso in mare. Le accuse ci erano state rivolte dai Media già alcuni mesi fa, ma non erano seguite altre azioni o informazioni". Migranti. Minniti minaccia le Ong: polizia a bordo o chiudo i porti di Adriana Pollice Il Manifesto, 6 agosto 2017 La linea dura del ministro contro le associazioni che non hanno sottoscritto il Codice. Inchiesta sulla nave Iuventa, Famiglia cristiana svela: "Legami tra Imi Security Sevice e Generazione identitaria, l’anti-Ong della C-Star". "Medici senza frontiere non ha ricevuto alcuna comunicazione ufficiale dalla procura di Trapani né da altre procure in merito alla presunta inchiesta sulla nostra attività di soccorso in mare". Con un comunicato ieri mattina la Ong, che non ha voluto firmare il codice di comportamento voluto dal Viminale, ha smentito le indiscrezioni apparse su alcuni quotidiani, secondo i quali ci sarebbe anche Msf nel mirino dei pm per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, dopo i tedeschi di Jugend Rettet. Nel testo si fa riferimento a un "clima cupo" calato sui volontari impegnati nel Mediterraneo, del resto anche per gli attivisti tedeschi fermati sulla Iuventa le accusa vanno ancora provate: "Non c’è stato nessun contatto con i trafficanti - ha insistito ieri il portavoce, Julian Phalke, al quotidiano Bild -. Il nostro unico obiettivo è tornare in mare". Il Ministro degli Interni, Marco Minniti, ieri sul Fatto ha confermato la linea dura: "La polizia a bordo è necessaria oppure bloccheremo le navi. Chi non ha firmato non potrà far parte del sistema di salvataggio che risponde all’Italia, fermo restando il rispetto della legge del mare e dei trattati internazionali". E ancora: "Auspico una piena assunzione di responsabilità da parte di tutti, compresa Msf: nessuno può far finta di non vedere quanto è emerso dalla procura di Trapani". Il Corsera, ieri, era tra i quotidiani che citavano Medici senza frontiere tra le Ong nel mirino degli inquirenti. La prova sarebbe l’interrogatorio del 27 febbraio di Cristian Ricci, titolare della Imi Security Service, la società che si occupava della sicurezza sulla Vos Hestia di Save the Children. Proprio due suoi dipendenti avrebbero dato avvio alle indagini con dichiarazioni spontanee alla procura. Ricci mette a verbale: "La nave Iuventa fungeva da piattaforma e quindi si limitava a soccorrere i migranti per poi trasbordarli. Era sempre necessario l’intervento di una nave più grande". Tra le imbarcazioni più grandi ci sarebbe anche la Prudence di Msf che avrebbe effettuato i trasbordi senza essere stata allertata dalla Guardia costiera. Sarebbero anche accusati di "sconfinamenti ripetuti" nelle acque libiche. Il fascicolo poggia sul lavoro di un ufficiale dello Sco sotto copertura sulla Vos Hestia e su i due dipendenti della Imi, imbarcati sulla stessa nave. Ieri Famiglia cristiana ha rivelato però i forti contatti tra la società di sicurezza e il gruppo di destra Generazione identitaria, imbarcato sulla C-Star per operazioni di contrasto alle Ong. Ieri la C-Star si è messa in scia alla Aquarius, gestita da Sos Méditerranée con l’aiuto di Mdf. "Il contatto della Imi di Cristian Ricci è con l’ex ufficiale della Marina militare Gian Marco Concas, uno dei portavoce di Generazione identitaria - scrive il settimanale -. Esperto di navigazione, Concas è stato definito come il direttore tecnico dell’operazione navale della rete europea anti-migranti, che in queste ora sta muovendo la C-Star nella zona Search and rescue davanti alle acque libiche". Il nome di Concas, spiega ancora Famiglia Cristiana, è inserito nel gruppo social ufficiale dell’Imi che, nell’ottobre dello scorso anno, "inviò prima all’Aise (Servizio segreto che si occupa di estero ndr) e poi alla squadra mobile di Trapani la segnalazione sui movimenti "sospetti" della nave dell’Ong tedesca, sequestrata dal gip di Trapani. L’elenco degli iscritti al gruppo è consultabile ed è composto da diversi contractor, molti dei quali con esperienze militari attive nel curriculum. In sostanza si tratta dello stesso contesto di provenienza della società di mercenari inglese che ha fornito a Generazione identitaria la nave C-Star". La Procura di Trapani mette nel mirino la Iuventa, scrive il gip: "In particolare, Montanino Lucio e Gallo Pietro, operatori a bordo della motonave Vos Hestia assunti temporaneamente dall’agenzia Imi Security Service, hanno dato origine al presente procedimento penale". Sottolinea il settimanale: "Quello che sorprende è la convergenza tra quella prima denuncia e il piano di azione di Generazione identitaria. Su Facebook il gruppo il 3 agosto scrive: "Il lavoro di intelligence di Gian Marco Concas, capitano di Defend Europe, comincia a dare i suoi frutti. La C-Star deve ancora arrivare alla meta, ma abbiamo già colto la Open Arms e la Golfo Azzurro con le mani nel sacco mentre operano nelle acque territoriali libiche"". Il post è correlato dal tracciato delle navi ma, secondo Famiglia cristiana, "il trasponder della nave Open Arms era stato manipolato, hanno confermato i tecnici, da ignoti hacker. Gli stessi esperti hanno spiegato come attraverso software sia fattibile un attacco più sofisticato, in grado di sabotare i sistemi di navigazione a distanza". Migranti. Msf: "Se ci negano i porti dovremo interrompere l’aiuto al Viminale" di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 6 agosto 2017 Intervista a Tommaso Fabbri di Msf. Fabbri (Msf): A noi interessa salvare vite umane, tutto il resto, inchieste e speculazioni politiche, viene dopo. Se si vuole solo militarizzare il mare per sigillare i flussi, non ci stiamo. Dove genericamente si dice "porti", Tommaso Fabbri parla di place of safety, che per quanto più poetico è il termine tecnico usato nel diritto internazionale per indicare un luogo - sia una casa di amici, un ospedale o l’anticamera di una ambasciata o altro - dove concluse le operazioni di salvataggio il profugo possa considerarsi protetto, al sicuro. Dove dal 2006 le convenzioni marittime indicano che il naufrago deve essere condotto "al più presto".Tommaso Fabbri lo chiama in sigla - Pos - che però è meno poetico. È il portavoce dei progetti sul Mediterraneo centrale e supervisiona le missioni search and rescue (Sar), ricerca e soccorso, a bordo delle due navi di Msf - la Vos Pridence e la Aquarius - e quindi quella sigla Pos, la usa normalmente. Lo sa che Minniti ora minaccia, se non firmate il codice di condotta, di negarvi l’accesso al place of safety? Davvero? Negli ultimi contatti con il Viminale questa implicazione, che era contenuta nella prima versione del codice, era stata esclusa, rimossa completamente. Se così fosse sarebbe grave perché ritardare uno sbarco ha conseguenze enormi per quanto riguarda la vulnerabilità dei soggetti salvati. è vero che in caso di persone a rischio morte c’è sempre la procedura medevac - medical evacuation ndr - ma comunque spesso i naufraghi hanno comunque bisogno di soccorsi medici che non riusciamo a fornire a bordo, anche se le nostre sono le navi più grandi ed equipaggiate per i soccorsi in zona Sar. E poi con a bordo anche mille persone non è semplice garantire cibo e acqua per più di due o tre giorni. Impiegare più tempo sguarnirebbe inoltre l’assetto di soccorso - la nave ndr - dalla zona Sar con rischi evidenti di perdita di vite umane. E se venisse confermato? Dovremmo tornare a confrontarci con il ministero sulla nostra collaborazione. Per firmare il codice? Minniti dice che c’è ancora tempo. Non parlo del codice ma di tutti i tipo di collaborazione che abbiamo con il ministero, ad esempio nel sistema dell’accoglienza e altri progetti. Siamo sempre disponibili a coordinarci con le autorità per tutte le attività di supporto anche se non sempre siamo d’accordo, c’è sempre un rapporto costruttivo purché sia nell’interesse dei beneficiati. E allora perché non firmare il codice di condotta? Per la verità un anno fa siamo stati noi di Msf a fare la proposta di un memorandum of understanding alla Guardia costiera italiana sulle operazioni di soccorso a mare perché la situazione in acque internazionali (noi non andiamo mai oltre) davanti a un paese come la Libia, con tutta la complessità geopolitica che non sto a dire, può sempre comportare delle incognite. Per noi esistono due priorità: la prima è salvare viete umane, tutto il resto viene dopo. E la seconda è che i diritti umani vanno rispettati. E per questo non abbiamo firmato. Le due questioni pratiche su cui non avete trovato accordo non erano il divieto di trasbordi da una nave e l’altra e la presenza di poliziotti armati a bordo? Non abbiamo firmato perché si prevedeva un obbligo degli assetti Sar di rientrare senza fare trasbordi e questo va contro una ottimizzazione degli assetti. Si può spiegare in modo più semplice? Se ho due barche grandi, che contengono fino a mille naufraghi e sono entrambe mezze piene, ne libero una, trasbordando i passeggeri sull’altra e così quella vuota può correre a sorrerne altri. Se metti in discussione questa procedura sguarnisci pericolosamente la zona dei soccorsi e quindi metti in conto di non salvare vite umane mentre avresti potuto farlo. Noi lo facciamo sempre. E i poliziotti a bordo perché no? La nostra trasparenza è completa ma con le armi a bordo oltre a un problema di sicurezza ci sarebbe un grosso problema sulla nostra neutralità. E non solo lì. Operiamo su fronti di guerra molto più caldi, dallo Yemen all’Afghanistan e curiamo tutti. Sarebbe gravido di conseguenze fare una eccezione per l’Italia alla nostra pratica di non accettare l’ingresso di armi. L’Europa appoggia il codice di Minniti. L’Europa si assumesse le sue responsabilità nel Mediterraneo. Creasse vie legali e sicure per i rifugiati. Spendono soldi solo per militarizzare e esternalizzare le frontiere. A soccorere i poveracci restiamo sempre solo noi e il personale della Guardia costiera italiana. Loro sono meravigliosi. E la Guardia costiera libica, che idea se ne è fatta? Ciò che c’è stato chiaro fin dall’inizio è quanto sia poco chiara la linea di confine tra guardiacoste, milizie armate, smugglers (trafficanti ndr). Oltre alle influenze politici mutevoli in Libia ci sono i legami clanici, tribali, per cui si mischia tutto. Per questo noi seguiamo solo le indicazioni della Guardia costiera italiana. Libia. Si spara, ma non si dice di Michele Ainis L’Espresso, 6 agosto 2017 Rieccoci. La volta scorsa con gli aerei, stavolta con le navi. Ma non è guerra, no; chiamiamolo piuttosto turismo militare. Un genere di viaggi che l’Italia organizza ormai da molto tempo, inviando le sue truppe pacifiche e paciose in giro per il mondo. Dove? In Libano e in Somalia negli anni Ottanta, in Iraq nel 1991 e nel 2003, di nuovo in Libano dal 2006, in Kosovo nel 1999, in Afghanistan dal 2001, o per l’appunto in Libia nel 2011, sulle tracce di Gheddafi. In quel caso cominciammo offrendo le basi militari agli alleati, poi spedendo in Libia gli istruttori, poi facendo decollare i Tornado, ma sempre in missione umanitaria, sempre con un’intenzione amichevole, gentile. Risultato: 1900 raid e 456 bombardamenti in 7 mesi. Come scoprimmo l’anno dopo, quando il generale Giuseppe Bernardis - capo di stato maggiore dell’Aeronautica militare - rivelò agli italiani le verità occultate dal governo Berlusconi. Perché la regola è una sola, perennemente osservata dai governi di destra e di sinistra: fai la guerra, però censura la notizia della guerra. E guai a pronunziare la parola, non sia mai, qualcuno potrebbe trarne scandalo. Da qui un dilemma etico, prima che giuridico: è legittima l’ipocrisia di Stato? C’è un valore, un interesse superiore che giustifica le menzogne dei politici?"Non si raccontano mai tante bugie come prima delle elezioni, durante una guerra e dopo la caccia", diceva Bismarck. Sarà per questo che siamo diventati diffidenti. Ci succede pure in quest’ultima occasione, benché all’apparenza si tratti d’un intervento di routine. Anzi: non è che la prosecuzione dell’operazione Mare sicuro (già finanziata per 83 milioni di euro), hanno dichiarato i nostri governanti. Con un ruolo di "sostegno tecnico-logistico" alle motovedette della marina libica, niente di più. E se ci attaccano? Risponderemo al fuoco, of course. E magari ci spingeremo in terraferma. Non sarà guerra, ma è arduo definirla pace. Anche perché c’è un’altra guerra che stiamo combattendo da decenni, e senza risparmio di pallottole: la guerra al divieto della guerra. Il suo bersaglio è una norma costituzionale, l’articolo 11. Dice: "L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali". Che significa? Chiaro: che è ammessa la sola guerra difensiva, e che quest’ultima a sua volta si giustifica unicamente per resistere a un’aggressione esterna, consumata sul territorio dello Stato. Dunque niente truppe al di fuori dei nostri confini, niente operazioni militari all’estero. Come d’altronde c’era scritto nei primi commentari alla Costituzione, secondo la lettura unanime dei costituzionalisti. Sennonché quell’interpretazione fu messa in crisi già nel 1949, con l’adesione dell’Italia al patto Nato. Ne scaturì difatti l’obbligo d’assistenza militare fra gli Stati contraenti, sul presupposto che ogni attacco armato contro uno di essi "sarà considerato quale attacco diretto contro tutte le parti" (così l’articolo 5 del Trattato). Da allora in poi il tabù costituzionale della guerra ha finito per rovesciarsi nel suo opposto, attraverso il trucco semantico dell’"operazione di polizia internazionale" o con l’ossimoro della "guerra umanitaria". Conclusioni: qui e oggi, abbiamo 6400 militari italiani all’estero, con 31 missioni dislocate in 21 Paesi. Magari sarà giusto così, per onorare i nostri impegni con i governi alleati, per salvaguardare il ruolo dell’Italia nel mondo. Però è ingiusto - di più: è incostituzionale - trattare l’articolo 11 come un fantasma normativo, come una regola sospesa. E non può certo bastare a lavarci la coscienza la legge quadro sulle missioni militari all’estero, confezionata l’anno scorso (n. 145 del 2016). Nessuna legge, infatti, ha il potere di correggere la Costituzione. Come ben sanno i tedeschi: anche la loro Carta costituzionale (articolo 26) vieta ogni guerra offensiva, tuttavia lì la prendono sul serio. Noi, invece, obbediamo da sempre a un principio super-giuridico, super-costituzionale. Quale? La vecchia massima cattolica: si fa, ma non si dice. Russia. Botte in carcere: è in fin di vita un giornalista di opposizione di Yurii Colombo Il Manifesto, 6 agosto 2017 Il giornalista uzbeko, che ora si trova in centro di detenzione per cittadini stranieri in attesa di deportazione: "accusa anche di essere stato stordito più volte dalle guardie con scariche di elettroshock" afferma il direttore di Novaya Gazeta che chiede l’urgente spostamento in ospedale del detenuto. Intanto lunedì il suo difensore sporgerà formale denuncia per i maltrattamenti di cui il corrispondente sarebbe stato fatto oggetto. Hudoberdi Nurmatov, noto con lo pseudonimo di Ali Feruz corrispondente del giornale moscovita di opposizione Novaja Gazeta e già affetto da anni da gravi patologie cardiache, rischia di morire per le percosse subite nei giorni scorsi dalle guardie penitenziarie. Questa è la grave denuncia fatta ieri da Dmitry Muratov direttore di Novaya Gazeta. Nurmatov è stato arrestato a Mosca lo scorso 1° agosto da agenti dei servizi di sicurezza. L’accusa nei suoi confronti, essendo di nazionalità uzbeka, è di immigrazione illegale; sulla sua testa pende il rischio di deportazione in Uzbekistan. A Nurmatov, che vive già da qualche anno Mosca, lo scorso 4 maggio il governo russo aveva negato lo status di esiliato politico. Dmitry Muratov segnala che "si è proceduti all’arresto su richiesta di parte uzbeka". Il giornalista aveva lasciato il paese qualche anno fa "dopo che i servizi di sicurezza locali avevano cercato di reclutarlo come agente" ha aggiunto Muratov. Il rischio ora è che Nurmatov una volta rientrato nel suo paese natale, vada incontro a ulteriori persecuzioni. Lo scorso aprile Amnesty International ha pubblicato un report in cui accusa il regime uzbeko di "aver dato vita a un clima di sospetto in cui la sorveglianza o la percezione di essere sorvegliati sono un aspetto costante della vita dei difensori dei diritti umani, dei giornalisti e degli attivisti politici". Secondo Amnesty "l’effetto della sorveglianza si avverte anche all’estero. La paura provoca separazione tra le famiglie: i rifugiati hanno il terrore di contattare i loro parenti in patria a causa del terribile pericolo in cui potrebbero metterli". Fortunatamente il 4 agosto la deportazione del giornalista è stata bloccata da un intervento urgente della Corte di Strasburgo per i diritti umani, secondo la quale Nurmatov ha tutti i requisiti per essere considerato un rifugiato politico. Ora i giudici russi dovranno decidere entro 30 giorni sul suo caso. Sulla vicenda è anche intervenuto il portavoce di Putin, Dmitry Peskov, il quale ha affermato che il Cremlino "è a conoscenza e segue da vicino questo caso complicato di immigrazione illegale". Tuttavia a partire da ieri le condizioni di salute del giornalista, sono gravemente peggiorate. "A causa dei pestaggi subiti dalle guardie - denuncia il direttore Muratov - da 3 giorni non è in grado di cibarsi, ha forti dolori cardiaci e soffre di pressione arteriosa altissima". Il giornalista uzbeko, che ora si trova in centro di detenzione per cittadini stranieri in attesa di deportazione: "accusa anche di essere stato stordito più volte dalle guardie con scariche di elettroshock" afferma il direttore di Novaya Gazeta che chiede l’urgente spostamento in ospedale del detenuto. Intanto lunedì il suo difensore sporgerà formale denuncia per i maltrattamenti di cui il corrispondente sarebbe stato fatto oggetto. Carestia, jihadismo e guerra permanente: i flagelli della Somalia di Stefano Mauro Il Manifesto, 6 agosto 2017 Africa. Privo di una reale autorità centrale e balcanizzato, Mogadiscio vive un’ennesima crisi umanitaria. Il presidente Farmajo chiede l’intervento internazionale. Senza successo. Almeno sei persone sono rimaste uccise e dieci ferite domenica 30 luglio a Mogadiscio, capitale della Somalia, quando un’autobomba è esplosa in una strada trafficata. Altri 23 militari dell’Unione Africana (missione Amisom) - oltre 39, secondo il gruppo jihadista Al Shabaab che ha rivendicato le stragi - sono morti in un attentato dinamitardo, sempre nella stessa giornata, nel sud del paese. La Somalia un paese privo di una reale autorità centrale dopo la caduta del presidente Siad Barre nel 1991, sta vivendo un’ennesima crisi umanitaria. Balcanizzata in diversi territori (Puntland, Somaliland), devastata dalla carestia e costantemente flagellata dai gruppi armati jihadisti. Da diversi mesi le Nazioni Unite continuano a richiamare l’attenzione mondiale sulla "catastrofica carestia" che sta colpendo la Somalia, lo Yemen, la Nigeria e il Sud Sudan. Cosa accomuna questi paesi? Sono tutti paesi tormentati da guerre. Se da una parte, infatti, la mancanza di acqua è il principale fattore di una crisi alimentare disastrosa - peggiore di quella del 2011 che causò 260mila vittime - risulta altrettanto decisivo lo stato di guerra permanente che flagella il paese da oltre vent’anni. Il gruppo terroristico jihadista Al Shabaab (legato ad Al Qaeda) è una delle principali cause. I miliziani somali colpiscono obiettivi governativi e della missione dell’Unione Africana (Ua) con una frequenza impressionante e costringono le popolazioni sotto il loro controllo (principalmente nel sud del paese) a rimanere nei loro villaggi, utilizzandole come scudi umani contro i bombardamenti americani. In un recente reportage Jason Burke, corrispondente del The Guardian, afferma che "gli islamisti hanno imposto il divieto alle organizzazioni non governative per l’assistenza umanitaria nelle aree che controllano, obbligando centinaia di migliaia di persone a morire di fame". Il mese scorso uno studio di Save the Children ha evidenziato come "il tasso di mortalità infantile stia rapidamente crescendo in maniera esponenziale per fame, malattie e colera". Se la crisi umanitaria appare sempre più compromessa, la situazione della sicurezza interna non è sicuramente migliore con numerosi attentati in tutto il paese e con la ripresa anche di episodi di pirateria. La stessa divisione tra le file dei miliziani con una frangia separatista - guidata dal somalo Abdulkadir Mumin, che ha giurato fedeltà allo Stato Islamico nel 2015 - ha inasprito ancora più le lotte intestine tra miliziani jihadisti e gli attacchi contro il governo di Mogadiscio e contro i 22mila uomini della Ua. L’agguato di domenica arriva proprio il giorno successivo alla conferenza tra il governo somalo e le forze della Ua per il progressivo abbandono del contingente di pace, previsto nel 2018, dopo dieci anni di permanenza. Con l’elezione, lo scorso febbraio, di Mohamed Abdullahi Mohamed, soprannominato Farmajo, a presidente, la Somalia sperava di poter avviare una progressiva stabilizzazione. La dura offensiva contro il gruppo jihadista lanciata da Mogadiscio, con il supporto militare Usa, non ha portato i risultati sperati. L’intensificarsi di scontri e bombardamenti, infatti, ha spinto i miliziani di Al Shabaab a sconfinamenti ed attacchi verso il Kenya: causando una progressiva destabilizzazione di tutta l’area settentrionale ormai al di fuori del controllo di Nairobi. Il presidente somalo ha richiesto più volte un intervento della comunità internazionale per frenare una crisi umanitaria che colpisce oltre tre milioni di somali. La capacità o la volontà di risposta dei paesi occidentali ad un disastro umanitario annunciato sembra, però, del tutto inadeguata.