Osservatorio Senato: 113 detenuti ogni 100 posti e ancora bambini in cella Ansa, 5 agosto 2017 Con quasi 57mila detenuti al 30 giugno 2017, il tasso di affollamento delle carceri italiane è cresciuto arrivando a 113 detenuti ogni 100 posti letto, 5 punti in più del 2016. Otto Regioni sono ad una percentuale di sovraffollamento che va oltre il 120%. La Puglia arriva al 148, molto vicino all’indice che nel 2013 ha visto la condanna dell’Italia, da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu), per "trattamenti disumani o degradanti" inflitti ai detenuti. A denunciarlo è l’Ufficio valutazione impatto(Uvi) del Senato che valuta l’effetto delle politiche pubbliche. Nel suo dossier sulle carceri, l’Uvi rileva che i primi sei mesi del 2017 hanno confermato la tendenza segnalata dal Garante nazionale dei detenuti, che nella sua Relazione al Parlamento a marzo parlava di criticità "inaccettabili". Secondo l’Uvi, l’Italia non è inoltre ancora in grado di garantire il rispetto degli standard di vivibilità indicati dal Consiglio d’Europa (almeno tre metri quadri a testa, acqua calda, ventilazione e illuminazione delle celle) perché non si incorra nella tortura. Bambini sempre in cella - La detenzione extra carceraria per le detenute madri, prevista dal 2011 con la creazione di istituti a custodia attenuata (Icam), non ha dato il risultato sperato. Lo rileva l’Ufficio valutazione impatto (Uvi) del Senato che valuta l’effetto delle politiche pubbliche. Nel suo dossier sulle carceri si sottolinea come un numero altamente variabile di recluse con figli al seguito: 53 donne con 55 bambini nel 2008, un picco di 70 e 73 nel 2009, 34 e 37 nel 2016, solo 3 o 4 donne hanno potuto beneficiarne dal 2014 a oggi. La maggior parte delle detenute madri è dunque rimasta dietro le sbarre con i bambini a condividere le condizioni di detenzione delle donne "che sono di gran lunga peggiori di quelle maschili. In carcere, infatti - dice l’Uvi - esiste una vera e propria questione di genere". Orlando: reclutamento straordinario 305 posti da agente di Polizia penitenziaria Ansa, 5 agosto 2017 "Grazie all’impegno del governo col decreto della collega ministro Madia è stato previsto il reclutamento straordinario di 305 agenti di Polizia Penitenziaria". Così in una nota il ministro della Giustizia Andrea Orlando. Secondo il guardasigilli si tratta di "Un importante intervento a sostegno di un Corpo che svolge una funzione fondamentale per la sicurezza dei cittadini e il trattamento delle persone detenute". "Il piano di reclutamento di agenti per il Corpo di Polizia Penitenziaria - aggiunge Orlando - prosegue quindi con questo ulteriore e significativo provvedimento, che si aggiunge alle 887 assunzioni di poliziotti penitenziari già in corso per i vari ruoli e si aggiungono al piano di assunzioni ordinarie previsto per il 2017". Prosegue la Carovana per la Giustizia dei Radicali, raccolta firme davanti le carceri blogsicilia.it, 5 agosto 2017 Ieri al carcere di Agrigento e alla Casa di reclusione di San Cataldo, nuovi iscritti al Partito Radicale e firme per la proposta di legge per la separazione delle carriere tra PM e Giudice. Oggi a Racalmuto alla fondazione Leonardo Sciascia. “Mi sono iscritto al Partito 8 anni fa in occasione di una visita al carcere di Enna con Rita Bernardini” dichiara Paolo Garofalo, iscritto al Partito Radicale, già sindaco di Enna all’uscita dal carcere di San Cataldo dove sono state raccolte 43 firme. E Continua “iniziai la mia attività politica proprio sul referendum per la giustizia giusta e dopo 25 anni siamo qui a combattere ancora le stesse battaglie". Marianna Guttilla, capogruppo del Pd a San Cataldo, neo iscritta al Partito Radicale afferma: “ho scelto di fare oggi l’autenticatrice perché ho trovato nobile la causa portata avanti dal Partito Radicale con l’Unione delle Camere Penali. Oggi con grande onore e piacere mi sono trovata ad autenticare queste firme e in questa operazione ho scoperto il grande senso dell’informazione dei detenuti. Paradossalmente fuori dalle carceri l’informazione è assente. Per questo mi sono iscritta al partito radicale, per essere promotrice delle vostre iniziative”. Alla guida delle delegazione c’era Rita Bernardini, della presidenza del Partito Radicale: “quella di San Cataldo è una struttura carceraria fatiscente e senza risorse finalizzate al trattamento rieducativo, manca il lavoro. Ci sono condannati definitivi quasi tutti molto giovani che devono scontare pochi anni di pena. Non c’è lavoro per i detenuti, sembra di essere in una fabbrica dismessa. Da quando siamo venuti a visitare San Cataldo con il compagno radicale Gianmarco Ciccarelli nel 2012 la situazione non è cambiata, ci troviamo nella stessa condizione di totale illegalità. Non so quanto ci sia la reale percezione di questo da parte dello Stato: dirigere una struttura illegale mette in una posizione di sofferenza perché “siamo uomini dello Stata e dover violare le norme dello Stato” diceva Enrico Sbriglia ‘provoca sofferenza’”. Mentre al carcere di Agrigento, dove sono state raccolte 75 firme, accompagnava la delegazione radicale Giovanni Salvaggio, vicepresidente della Camera Penale di Agrigento. “stiamo cercando di mettere un punto fermo sulla separazione delle carriere perché se ne parla sempre ma in realtà questo problema non si riesce a risolverlo. Noi riteniamo che abbia una grande incidenza ai fini dello sviluppo del processo e per avere un processo equo, secondo i canoni anche della Corte Europea, è giusto che le carriere vengano separata anche in Italia”. Gli appuntamenti di oggi per la Carovana X la Giustizia sono: Ore 10.00: raccolta firme al carcere di Agrigento Ore 10.00: raccolta firme al carcere di Caltanisetta Ore 12.00: Palma di Montechiaro dove una delegazione del partito radicale e di nessuno tocchi Caino incontra il sindaco Ore 15.00: Racalmuto per un incontro presso la fondazione Leonardo Sciascia, a seguire deposizione di un mazzo di fuori sulla roma dello scrittore. Ore 17.00: evento a Favara, Piazza Cavour organizzato dal Prof. Giuseppe Arnone "Sedici giorni in carcere da innocente: chi ha sbagliato paghi" di Simone Dinelli Corriere Fiorentino, 5 agosto 2017 All’ex assessore di Lucca Marco Chiari non basta il risarcimento da 10 mila euro. E fa causa ai magistrati. "La Corte di Appello di Firenze mi ha riconosciuto quasi 10 mila euro di risarcimento per ingiusta detenzione, ma è solo l’inizio: sto valutando azioni per far rispondere personalmente i magistrati delle ingiustizie e delle sofferenze subite". Così parla Marco Chiari, ex assessore di centrodestra ai lavori pubblici del Comune di Lucca, arrestato il 14 giugno 2011 con l’accusa di corruzione poi scarcerato dal tribunale del Riesame dopo 16 giorni di carcere e, infine, prosciolto nel febbraio 2015 "perché il fatto non sussiste", senza neppure andare a processo. A Chiari, assistito dall’avvocato Sandro Guerra, i giudici Mario Cannizzaro, Alberto Panu e Antonietta Di Taranto hanno riconosciuto un indennizzo pari a 9 mila 760 euro, non precludendo però di fatto all’ex assessore - da qualche mese tornato alla politica attiva nelle vesti di segretario comunale di Fratelli d’Italia - altre azioni risarcitorie nei confronti di terzi. "I conti correnti bloccati per oltre 4 anni - racconta Chiari - il 90 per cento dei clienti dello studio svaniti (l’ex assessore è titolare di uno studio di geometri, ndr), gli amici che mi hanno voltato le spalle e le umiliazioni subite: chi mi ripaga per tutto questo? I 16 giorni di carcere sono incancellabili ma anche quanto accaduto dopo: senza l’appoggio della famiglia e del mio avvocato non ce l’avrei mai fatta. Ottenere giustizia è la mia vera ragione di vita: ecco perché porterò avanti richieste di risarcimento danni nei confronti del pm titolare di quella inchiesta Fabio Origlio, dell’allora procuratore capo Aldo Cicala e del gip Simone Silvestri, che decretò il mio arresto. Chi ha sbagliato deve pagare". Nello specifico, la somma liquidata dalla Corte di Appello tiene conto dei "soli" 16 giorni di carcere, riconoscendo a Chiari 3 mila 760 euro per la ingiusta detenzione, 2 mila 500 euro di danno psicologico e 3 mila 500 di mancato guadagno professionale. La vicenda giudiziaria in questione, denominata "Volpe nel deserto", scatenò poco più di 6 anni fa un autentico terremoto politico a Lucca: Chiari e il dirigente comunale all’urbanistica Maurizio Tani (anche lui poi uscito pulito da ogni addebito) furono arrestati con l’accusa di aver intascato denaro per favorire l’imprenditore Giovanni Valentini, all’epoca proprietario della squadra di calcio della Lucchese. In particolare, secondo l’accusa sostenuta dal pm Fabio Origlio, Chiari avrebbe agito per agevolare il progetto (poi mai realizzato) del nuovo stadio, voluto da Valentini. Altre 5 persone furono coinvolte nell’inchiesta, fra cui l’allora sindaco di Forza Italia Mauro Favilla, a sua volta indagato e poi prosciolto assieme a Chiari quasi 4 anni dopo. Palazzo Chigi impugna sentenza di femminicidio, insorge Giulio Petrilli abruzzoweb.it, 5 agosto 2017 "Il fatto che Palazzo Chigi impugni la sentenza sul risarcimento a favore dei figli di una donna vittima di femminicidio, che aveva per ben dodici volte denunciato le violenze subite, sancisce che i magistrati non pagheranno mai per i propri errori". A parlare è l’aquilano Giulio Petrilli, riconosciuto innocente dalla Cassazione, dopo aver trascorso sei anni in carcere con l’accusa di partecipazione a banda armata, componente del comitato per il diritto al risarcimento per ingiusta detenzione a tutti gli assolti. Petrilli interviene sulla decisione di Palazzo Chigi di appellare la sentenza di risarcimento che coinvolge anche la magistratura, per gli orfani di Marianna Manduca, vittima di femminicidio. La donna fu uccisa dal marito Saverio Nolfo nel 2007, che aveva più volte denunciato per maltrattamenti alla procura della Repubblica di Caltagirone, senza ottenere nessuna tutela. I magistrati, sono stati ritenuti responsabili di negligenza dal tribunale civile di Messina e la presidenza del Consiglio è stata condannata a risarcire il danno subito dai figli della donna. Palazzo Chigi, però, ha appellato la sentenza. "Questa è una vergogna vera e propria - tuona Petrilli - hanno fatto una legge farsa sulla responsabilità dei magistrati per dolo e colpa grave e per errori giudiziari. Non ha mai pagato nessun magistrato. Stabiliscono loro se hanno commesso o meno un errore e neanche di fronte a questo caso clamoroso, ammettono di aver sbagliato e pagare come fanno tutti i normali cittadini". "Il governo - aggiunge - si oppone a un risarcimento legittimo che i magistrati dovrebbero pagare. Hanno sempre la totale impunità come le caste politiche ed economiche. Il carcere per i colletti bianchi e per i politici non esiste, esiste solo per i poveri cristi. Se poi questi ultimi sono vittime di errori giudiziari, neanche vengono risarciti! Così funziona il sistema giudiziario in Italia". "Si tratta di una decisione grave ed inattesa - commentano all’indomani della decisione Alfredo Galasso e Licia D’Amico legali dei figli della Manduca - che tende a porre nel nulla un provvedimento giudiziario, che per la prima volta riconosce e punisce la responsabilità non della magistratura nel suo complesso, ma di singoli magistrati, colpevoli di una inerzia giudicata dai loro stessi colleghi ingiustificabile". Frosinone: l’ombra di un serial killer dietro la morte di quattro detenuti di Clemente Pistilli La Repubblica, 5 agosto 2017 Sul carcere di Frosinone è calata l’ombra del serial killer. Dietro la morte per impiccagione di ben quattro detenuti, casi considerati inizialmente dei suicidi, potrebbe nascondersi la mano di un solo assassino, un 41enne condannato in via definitiva per l’omicidio di un’anziana. Gli inquirenti stanno indagando e per due decessi sospetti dietro le sbarre Daniele Cestra, originario di Sabaudia, in provincia di Latina, è già formalmente indagato con l’accusa di omicidio volontario. Il 41enne fu arrestato quattro anni fa. Nel dicembre 2013, a Borgo Montenero, frazione di San Felice Circeo, Anna Vastola, 81 anni, venne uccisa nella sua abitazione. L’anziana sentì dei rumori e si trovò davanti Cestra, un uomo che fino a quel momento era vissuto di espedienti, che stava rubando. Il ladro la colpì a morte con una pala, dandosi poi alla fuga con un bottino misero. E per quell’omicidio il 41enne è stato condannato in via definitiva a 18 anni. Poi un’altra condanna, in primo grado, a tre anni per un precedente tentativo di rapina a Sabaudia, ai danni di una donna di 82 anni. Sembrava un assassino per caso. Un malvivente di piccolo calibro a cui era sfuggita di mano la situazione. Messo in carcere a Frosinone, secondo gli inquirenti, Cestra sarebbe invece diventato un serial killer. Prima è stato indagato per la morte di un anziano compagno di cella, trovato impiccato ad agosto dell’anno scorso, e poi per la morte di un secondo compagno di cella, sempre per impiccagione. Il sostituto procuratore Vittorio Misiti ha così ordinato l’esumazione della salma di quest’ultimo, sepolto a Bari, affidando l’incarico al medico legale Daniela Lucidi. Ma i sospetti sono appunto quelli che Cestra, trasferito intanto prima nel carcere di Velletri e poi in quello di Terni, abbia ucciso anche altri due detenuti. Tutti morti con le stesse modalità. Tutti strangolati simulando poi l’impiccagione. I difensori del 41enne intanto, gli avvocati Angelo Palmieri e Sinuhe Luccone, sembrano puntare su una perizia psichiatrica. Nel far dichiarare eventualmente tutto opera di un folle. Frosinone: quattro detenuti trovati impiccati, sono stati uccisi? di Fabio Belli ilsussidiario.net, 5 agosto 2017 Sospettato Daniele Cestra, condannato a 18 anni, che avrebbe ucciso in circostanze analoghe dei compagni di cella. L’ombra di un serial killer sul carcere di Frosinone. Nell’istituto penitenziario del capoluogo ciociaro sono stati trovati morti di recente quattro detenuti, tutti per impiccagione e tutti dunque derubricati come possibili suicidi. Così però sembra non essere perché i sospetti per queste morti si stanno concentrando tutti su un solo uomo, un 41enne che si trova nello stesso carcere per l’omicidio di un’anziana donna, Anna Vastola, che a 81 anni fu uccisa da Daniele Cestra, originario di Sabaudia e che era stato sorpreso a rubare dalla signora Vastola. La reazione di Cestra è stata terribile, con la donna uccisa e la condanna, per omicidio volontario, che si è abbattuta su di lui con 18 anni da trascorrere nel carcere di Frosinone. Dove però la furia omicida sarebbe scattata in lui in maniera ancor più sistematica, tanto da portarlo ad essere formalmente incriminato per l’uccisione di altri quattro detenuti, anche se sulla dinamica c’è ancora il mistero. I delitti andrebbero avanti da circa un anno, da quando nell’agosto scorso fu trovato impiccato il compagno di cella di Cestra, un anziano detenuto. La coincidenza ha iniziato a diventare inquietante quando anche il nuovo compagno di Cestra nella cella del carcere di Frosinone è stato trovato impiccato nelle stesse modalità del precedente presunto suicidio. Modalità che hanno portato il sostituto procuratore Vittorio Misiti a ricollegare quelle che erano state morti simili riguardanti anche altri due detenuti. Nel frattempo Cestra non si trova più presso la casa circondariale di Frosinone, ma è stato trasferito prima a Velletri e poi a Terni. Secondo gli inquirenti, il modus operandi del serial killer sarebbe stato chiaro. Avrebbe strangolato infatti tutte le sue vittime, per poi simularne l’impiccagione, un tipo di morte purtroppo molto diffusa in carcere ma che spesso maschera situazioni ben più scabrose ed inquietanti. Il caso di Daniele Cestra sembra essere proprio una di queste. Inizialmente sembrava insospettabile, un ladro trovatosi ad uccidere più per il precipitare degli eventi che per un passato omicida. Nel carcere di Frosinone però qualcosa deve essere cambiato nella mente di Cestra che si sarebbe trasformato in un vero e proprio serial killer dei detenuti, metodico nei suoi metodi di assassinio e capace di scegliere al meglio le sue vittime, simulandone il suicidio in maniera credibile. a tenacia del sostituto procuratore Vittorio Misiti, assieme al medico legale Daniela Lucidi, hanno portato all’inquietante scoperta, confermata anche dalla riesumazione della salma di un altro detenuto morto apparentemente per suicidio per impiccagione, che era stato sepolto a Bari. Ora Cestra si sottoporrà alla perizia psichiatrica, con i suoi avvocati difensori, Angelo Palmieri e Sinuhe Luccone, che puntano a far ottenere al loro assistito l’incapacità di intendere e di volere. Ma l’impressione è che con Cestra ci si trovi di fronte a un vero serial killer, nella metodologia e nella determinazione. Trento: "percosse deprecabili" ai detenuti. Ma il Gip archivia: "sono fatti sporadici" di Dafne Roat Corriere del Trentino, 5 agosto 2017 Il Gip archivia: "Episodi sporadici, nessuna responsabilità". Soricelli? Non c’è colpa. Il gip Francesco Forlenza ha deciso di archiviare il caso sui presunti maltrattamenti subìti da alcuni detenuti nel carcere di Trento. Forlenza ha parlato di "fatti occasionali, seppure deprecabili", che potrebbero eventualmente configurare altri reati, ma non i maltrattamenti. Archiviazione anche per la vicenda del suicido di Luca Soricelli, morto nel dicembre 2016 sempre a Trento. Sergio era stato preso a calci durante un trasporto con il cellulare nel 2014, non aveva sporto denuncia, ma si era confidato con un medico; poi giudicato con gravi problemi psichiatrici e di adattamento alla vita carceraria era stato sottoposto a un regime di stretta sorveglianza. Alì e Mohamed (i nomi sono tutti di fantasia per motivi di tutela della privacy ndr) nel 2015 si erano barricati in cella, avevano tentato di tagliarsi le vene con la lametta, una quindicina di agenti in divisa anti-sommossa li avevano fermati, uno di loro era stato percosso, due agenti erano stati feriti. Poi c’è Asad che aveva raccontato di essere stato percosso nel 2015. Fatto vero, ma, secondo quanto documentato, l’uomo aveva minacciato un agente e altri detenuti. Mohamed e Tarek nel 2016 avrebbero ricevuto alcuni schiaffi. Erano stati loro a raccontarlo, ma nessuna denuncia. "Per paura di ritorsioni" avrebbero detto. Vite dietro alle sbarre. Esistenze ai limiti. La violenza in carcere è una triste compagnia di agenti e detenuti. I confini sono sempre molto fragili. Ma se le percosse ci sono state non si tratta di maltrattamenti. È lo stesso gip Francesco Forlenza a metterlo nero su bianco nell’ordinanza con la quale ha archiviato il delicato caso, denunciato dal garante dei detenuti, Mauro Palma, rappresentato dall’avvocato Nicola Canestrini, sui presunti maltrattamenti nel carcere di Trento. Il giudice, che ha accolto la richiesta del pm Davide Ognibene (il sostituto procuratore aveva ritenuto i racconti dei detenuti non credibili), parla di "episodi sporadici, quantunque ritenuti provati, fatti assolutamente deprecabili - precisa - da sanzionare disciplinarmente, ma non sembra possibile poterli inquadrare nel reato di maltrattamenti". Il giudice non mette in dubbio la possibile veridicità dei fatti raccontati, ma perché siano ritenuti reato devono esserci una serie "di condotte etero-aggressive, attuate in un arco temporale ampio... un costante atteggiamento dell’agente di maltrattare e denigrare". Tutto questo non sarebbe stato riscontrato, Forlenza parla infatti di "fatti occasionali" che potrebbero eventualmente configurare altri reati come ingiurie e percosse, ma non i maltrattamenti. "Il requisito oggettivo è l’abitualità e il cui dolo è quello di esercitare una persistente tirannia sul soggetto passivo". Caso chiuso, quindi. Ma il gip ha accolto la richiesta di archiviazione del pm anche in relazione alla triste fine del trentacinquenne roveretano, Luca Soricelli, suicida in carcere nella notte tra il 16 e il 17 dicembre scorso dopo l’arresto, avvenuto alcuni giorni prima, per l’incendio al distributore di benzina Agip di Rovereto. Secondo il giudice non ci sono profili di responsabilità da parte degli psichiatri che avevano visitato l’uomo, che da anni soffriva di gravi problemi psichici ed era in cura. Secondo la famiglia dell’uomo, rappresentata dall’avvocato Stefano Trinco, invece, Soricelli nelle sue condizioni di salute non avrebbe mai dovuto varcare la soglia del carcere. "La colpa - spiega il gip - presuppone la prevedibilità dell’evento. Il detenuto fu visitato non da uno, ma da tre medici psichiatri, nessuno dei quali rilevò il rischio suicidio. Incolpare tutti e tre di imperizia è palesemente incongruo, tenuto conto che il detenuto mai e poi mai aveva palesato propositi suicidari". E c’è di più: per quanto riguarda il presunto errore dell’infermiere del carcere che avrebbe somministrato la terapia ad un altro detenuto anziché a Soricelli, stigmatizzato dal fratello che, disperato, sta cercando una ragione dell’improvvisa morte di Luca, il giudice ritiene che l’infermiere sarebbe stato ingannato dallo stesso Soricelli. "Pare aver messo - scrive il giudice - un espediente per indurre in errore l’infermiere". Da qui la decisione di archiviare il fascicolo. Bologna: carcere senza ventilatori e condizionatori, emergenza anche per 4 bimbi Corriere della Sera, 5 agosto 2017 Caldo soffocante nelle celle: i detenuti si rinfrescano con secchi di acqua fredda e stracci bagnati. Secchi pieni di acqua fredda in cui immergere i piedi per un pò di refrigerio, stracci bagnati e finestre aperte. Sono gli escamotage dei detenuti del carcere bolognese della Dozza per superare questi giorni di caldo da record. Un caldo che rende insopportabile la loro già difficile condizione. Nelle celle non si possono installare ventilatori, non sono previsti, infatti non ci sono neppure le prese elettriche, per ragioni di sicurezza: i cavi sono ritenuti pericolosi. E i climatizzatori, più volte richiesti, non sono mai arrivati per ragioni evidentemente di risparmio: "Il caldo è soffocante, la situazione è molto critica sia per il personale sia per i detenuti, soprattutto di sera quando il caldo della giornata viene sprigionato dai muri in cemento armato - racconta Nicola d’Amore del sindacato Sinappe, sindacato nazionale autonomo polizia penitenziaria. Già l’anno scorso a più riprese abbiamo chiesto un climatizzatore da sistemare nelle diverse sezioni perché le condizioni sono al limite. E nelle celle non si possono posizionare i ventilatori. I detenuti trovano un pò di refrigerio solo immergendo i piedi nei secchi pieni di acqua fredda. Occorrono delle soluzioni, anche per il personale lavorare in queste condizioni è sempre più difficile". La Dozza al momento è sovraffollata, ci sono 200 detenuti in più. Oscillano tra i 750 e i 770 e il 60% di loro è straniero. Ogni giorno entrano in media cinque persone. Nell’ultimo anno da via del Gomito sono passate più di 2mila persone. L’attenzione resta alta, soprattutto in questi giorni di grande caldo, il personale sanitario è pronto alle emergenze ma finora non ci sono stati malori legati alle temperature altissime: "C’è caldo - spiega la direttrice della Dozza, Claudia Clementi - e si fa il possibile. Ma non tutti i luoghi possono essere refrigerati, comunque finora non abbiamo dovuto affrontare emergenze legate al caldo". E immersi nel caldo delle celle continuano ad esserci anche i quattro bambini molto piccoli che vivono con le mamme detenute. "Anche per loro - conclude la direttrice, l’attenzione è alta e la situazione è monitorata. È già stata avviata una richiesta per un ricollocamento". La Dozza al momento non è attrezzata con una sezione nido per i più piccoli come in altri istituti penitenziari. Firenze: la Regione dona 100 ventilatori al carcere, ma a Sollicciano non si possono usare di Gianni Carpini controradio.it, 5 agosto 2017 Intanto ieri un detenuto ha dato fuoco a un materasso nella cella dove si trova e ha causato l’intossicazione di quattro agenti di polizia penitenziaria per il fumo sprigionatosi. Per alleviare le alte temperature che in questi giorni di grande calura si stanno registrando all’interno del carcere fiorentino di Sollicciano, la Regione Toscana, attraverso l’assessorato al diritto alla salute, stava pensando di inviare cento ventilatori nel penitenziario fiorentino. L’amministrazione carceraria ha però fatto sapere che il buon proposito è "infattibile" perché le celle sono a bassa tensione e quindi l’impianto non reggerebbe il carico. È quanto si apprende da fonti della Regione Toscana dopo una sollecitazione arrivata anche nei giorni scorsi anche dai radicali e dal cappellano del carcere. Per questo la Regione starebbe allora pensando a predisporre per il futuro un piano per l’efficientamento energetico del penitenziario di Sollicciano , attraverso l’assessorato all’ambiente. Intanto oggi un detenuto ha dato fuoco a un materasso nella cella dove si trova e ha causato l’intossicazione di quattro agenti di polizia penitenziaria per il fumo sprigionatosi. I quattro sono stati portati al pronto soccorso per le cure necessarie. L’episodio è accaduto questa mattina intorno alle 11 e viene reso noto con un comunicato dal sindacato autonomo di polizia penitenziaria Osapp. "Il detenuto responsabile del fatto - afferma il segretario generale Osapp Leo Beneduci - è ristretto a Sollicciano per numerosi reati e si è già reso responsabile di altre aggressioni. Ciò che è accaduto oggi è la riprova dell’estrema pericolosità del servizio reso dai poliziotti penitenziari nelle attuali carceri italiane". Napoli: viaggio a Poggioreale, nel girone dei dimenticati tra afa e spazi ristretti di Giuliana Tambaro agora24.it, 5 agosto 2017 "C’è gente che arriva verso le quattro del mattino per assicurarsi il primo posto. E poi una fila lunghissima e noi ammassati sotto un sole cocente. E poi bimbi di pochi mesi tenuti in braccio dalle mamme per farli vedere al papà detenuto. Sa, molte informazioni su come preparare i pacchi e sugli orari, me le hanno fornite donne che da anni vengono in questo "girone dei dimenticati". Dopo la fila esterna, ci sono ulteriori controlli per poi ritrovarci tutti costipati in una sorta di sala d’attesa dove tra fumo di sigarette, formiche, zanzare, mosche, servizi igienici fatiscenti devi attendere altre ore per poter incontrare il parente in carcere. Poi arriva il momento di quello che loro chiamano colloquio e che io ho ribattezzato "ora della speranza", che hai aspettato con ansia e tormento per sette giorni, e cerchi di darti la carica per non manifestare il dolore latente che provi nel vederlo ogni settimana più dimagrito e più distante dalla realtà. Cerchi di raccontargli quanto stai ascoltando i suoi consigli, provi a dirgli che finirà e starete di nuovo tutti insieme. Provi a spiegargli che i nipoti crescono e che chiedono del nonno e ti perdi in quel suo sguardo assente e ricolmo di dolore. Nel momento dell’incontro dimentico che sono a Poggioreale, ma non riesco ad alzare gli occhi al soffitto perché mi assale un senso di impotenza. E mi chiedo come uscirà mio padre da quelle mura? Mi domando cosa sarà di noi? E con questo caldo, lo vedi che ti dice per rassicurarti che va tutto bene, ma in realtà sopravvive. Allora mi ricordo le parole di Marco Pannella "spes contra spem", essere speranza non avere speranza. E così nel momento del saluto gli dico "tu sei un guerriero non si molla mai, me l’hai insegnato tu". Questa è la trafila dei parenti dei detenuti del carcere di Poggioreale per i colloqui settimanali, questo lo sfogo di una giovane, mentre con il volto attraversato dalle lacrime, prova a spiegare ad Agorà24 quello che si prova ad essere la figlia di un detenuto con carcerazione preventiva e quanto quell’arresto avvenuto alle cinque del mattino abbia devastato le loro vite. A fronte di una capienza di 1500 detenuti, la grande struttura nel centro di Napoli ne ospita attualmente 2.100 in attesa di reparti in via di ristrutturazione. Ma con questo caldo le celle divise da 4/5 detenuti sono dei veri forni crematori. Un istituto di pena dovrebbe essere uno strumento di riabilitazione di coloro i quali hanno compiuto un reato, nel migliore dei casi, negli altri, sempre crescenti, ti trovi "gettato in carcere" da innocente con la diceria "carcerazione preventiva", e poi in attesa di giudizio provi a sopravvivere, non a capire! Perché se provi a capire, rischi di impazzire! Perché di umano in quelle mura non c’è nulla! E in questo mese di agosto con temperature record, non resta che scrivere più lettere ai familiari per cercare di tenere viva la speranza che prima o poi quell’orrore finirà. Sono uomini e l’Italia da paese civile come può permettere che si lascino morire senza far nulla? Proteste dei carcerati? A Poggioreale non ci sono, perché come spiega all’Ansa Antonio Fullone, direttore del carcere, "i detenuti capiscono il nostro impegno e non ci sono state proteste finora". "Ma ci sono tensioni - aggiunge Fullone - tra detenuti di diverse sezioni: alcune, ristrutturate di recente, hanno ad esempio la doccia in ogni cella, altre zone sono più vecchie e questo viene colto come una discriminazione". E vuoi mettere il grande benefit di avere in cella una doccia per potersi lavare senza orari predefiniti e soprattutto con questo caldo di agosto? In questa estate caotica, dove la corsa alle vacanze anche solo per qualche giorno è per tutti, ci sono loro…i dimenticati di Poggioreale, che in questo mese dell’anno più degli altri, non sanno manco trovare la forza per dire ‘domani è un altro giorno e si vedrà’, perché vorrebbero almeno una briciola di fresco. Caltanissetta: i Radicali in visita alle carceri "grossi problemi di assistenza sanitaria" di Alberto Sardo radiocl1.it, 5 agosto 2017 Nelle carceri di San Cataldo e Caltanissetta la Carovana per la giustizia dei Radicali. Tante firme dai detenuti alla proposta di legge popolare sulla separazione delle carriere in magistratura. La capogruppo Pd di San Cataldo, Marianna Guttilla, si iscrive al Partito Radicale per sensibilizzare sui problemi della vita carceraria. Rita Bernardini: "Sull’assistenza sanitaria situazione drammatica". Con la colonnina di mercurio oltre i 40 gradi, la delegazione della Carovana per la giustizia del Partito Radicale ha visitato il carcere di San Cataldo giovedì mattina, prima di riunirsi in piazza Garibaldi alle 19,00 per la raccolta firme della proposta di legge popolare sulla separazione delle carriere in magistratura. Tanti hanno firmato in piazza, tra gli altri anche alcuni consiglieri comunali e lo stesso sindaco Giovanni Ruvolo. A San Cataldo, invece, si è iscritta al partito radicale la consigliera comunale e capogruppo del PD, Marianna Guttilla (nella foto di copertina a fianco di Rita Bernardini). La visita al carcere di via Messina a Caltanissetta è stata spostata invece a venerdì mattina. I radicali hanno avuto l’autorizzazione alla sola raccolta firme dentro gli istituti penitenziari e non a visite vere e proprie. In una saletta hanno ricevuto i detenuti che scendevano dalle celle per firmare. A San Cataldo 44 detenuti italiani, gli unici che possono firmare, hanno sottoscritto la proposta di legge di iniziativa popolare. La temperatura è un dato che conta per la vita dei detenuti. Alcune celle del carcere sancataldese hanno delle pesanti lastre di ferro alle finestre che accumulano molto calore. "La Situazione qui in Sicilia è drammatica. Ci sono grossi problemi per quanto riguarda la sanità", spiega Rita Bernardini presente a Caltanissetta insieme agli altri coordinatori della presidenza del partito, Sergio D’Elia, Maurizio Turco e Antonella Casu. "Le Asl non sono attrezzate, ci sono persone che aspettano mesi per una visita. Stamane a San Cataldo c’erano diversi tossicodipendenti, ed uno raccontava di non essersi ancora incontrato, dopo sei mesi, con il medico del Sert. Tenete presente che alcuni carceri, quelli più grandi, il Sert ce l’hanno interno, ma qui l’Asl non fornisce questo tipo di servizio, o comunque ci vuole troppo tempo e per chi è tossicodipendente è drammatico". Diversi i casi psichiatrici presenti, "ma lo psichiatra non c’è, l’Asl non lo manda" denuncia la Bernardini, segnalando anche condizioni infrastrutturali disagiate e scarse opportunità di studio, lavoro e attività culturali. Per questo i Radicali chiedono l’immediata approvazione dei decreti attuativi della riforma dell’ordinamento penitenziario, annunciando uno sciopero della fame a partire del 16 agosto. "I decreti incidono in modo significativo su queste problematiche, perché prevedono maggiore accesso alle pene alternative, più lavoro per i detenuti. Queste misure - spiega Bernardini - portano più attenzione all’esecuzione penale esterna. Il detenuto che esce può avere indicazioni di reinserimento. Significa più affettività in carcere, maggiori rapporti con la famiglia. Qui in Sicilia è diffuso il caso di detenuti di Catania che ad esempio stanno a Trapani. Per anni non vedono i figli piccoli o i genitori. È qualcosa di drammatico e contro l’ordinamento penitenziario, perché non hanno i soldi per garantire le visite del congiunto e questo di ripercuote sulla salute di bambini". In tema penale i radicali sono i primi in Italia ad aver spinto per la legalizzazione della cannabis "ora lo dice la Dna in due relazioni annuali in cui sottolinea che bisogna legalizzare la cannabis immediatamente, Pannella queste cose le diceva nel 1975", afferma Bernardini. "Siamo in Sicilia, dove non si fa l’unica riforma seria che taglierebbe l’erba sotto i piedi alla mafia, che è quella della legalizzazione della cannabis. Ci sono 5 milioni di consumatori in Italia che lasciamo nelle mani della criminalità". Infine una considerazione sui beni sequestrati alla mafia per la gestione dei quali i radicali chiedono un approccio più manageriale. "Accade che chiudono catene di supermercati perché li affidano ad amministratori che non sanno fare questo lavoro, per cui falliscono. 300 o 400 persone vengono improvvisamente licenziate, non significa questo fare un regalo alla mafia? Ci devono essere criteri manageriali, altrimenti distruggi un’economia che comunque portava una certa ricchezza, anche di lavoro". Prato: carcere sovraffollato, delegazione di Consiglieri regionali in visita notiziediprato.it, 5 agosto 2017 Ciolini (Pd): "Ci sono solo 40 detenuti in meno ma il personale è inferiore di ben 200 unità. È arrivato il momento di accendere i riflettori su questa realtà". "Ha quasi lo stesso numero di detenuti di Sollicciano, ma non ha lo stesso trattamento per il personale. Dobbiamo riaccendere i riflettori sul carcere di Prato". Lo ha detto il consigliere regionale Pd, Nicola Ciolini, al termine della visita che stamani, 4 agosto, ha effettuato alla guida di una delegazione della commissione sanità del Consiglio regionale. Della delegazione, spiega una nota, facevano parte anche i consiglieri regionali Manuel Vescovi (Lega nord), Paolo Sarti (Sì Toscana a sinistra), Monica Pecori (Gruppo misto), Andrea Quartini (M5s). Presente anche il vicesindaco di Prato Simone Faggi che ha confermato per la fine di settembre la convocazione di un consiglio comunale straordinario sulle condizioni interne alla Dogaia, già annunciato nei giorni scorsi dalla presidente Santi. Prima della visita i consiglieri hanno avuto un colloquio con il direttore del penitenziario Vincenzo Tedeschi. Dalla visita, secondo Ciolini, sono emersi, "punti di forza ma anche criticità serie, su cui occorre intervenire nelle sedi proprie prima che la situazione degeneri". Al centro del sopralluogo condizioni e numeri di una struttura "complessa", organizzata tra reparto di massima sicurezza, di media sicurezza, per i collaboratori di giustizia, un’area protetta per i sex offender, i colpevoli di reati sessuali che debbono essere protetti dagli altri detenuti. Tradotto, ha osservato Ciolini, "seicentocinquanta detenuti, quaranta meno di Sollicciano che però ha circa duecento unità di personale in più per assicurare il servizio. Perché non sono arrivati alla Dogaia agenti dalle chiusure di Empoli e di Montelupo? Qualcuno dovrà spiegarcelo". Ciolini ha anche ricordato le frequenti tensioni sindacali da parte del personale carcerario. Eppure si parla comunque di "un carcere attento, dove ci sono spazi ben tenuti e ben organizzati" dove "i detenuti contribuiscono alla manutenzione ordinaria, c’è la palestra, fanno teatro, c’è anche un reparto universitario, con i professori che vengono a tenere vari corsi, e negli ultimi anni ci sono stati 35 laureati". Un buon andamento che si conferma anche per l’assistenza sanitaria "con tutte le specialistiche presenti, il servizio odontoiatrico ogni giorno, la guardia medica 24 ore su 24 con infermiere". Tuttavia, ha osservato ancora, "in varie sezioni il degrado è importante, evidenti le difficoltà di gestione, di spazio, di pulizia. Le condizioni sono ai limiti della vivibilità", come le strutture destinate ai nuovi arresti, quelle "dove si sta in tre in una singola cella. Non è sostenibile". Biella: Sinistra Italiana e Radicali in visita alla Casa Circondariale bdtorino.eu, 5 agosto 2017 Detenuti inseriti, e pagati, in un progetto del Comune per la raccolta differenziata. Il Capogruppo di Sel Marco Grimaldi ha effettuato la sua ottava visita dell’anno a una struttura carceraria piemontese, come sempre accompagnato dagli esponenti dei Radicali Italiani Igor Boni e Silvja Manzi. L’istituto di Biella nasce come piccola Casa Circondariale (dove quindi non è presente la detenzione di alta sicurezza) e dal ‘98 ospita un "primo livello tossicodipendenti". Nel 2003 è stato il primo istituto con un progetto speciale sui "sex offender", progetto durato fino al 2007 grazie a finanziamenti regionali e da parte di fondazioni. Ora, in assenza di fondi, si vive purtroppo una paralisi della progettualità, benché si tenti di andare avanti con le proprie risorse e grazie a un protocollo con l’Asl. Nel 2013 è stato inaugurato un nuovo padiglione, senza alcun adeguamento dell’organico e, se nel 2013 la popolazione era di 280 detenuti, ora è di circa 410, con alcuni circuiti saturi. La situazione si è complicata da quando, a inizio anno, sono arrivati molti sfollati da Piemonte, Liguria e Lombardia. Così, da quaranta detenuti, il nuovo padiglione è arrivato a ospitarne più di 200. I piani oggi aperti sono quattro e, addirittura, al quarto piano in ogni cella è stato inserito un quarto letto. Gli agenti non solo non sono aumentati, ma 20 sono distaccati. Inoltre ci sono solo quattro educatori (più uno part time), ore di presenza di esperti (fondamentali per gli internati) insufficienti e altrettanto insufficienti ore assicurate dall’Asl per il Sert. "Nel nuovo padiglione si sperimenta da tempo la vigilanza dinamica, un’innovazione che con la difficoltà di integrazione dovuta agli sfollamenti diventa impossibile da sostenere" Lo dichiarano i membri della delegazione aggiungendo: "Precedentemente i detenuti del vecchio padiglione, una volta conosciuti, venivano trasferiti nel nuovo con la vigilanza dinamica. Ora, con i continui sfollamenti, chi arriva è assegnato direttamente al nuovo padiglione, senza che il personale abbia la conoscenza necessaria dei diversi casi. I detenuti sfollati sono quasi tutti stranieri e si trovano sradicati, lontani dalle famiglie, magari con procedure di richiesta asilo o espulsione in atto, spesso sottoposti a terapie e psicoterapie. Un caso emblematico di disagio; gli ultimi sfollati, infatti, sono arrivati da Padova senza i propri vestiti e non sono riusciti a riaverli indietro. "In questo carcere c’è poi una situazione unica ed estremamente critica - prosegue la delegazione - e cioè quella degli internati che provengono dalle Rems ma, molto spesso, da case lavoro e altre forme di detenzione non carceraria, avendo già scontato periodi di reclusione". A Biella sono comunque inseriti in un progetto del Comune per la raccolta differenziata e vengono pagati: "Tuttavia, per legge, le case lavoro sono all’esterno, mentre qui queste persone si trovano dentro un carcere e chiedono giustamente la ridefinizione della collocazione cui hanno diritto". Secondo noi l’opera di recupero è sicuramente importante e messa in atto sul territorio dovrebbe sortire un’efficace e rapida riabilitazione del detenuto. Occorre comunque estrema e continua attenzione da parte di chi è preposto alla sorveglianza per evitare, come troppo frequentemente accade, che chi esce per intraprendere il percorso riabilitativo ricada nelle stesse condizioni che lo hanno ridotto in detenzione. Ed i casi si moltiplicano, purtroppo, anche dopo l’espiazione della pena; la cronaca nera meno qualificante riporta lo stesso reato messo a punto il giorno stesso della scarcerazione. Certamente è difficile per un ex detenuto trovare occupazione, ma ciò non giustifica azioni violente e criminose che allontanano sempre più dalla possibilità di una qualsiasi, ma comunque importante, legale assunzione. Civitavecchia (Rm): dopo le evasioni, il Sottosegretario Ferri in visita al carcere mm-com.it, 5 agosto 2017 "Ho voluto visitare la struttura, a seguito anche dell’evasione di due detenuti, avvenuta pochi giorni fa, incontrare il personale, capire gli interventi da realizzare con priorità. Uno dei due detenuti come è noto e stato subito fermato, sull’altro sono in corso indagini coordinate in piena autonomia dalla magistratura. Da parte dell’amministrazione Penitenziaria piena collaborazione e massimo impegno. Sono tutti al lavoro anche il nostro nucleo Nic con grande determinazione. Episodi di evasione sono gravi, non vanno mai sottovalutati, anche se nella maggior parte dei casi, va detto, chi è evaso è stato riportato in carcere grazie al prezioso lavoro di magistrati e forze dell’ordine. Il nostro sistema di sicurezza nelle carceri funziona ed è’ considerato alto anche a livello europeo. Il complesso di Civitavecchia è una struttura penitenziaria importante, dotata di tanti spazi destinati alla detenzione ma anche all’area trattamentale, idonei per attività sportiva, sia all’aperto che al chiuso, può avere buone potenzialità di miglioramento. La struttura ha diverse sezioni sia circondariali che di reclusione, ha un reparto di alta sicurezza, uno destinato a detenuti in art. 21, uno femminile. Ha quindi più destinazioni da cui ne deriva la complessità e però anche la potenzialità. Ci sono diversi interventi da realizzare, su cui l’attenzione del Ministero è massima, penso per esempio alla ristrutturazione di due intere sezioni, al superamento delle criticità legate ad un maggiore utilizzo dell’acqua, la consegna di locali con più spazi per il nucleo traduzioni, il completamento della ristrutturazione della caserma agenti, la realizzazione delle garitte dove passeggia personale armato per controllare il perimetro dell’istituto. Ho trovato una buona struttura dove tutti i parametri richiesti nel rispetto dei diritti di chi è recluso sono rispettati. Occorre certamente verificare la possibilità di rafforzare la dotazione organica del personale in servizio presso l’istituto, che conta attualmente circa 283 unità su un organico previsto di circa 340 posti, a fronte di una popolazione carceraria, che pur superando, con 408 uomini e 27 donne la capienza regolamentare, è comunque ancora ampiamente dentro la soglia di tollerabilità. Le camere detentive mi sono parse sufficientemente areate, illuminate. Il reparto di alta sicurezza è stato ristrutturato da poco, occorre procedere nello stesso modo per le altre sezioni. Il Ministero riserva grande attenzione a questo istituto, che continueremo a seguire, lavorando costantemente per migliorare la struttura". Così il Sottosegretario alla Giustizia Cosimo Maria Ferri recandosi in questo pomeriggio in visita alla Casa Circondariale di Civitavecchia. A riceverlo c’erano il Direttore Patrizia Bravetti e il Comandante di Polizia Penitenziaria Giovanna Calenzo. Ferri ha infine salutato il personale di polizia penitenziaria e il personale di area trattamentale, ringraziandoli per l’impegno nel loro delicato servizio anche dopo le criticità del 30 luglio. Perugia: il re del cashmere "entra" in carcere con un laboratorio di Valentina Stella Il Dubbio, 5 agosto 2017 Protocollo d’intesa tra il Dap e la "Brunello Cucinelli", l’azienda di maglieria umbra. Soddisfatta la direttrice Bernardina Di Mario: "è un importante tassello per i detenuti e il loro reinserimento. Abbiamo anche una azienda agricola, e abbiamo fatto corsi di formazione per cuochi, imbianchini e giardinieri". delle loro competenze ai fini del reinserimento sociale e della prevenzione della recidiva", ci racconta la direttrice Di Mario. "Tutti i detenuti che hanno partecipato a dei validi progetti all’interno degli istituti di pena, che li aiutano anche a rivedere la loro posizione all’interno della comunità, - prosegue la direttrice - hanno una bassissima possibilità di tornare a delinquere. Per loro la recidiva si abbassa intorno al 20%. Invece, per coloro che non sono inseriti in percorsi trattamentali si alza al 60/ 70%. Tutto ciò incide anche sulla sicurezza sociale: persone reinserite non commettono reati". Per questo nel carcere di Perugia sono attivi diversi percorsi di studio: scuola primaria, scuola secondaria, biennio di scuola superiore e corsi di lingua italiana per gli stranieri. "Vogliamo abbattere innanzitutto la barriera della lingua - spiega la direttrice - per fare in modo che tutti i detenuti possano comunicare tra di loro e conoscersi: lo straniero è diverso ai miei occhi nella misura in cui io lo sono ai suoi; ma se imparano a capirsi, possono rispettare le loro diversità e portare avanti una convivenza pacifica all’interno del carcere e poi fuori". Il passo successivo è quello del lavoro: "La possibilità di compiere dei lavori all’interno degli istituti è aumentata del 40% rispetto all’anno scorso. Noi qui abbiamo accettato subito la sfida di migliorare le condizioni detentive a seguito della sentenza Torreggiani, in linea con il progetto globale di cambiamento del Dap. Poniamo al centro il detenuto, la sua storia passata e quella presente per indirizzarlo grazie al lavoro della polizia penitenziaria, degli educatori, degli psicologici, degli assistenti sociali in un percorso finalizzato al suo reinserimento". Oltre ad attività sportive - calcio, basket e danza sportiva - realizzate in collaborazione con il Coni e la Figc, e ai laboratori di pittura, di origami, di botanica appena conclusi e quelli di uncinetto in corso nel carcere di Perugia vengono portate avanti molte attività lavorative, anche in articolo 21, quello cioè che prevede il lavoro all’esterno. "Abbiamo una azienda agricola - ci spiega orgogliosa la Di Mario - i cui prodotti vengono venduti fuori dal carcere, negli anni passati con i fondi europei e con quelli della Regione abbiamo fatto corsi di formazione per cuochi, per imbianchini, per giardinieri. Alcuni progetti prevedevano anche borse di lavoro: alcuni detenuti sono stati chiamati da famosi ristoranti di Perugia e sono stati così bravi e responsabili che sono stati assunti a tempo determinato e ora indeterminato, continuando a uscire in articolo 21. Altri detenuti realizzano i kit ecologici per la raccolta differenziata distribuiti alla città di Perugia. Ne abbiamo assunto altri per la pulizia dei nostri locali". Insomma un carcere ben inserito nel tessuto sociale della città ed è "questo il nostro obiettivo. Abbiamo un laboratorio teatrale, grazie al quale abbiamo realizzato uno spettacolo a cui sono stati invitati i perugini. Grazie alla sorveglianza dinamica, riusciamo a rendere fruibile sempre maggiore spazio alla popolazione detenuta. La cella rimane solo camera di pernottamento", conclude soddisfatta la direttrice Di Mario. Enna: il call center punta sui detenuti, contratto di collaborazione per sei Corriere del Mezzogiorno, 5 agosto 2017 Nelle loro postazioni i detenuti promuovono le offerte telefoniche per conto della Dieffe: l’azienda in Sicilia dà lavoro a 80 operatori e ha investito con progetti dentro le carceri. Sei postazioni al servizio della Dieffe Servizi, una azienda di Messina, per la promozione di offerte nel campo della comunicazione telefonica ed altro. Il call center, il secondo in Sicilia dopo Messina, attivo alla Casa Circondariale Luigi Bodenza di Enna, è ormai da mesi una realtà. Nelle loro postazioni i detenuti, che hanno un contratto di lavoro di collaborazione, promuovono le offerte telefoniche. Dalle 9 alle 12 e dalle 14 alle 17,30, cuffia alle orecchie e voce convincente. "È sicuramente una esperienza molto formativa che si muove nell’alveo della rieducazione e riabilitazione - dice la referente del progetto su Enna, Maria Teresa Rizza. I detenuti hanno partecipato ad un breve corso di formazione e poi sono stati subito pronti per iniziare a lavorare". Attualmente le postazioni sono solo sei ma la Dieffe Servizi che in Sicilia dà lavoro a 80 operatori, ha investito anche dentro le carceri con progetti mirati, vuole ampliare l’offerta di lavoro, coinvolgendo sempre più detenuti-lavoratori. "I lavoratori detenuti impegnati non ottengono ancora grandi guadagni ma entrare nella loro sala, sentirli parlare in cuffia con estranei adoperando garbo e professionalità, mi da una gradevole impressione di vita normale" dice il direttore del carcere, Letizia Bellelli. Napoli: parliamo ai ragazzi della Sanità, non va sciupato il loro futuro di Antonio Mattone Il Mattino, 5 agosto 2017 È una criminalità dal volto giovanile quella che è emersa dalla recente relazione della Direzione investigativa antimafia di Napoli. Si è abbassata l’età di coloro che impongono la loro leadership all’interno delle bande e dei clan, soprattutto nell’area urbana. Il vuoto lasciato dai capi storici della malavita, finiti in carcere o che hanno ingrossato le fila dei pentiti, è stato occupato da nuove leve, una generazione di giovani caratterizzata da una ferocia inimmaginabile per questa età. Si tratta di una camorra meno strutturata e gerarchizzata, come ha scritto Isaia Sales sulle pagine di questo giornale, ma più fluida, instabile dove le alleanze possono cambiare in ogni momento e i tradimenti sono sempre dietro l’angolo. L’ingresso nel gruppo che conta avviene spesso per la voglia di emergere, per affrancarsi dalla ghettizzazione sociale che tanti ragazzi dei quartieri "difficili" sentono come uno stigma. Una condizione da cui si può venir fuori con una mossa d’azzardo, facendo il "salto di qualità" nel clan emergente. Solo in questo modo si possono guadagnare soldi e rispetto che consentono la scalata sociale nel rione. Per sentirsi "qualcuno" basta procurarsi anche una vecchia rivoltella arrugginita, mentre chi non riesce a possederla cammina con le mani nei pantaloni fingendo di averne una in tasca. Una scena che può capitare di vedere, camminando per i vicoli della Sanità. L’impeto giovanile spinge a commettere gesti efferati che conducono a strade da cui poi diventa difficile uscire. Come è avvenuto per il ragazzino diciassettenne di Afragola, arrestato una settimana fa per aver ucciso e fatto a pezzi due ras del contrabbando. Altre volte, invece, è il caso a determinare lo spartiacque tra una carriera da boss, quella da semplice gregario, o restare fuori dal giro della malavita. Un ragazzo mi ha confidato che si era rivolto ad un capoclan, perché voleva regolare i conti con un uomo più grande di lui dopo un violento litigio e gli chiese una pistola. Fu il rifiuto del camorrista, che evidentemente non ritenne il giovane affidabile, ad impedirgli di diventare un assassino in erba. Così, per uno strano gioco del destino sono stati due "amori sbagliati" ad introdurre nell’ambiente della malavita i principali protagonisti dello scontro che in questi anni ha insanguato le strade della Sanità. Nicola era figlio di un imbianchino, un gran lavoratore che si guadagnava il pane onestamente. Il matrimonio con il ras incontrastato del quartiere, cambiò radicalmente la sua vita. In seguito all’arresto e al successivo pentimento del boss, scalò le gerarchie divenendo il capo della famiglia camorristica. Dopo essere finito in prigione ha lasciato le redini del clan ai suoi due figli. Una educatrice che li ha conosciuti da piccoli racconta che erano di animo buono e ricorda che una volta li incontrò casualmente per strada, e uno dei due preso dall’entusiasmo di salutarla, agitò con la mano la pistola che impugnava senza rendersene conto. La vicenda criminale di Raffaele nasce invece dopo aver partecipato ad una rapina finita male, dove ci era scappato il morto. "Lelluccio" si era fidanzato con una ragazza dei Quartieri Spagnoli, ed era stato ingaggiato per fare il palo dai parenti della sua morosa che riponevano in lui grande fiducia. Quando fu spiccato il mandato di cattura nei suoi confronti, suo padre, proprietario di una fabbrica di scarpe a piazza Sanità, pensò bene di nasconderlo a Roma, lasciando di fatto il controllo della sua attività che nel giro di poco tempo andò sottosopra. Così tutta la famiglia cominciò ad occuparsi di un’altra "attività", quella della droga di cui Vastarella divenne uno dei principali imprenditori a Napoli. Lo spaccio degli stupefacenti è diventato il principale reato di cui si macchiano i baby criminali, la via maestra per passare dalla marginalità alla rilevanza. Secondo il dossier Under realizzato dall’ associazione anti-mafie da Sud, i minori denunciati per reati inerenti alla droga sono passati dai 578 del 1984 ai 5.123 del 2016. Sappiamo che questa strada conduce a un vicolo cieco, che si conclude nella cella di un carcere o in una tomba, come è avvenuto per Emanuele Sibillo: sembrava destinato ad una brillante carriera criminale ed invece ha finito la sua corsa ad appena 19 anni, freddato da un killer del clan rivale. Il fuoco che arde nella giovane età non consente di ponderare le conseguenze delle scelte e di immaginare un domani diverso. "Non abbiamo futuro" dice ai ragazzi della sua paranza Ciro, uno dei capi nella serie televisiva di Gomorra. La mancanza di orizzonti viene rappresentata nella fiction da scene lugubri, oscure. Tutto è terribilmente brutto e violento. Eppure questo habitat ha un suo fascino tutto da decifrare. Manca uno spiraglio, una speranza, un modello positivo che possa indicare vie di riscatto. Tuttavia, oggi alla Sanità i due gruppi dominanti sembrano in ritirata, asserragliati nelle case non scendono più, per paura del clan rivale o della polizia che controlla il quartiere in modo capillare e ossessivo. Potrebbe essere il momento buono per parlare a questi giovani, per spiegargli che farsi rubare il futuro è un grande sciupio, che la loro esistenza non può dipendere dalla sorte o dall’inseguire un vano delirio di onnipotenza che li renderà più disumani e disillusi. C’è bisogno di appassionarli e affascinarli con nuove proposte e nuovi modelli che parlino di lavoro, cultura e identità. Forse solo così potremo restituire sogni e speranze alla generazione che verrà. Catanzaro: tutti i premiati del "Cassiodoro", l’associazione che porta la Bibbia nelle carceri di Marco Roncalli La Stampa, 5 agosto 2017 A Roccelletta il 5 agosto: il compositore Frisina e Bazzari alla guida della Fondazione Don Gnocchi per 23 anni. Il tenore Stefano Gagliardi. Ma anche la presidente dell’associazione "Viva Toscanini" Severini Melograni. E Nicoletta Mantovani che ritira un premio alla memoria del marito Luciano Pavarotti. Puntuale, con il primo weekend d’agosto, torna in Calabria una delle manifestazioni estive più attese, un evento dall’accentuata connotazione culturale e religiosa: il "Premio Cassiodoro il Grande" promosso dall’omonima associazione presieduta da don Antonio Tarzia, già storico direttore di Jesus e delle Edizioni San Paolo, con il patrocinio dell’arcidiocesi di Catanzaro-Squillace, della Fondazione Armonie d’Arte e del Comune di Borgia. L’appuntamento avrà come splendida cornice il "Parco Archeologico di Scolacium" di Roccelletta, luogo come pochi altri capace di evocare la storia dello scrittore, politico, diplomatico, Flavio Magno Aurelio Cassiodoro, collaboratore prezioso di Teodorico, erudito amico di papi, cui il Premio è dedicato. A legare la scelta delle giurie per quest’ottava edizione, in modo particolare, il tema della musica e così per la serata di premiazione - il 5 agosto - sono attese come annunciato in conferenza stampa nelle ultime ore, figure rilevanti di questo mondo tanto caro allo stesso Cassiodoro. Sono infatti in arrivo Nicoletta Mantovani, presidente della Fondazione Pavarotti, che ritirerà il premio speciale alla memoria del marito, lo straordinario tenore di fama mondiale mancato dieci anni fa; monsignor Marco Frisina, direttore del coro della diocesi di Roma e compositore di musica sacra; Paola Severini Melograni, giornalista e scrittrice, presidente dell’associazione "Viva Toscanini" (musicista di cui si celebrano i centocinquant’anni della nascita); il tenore catanzarese Stefano Gagliardi. Con loro saranno premiati anche monsignor Angelo Bazzari, già presidente per quasi un quarto di secolo della Fondazione Don Gnocchi, e il fotografo-gallerista Mimmo Dabbrescia. Diversi i momenti musicali che precederanno fra l’altro l’aggregazione dei nuovi soci onorari dell’Associazione: padre Rocco Spagnolo, superiore generale dei Padri Missionari dell’Evangelizzazione; Antonino Mantineo, professore all’Università degli Studi Magna Graecia; Luigi Stillo, maestro di pianoforte; Chiara Raimondo, archeologa; gli artisti Giuseppe Mantella e Niko Calia. Qui occorre però aggiungere che, se il fine specifico con cui è sorta l’Associazione è quello di promuovere la conoscenza dell’opera e del pensiero di Flavio Magno Aurelio Cassiodoro (senatore a Roma, ministro a Ravenna e ambasciatore a Costantinopoli; storico, fondatore di monasteri e scuole di alto profilo, uomo ponte tra l’antichità romana e il medioevo), valorizzazione portata avanti anche da un’apposita collana pubblicata dall’Editrice Jaca Book, dove sono uscite diverse opere ("I Salmi dell’Hallel"; "Le suppliche del popolo" e le "Suppliche individuali" a cura del vescovo Antonio Cantisani; il "De Anima" a cura di Antonio Tombolini, "Cassiodoro il Grande" di Franco Cardini; "Cassiodoro all’origine dell’idea di restauro" a cura di Alessandro Pergoli Campanelli) oltre a iniziative editoriali più divulgative, larga parte dell’impegno dei soci si è concentrato negli ultimi anni a far entrare la Bibbia nel mondo delle carceri. L’Associazione ha varato quest’operazione anni fa in collaborazione con la San Paolo con lo slogan "La Bibbia nelle tue mani". A oggi si è ripetuta già in quasi una ventina di case circondariali: da Vibo Valentia, Catanzaro, Cosenza, Bari a Salerno, passando per Napoli, Chieti, Ancona, ecc.. Insieme ai vescovi ordinari delle diocesi dove si trovano le carceri, al presidente don Tarzia e a vari soci, oltre un migliaio di detenuti ha già vissuto momenti di intensa commozione nelle cappelle o in altri ambienti del carcere. A ricordo dell’incontro, ogni volta, il dono di una Bibbia. Ultima curiosità. F ra i destinatari del Premio, materialmente costituito da un medaglione argenteo dello scultore Angelo Grilli, figura anche papa Benedetto XVI (pubblicamente omaggiato il 14 dicembre 2011 nella "Sala Nervi" in Vaticano dove l’Associazione ha ottenuto udienza). Ma anche a papa Francesco è stata recata la medaglia d’argento di Grilli: tre anni fa, il 24 settembre 2014, data in cui aveva concesso alla Cassiodoro il privilegio dell’udienza sul sagrato della basilica e la menzione pubblica dell’Associazione. Migranti. Dov’è la giustizia? di Alessandro Dal Lago Il Manifesto, 5 agosto 2017 Il nome della Ong nel mirino della procura di Trapani, Jugend Rettet, cioè "la gioventù salva", chiarisce perfettamente il significato dell’azione dei giovani tedeschi nel Mediterraneo. Solo gente che non ha alcuna responsabilità negli orrori commessi dalla Germania nazista, ma ne porta sulle spalle la terribile memoria, può salvare gli innocenti dalla morte. Ed ecco perché questi ragazzi non vogliono firmare alcun codice che ne limiterebbe l’azione: perché sanno quanto gli stati siano letali e colpevoli di fronte ai trentamila morti del Mediterraneo. Questo è il punto, come notava Luigi Manconi sul manifesto di ieri: la pretesa di criminalizzare chi ritiene che ci sia una giustizia superiore alle esigenze, vere o presunte, degli stati. E anche alla giustizia terrena. Quando la Svizzera chiuse le frontiere agli ebrei in fuga dal nazismo, ci fu un capitano di polizia, Paul Grüninger, che violò le rigide norme della Confederazione falsificando i visti dei rifugiati ebrei e perciò meritò il titolo e l’onore di "giusto". Fu cacciato dal servizio, senza pensione, e morì in povertà. I giovani tedeschi, da pare loro, ci ricordano che esiste una giustizia più alta di quella delle procure e delle norme emanate da legislatori ciechi ed esecutori ottusi. Un credente ne troverà le radici in Dio, un laico nella ragione o nel semplice, intuitivo ma cogente senso dell’umanità. E poi, che infrazioni della legge avrebbero commesso? "Comunicare" con gli "scafisti", quando tutti sanno che in mare aperto si incrociano innumerevoli messaggi? E come non sapere o non capire che spesso i cosiddetti "scafisti" spesso sono poveracci che magari si procurano a un passaggio? Quelli che ci guadagnano davvero stanno a terra, magari nella stessa guardia costiera libica, per quanto ne sappiamo, o in qualsiasi banda che scorrazza in Libia. Questi non li ferma mai nessuno, tantomeno il Minniti l’Africano. L’ossessivo e ripetitivo slogan "guerra ai trafficanti" serve solo a coprire il vero scopo di tutto questo: impedire che le navi delle Ong salvino i migranti. Qualche genio strategico di Frontex - che non ha mai salvato nessuno e tiene le sue navicelle al sicuro nei porti - pensava che se ne annegano un pò di più, ne arrivano di meno e quindi il conto va in pari. E magari si sente la coscienza a posto. E quindi non stupisce che, come ha scritto la Tageszeitung, "Chi salva i migranti viene fatto fuori". Il Mediterraneo tra Sicilia e Libia non è un far west, come ha scritto Travaglio, che ora esige legalità, cioè ordine e disciplina, anche in questo nuovo campo. È un tratto di mare strapieno di navi militari e sorvegliato perennemente dai droni, senza che nessuno si preoccupi di trarre in salvo i potenziali naufraghi, tranne le Ong. D’altronde, anche il poliziotto infiltrato sulla nave di Save the Children, ha salvato il suo bambino, il brav’uomo. Ma come l’avrebbe salvato, se non fosse stato sulla nave dei volontari? Detto questo altrove infiltrano gli agenti segreti o i poliziotti tra i narcotrafficanti, noi tra i volontari che salvano i migranti. Questa è una brutta storia per la giustizia e per gli organi di informazione che pubblicano video insignificanti, cercando di farci credere che rivelino chissà quali segreti. Naturalmente non poteva mancare la soddisfazione di Di Maio né il punto di vista di Renzi che esige un "pugno di ferro". Spezzeremo le reni alle Ong? Tra l’altro, c’è da giurare che tra qualche tempo, finita la cagnara, andrà come nel caso della Cap Anamour accusata di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina nel 2004 e assolta completamente nel 2009. Per fortuna, ci sono ancora giudici in Italia. Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che chiudete il regno dei cieli davanti agli uomini! grida Gesù alla folla nel Vangelo di Matteo. Certo, l’Europa non è il regno dei cieli, ma, chissà perché, da giorni queste parole mi rimbombano ossessivamente nella testa. Migranti e Ong, verifiche anche su Medici Senza Frontiere di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 5 agosto 2017 Indagini su "consegne concordate" in alto mare e possibili accordi tra Ong. Medici senza Frontiere (che non aderisce al codice): "Non ci fermeremo". Veri e propri viaggi organizzati tra Ong e trafficanti. Trasbordi effettuati dai barconi degli scafisti alle navi "private". La Iuventa non è l’unica nave che avrebbe sconfinato in acque libiche per andare a prendere i migranti. Le verifiche effettuate dai poliziotti dello Sco, il Servizio centrale operativo, si concentrano su altre organizzazioni umanitarie. Prima fra tutte Medici senza Frontiere. Già nelle scorse settimane si era parlato di un coinvolgimento di Msf nelle indagini condotte dalla Procura di Trapani "per aver convinto i migranti a non collaborare con la polizia dopo essere sbarcati". E il capo dell’ufficio giudiziario siciliano aveva confermato l’iscrizione sul registro degli indagati di una decina di persone per favoreggiamento dell’immigrazione irregolare. Altri elementi sarebbero stati acquisiti recentemente su contatti diretti per la "consegna concordata" degli stranieri in alto mare. Si indaga sui contatti con i trafficanti ma anche su un possibile accordo tra Ong diverse. In particolare ci si concentra sulle dichiarazioni di alcuni testimoni che hanno partecipato alle operazioni di salvataggio dei migranti. Il 27 febbraio scorso è stato interrogato Cristian Ricci, titolare della Imi Security Service, che si occupava dei servizi di sicurezza sulla Vos Hestia di Save the Children. E a verbale dichiara: "In realtà la nave Iuventa fungeva da piattaforma e quindi si limitava a soccorrere i migranti per poi trasbordarli. Era sempre necessario l’intervento di una nave più grande sulla quale trasferire i migranti soccorsi dal piccolo natante". In alcune occasioni sarebbero state proprio le imbarcazioni di Msf ad arrivare, pur senza essere state allertate dalla Guardia costiera. Ed è questo ad aver alimentato il sospetto di accordi preventivi per "spartirsi" le operazioni In queste ore si continua a trattare con i vertici delle Ong per ottenere la firma del codice di comportamento approvato anche dall’Ue. Sono quattro le associazioni che hanno accettato le regole ma tra queste non c’è Msf, che anzi dichiara di non voler cedere. "Proseguiamo i salvataggi in mare e i trasbordi chiesti dalla Guardia costiera di Roma - dichiara il presidente Loris De Filippi - in totale coordinamento con loro. Finora non abbiamo avuto nessuna comunicazione per non aver aderito al Codice, ma se ci dicono di fermarci, andremo altrove. Non possiamo accettare il divieto di trasbordo, e su questo sono i fatti a darci ragione, perché anche in queste ore continuano i trasferimenti sulle barche della Guardia costiera". Nega con decisione che le persone imbarcate sulle loro navi possano aver commesso irregolarità: "Ora c’è un codice, ma prima non c’era l’anarchia. E se una Ong probabilmente ha avuto comportamenti scorretti, finora la gran parte delle organizzazioni si è comportata rispettando le consegne. Nel 99% dei casi tutto è andato come doveva andare, anzi le Ong oggi tanto vilipese hanno salvato migliaia di persone, 69 mila solo Msf". È una linea non condivisa dal Viminale, nella convinzione che l’imposizione di regole a chi si occupa di soccorsi e salvataggi sia la strada giusta per riuscire a governare i flussi. E per questo si guarda agli ultimi dati sugli sbarchi. Nessuno si illude di aver risolto il problema, ma la diminuzione rispetto allo stesso periodo del 2016 di oltre il 3 per cento degli arrivi - passati da 99.016 a 95.811 - è un risultato che viene accolto con grande soddisfazione. Migranti. Io sto con Medici senza frontiere, errore introdurre il "reato umanitario" di Roberto Saviano La Repubblica, 5 agosto 2017 Io sto con Medici senza Frontiere. Lo voglio dire ed esprimere chiaramente in un momento in cui sta avvenendo la più pericolosa delle dinamiche, ossia la criminalizzazione del gesto umanitario. Sto con Medici senza Frontiere nella decisione di non firmare il codice di condotta per le Ong che fanno salvataggi in mare voluto dal ministro Minniti. È una scelta importante e sostanziale, non un capriccio. Medici Senza Frontiere (Premio Nobel per la Pace 1999) difende un principio fondamentale: la neutralità. Questo significa che avere agenti armati sulle navi sarebbe la fine di questo principio. Il lettore forse ingenuo mi dirà: ma come? È una garanzia per tutti avere agenti armati sulle navi di Msf: per i migranti, per gli operatori volontari, per la sicurezza. Invece non è così e per capirlo basta conoscere le dinamiche di chi opera in situazioni difficili, di emergenza sanitaria, di guerra, dove l’assoluta assenza di armi nei luoghi del soccorso rappresenta la vera protezione. Il segnale di divieto che disegna il kalashnikov inserito nel cerchio rosso sbarrato è fuori di ogni laboratorio, ogni tenda, ogni presidio di Msf, Emergency e non solo. È l’elemento fondante che permette alle Ong di agire in sicurezza e con la propria identità. Non avere armi in un luogo di soccorso non significa che sono luoghi dove la legge è sospesa, tutt’altro. Infatti qualsiasi sbarco di profughi che effettua Msf viene coordinato dalla Guardia costiera e una volta a terra c’è totale collaborazione con le forze di polizia. A Mosul, ad Haiti, in Congo i soldati di qualsiasi esercito lasciano le armi fuori dai presidi di Msf. Invece il governo italiano vorrebbe portare agenti armati sulle navi. Non firmando il codice Msf salva i suoi operatori e la sua condotta, tutte le parti in causa nei conflitti devono sapere che Msf non ha armi, mai, non nasconde soldati sotto le sue pettorine, non è un luogo utilizzato per indagini, ma solo di soccorso. Questi sono i motivi per i quali Msf non ha sottoscritto il codice. Altre Ong possono firmare il patto Minniti perché non hanno presidi in zone di guerra o perché facendolo sanno di non mettere a repentaglio la propria identità. Ma non Msf. In questa triste fase storica si sta configurando in Italia, come ha scritto Luigi Manconi su Il manifesto e come scrive da giorni Avvenire, il "reato umanitario". È il frutto di mesi di confusione, durante i quali tutte le parti politiche hanno soffiato - in un clima di perenne campagna elettorale - sul fuoco della paura. Dall’aberrante definizione di "taxi del mare" di Di Maio sino a chi pone sullo stesso piano gli affari criminali fatti da Mafia Capitale e il business dei trafficanti con l’attività di chi salva vite. Tutti luoghi comuni banali, semplici, veloci per configurare il "reato umanitario". L’indagine sulla Ong tedesca Jugend Rettet (che non ha firmato il protocollo Minniti) non c’entra nulla con le insinuazioni fatte sino ad oggi, tese a dimostrare che le Ong sono braccia operative dei trafficanti. Nonostante si cerchi di manipolare il più possibile - come tenta di fare l’aberrante (e come sempre ridicolo) post di Matteo Salvini che parla di Ong che hanno protetto scafisti - secondo la stessa procura di Trapani avrebbero agito "non per denaro" ma per "motivi umanitari". In ogni caso se gli appartenenti a Jugend Rettet hanno commesso reati, verranno processati e, qualora riconosciuti colpevoli, condannati. Quello che sappiamo sino ad oggi è che se hanno violato regole lo hanno fatto per realizzare un corridoio umanitario, come lo definisce Massimo Bordin di Radio Radicale. Null’altro che questo. Mi domando a questo punto dove nasce tutto questo odio? Siamo di fronte a dinamiche psicologiche semplici, basterebbe rileggere "Psicologia delle folle" di Gustave Le Bon. Di fronte al senso di colpa d’essere incapaci di agire, dinanzi a centinaia di bambini che annegano nel Mediterraneo, si accusa chi agisce. La stessa cosa avviene con le mafie. Spesso è più facile attaccare chi combatte la mafia piuttosto del mafioso. Un paese al collasso economico e demografico ha l’esigenza di trovare altrove i colpevoli: i migranti sono il capro espiatorio perfetto. Più è semplice la lettura più verrà adottato quel bersaglio. Manca il lavoro? Colpa degli immigrati. Aumentano i crimini? Colpa degli immigrati. Anche se i dati ci smentiscono, anche se si ha una falsa percezione del problema. Furbescamente chi soffia sulla paura, sul razzismo, vuole approfittare della enorme possibilità distraente del dramma immigrazione. Se il problema sono gli immigrati l’incapacità economica di far ripartire il paese, di snellire le dinamiche burocratiche, di contrastare il crimine organizzato diventa un corollario. La coperta dell’immigrazione protegge tutti. Per cui quando Renzi dichiara "pugno duro contro le Ong che hanno contatti con i trafficanti", senza conoscere i termini dell’indagine, bisognerebbe rispondere che ci sarebbe piaciuto sentirlo tuonare contro la vendita delle armi italiane ai paesi in guerra. Né abbiamo sentito insistere Minniti sulla necessità di aumentare la quota di Pil destinato ai paesi in via di sviluppo che oggi è appena dello 0,17%. Parole legittime le loro ma che li precipitano al di fuori della tradizione di sinistra del paese. Avverto i miei lettori: tutti coloro che non si inseriscono nella canea anti immigrazione e contro le Ong saranno soli. In questo momento l’odio verso le Ong e verso gli immigrati non ha pari, magari le mafie avessero avuto contro tutto questo impegno e questa solerzia. Facciamoci forza, io ne sono consapevole. Bersagliati dalle più basse menzogne, ci vedremo sui social sommersi dalle più comuni banalità. Sarà un profluvio di "portateli a casa tu", "vi fate pagare per fare le anime belle", "buonisti". Ma pazientemente, smontando il fuoco di fila delle bugie ne verremo fuori. Ricordo che non è solo il Mediterraneo a vivere il problema profughi, anzi sono quasi 3 milioni i rifugiati intorno al Lago Chad dove si sta consumando una delle peggiori crisi umanitarie del nostro tempo e che tocca l’intera regione compresa tra il Chad, il Niger, la Nigeria e il Camerun. Profughi e sfollati che vivono in condizioni infernali, a Diffa, ad Assaga, a Yebi e cito solo alcuni di questi luoghi. Dimenticati e infinitamente più numerosi di quelli che si affacciano sulle rive del Mediterraneo. In Uganda, i rifugiati arrivati in seguito al riaccendersi delle violenze in Sud Sudan sono oltre 900mila, molto al di sopra delle migliaia che l’Europa non riesce e non vuole gestire. Situazioni drammatiche e dimenticate, che Msf testimonia ogni giorno attraverso i suoi team impegnati a garantire un accesso dignitoso alla salute e all’acqua. Sono uomini, donne e bambini che non busseranno alla nostra porta e per i quali dovrebbero invece essere consentiti dei corridoi umanitari, soluzioni nuove che promuovano una cultura diversa dall’indifferenza. Le Ong stanno semplicemente supplendo all’assenza dell’Europa. Sono davvero ingenui utopisti che vogliono ancora salvare le vite umane mentre come dicono anche alcuni esponenti del Pd "non possiamo più permettercelo"? Non è così. In realtà pensare di presidiare il Mediterraneo con le navi da guerra per fermare questi flussi è la vera colpevole ingenuità. In verità il codice sottende un unico obiettivo: provare a limitare gli sbarchi. Quello che non si è riuscito ad ottenere politicamente si scarica sulle Ong e sui migranti. Questo è evidente con il divieto di trasbordare migranti su altre navi. Provo a chiarire: immaginate che ci siano due navi che possono riempirsi sino a mille profughi, ne raccolgono un giorno solo trenta, razionalmente li spostano su una nave e la si fa partire e l’altra resta a presidiare. Da oggi non si potrà più farlo, il codice costringe le imbarcazioni delle Ong a trascorrere moltissimo tempo in viaggio tra le coste libiche e quelle italiane raccogliendo meno persone, portandone meno in Italia e lasciandone di più in mezzo al mare. Questo è il secondo motivo per cui Msf non ha firmato il codice Minniti. E allora che cosa si può fare? Provare a razionalizzare partendo da un presupposto: come salvare vite umane, vite come la nostra. E imprimere nella nostra mente le parole di Loris De Filippi, presidente di Medici senza frontiere: "Ogni giorno migliaia di uomini, donne e bambini continuano a prendere il mare affidandosi a trafficanti senza scrupoli. Non lo fanno perché potrebbero esserci delle barche a salvarli al largo della Libia, ma perché non hanno altra scelta e le politiche europee non offrono loro alcuna alternativa. Non sono le organizzazioni umanitarie, ma le politiche europee a favorire i trafficanti". Ecco perché io sto dalla loro parte. Magistratura democratica: "Migranti, non si risolve con il codice penale" di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 5 agosto 2017 Attacco alle Ong. Il presidente di Magistratura democratica sull’inchiesta di Trapani: con il reato di favoreggiamento non si affronta adeguatamente il dramma dei profughi, non si può delegare la soluzione alle procure. Chi fugge è in pericolo nel momento in cui parte. Con l’inchiesta di Trapani la magistratura offre il suo contributo alla campagna nazionale contro le Ong? La domanda è per Riccardo De Vito, giudice di sorveglianza a Sassari e presidente di Magistratura democratica. Può sorprendere la coincidenza temporale tra il sequestro preventivo della nave Iuventa e la mancata sottoscrizione da parte di alcune Ong, tra cui appunto quella titolare dell’imbarcazione, del codice di condotta del Viminale. Credo che si tratti solo di una coincidenza temporale. Non aggiungo altro, ci saranno delle indagini e un processo, leggeremo gli atti ed eventualmente li criticheremo. Quello che stupisce, però, è la lettura dominante che viene fatta di questa indagine, come fosse il punto di arrivo di una campagna volta a criminalizzare la solidarietà, l’accoglienza e chi si spende per essa. In primo luogo le Ong che più hanno contribuito al salvataggio delle vite in mare, specie dopo la sciagurata chiusura dell’operazione Mare Nostrum. Come si giustifica un’inchiesta penale quando lo stesso inquirente, il procuratore Cartosio, si dice convinto che la Ong agisce a fini umanitari? Sono dichiarazioni che indubbiamente stupiscono. Io penso che l’occasione di questa indagine vada colta per aprire una discussione sulla necessità dell’intervento penale in questa materia. Bisogna chiedersi qual è il discrimine tra il salvataggio delle vite in mare e il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Partiamo da alcuni punti fermi: le persona che sono in mare rischiano la vita per fuggire da tragedie umanitarie o economiche. Occorrerà vedere se il pericolo che legittima lo stato di necessità sussiste comunque nel momento in cui si mettono in mare, indipendentemente dalle circostanze in cui vengono individuati e salvati, oppure no. Questo discrimine non è appunto affidata alla magistratura? È un grande tema che non può essere lasciato solo alle procure, anche perché siamo nel pieno di una campagna politica costruita sull’idea che i migranti non devono toccare le nostre sponde. Campagna allarmistica che prescinde dalla realtà, nel momento in cui lo stesso Viminale certifica che quest’anno gli sbarchi sono diminuiti. Eppure è una posizione che rischia di pagare molto elettoralmente e che può coagulare grande consenso proprio in ragione dell’intervento penale, strumento molto potente e simbolico da usare con attenzione. Che giudizio dà del "codice Minniti"? Di certo non può prevalere sui principi del diritto internazionale, tra i quali l’obbligo di soccorso in mare. Può essere uno strumento che favorisce la collaborazione tra le autorità e le Ong. Non dovrebbe servire a distinguere tra Ong buone e cattive. Alcuni punti del codice lasciano perplessi, come il divieto di trasbordare in mare i profughi che limita le possibilità di soccorso. In questo modo più che aiutarli a casa loro, come si dice per slogan, si finisce per lasciarli morire in mare. Ammettendo la coincidenza tra l’azione della procura e del gip di Trapani e la mancata firma del codice da parte della Ong Jugend Rettet, il sequestro della nave è uno strumento proporzionato alle accuse? Non mi esprime nel merito dell’inchiesta, il sequestro preventivo è legato alla pericolosità del bene e dunque alla necessità di evitare la reiterazione del reato. La domanda vera è un’altra: è davvero il reato di favoreggiamento lo strumento con il quale rapportarsi a questi episodi? Fin dove si estende il concetto di stato di necessità, che esclude automaticamente il reato? Le persone devono essere soccorse proprio sul punto di annegare, oppure sono in pericolo nel momento in cui si mettono in viaggio? La sua risposta? È semplice: gli scafisti sono l’unico vettore al quale possono affidarsi in mancanza di canali legali di ingresso. Ma non sono gli scafisti che li trascinano in mare, sono loro che fuggono da immani tragedie. Libia. L’Unhcr avverte: "Hotspot? Solo lager e prigioni orribili" Il Fatto Quotidiano, 5 agosto 2017 "Non ci sono Campi o Centri per i migranti in Libia, ma solo prigioni, alcune controllate dalle autorità, altre da milizie e trafficanti, e vi sussistono condizioni orribili". Vincent Cochetel, inviato speciale dell’Unhcr per la rotta del Mediterraneo Centrale, ci tiene ad evidenziare quali siano davvero le condizioni dei migranti in Libia. In un’intervista all’Ansa spiega: "Chiunque venga sbarcato sulle coste libiche torna in queste carceri. Possiamo sperare che un giorno ci saranno centri decenti e aperti, ma oggi non esistono". Sulla missione navale italiana di supporto alle autorità di Tripoli, l’inviato speciale dell’agenzia Onu per i rifugiati spiega: "Va bene che l’Italia e altri contribuiscano ad accrescere la capacità della Guardia costiera libica, ma deve essere fatto secondo gli standard dei diritti umani e nella piena coscienza di quanto avviene nelle carceri libiche. Ed è anche importante educare la Guardia costiera libica agli standard dei diritti umani, assicurare che nessuno tra loro colluda con i trafficanti, e che chi lo fa sia processato". Sul Codice di condotta per le Ong l’Unhcr "non ha obiezioni". Libia. Tripoli divisa sulle navi italiane, il vice premier sconfessa Sarraj di Chiara Cruciati Il Manifesto, 5 agosto 2017 Il premier di unità stretto tra fuochi amici e nemici: il suo vice definisce la missione italiana "una violazione della sovranità libica". Per assurdo (ma neanche troppo) la stessa visione del rivale, il generale Haftar. Mentre la nave italiana Comandante Borsini prosegue "regolarmente" - dicono fonti della marina - la sua missione di ricognizione in Libia, lo scontro a Tripoli si accende. Il premier di unità nazionale Sarraj è stretto tra mille fuochi, nemici e "amici". Ieri il suo vice primo ministro, Fathi al Mijibri, ha sconfessato l’accordo annunciato a Roma una settimana fa al fianco di Gentiloni per l’invio di navi italiane "a sostegno della lotta all’immigrazione clandestina": si tratta, ha detto, "di una decisione unilaterale del primo ministro" e rappresenta "una violazione della sovranità libica". Per assurdo (ma neanche troppo) la stessa visione dei rivali, il parlamento ribelle di Tobruk e del suo braccio militare, il generale Haftar. Ovvero colui che due giorni fa minacciava l’Italia di bombardare le navi in acque libiche. Sebbene Sarraj sia "l’unico con potere di firma", la sua debolezza è estrema, come spiega l’analista Mattia Toaldo a Agenzia Nova: "Non è da sottovalutare" lo scontro in corso all’interno del Consiglio presidenziale, con il premier che ha sul collo il fiato degli avversari interni. Tra cui lo stesso al Mijibri, in rotta con Sarraj da gennaio quando alcune nomine da lui fatte per servizi e controterrorismo erano state bocciate. Le aveva annunciate approfittando dell’assenza del primo ministro, all’estero. Non solo: il vice premier, originario della Cirenaica, aveva tentato un avvicinamento (poi fallito) ad Haftar. Ieri ha ripreso la parola che, se non impedirà nell’immediato l’arrivo delle navi italiane, di certo fa traballare ulteriormente Sarraj, sempre più isolato in una capitale che controlla a stento. L’Italia, ha aggiunto, vuole "rioccupare" la Libia. Parole che riflettono quelle pronunciate giovedì dal figlio di Gheddafi, Saif al-Islam, sempre più vicino a Tobruk. Questo il contesto in cui l’Italia pensa di operare con una missione navale: un paese al collasso, uno Stato fallito in cui neppure il riferimento ufficiale (il governo di unità) è portatore di una visione comune. Turchia. Özcan Mutlu, l’uomo tranquillo che fa paura al sultano Erdogan di Paolo Lepri Corriere della Sera, 5 agosto 2017 Il Sultano gli ha giurato vendetta. Özcan Mutlu, parlamentare tedesco dei Verdi, nato nell’Anatolia settentrionale, ha firmato l’anno scorso la tanto attesa risoluzione di condanna del genocidio armeno: le vittime della campagna di pulizia etnica scatenata nel 1915 nell’impero ottomano furono oltre un milione e mezzo, ma la Turchia pretende da sempre che la memoria sia cancellata. A Berlino riceve continue minacce. "Trovo assurdo - ha detto a Deutsche Welle - che mi sia stato consigliato di perdonare". Con la scelta compiuta al Bundestag, Mutlu è entrato nella lista nera di Recep Tayyip Erdogan, che lo ha accusato di avere "sangue infetto". Ora gli è naturalmente impossibile visitare il Paese che ha lasciato da bambino, trasformato in una quasi-dittatura da un leader dispotico troppo a lungo blandito dalla comunità internazionale. Nel frattempo, i rapporti con la Germania hanno toccato il punto più basso. Il corrispondente di Die Welt, Deniz Yücel, e il militante di Amnesty International Peter Steudtner, entrambi cittadini tedeschi, attendono in carcere di essere processati per aver "aiutato i terroristi". "Dobbiamo riorientare la nostra politica", ha promesso il ministro degli Esteri del governo Merkel, il socialdemocratico Sigmar Gabriel. Vedremo. Ingegnere elettronico, quarantanove anni, il deputato dei Verdi è arrivato da un luogo lontano, come quel villaggio che abbandona in una notte di tempesta Mevlut, il venditore di boza (una bevanda fermentata, leggermente alcolica), protagonista di La stranezza che ho nella testa, uno dei più bei romanzi del premio Nobel Orhan Pamuk, altro avversario di Erdogan. I destini possono essere diversi, il senso di nostalgia probabilmente comune. E il viaggio di Mutlu per Kreuzberg, quasi sessanta anni dopo, è stato sicuramente meno drammatico di quello compiuto da un armeno che cercava scampo dalla ferocia dei turchi, il pittore Arshile Gorky (diventato successivamente uno dei grandi nomi del Novecento), fuggito ad Erevan con le tre sorelle e la madre, morta poi di inedia nella città in cui si vede all’orizzonte il monte Ararat. Guardatelo, questo uomo tranquillo. Molti lo ricordano come uno degli animatori del fan-club parlamentare dell’Hertha, la squadra di calcio incostante che gioca nell’Olympiastadion. Non sembra certamente un bersaglio da colpire. "Sappiamo bene chi sei e dove abiti", gli scrivono invece su Facebook nazionalisti turchi e neo-nazisti locali. Fino al 24 settembre Mutlu è impegnato nella campagna elettorale a Moabit, il quartiere famoso per la prigione prussiana, utilizzata in seguito dalla Gestapo, dove vengono rinchiusi Otto e Anna Quangel, i due anziani berlinesi che in Ognuno muore solodi Hans Fallada depositavano di nascosto biglietti contro il regime hitleriano nei condomini della capitale tedesca. I paragoni storici sono impropri, se non assurdi. Bisogna ripeterlo con chiarezza. Anche allo stesso Erdogan, che ha equiparato gli israeliani ai nazisti. È certo, però, che bisognerebbe portare altri biglietti in tutti i palazzi del mondo. Venezuela. Si insedia la Costituente voluta da Maduro. Inascoltato l’appello del Papa La Repubblica, 5 agosto 2017 Attraverso una nota della Santa Sede, il Pontefice aveva chiesto di "sospendere" il nuovo organismo che "fomenta tensione e scontro". La risposta della presidente dell’Assemblea: "No ad ingerenze straniere". L’oppositore Ledezma torna ai domiciliari. Mercosur verso sospensione di Caracas dall’unione doganale. L’Assemblea Costituente del Venezuela si è insediata nel Parlamento di Caracas e ha dato il via alla sua prima seduta. L’organismo voluto da Maduro per riscrivere la Costituzione e soprattutto svuotare di ogni prerogativa il Parlamento di cui, dopo la sconfitta alle politiche del 2015, ha perso il controllo è presieduto da Delcy Rodriguez, 47enne ex ministra degli Esteri e fedelissima di Maduro, proposta dal politico chavista Diosdado Cabello e appoggiata dai 538 membri dell’assemblea. L’ex vice presidente Aristobulo Isturiz è il primo vice presidente, mentre il secondo è l’ex procuratore generale Isaias Rodriguez. Il presidente Nicolas Maduro incassa anche il verdetto favorevole del tribunale che ha respinto la richiesta della procuratrice generale Luisa Ortega Diaz di bloccare l’insediamento della Costituente. "Il sesto tribunale di prima istanza in funzioni di controllo del circuito penale dell’area metropolitana di Caracas decreta la nullità assoluta della richiesta presentata da rappresentanti del Ministero pubblico contro l’insediamento", si legge in una nota della Corte Suprema. E in nottata, secondo una fonte governativa, il Tribunale Supremo avrebbe destituito la stessa procuratrice generale, Luisa Ortega Diaz, unica figura istituzionale che si opponeva ancora a Maduro. All’esterno del Parlamento, l’opposizione ha organizzato un’imponente manifestazione, ma anche i partigiani di Nicolas Maduro sono in strada per difendere la svolta autoritaria del presidente. Dalle 9 locali, le 15 italiane, i simpatizzanti del presidente hanno iniziato a concentrarsi in almeno tre punti della capitale, quasi tutti vestiti di rosso, il colore simbolo della cosiddetta rivoluzione bolivariana. Cade così nel vuoto l’appello di papa Francesco, che ore prima aveva chiesto, attraverso una nota della Segreteria vaticana, di sospendere "le iniziative in corso come la nuova Costituente che, anziché favorire la riconciliazione e la pace, fomentano un clima di tensione e di scontro e ipotecano il futuro. Si creino le condizioni per una soluzione negoziata". Richiesta che coincideva con quella avanzata dalla procuratrice generale Ortega Diaz, che indaga su presunti brogli commessi durante l’elezione del nuovo organismo. Delcy Rodriguez, vestita di rosso, con un infuocato discorso ha ammonito l’opposizione "fascista" e la "comunità internazionale". Alla prima ha detto di volere "pace" e che le porte del dialogo "sono aperte", alla seconda ha chiesto di "non sbagliare", ricordando che il Paese intende risolvere "i conflitti tra di noi, senza ingerenze tiranniche o mandati imperiali.. questa assemblea avrà l’incarico - ha puntualizzato - di far vedere di cosa siamo fatti i venezuelani". "Diciamo che in milioni uomini e donne usciamo in fede nelle in piazza per dire, sotto il cielo che ci protegge, ‘vogliamo pacè", ha poi sottolineato Rodriguez rivolgendosi anche "ai vertici ecclesiastici". E chiamando in causa gli Stati Uniti, che hanno imposto sanzioni contro il presidente Maduro, la presidente ha insistito: "Impero selvaggio e barbaro, non si scherza con il Venezuela, il Venezuela non si scoraggia e non si arrende mai". Dopo l’insediamento della Costituente, non lontano dalla sede del parlamento, la ‘guardia nazionale bolivarianà ha lanciato gas lacrimogeni contro un gruppo di manifestanti dell’ opposizione. La polizia chavista aveva fin da stamane bloccato gli ingressi alla sede parlamentare, ricordano gli oppositori, sottolineando che nella zona ci sono ora gruppi di motociclisti chavisti e un blindato della guardia bolivariana. Nella giornata di oggi è attesa anche la marcia di protesta convocata dalle opposizion. Il rischio di nuovi scontri con le forze di sicurezza e di nuove vittime della repressione è dunque altissimo. In questo clima di fortissima tensione, la nota redatta dalla Segreteria di Stato vaticana aveva fatto appello alle forze di sicurezza del Venezuela perché dessero "prova di moderazione" e a tutti gli attori politici e al governo del Venezuela perché "venga assicurato il pieno rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali, nonché della vigente Costituzione". La Santa Sede aveva espresso "profonda preoccupazione per la radicalizzazione e l’aggravamento della crisi in Venezuela, con l’aumento dei morti, dei feriti e dei detenuti" e il Papa "direttamente e tramite la Segreteria di Stato, segue da vicino tale situazione e i suoi risvolti umanitari, sociali, politici, economici ed anche spirituali e assicura la sua costante preghiera per il Paese e tutti i venezuelani". La procuratrice Ortega era stata citata dal presidente Nicolas Maduro tra i "nemici da schiacciare" nel suo primo discorso successivo all’elezione della Costituente. L’opposizione, che ha boicottato il voto, ha accusato il governo di aver gonfiato il dato sull’affluenza al 42%. L’ufficio di Luisa Ortega Diaz, ex fedelissima di Hugo Chavez ma in rotta di collisione con l’erede Maduro, ha depositato l’istanza "sulla base dei crimini che si sospetta siano stati commessi" durante le elezioni per la Costituente, che per la cronaca annovera tra i suoi 545 membri anche la moglie e il figlio del presidente Maduro. Tra i "nemici da schiacciare" di Maduro, ovviamente anche gli oppositori politici. Per questo ha sorpreso anche la famiglia il ritorno a casa, annunciato via Twitter dalla moglie Mitzy Capriles, di Antonio Ledezma, sindaco di Caracas e leader dell’Alianza Bravo Pueblo (Abp) agli arresti domiciliari. All’alba del primo agosto era stato prelevato nella sua abitazione da agenti dei servizi venezuelani e trasferito in carcere: "Informo il Paese che da qualche minuto, a sorpresa, Antonio è stato riportato dal Sebin nella nostra residenza. Torna agli arresti domiciliari". Mitzy Capriles ha aggiunto che, una volta a casa, "Antonio ha detto di essere ritornato con l’angoscia di sapere Leopoldo e oltre 600 prigionieri ancora dietro le sbarre". Leopoldo è Leopoldo Lopez, leader del movimento Voluntad Popular, a cui nella notte del primo agosto la polizia politica del Sebin (Servicio Bolivariano de Inteligencia Nacional) aveva riservato lo stesso trattamento: anche lui ai domiciliari, anche lui trascinato via dalla sua abitazione e portato al carcere militare di Ramo Verde. La Corte Suprema aveva motivato il provvedimento con la presunta fuga pianificata da Ledezma e Lopez. Ma da fonti vicine al governo si accusavano i due leader di opposizione di aver violato le restrizioni a cui avrebbero dovuto sottostare per godere del regime dei domiciliari. In particolare, astenersi da commenti pubblici di carattere politico, soprattutto contro l’elezione dell’Assemblea Costituente. L’esito del voto è stato criticato, contestato e apertamente disconosciuto dalla stragrande maggioranza della comunità internazionale, Ue e Italia comprese. Accanto a Maduro si sono schierati Russia, Cuba, Bolivia, El Salvador e Nicaragua. Gli Usa hanno fatto scattare le sanzioni, congelando ogni asset posseduto o riconducibile a Maduro negli Stati Uniti. E adesso il Venezuela è prossimo alla sospensione dal Mercosur, il mercato unico latino-americano, come ha rivelato una fonte del governo brasiliano. La clausola scatterà nel prossimo weekend, durante un vertice a San Paolo a cui prenderanno parte anche i ministri degli Esteri degli altri Stati membri, Argentina, Paraguay e Uruguay (Stati associati Bolivia, Cile, Perù, Colombia e Ecuador). Il Venezuela resterà fuori dell’unione doganale fino a quando la democrazia non sarà restaurata. L’Argentina, in particolare, aveva avvisato Maduro sulla possibilità di un’espulsione permanente dal Mercosur se il presidente venezuelano fosse andato avanti con la Costituente. "La situazione in Venezuela è intollerabile", ha dichiarato il ministro degli Esteri argentino Jorge Faurie da Montevideo, "per l’Argentina è chiaro che si è arrivati a un punto di rottura".