Carceri, quattro suicidi in una settimana: cosa sta accadendo? di Gioia Tagliente blastingnews.com, 4 agosto 2017 Subito misure straordinarie per monitorare le condotte nel sistema penitenziario. Contro i suicidi in carcere - 4 in 7 giorni, 32 in totale dall’inizio dell’anno - attendiamo di conoscere i dettagli del ‘Piano Nazionale per la prevenzione delle condotte suicide nel sistema penitenziario per adulti che è stato presentato ieri dal Ministro Orlando nell’incontro con i vertici dell’Amministrazione penitenziaria e del Dipartimento giustizia minorile e di comunità. Ricordo in verità che il Ministro già da un anno ha diramato una specifica direttiva, dopo numerose circolari dipartimentali, che come dimostrano le cronache di questi giorni non hanno dato i risultati sperati. C’è bisogno di misure straordinarie - "È il sistema prevenzione che ha bisogno di misure straordinarie e soprattutto del personale e, come metodo discriminante da affermare una volta per tutte, del confronto con le rappresentanze sindacali del personale di polizia penitenziaria e degli altri soggetti impegnati nella riduzione dei rischi suicidi e atti di ##autolesionismo". Ad affermarlo è Aldo Di Giacomo, segretario generale del SPP (Sindacato Polizia Penitenziaria) che aggiunge: "Il personale penitenziario, nonostante le oltre 10mila unità in meno in organico, fa già molto, anzi più di quanto è umanamente possibile. Ma siamo stanchi ed amareggiati nell’assistere a continui suicidi. Il lavoro già complicato del personale penitenziario non può bastare e se è difficile evitare un suicidio, proprio perché è un gesto estremo, si può e si deve fare di più in termini di prevenzione. In molte regioni - sottolinea il segretario generale del Spp - è stata istituita la figura del Garante regionale dei detenuti. Può sicuramente rappresentare un primo passo a cui devono seguirne altri. Il suicidio costituisce solo un aspetto di quella più ampia e complessa condizione di detenzione. Programma di prevenzione del suicidio - Quello che manca è un programma di prevenzione del suicidio e l’organizzazione di un servizio d’intervento efficace attraverso sportelli di ascolto e di aiuto e sostegno psicologico. Lo sportello, in sintesi, potrebbe avere come obiettivi: Monitorare l’ ingresso del detenuto nel carcere; sostegno psicologico -facilitare la vita del detenuto attraverso il colloquio, la consulenza legale, la consulenza linguistico-culturale, il disbrigo di pratiche amministrative, la realizzazione di attività di socializzazione; messa in rete delle risorse che il territorio offre favorendo l’inclusione/re-inclusione dei detenuti, aumentando le possibilità di reinserimento nel tessuto sociale di riferimento; promuovere e incrementare l’inclusione lavorativa dei detenuti, la formazione e l’acquisizione di competenze, il reingresso nella legalità e l’emancipazione dallo svantaggio sociale; collaborare con le diverse figure professionali all’interno dell’Istituto di pena, ed eventuale coinvolgimento di persone esterne di riferimento rispetto alle comunità di appartenenza; prevenire episodi di suicidio o tentato suicidio o autolesionismo e di aggressività all’interno delle ##carceri. Spp: non basta piano ministero Giustizia contro suicidi in carcere (Askanews) È il sistema prevenzione che ha bisogno di misure straordinarie e soprattutto del personale e, come metodo discriminante da affermare una volta per tutte, del confronto con le rappresentanze sindacali del personale di polizia penitenzia e degli altri soggetti impegnati nella riduzione dei rischi suicidi e atti di autolesionismo", aggiunge Di Giacomo, sottolineando che "il personale penitenziario, nonostante le oltre 10mila unità in meno in organico, fa già molto, anzi più di quanto è umanamente possibile. Ma siamo stanchi ed amareggiati nell’assistere a continui suicidi. Il lavoro già complicato del personale penitenziario non può bastare e se è difficile evitare un suicidio, proprio perché è un gesto estremo, si può e si deve fare di più in termini di prevenzione". "In molte regioni è stata istituita la figura del Garante regionale dei detenuti. Può sicuramente rappresentare un primo passo a cui devono seguirne altri. Il suicidio costituisce solo un aspetto di quella più ampia e complessa condizione di detenzione. Quello che manca sono un programma di prevenzione del suicidio e l’organizzazione di un servizio d’intervento efficace attraverso sportelli di ascolto e di aiuto e sostegno psicologico", prosegue la nota. "Lo sportello, in sintesi, potrebbe avere come obiettivi: Monitorare l’ingresso del detenuto nel carcere; sostegno psicologico per facilitare la vita del detenuto attraverso il colloquio, la consulenza legale, la consulenza linguistico-culturale, il disbrigo di pratiche amministrative, la realizzazione di attività di socializzazione; messa in rete delle risorse che il territorio offre favorendo l’inclusione/re-inclusione dei detenuti, aumentando le possibilità di reinserimento nel tessuto sociale di riferimento; promuovere e incrementare l’inclusione lavorativa dei detenuti, la formazione e l’acquisizione di competenze, il reingresso nella legalità e l’emancipazione dallo svantaggio sociale; collaborare con le diverse figure professionali all’interno dell’Istituto di pena, ed eventuale coinvolgimento di persone esterne di riferimento rispetto alle comunità di appartenenza; prevenire episodi di suicidio o tentato suicidio o autolesionismo e di aggressività all’ interno del ‘istituto penitenziario. Un insieme di azioni che si riferiscono anche al personale di polizia penitenziaria specie per creare un clima di maggiore serenità", conclude. La giustizia amministrativa che rallenta il Paese di Gerardo Villanacci Corriere della Sera, 4 agosto 2017 Ma sì, buttiamola in caciara. Non nell’accezione tradizionale della locuzione, cioè rovesciare il tavolo quando non si hanno argomenti convincenti da sostenere, bensì quella più subdola utilizzata da chi vuole semplicemente guadagnare tempo, fare confusione. È la tecnica un tempo più diffusa ma tutt’ora molto utilizzata di chi non volendo rispettare gli obblighi assunti, per esempio il pagamento di una fornitura, utilizza, abusandone, lo strumento processuale avviando un procedimento giudiziario nei confronti di chi, inopinatamente, da creditore, con un colpo di bacchetta "legale" viene trasformato in "controparte". È uno dei punti nevralgici del nostro complesso settore giudiziario che appieno si incunea nel parimenti articolato tema dell’accessibilità alla giustizia sotto il profilo economico. Avviare un procedimento, sia pure per finalità meramente strumentali, a conti fatti è più conveniente che rispettare gli impegni assunti e comunque i vantaggi sono di certo maggiori rispetto agli oneri da sopportare. Questa regola è valida in generale ma, verosimilmente, più dannosa per la giustizia amministrativa se non altro per una maggiore implicazione sociale delle decisioni della stessa che impattano non soltanto l’interesse di chi è direttamente coinvolto ma anche quello collettivo. Le opinioni in proposito si dividono tra chi ritiene il giudice amministrativo un elemento essenziale alla tutela del cittadino innanzi alla pubblica amministrazione, riconoscendo al più la necessità di interventi riformatori, e chi, in modo più drastico, ne auspicherebbe l’abrogazione, anche considerando che, per come è strutturata e per le funzioni che ricopre, la stessa rappresenta una anomalia del nostro Paese se comparata agli ordinamenti di altri. Siamo ormai abituati a interventi del giudice amministrativo in settori che dovrebbero essere sottratti alla sua competenza. Penso ai 1.750 aspiranti infermieri che alcuni giorni fa sono esplosi in una rabbia collettiva quando è stato loro comunicato, due ore prima dell’inizio della prova, che il Giudice Amministrativo l’aveva sospesa. É evidente a chiunque che negli ultimi anni la giustizia amministrativa ha conseguito un ruolo sempre più importante che inevitabilmente ha anche influenzato l’economia ed il mercato. D’altra parte le competenze vanno dai trasporti alla concorrenza, dall’energia alle infrastrutture, cosicché le decisioni incidono sul sistema economico e sociale influenzando non poco lo sviluppo e, in alcuni casi, la modernizzazione del Paese. Se per un verso il diritto alla buona amministrazione è stato riconosciuto come fondamentale dall’Ordinamento Comunitario, dall’altro non possiamo non considerare che con l’ultimo rapporto annuale, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha evidenziato che il contenzioso amministrativo italiano è maggiore che in altri paesi europei. Che la circostanza costituisca, come molti economisti hanno evidenziato, una contrazione della crescita che, infatti, è inferiore a quella degli altri Stati dell’Eurozona, non può negarsi per quanto, in verità, concorrono a tale disfunzione anche altre storture tra le quali l’insostenibile tassazione sulle imprese, una inadeguata attività di ricerca e di sviluppo e una sempre più ridotta competitività a causa dall’elevato costo del lavoro. Non è dato di avere certezze della tesi che l’abolizione della giustizia amministrativa produrrebbe un rilevante miglioramento e una implementazione di investitori che oggi sono fortemente disincentivati oltre che dai costi diretti ed indiretti di cui si è detto, anche dall’alto rischio che progetti infrastrutturali subiscano, proprio a seguito di un contenzioso amministrativo, dei rallentamenti se non vere e proprie sospensioni. Ma è certo che la situazione attuale è insostenibile. Abbiamo bisogno di poche ma chiare regole fondamentali, la cui violazione deve essere accertata e sanzionata in tempi e costi contenuti da giudici competenti ed imparziali. Si può comprendere il timore di chi ritiene che l’abrogazione della giustizia amministrativa sia volta sostanzialmente a sottrarre al controllo dei giudici l’azione amministrativa. Oppure la preoccupazione, nel caso in cui si volessero far confluire le competenze del giudice amministrativo in quelle della giustizia ordinaria, che ciò potrebbe determinare la definitiva paralisi di quest’ultima. Tuttavia, premesso che in nessun caso può giungersi ad una seppur minima riduzione delle tutele del cittadino, esperienze di altri Paesi, come ad esempio quello inglese che ha da tempo sviluppato un efficace sistema di Administrative Tribunales, induce a ritenere che possano essere attuate soluzioni alternative pienamente soddisfacenti per le parti interessate e al contempo utili ad evitare superflui e onerosi contenziosi. Separate le carriere di giudici e pm, o il processo accusatorio resterà un’incompiuta di Giuseppe Gargani Il Dubbio, 4 agosto 2017 I cittadini non fanno distinzione tra magistrati giudicanti e dell’accusa: segno che, a dispetto del codice del 1989, il sistema penale resta sbilanciato a favore delle procure. Il Tribunale di Roma con la sentenza su "Mafia Capitale" ha stabilito che la "banda" di Salvatore Buzzi e Massimo Carminati non ha carattere mafioso ma è finalizzata ad una corruzione molto grave come l’ammontare delle pene inflitte. Alla sentenza sono seguite polemiche e valutazioni diverse che sollecitano alcune considerazioni. Chi ha ancora dubbi sulle necessità di distinguere la funzione e la carriera del pubblico ministero da quella del giudice può forse trovare degli elementi utili nelle dichiarazioni rese dopo la sentenza dal procuratore della Repubblica di Roma, dottor Giuseppe Pignatone. Nell’intervista, apparsa sul Corriere della Sera, il magistrato non rivolge critiche alla pronuncia di primo grado nei confronti dei componenti della "Mafia Capitale", come finora era identificata l’organizzazione, ma dice di "non rassegnarsi". Pignatone, con il garbo che lo contraddistingue e con le sue argomentazioni, contesta la sentenza più che criticarla. L’opinione pubblica come sempre in questi casi, tende a non distinguere tra pm e giudice e non si dà ragione della differenza di valutazione. Tra la Procura e il Tribunale l’uomo della strada non fa distinzione, e purtroppo "l’accusa" è considerata ancora "parte privilegiata", fa parte della giurisdizione, si ispira alla cultura della giurisdizione, e non viene proprio considerata come "parte", tant’è che i pm vengono costantemente chiamati giudici anche dalla stampa dotta e informata. Per questa ragione non è consentito al pm il potere di contestare il giudice che essendo al di sopra delle parti possiede in maniera istituzionale il potere giurisdizionale, produce sentenze che hanno valore assoluto. Insomma esiste una confusione di ruoli ben presente agli addetti ai lavori ma incomprensibile ai più. Se il processo penale che nel 1989 è (in qualche modo!) diventato "accusatorio" rispondesse alla logica appunto dell’accusatorio, in cui le "parti" processuali svolgono il loro ruolo di accusa e di difesa, non vi sarebbe nessun problema, nessuna patologia, e il giudice sarebbe considerato un terzo arbitro al di sopra delle parti che decide per dare ragione ad una delle due. I pm sono fermi ancora alla logica del processo inquisitorio e ritengono di avere una "parte privilegiata" nel processo perché sta a loro il compito di fare le indagini e quindi di seguire il percorso istruttorio dall’inizio alla fine. L’anomalia che crea un problema enorme, come alcuni di noi ripetono da anni, deriva appunto dal nuovo codice penale del 1989 quando si introdusse una nuova forma di processo cosiddetto "accusatorio" che dava rilevanza assoluta all’udienza, al confronto con il giudice dove si verificano le prove. In quale caso "la parte" che accusa non più "privilegiata" che vede non accolta dal giudice terzo le sue proposte non può contestare così come contesta la difesa. Insomma la parità delle "parti" non è contemplata nell’attuale processo che viene definito accusatorio. Ecco il problema: avremmo dovuto modificare il ruolo del pm per rendere coerente la sua funzione alla nuova codificazione. Le ostilità della magistratura hanno impedito a un legislatore pavido e incerto di separare le funzioni e le carriere tra pm e giudice e la crisi del processo è tutta qui: una anomalia presente solo nel nostro Paese. Si tratta di una riforma fondamentale e pregiudiziale per rendere l’ordinamento giudiziario coerente con la struttura del processo penale e rendere evidente la terzietà del giudice e la sua preminente funzione. Ora sembra che una presa di posizione più forte rispetto al passato dell’avvocatura, così come la presa di posizione di filosofi e giuristi, abbiano fatto fare qualche passo avanti alla riforma del ruolo del pubblico ministero comunemente indicata come riforma delle "carriere". Si parla ossessivamente da anni di riforme, si è tentato di snaturare la Costituzione con un referendum incerto e pericoloso e non si dà vita alla più importante riforma del processo. Tra le tante frasi retoriche che si ripetono credo che quella di Carnelutti sia profondamente indicativa: "Un Paese si giudica per il processo che ha", e noi abbiamo un processo non trasparente che è stato anche reso più sbilanciato di recente, avendo il legislatore stabilito un tempo ancora più lungo per la prescrizione del reato. La funzione dello Stato è indebolita e la sua potestà punitiva da esercitarsi in un tempo "ragionevole" viene meno. Quanto al merito della sentenza che ha escluso l’aggravante mafiosa, c’è da dire che il reato di mafia ha una sua rigorosa configurazione che risponde a logiche precise e obiettivi ben individuati, che la legislazione ha perfezionato in questi anni e la giurisprudenza ha consolidato. Franco Roberti, procuratore nazionale Antimafia, in un recente libro di grande interesse ha scritto che non si deve "fare confusione tra mafia e criminalità organizzata". E, aggiungo io, ancor più non bisogna fare confusione tra mafia e corruzione. "Le mafie sono strutture di potere criminale caratterizzate con metodo mafioso", aggiunge Roberti, e su questo metodo si è discusso da anni in dottrina con una giurisprudenza complessa e varia, ma la legislazione ha dato contenuto e consistenza alla fattispecie indicata che non è né generica né approssimativa. Roberti aggiunge nel suo scritto che "la mafia è una "cappa" con una logica intimidatoria "tipica del clan mafioso" nella quale "si ritrovano le basi di affari, tra camorra e politica" succubi entrambi della intimidazione. Da tutte le cronache giudiziarie del processo di Roma ora terminato appare che questa banda facesse affari e esercitasse la corruzione "allegramente", a prescindere da imposizioni e ricatti, cioè in qualche modo tutti d’accordo. Ho sempre definito con tragica ironia la corruzione un reato "allegro" perché le parti partecipano attivamente e in accordo, a differenza della concussione o dell’intimidazione mafiosa che non è agevole ma turpe e ricattatoria. Ora è arrivato il momento di fare una considerazione che forse è in controtendenza alle emozioni popolari e quindi impopolare. Il problema della corruzione dilagante è un problema grave ed è un problema istituzionale che incide nella struttura pubblica, nella società, rompe il tessuto organizzativo e diventa un problema istituzionale, della democrazia, ma ha una sua precisa fattispecie, risponde a regole precise sostanziali e processuali. Se si pensa di utilizzare per la corruzione le procedure più stringenti e rigorose previste giustamente e specificatamente per i reati di mafia, si commette un errore proprio sul piano della indagine e sul piano più generale sociale e politico. Se la corruzione fosse sempre mafia, la "cappa" di cui parla Roberti non sarebbe solo a Roma ma in tutta Italia. E questo non è vero e non è possibile e diventa non credibile. Il Parlamento sempre distratto e pavido ha stabilito qualche giorno fa che si possono confiscare i beni dell’indagato per qualunque reato di corruzione, così come stabilito eccezionalmente per i reati di mafia e camorra. Siamo andati molto al di là del codice Rocco tanto criticato e vilipeso, e si è dato vita ad una norma rifiutata, perché pericolosa, da tutti i giuristi nel nostro Paese Il reato di corruzione resta tale, autonomo e naturalmente diverso dagli altri e come tale deve essere perseguito con impegno e con rigore. Che poi qualcuno o tanti si siano dimostrati contenti che nella città di Roma si siano verificati fenomeni di corruzione e non di mafia e quindi non infamanti è questione che sfugge alla intelligenza dei più. Fenomeni così gravi e diffusi, come quelli individuati nella sentenza possono essere forse più gravi della mafia?! Giustizia minorile, no del Cnf allo stralcio dal ddl sul processo di Errico Novi Il Dubbio, 4 agosto 2017 L’avvocatura: la riforma non finisca su un binario morto. Una riforma dalla gestazione difficile: il ddl civile mostra come in materia di giustizia non ci si debba per forza cimentare con la mediaticità del processo penale per restare impigliati: il terreno è accidentato comunque. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando tenta così il dribbling su una delle parti più delicate, le modifiche nel campo della giustizia minorile, che potrebbero essere stralciate. Ma dal Consiglio nazionale forense arriva l’invito a non gettare a mare il lavoro compiuto finora. Si ritiene "non ragionevole ipotizzare stralci che sarebbero facilmente letti come anticamera di un binario morto", si legge in una nota diffusa ieri del Cnf. Che prosegue: "Qualora permangano criticità e siano necessari ulteriori approfondimenti, andranno esplorati con il contributo di tutti, nei tempi opportuni. Ma l’attuazione della riforma dei Tribunali di famiglia e dei minori deve essere assolutamente realizzata". In realtà il Consiglio nazionale forense ha già offerto un significativo contributo al perfezionamento del testo, ora a Palazzo Madama. In particolare con l’emendamento 1.38, che la relatrice al Senato, Rosanna Flippin, spesso cita come "emendamento Cnf". Nella modifica, già approvata, sono state recepite gran parte delle preoccupazioni degli operatori, dei magistrati e degli assistenti sociali. In particolare è stata garantita l’uniformità del rito: oggi tra i diversi Tribunali dei minori si riscontrano modelli procedimentali disomogenei. La revisione proposta dall’avvocatura e accolta in Parlamento ha inoltre preservato l’unicità delle funzioni: il fatto dunque che si passi da Tribunali autonomi a sezioni specializzate non comporterebbe alcuna dispersione dell’attività giurisdizionale. Il Cnf, nel comunicato di ieri, propone dunque di perfezionare ulteriormente il testo ma senza stralciarlo dal ddl sul processo civile. Il riferimento è, tra l’altro, alla priorità da assicurare alla specializzazione di quei giudici che hanno già nel loro bagaglio una competenza in materia minorile e che per questo potrebbero essere sottratti al rischio di rotazioni verso altri settori, in modo da restare assegnati alle sezioni specializzate in minori e famiglia per almeno 5 anni. "Se criticità e divergenze di opinioni permangono, il Cnf è pronto a contribuire alla soluzione migliore nei tempi che saranno necessari", si osserva in proposito nella nota del Consiglio nazionale forense, "tuttavia criticità di non minore rilievo permangono anche in materia di processo civile: non si dovrà dunque parlare di stralcio ma piuttosto di un ulteriore e attento esame dell’intera normativa, con il coinvolgimento di avvocati e magistrati. Non sarebbero invece comprensibili soluzioni diverse e parziali", avverte ancora l’avvocatura istituzionale. Che ha sempre sollecitato la revisione di una parte decisiva del ddl: quella che eleva il rito sommario di cognizione a modello ordinario nel processo civile. Un passaggio che, secondo il Cnf, rischia di produrre un’oggettiva riduzione di garanzie a fronte di una solo ipotetica maggiore efficienza. Chiara dunque la richiesta di non stralciare la materia minorile da un provvedimento che necessita di ulteriori interventi nel suo insieme. "In questi mesi", ricorda ancora il comunicato, "il Cnf, assieme all’Organismo congressuale forense, con il contributo delle associazioni specialistiche e nel pieno rispetto della loro autonomia di pensiero su un tema così delicato e importante per la comunità, non ha mai perso di vista l’obiettivo. Tale obiettivo non è, né è mai stato, l’abolizione dei Tribunali per i minorenni e l’affievolimento delle garanzie per i soggetti più deboli e vulnerabili, che devono essere invece rafforzate a partire dagli elementi positivi esistenti nel sistema attuale, emendati però dai loro numerosi difetti. Così come strutturato oggi, infatti, il sistema non garantisce adeguatamente né i minori né i loro familiari", si ribadisce. "Abbiamo registrato ampie convergenze tra gli addetti ai lavori, tenendo presenti le indicazioni del Csm e degli stessi giudici minorili, sulla necessità di concentrare le competenze civili e penali di fronte a un giudice unico, effettivamente specializzato e il più prossimo possibile. Questo modello di giudice", prosegue la nota, "senza contraddire gli elementi positivi delle esperienze precedenti e senza comportare l’abolizione del Tribunale dei minori permetterà di superare una situazione che, tra frammentazione delle competenze e polverizzazione dei riti, vanifica la reale tutela dei minori e delle loro relazioni con le famiglie e moltiplica i costi sia per l’erario che per le famiglie". Il Cnf chiede dunque a governo e Parlamento attenzione su scelte che, a fine legislatura, rischierebbero di rivelarsi irreparabili. Il silenzio del Viminale sul caso Contrada di Antonio Rapisarda Il Tempo, 4 agosto 2017 "C’è il segreto istruttorio". Niente spiegazioni sulle nuove perquisizioni. Il caso Contrada sembra una fiction a puntate illimitate e col finale sempre aperto. Dopo la sentenza di revoca della condanna da parte della Corte di Cassazione, che avrebbe dovuto chiudere una vicenda aperta fin dal 1992, continua a far discutere la doppia perquisizione avvenuta nei confronti dell’ex numero due del Sisde nei giorni immediatamente successivi l’importante decisione della Corte. Davanti a questi due episodi in soccorso dell’agente è arrivata la politica che ha chiesto spiegazioni al governo sulle modalità e l’opportunità di procedere ancora nei confronti di Contrada. A spiegare la vicenda è Amedeo Laboccetta, deputato di Forza Italia: "Ho discusso, in Commissione Affari costituzionali a Montecitorio, una mia interrogazione al governo in merito all’assurda e inaccettabile vicenda legata a Bruno Contrada, assolto definitivamente dalla Cassazione, e vittima di una persecuzione senza fine, sfociata nelle ultime settimane con due perquisizioni (26 luglio e 29 luglio) da parte della Squadra mobile di Reggio Calabria". La risposta del governo è arrivata con il viceministro dell’Interno Filippo Bubbico che ha inquadrato le operazioni di polizia nell’ambito "di una più ampia indagine diretta dalla Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria sul coinvolgimento di esponenti della ‘ndrangheta nella strategia stragista ordita da Cosa Nostra agli inizi degli anni 90" e spiegato, infine, che sull’indagine "vi è il segreto istruttorio". Secondo Laboccetta "la risposta del Ministero dell’Interno è stata assolutamente inadeguata e imprecisa. Una presa di posizione burocratica e con errori oggettivi al suo interno (in merito alla perquisizione del 29 luglio si legge, "verificata la disponibilità del signor Contrada", cosa assolutamente falsa. Non solo. L’esponente azzurro ha richiesto la piena riabilitazione del poliziotto ottantaseienne e un atto pubblico da parte delle istituzioni nei suoi confronti. Nello specifico al ministro dell’Interno, Marco Minniti, e al capo della Polizia, Labocetta ha chiesto "di incontrare immediatamente, ad horas il signor Contrada a Roma, presso il Ministero dell’Interno. Chiedano scusa per quanto accaduto, dispongano il reintegro nella Polizia di Stato, con la relativa restituzione della dignità a un servitore dello Stato". In secondo luogo, poi, a suo avviso i vertici del Viminale e della Giustizia "dovrebbero stigmatizzare il comportamento della Procura di Reggio Calabria e assumere iniziative nei confronti dei suoi funzionari per le modalità con le quali sono state eseguite le perquisizioni ai danni di Bruno Contrada". Sulla vicenda delle perquisizioni anche la difesa di Contrada si è mossa di conseguenza. L’avvocato dell’agente segreto, Stefano Giordano, ha depositato alla Procura della Repubblica di Palermo un esposto per quanto successo il 29 luglio quando gli agenti della Squadra mobile di Reggio Calabria si sono presentati a casa di Contrada. Operazione che Giordano ha definito una "irruzione senza titolo". Allo stesso tempo - ed entrando proprio nel merito di quell’indagine richiamata da Bubbico - l’avvocato ha presentato alla procura una dichiarazione di Contrada che si dichiara disponibile a riferire qualsiasi elemento e a fornire qualunque tipo di documento che possano essere determinanti per le indagini sulla stagione delle stragi. "Ancora non sappiamo neanche se Contrada sia indagato o no - ha affermato l’avvocato - ma abbiamo comunque rassegnato la nostra disponibilità a fornire la nostra collaborazione". Tornando poi ai fatti del 29 luglio scorso, il legale ha ribadito l’anomalia della procedura spiegando come si sia trattato di una perquisizione fatta senza alcun titolo. "Si sono presentati alle 8 del mattino e hanno detto di volere fare quattro chiacchiere fra colleghi. In realtà però è stato un interrogatorio, con tanto di verbale che ho fotografato, e hanno anche chiesto al mio assistito di mostrargli la sua agenda personale". A sostegno della battaglia del Partito Radicale sulla "giustizia giusta", alla quale lo stesso Bruno Contrada ha aderito qualche giorno fa, da ieri si è aggiunto il fratello Vittorio. "Io - ha spiegato annunciando la sua iscrizione ai Radicali - sono fiero e orgoglioso di essere il fratello di Bruno Contrada. Innanzitutto è un galantuomo e poi è stato un uomo importante delle Istituzioni, ha fatto la carriera sul campo. Non abbiamo parenti che potevano raccomandarlo. Ha raggiunto massimi livelli nella pubblica sicurezza e ha dedicato la sua vita allo Stato, rispettoso della legge". Per ciò che riguarda la verità riguardo i processi che hanno riguardato il fratello "sono convinto che la verità uscirà fuori. Abbiamo avuto soddisfazioni dalla sentenza di Strasburgo e da quella della Cassazione". Altro discorso è quello riguardante le due "visite" che Contrada ha ricevuto a fine luglio: "Vedo che c’è ancora accanimento che non mi so spiegare. Sostengo l’innocenza di mio fratello che ho sempre aiutato. Mio fratello ha scontato il carcere che gli è stato inflitto dalle sentenze e ha rispettato quelle decisioni. Perché ora gli altri non accettano le sentenze a favore nostro?". La prescrizione può essere dichiarata anche dal giudice dell’esecuzione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 4 agosto 2017 Rientra tra i poteri del giudice dell’esecuzione, che deve rideterminare la pena dopo la pronuncia di incostituzionalità, dichiarare la prescrizione del reato, riqualificato come contravvenzione, se la prescrizione è maturata in pendenza del procedimento di cognizione e fatti salvi i rapporti ormai esauriti. È il principio messo a punto dalla Corte di cassazione, Terza sezione penale, n. 38691 depositata ieri. La sentenza chiarisce che il giudice dell’esecuzione, "deve realizzare, nella misura consentita da rapporti non esauriti e con l’esclusione di questi, una doverosa "bonifica" della sentenza irrevocabile, privandola degli elementi "inquinanti" oggetto della declaratoria di incostituzionalità, che debbono essere eliminati ab origine perché tamquam non fuissent; nei medesimi termini, dunque, nei quali si sarebbe pronunciato ilo giudice della cognizione, qualora intervenuto successivamente alla sentenza della Corte costituzionale". Si incrina la sacralità del giudicato in questo modo? Non pare alla Cassazione. Che, anzi, ricorda come una lettura di questo tenore è autorizzata dagli sviluppi recenti della giurisprudenza della Corte costituzionale. Nella sentenza n. 210 del 2013, per esempio, la Consulta avverte che al giudicato va senza dubbio attribuito un grande valore, come espressione dell’esigenza di certezza del diritto e di stabilità nell’assetto dei rapporti giuridici. Tuttavia l’ordinamento, sottolinea la Corte costituzionale, conosce anche casi in cui l’intangibilità della condanna passata in giudicato può subire delle incrinature, per effetto della necessità di bilanciare il valore costituzionale del giudicato con altri valori di segno opposto, anch’essi di piena rilevanza costituzionale. È il caso della tutela della libertà personale. Non solo. In questa direzione va anche la stessa Cassazione, che, nel 2015, a Sezioni unite (sentenza n. 37107) puntualizzò che, per effetto della dichiarazione di incostituzionalità di una norma penale sostanziale, sul trattamento sanzionatorio è necessario rimuovere gli effetti che ne discendono. In questi casi il giudicato da una parte deve essere conservato per quanto riguarda profili comunque cruciali come l’esistenza del fatto, la sua attribuzione soggettiva e qualificazione giuridica, ma la regime sanzionatorio deve essere nuovamente tarato per essere conformato alle nuove indicazioni. E allora, "nell’ambito di questo giudicato sulla pena e della sua permeabilità, può dunque coerentemente inserirsi la declaratoria di prescrizione di cui trattasi, suscettibile di affermazione anche da parte del giudice dell’esecuzione "ora per allora"; e senza che venga scalfito il "giudicato sull’accertamento", risultando per contro non intaccato, in alcun modo, l’accertamento del fatto, nei suoi elementi costitutivi, e al sua riferibilità all’imputato". E il giudice dell’esecuzione è assolutamente titolato a intervenire. Lo conferma la Corte costituzionale che, nella pronuncia del 2013, disciplinandone i poteri, precisò che non si limita a una competenza su validità ed efficacia del titolo esecutivo, ma può, in circostanza ben indicate, incidere su questo. La giurisdizione esecutiva ha cioè ampi margini di manovra, pur non confrontabili con quelli del giudice della cognizione. In altre parole, le valutazioni del giudice dell’esecuzione non contraddire quelle che emergono dal testo della sentenza diventata irrevocabile. Comuni sciolti per mafia: incandidabilità senza automatismi di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 4 agosto 2017 Corte di cassazione - Sezione I civile - Sentenza 3 agosto 2017 n. 19407. Nessun automatismo per l’incandidabilità dei componenti del Consiglio comunale sciolto per mafia. La Corte di cassazione (sentenza 19407), respinge il ricorso del ministero dell’Interno contro la decisione della Corte d’Appello di revocare la dichiarazione di incandidabilità nei confronti di vicesindaco, assessore e presidente del consiglio comunale considerati incandidabili dal Tribunale in seguito allo scioglimento della giunta per infiltrazioni mafiose. Per i giudici di seconda istanza non era dimostrato che gli amministratori non avessero controllato a dovere l’attività amministrativa, nè che avessero fatto azioni indicative di un condizionamento da parte dei clan. Troppo vaghi gli elementi a loro carico, ad iniziare dalla partecipazione ad una cena con 200 persone in cui c’erano "guardie e ladri": appartenenti alle forze dell’ordine e un paio di personaggio in "odore" di mafia. Non bastava l’affinità di uno dei ricorrenti con la figlia di un possibile mafioso né il fatto che il padrino di battesimo fosse stato un presunto boss. Anche la frequentazione, da parte di un assessore, di un soggetto indicato come noto esponente mafioso, non regge senza prove di condizionamenti. Il ministero dell’Interno nel suo ricorso aveva valorizzato l’indicazione data dalla prevalente giurisprudenza del Consiglio di Stato, secondo la quale il provvedimento di scioglimento (articolo 143, comma 11 del Testo unico Enti locali) non è di tipo sanzionatorio, ma preventivo, ragion per cui "è sufficiente che gli elementi raccolti siano indicativi di un condizionamento dell’attività degli organi amministrativi e che tale condizionamento sia riconducibile all’influenza e all’ascendente esercitati da gruppi di criminalità organizzata". E secondo il Viminale gli elementi raccolti avevano la valenza richiesta dalla norma. La Cassazione però è di diverso avviso. I giudici precisano che l’incandidabilità degli amministratori non è automatica, ma richiede una valutazione delle singole posizioni in nome del diritto costituzionale all’elettorato passivo, per verificare che collusioni o condizionamenti abbiano determinato una cattiva gestione della cosa pubblica. Un controllo che la Corte di merito ha fatto per arrivare a negare il nesso. E questa volta è la Cassazione a citare il Consiglio di Stato, secondo cui i rapporti di parentela tra amministratori ed esponenti della criminalità organizzata, non possono essere indicativi di un collegamento con l’amministrazione rilevante ai sensi dell’articolo 143 del Dlgs 267/2000, se non sono rafforzati da elementi di concretezza. Non serve la prova di una responsabilità personale, anche penale degli amministratori o evidenziare uno specifico intento di assecondare la mafia. bastano gli elementi utili far presumere l’esistenza di influenze sulla formazione della volontà degli organi elettivi. L’individuazione di un rapporto diretto o indiretto tra amministratori e criminalità organizzata può essere desunto anche da circostanze che non legittimerebbero l’esercizio dell’azione penale o l’adozione di misure cautelari nei confronti dei soggetti indiziati di appartenere ai clan, purché si tratti di elementi concreti, univoci e rilevanti. Vittorio Emanuele: l’interesse collettivo prevale sull’oblio di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 4 agosto 2017 Corte di cassazione, sentenza 3 agosto 2017, n. 38747. Sul diritto all’oblio può avere la precedenza il diritto della collettività a essere informata e aggiornata sui fatti da cui dipende la formazione delle proprie convinzioni. Anche se questo comporta un discredito per la persona titolare di quel diritto. Il principio affermato dalla Corte di cassazione (sentenza 38747) vale se questa persona è Vittorio Emanuele di Savoia, figlio dell’ultimo re d’Italia e a suo dire - sottolinea la Corte - erede al trono d’Italia. Non meraviglia, dunque, se il quotidiano La Repubblica ha ritenuto di rievocare l’"incidente" che 39 anni fa costò la vita al giovane Dirk Hamer. Un episodio collegato al ricorrente, definito nell’articolo "quello che usò con disinvoltura il fucile all’isola di Cavallo". L’accusa di diffamazione a mezzo stampa aveva "retto" in primo grado ma non in appello, dove i giudici avevano considerato il "promemoria" del giornalista espressione del diritto di cronaca. La vicenda della morte di Hamer, iniziata con l’imputazione per omicidio volontario, si era conclusa con una sentenza dell’autorità francese con l’affermazione della responsabilità per i reati di detenzione e porto abusivo di arma da fuoco. Il cronista non aveva fatto cenno a un omicidio volontario, in presenza di soli profili di imprudenza o negligenza nel maneggio dell’arma. I giudici di merito avevano dato un peso al contenuto di un’intercettazione ambientale, eseguita nella casa circondariale dove il Savoia era stato rinchiuso. In quell’occasione Vittorio Emanuele si vantava con altri carcerati di aver "fregato" i francesi, oltre a ridere dell’accaduto. Conversazioni che confermavano il coinvolgimento dell’aspirante re, tanto che un gip aveva accolto una richiesta di archiviazione in favore dell’allora direttore del quotidiano. Se i tribunali francesi non furono nella condizione di muovere contestazioni ad altro titolo (non è dato sapere - scrivono i giudici - se per il principio del ne bis in idem, valevole in ambito europeo, o per lo spirare dei termini prescrizionali, oppure per l’irrilevanza penale della condotta) non per questo è illegittimo collegare il ricorrente a un evento accaduto. Esercitando il suo diritto di critica, il giornalista ha fatto notare che la partecipazione di Vittorio Emanuele alle celebrazioni per la riapertura della reggia di Venaria era, visti i trascorsi del personaggio, quantomeno inopportuna. La sua assoluzione non esclude, per la Cassazione, altri profili di "responsabilità" di rilievo civilistico ed etico per una morte avvenuta "nel corso di una sparatoria a cui partecipo’ Savoia, al di fuori di ogni ipotesi di legittima difesa". Soldi pubblici: alla scuola o alle carceri? di Lilli Gruber Sette del Corriere, 4 agosto 2017 Il sindaco di New York Giuliani, noto per la sua tolleranza zero, schierò agenti ai tornelli del metrò per impedire l’accesso e multare chi era senza biglietto. Si scoprì che molti trasgressori avevano anche altri guai con la giustizia. È la stessa sensazione sui nostri mezzi pubblici: quella di vivere tra disonesti. Se uno è disonesto nel non pagare il biglietto, perché dovrebbe essere un irreprensibile cittadino in altri campi? Walter Donati Caro Walter, la strategia della "tolleranza zero" attribuita a Rudolph Giuliani negli anni 90, venne chiamata anche la teoria delle "finestre rotte". Ovvero, per mantenere e controllare ambienti urbani andavano repressi piccoli reati e atti vandalici e questo contribuiva a creare un clima di ordine e legalità e a ridurre il rischio di crimini più gravi. Quando Giuliani diventò sindaco nel 1994 cominciò dalla metropolitana, facendo pagare il biglietto a tutti i viaggiatori. E schierò nelle strade della Grande Mela oltre 36mila rappresentanti delle forze dell’ordine (lavoro iniziato già dal suo predecessore Dinkins). New York registrò una diminuzione del 50% di crimini, soprattutto di quelli violenti. E per quelli minori le pene vennero inasprite, facendo raddoppiare in 10 anni la popolazione carceraria americana. Quindi niente miracoli ma azioni concrete: più poliziotti e più prigioni. Tutto questo richiese però forti finanziamenti nel settore della sicurezza, che furono possibili grazie alla generale crescita economica degli Stati Uniti, dopo la fine della Guerra Fredda. E in effetti, tutte le grandi città statunitensi conobbero un crollo delle attività criminali anche per questa fase di grande prosperità. Per New York il budget del Dipartimento della polizia è ancora oggi di oltre 5 miliardi di dollari. Per il resto dell’America il sistema carcerario costa invece 80 miliardi. Cifre enormi. Sarebbe meglio investirli in posti di lavoro e istruzione piuttosto che in manganelli e celle carcerarie? Campania: lo strano caso del Garante regionale dei detenuti di Francesco Enrico Gentile huffingtonpost.it, 4 agosto 2017 Può un organo politico amministrativo quale è il Consiglio Regionale della Campania agire contra legem, in spregio di ogni regola? Risulta addirittura un’aggravante, se non una beffa, che tale azione sia prodotta in merito all’elezione del Garante dei detenuti? A quanto pare sì, può farlo, giocando con cavilli, silenzi, ignavie e ritardi. Il 4 aprile del 2016 venne emanato un avviso pubblico per le candidature alla carica di Garante delle persone sottoposte a misure restrittive, figura introdotta in Campania nel lontano 2006 con la Legge Regionale n. 18 affinché si occupasse di tutelare e difendere i diritti di detenuti. A circa un anno di distanza, tuttavia, sebbene all’avviso abbiano risposto ben 11 candidati, il Consiglio regionale della Campania continua a non procedere all’elezione del nuovo Garante nonostante esista in tal senso un obbligo di legge. Di fatto, ad oggi, per la Regione Campania la figura del Garante per i detenuti è in un regime di prorogatio permanente nonostante l’art. 2 della citata legge al secondo comma reciti: "Le volte successive alla prima, il bando (per la selezione del garante, ndr) è pubblicato dopo trenta giorni dalle dimissioni o dalla scadenza di mandato". Altra vicenda curiosa attiene al disegno di legge bipartisan presentato nel 2010 e approvato poi dal Consiglio che modificando l’art. 3 al comma 1 e l’art. 2 al comma 1 della Legge istitutiva della figura del Garante abroga le parole "non può essere rieletto" rendendo rieleggibile il Garante pro tempore il cui secondo mandato però, fatto ancor più curioso, non parte con una nuova elezione bensì con un decreto di nomina dell’allora presidente della Giunta Regionale Caldoro. Ad onor del vero, già nel 2006, la Garante (la stessa ancora attualmente in carica) fu nominata con decreto del Presidente del Consiglio Regionale, Sandra Lonardo Mastella. Ci sarebbe da ridere se non si trattasse di una figura estremamente importante in una Regione che, secondo i dati forniti dal Ministero della Giustizia, conta oltre 1000 detenuti in più rispetto alla capienza massima delle strutture, che vive situazioni disastrose ai limiti della lesione dei diritti umani fondamentali come quella della Casa Circondariale di Poggioreale. Come mai sta accadendo tutto questo? Voci di corridoio raccontano di difficoltà interne al partito di maggioranza a trovare quella che in politichese viene chiamata "sintesi sul nome". Tradotto: non si sono ancora messi d’accordo su quale corrente debba aggiungere al proprio rendiconto interno questa nomina. Nell’attesa di un accordo si continua a rinviare l’elezione del Garante. L’ultimo rinvio è del 31 luglio, tutto rimandato a settembre. Nel frattempo basta visitare la pagina web del Garante sul sito internet del Consiglio Regionale della Campania per verificare di persona l’iperattivismo dell’attuale garante: l’ultima attività risale al 2013. Cose strane assai. Marche: criticità nelle carceri, incontro tra il garante Nobili ed il presidente Mastrovincenzo anconatoday.it, 4 agosto 2017 "Evitare la marginalizzazione delle Marche nell’ambito degli interventi da mettere in atto per il sistema penitenziario". È l’appello lanciato dal Garante dei diritti, Andrea Nobili, dopo aver verificato l’aumento delle criticità in alcuni istituti regionali, soprattutto dopo le visite a Montacuto di Ancona e Villa Fastiggi di Pesaro. L’ondata di caldo, il maggior numero di detenuti con patologie psichiatriche, l’inadeguatezza degli organici e, non da ultimi, alcuni problemi strutturali, hanno portato Nobili a chiedere un’azione più ampia e condivisa. Una delle prime risposte è arrivata dal Presidente del Consiglio, Antonio Mastrovincenzo, che ha organizzato un incontro con il Garante, confermando l’attenzione dell’Assemblea legislativa nei confronti dei problemi legati al sistema penitenziario marchigiano. "Come prima cosa - ha sottolineato Mastrovincenzo - assicuriamo il nostro impegno per il rifinanziamento della legge sulle attività trattamentali, che hanno un valore specifico sul versante del recupero e della reintegrazione sociale dei detenuti. Sarà poi importante attivare, fin da subito, il pieno coinvolgimento dell’Asur, affinché sia previsto un aumento del monte ore per gli psicologi che operano nel carcere, considerato che una delle criticità rilevate dal Garante, nella sua costante azione di monitoraggio, riguarda proprio i detenuti con problematiche psichiatriche". Nel corso dell’incontro è anche stato stabilito di organizzare, nel prossimo autunno, una giornata di riflessione sullo stato del sistema penitenziario nelle Marche, da rendere concreta attraverso la partecipazione di tutti i soggetti che operano attivamente nel carcere. "Non possiamo che registrare con piacere - ha evidenziato Nobili - il livello di attenzione delle istituzioni nei confronti di una situazione che l’Autorità di garanzia sta seguendo con particolare attenzione, cercando di fornire risposte alle esigenze più diverse, a partire da quella sanitaria che oggi rappresenta probabilmente una delle maggiori criticità". Ivrea (To): l’abuso di psicofarmaci tra le cause dell’ultimo decesso in carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 agosto 2017 Aperto un fascicolo per omicidio a carico di ignoti per la morte avvenuta il mese scorso. A gennaio Silvja Manzi e Igor Boni, di Radicali Italiani, e Marco Grimaldi, capogruppo di Sel in Regione Piemonte, avevano visitato l’istituto e riscontrato l’eccessivo utilizzo di ansiolitici. Abusi e traffico di psicofarmaci tra detenuti, con la conseguenza che forse ci è scappato anche il morto. Il carcere di Ivrea, ancora una volta, continua a far discutere. A seguito della morte, avvenuta il mese scorso, di un tunisino 37enne a causa di un infarto, spunta l’ipotesi di abuso di psicofarmaci e per questo motivo il procuratore capo di Ivrea ha aperto un fascicolo per omicidio a carico di ignoti. Secondo il garante della struttura Armando Michelizza, all’interno del carcere eporediese ci sarebbe un consumo eccessivo di medicinali e i detenuti riuscirebbero a scambiare tra loro i farmaci che gli sono stati prescritti. Questi sono gli aspetti che il procuratore cercherà di approfondire dopo che il medico legale avrà depositato gli esiti dell’autopsia e tossicologico. Intanto il garante regionale dei detenuti, Bruno Mellano, ha chiesto e ottenuto di incontrare la responsabile della "Sanità penitenziaria" dell’Asl To4, Ornella Vota, che ha il compito di monitorare le terapie e le prescrizioni fatte ai detenuti del carcere di Ivrea. Va ricordato, che alla fine del mese di gennaio scorso, Ilvja Manzi e Igor Boni della direzione nazionale di Radicali Italiani, e Marco Grimaldi, capogruppo di Sel in Regione Piemonte, avevano fatto visita alla Casa circondariale di Ivrea e tra le varie criticità che avevano riscontrato, una fu proprio l’eccessivo utilizzo degli psicofarmaci, appurando che ne facevano uso quasi la totalità della popolazione detenuta. L’uso smodato degli psicofarmaci è un problema che riguarda tutta la popolazione detenuta della nostra penisola. Valium, antipsicotici, antidepressivi, benzodiazepine, ipnotici e op- piacei, questa è la pioggia di pillole colorate che si riversa tutti i giorni sui detenuti italiani. L’istituzione carceraria si serve così della psichiatria per stemperare il conflitto, e garantirsi una maggiore sopportazione, da parte dei detenuti, delle situazioni di degrado e sovraffollamento che sono costretti a subire. Inoltre c’è il sospetto che dietro alcune morti che avvengono al carcere - come il caso di Ivrea - ci sia l’ombra dell’abuso degli psicofarmaci. Un problema tanto grave da far denunciare a Francesco Ceraudo, per 40 anni dirigente sanitario dell’ospedale penitenziario Don Bosco e per 25 presidente dell’Associazione nazionale dei medici dell’amministrazione penitenziaria: "Nelle carceri italiane si entra puliti e si esce dipendenti". Non sono rari i casi di detenuti che, una volta usciti dal carcere, sono costretti a fare nuovamente uso di psicofarmaci per via dell’assuefazione. Purtroppo non abbiamo dati recenti circa l’utilizzo degli psicofarmaci. Dal 2008 la salute dei detenuti è passata dall’amministrazione penitenziaria alle Asl territoriali. Il che se per certi versi è una conquista storica, per altri significa ognun per sé. Lo studio più recente e completo risale così al 2014 ("La salute dei detenuti in Italia"), un’indagine dell’Agenzia regionale della sanità Toscana che ha coinvolto 57 strutture detentive (il 30% di quelle italiane), cinque regioni (Toscana, Lazio, Umbria, Veneto, Liguria) e Asl di Salerno: 15.751 detenuti. Nella ricerca spicca un dato: il 46% dei farmaci prescritti sono psicofarmaci. La quasi totalità di questi (95,2%) appartiene al gruppo di molecole che agisce sul sistema nervoso, con gli ansiolitici (37,8% del totale) a fare la parte del leone. Percentuale che sale vertiginosamente se si considera la fascia d’età 18- 29 anni. Ottenere una terapia è facilissimo. Ed è più facile trovare un sedativo che una tachipirina. Parma: il "caso" del carcere cittadino arriverà in Parlamento di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 agosto 2017 Patrizia Maestri, Giuseppe Romanini e Giorgio Pagliari del Pd interesseranno il governo. "Chiederemo al governo un’attenzione particolare per il carcere di Parma", così annunciano i parlamentari del Pd Patrizia Maestri, Giuseppe Romanini e il senatore Giorgio Pagliari. Tante, troppe difficoltà vengono riscontrare nell’istituto penitenziario parmense. Per questo motivo subito dopo ferragosto - approfittando della pausa parlamentare - riproporranno la loro vista annuale per confrontarsi con la dirigenza, gli operatori e i detenuti, e non mancheranno di riportare a Roma i problemi riscontrati. "Conosciamo bene le problematiche e le difficoltà delle persone che quotidianamente lavorano nel carcere di Parma - spiegano i parlamentari: è solo grazie alla dedizione che operatori socio-sanitari, educatori e agenti della polizia penitenziaria mettono nel loro lavoro che l’istituto di via Burla ha potuto sopportare un cronico sovraffollamento e un’insostenibile carenza di personale. Oggi però, come denunciato con forza dal Garante, Roberto Cavalieri, la situazione deve essere affrontata con risolutezza e per questo chiederemo un sollecito interessamento da parte del ministro della Giustizia, Andrea Orlando". Sì, perché all’indomani dell’ennesimo suicidio avvenuto nel carcere di Parma (due suicidi nello stesso carcere), il garante locale dei detenuti Roberto Cavalieri ha posto delle perplessità sulla gestione dei detenuti comuni. Ha spiegato che il numero di detenuti che nel reparto della media sicurezza, teatro dei due suicidi dell’anno, è cresciuto senza sosta sino ad arrivare a 300 unità e, come già denunciato da lui stesso su Il Dubbio, il fenomeno ha costretto la collocazione dei detenuti anche nel reparto di isolamento senza che questi siano sottoposti ad alcun provvedimento disciplinare o di altra natura. Inoltre denuncia la insufficiente presenza di agenti di Polizia penitenziaria ed educatori che da un lato sottopongono gli operatori in servizio ad eccessivo stress lavorativo e dall’altro ad una presenza insufficiente degli uomini della sicurezza spesso chiamati a sorvegliare due sezioni (100 detenuti) con un solo agente in servizio non garantendo così tempestività ed adeguatezza degli interventi nei turni serali e notturni. Altra criticità avanzata dal Garante sono le inadeguate risorse messe a disposizione dalla amministrazione per l’accompagnamento psicologico dei detenuti e il monitoraggio del disagio penitenziario. A questo va aggiunto la mancanza di attività rieducative e un sostegno a una parte consistente di detenuti tossicodipendenti, stranieri e persone con patologie psichiatriche. Inoltre c’è il problema della dirigenza del carcere, il direttore si trova costretto a gestire sia il carcere di Parma che quello di Sollicciano. Il carcere di Parma, ricordiamo, è di alta sicurezza, oltre ai detenuti comuni ci sono sezioni riservate al 41 bis, con alcuni detenuti vecchi e malati che scontano il regime duro. Alcuni hanno patologie gravi e sono ricoverati nel reparto ospedaliero in regime di 41 bis. Uno è Totò Riina e l’altro è Giuseppe Farinella. "Sappiamo di non raccogliere consensi ricordando che il carcere oltre ad essere il luogo dove dev’essere scontata la pena per gli errori commessi, non può che essere anche la sede in cui preparare i detenuti al reinserimento nella società - annotano i parlamentari del Pd che chiederanno al governo una particolare attenzione dal carcere parmense -, anche per questo è necessario assicurare ai professionisti che vi operano le migliori condizioni di lavoro, perché è soprattutto nel loro impegno che dobbiamo confidare per scongiurare che chi esce dal carcere debba tornarvi rapidamente dopo aver commesso nuovi reati". Napoli: il popolo di cittadini che abita le carceri di Aldo Masullo* Il Dubbio, 4 agosto 2017 Mentre gli italiani liberi smarriscono il senso del diritto, a Poggioreale i reclusi soffocati dal caldo discutono con ragionevolezza con il direttore: un esempio sorprendente. Quando a luglio comincio a sentire sul collo il fiato rovente del sole estivo, io non posso fare a meno di pensare alle persone rinchiuse nelle patrie galere. Nel mondo dei liberi, mentre la temperatura sale, i più progettano le fughe verso i refrigeri marini o le mitezze montane, e man mano lasciano lavoro, affari, città. Nelle carceri invece il disagio fisico e morale fatalmente cresce fino a diventare insopportabile. Le sofferenze dei corpi inaspriscono, e l’impossibilità di sottrarvisi esaspera la pena. Molto più che la privazione della libertà, giustificata (purtroppo non sempre!) dalla trasgressione compiuta, ferisce come un’onta gratuita la privazione dell’intimità. In carceri sovraffollate, spesso con i letti a castello e magari la latrina in bella vista, ogni uomo è esposto alla vista degli altri, espropriato del proprio corpo a favore di occhi estranei, indiscreti, a volte sadici. Il caldo estivo acuisce la vergogna della promiscuità. È questo il tempo in cui, sotto il cruccio dell’impotenza a difendersi, rinforzata dal collettivo malessere, ben potrebbe nelle carceri serpeggiare la tentazione della rivolta. Perciò qualche giorno fa si è letto con particolare interesse un comunicato Ansa, in cui il direttore del carcere di Poggioreale lancia sobriamente l’allarme sulla condizione dei detenuti che in questo momento ne sono gli ospiti coatti, ben 2100 su 1500 posti disponibili, essendo due reparti in ristrutturazione. La stagione estiva con i suo i eccessi climatici rende ancor più difficile la vita dei reclusi, soprattutto quando in un’unica stanza, dotata di un solo bagno, sono costretti in 4 o 5, il che non può non alimentare sia pur "piccole tensioni". Tuttavia il direttore rassicura: "Io dialogo, anche in gruppi, con tutti e non ci sono state proteste". Così ancora una paradossale contraddizione agita le cronache di questo nostro bizzarro Paese. A Roma, dinanzi alla sede solenne della massima istituzione rappresentativa della sovranità popolare, una piccola folla di cittadini liberi e facinorosi lancia invettive e minacce contro i deputati, che hanno votato una legge sui vaccini, bene o male un adempimento doveroso dello Stato a tutela della salute pubblica. A Napoli invece i detenuti di un grosso e vecchio carcere, pur afflitti dai tormenti della loro situazione, discutono pacatamente con chi ha l’ingrato compito di custodirli, e mostrano un’intelligenza del diritto che oggi non pochi cittadini liberi vanno perdendo, o forse non hanno mai avuto. Poco civili i cittadini liberi, civilissimi i reclusi! Non si può non chiedersi come e perché nell’Italia pubblicizzata dalla retorica della "grande bellezza", espressione sinonima di ordinata armonia, possano prodursi così vistose disarmonie sociali, situazioni a parti rovesciate, rudi smentite della comune ragionevolezza. Come si spieghi la prima parte del paradosso, la frequente mancanza di senso civile in persone libere, è il problema di tutta la nostra storia, riacuito negli ultimi decenni. Ma la seconda parte del paradosso, l’atteggiamento dei carcerati, assai civile nonostante le sofferenze imposte dai gravi difetti del sistema, interroga la coscienza di noi tutti e ci costringe a riconoscere un sorprendente cambiamento. Oggi le carceri sono abitate sempre meno da moltitudini di sventurati, riottosi e arrabbiati, ognuno chiuso nel rumino della propria disgrazia, e sempre più invece da un popolo di cittadini, che discutono le ragioni della loro pena e, confrontando il proprio debito con il comune bisogno di giustizia, non inveiscono contro la severità dello Stato ma, criticandone ragionatamente le inadempienze, reclamano i propri diritti. Nelle carceri è entrato il "dialogo" ! Oggi in nessun altro luogo del mondo, io credo, come nelle carceri italiane, si sviluppa e si mette alla prova la coscienza popolare che lo Stato o è stato di diritto, oppure non ha alcuna legittimazione. L’atteggiamento della collettività dei detenuti, segnalato dal direttore del carcere napoletano, non è isolato né casuale. Esso è il punto di arrivo di un processo di formazione che Marco Pannella inaugurò e che un pugno di "radicali" continua a promuovere e alimentare, prima fra tutti Rita Bernardini. È di questi giorni la partenza da Napoli della seconda "carovana della giustizia" che, dopo la prima in Calabria, compirà il giro della Sicilia, sostenuta come sempre dagli avvocati delle Camere penali. Vari sono i suoi obiettivi di politica della giustizia. Di essi il primo e fondamentale è ancora e sempre, come nell’instancabile, puntiglioso impegno di visitare le carceri, il trarre i detenuti fuori dal cono d’ombra della loro separatezza dalla vita collettiva. La detenzione è una vita congelata, un tempo sospeso. Come potrà un individuo, appena restituito alla libertà, rientrare attivamente nella vita sociale, se per un lungo, a volte lunghissimo periodo ha perduto il passo della dinamica civile, non ha più lavorato, né pubblicamente discusso sui problemi emergenti, né ha potuto percepire il nascere delle nuove sensibilità, e addirittura dai suoi concittadini è percepito come un estraneo da evitare e da escludere? Il punto è tutto qui. Se detenzione e partecipazione non si saldano in un circuito continuo, allora il principio della doverosa "rieducazione del condannato", tanto declamato nella sua perentoria formula costituzionale quanto finora assai poco praticato, non può che restare lettera morta. Quando il direttore del carcere napoletano oggi dice con malcelato ma giusto orgoglio che, pur tra le penose difficoltà in atto, "non ci sono proteste dei detenuti" ed egli stesso "dialoga" con loro, si attesta che uno spirito nuovo comincia ad animare il mondo carcerario. Siamo appena all’inizio, ma non si può disconoscere che a suscitare questo difficile inizio, dopo la lontana stagione della riforma Gozzini, è stata l’azione radicale: essa ha avviato le folle di detenuti, umiliate dalla forzata passività, a trasformarsi in un affatto inedito soggetto attivo della vita civile. Con ciò si è anche incoraggiata la maturazione di una nuova coscienza istituzionale, che va dallo stile della direzione ministeriale all’atteggiamento professionale dell’intera gerarchia della custodia, alla recentissima riforma legislativa, per la cui tempestiva normazione applicativa Rita Bernardini è di nuovo sul piede di guerra e la "carovana per la giustizia" intende con forza rilanciare l’appello. Il diritto nelle carceri è oggettivamente tra le cocenti questioni che invocano il pieno compimento dello Stato di diritto. *Filosofo Santa Maria Capua Vetere (Ce): forno-carceri, vivere in nove metri quadri a 40° di Lavinia Gerardis e Francesco Maggi Adnkronos, 4 agosto 2017 Vivere in 9 metri quadri in due, tre, a volte quattro persone senza potersi fare una doccia quando se ne ha voglia. Starsene fermi in branda sperando che dalla finestra con le sbarre arrivi un po’ d’aria. Se oltre alle sbarre non ci sono - e invece ci sono in un penitenziario su tre - le reti o le bocche di lupo che l’aria non la fanno passare. Vivere in carcere è dura, in estate e con questo caldo, ancora di più. "Anche se il regolamento del 2000 prevede che ci debba essere la doccia in cella - spiega all’Adnkronos il responsabile dell’Osservatorio di Antigone, Alessio Scandurra - 7 volte su 10 la doccia in cella non c’è". E quindi i detenuti devono spostarsi e per spostarsi devono aspettare il proprio turno. Se l’acqua c’è. E non sempre c’è. "Il carcere di Santa Maria Capua Vetere al momento è senza approvvigionamento idrico - ricorda Scandurra - e il problema non si risolverà a breve perché richiede lavori impegnativi. E quindi in questo momento si cerca di sopperire con le bottiglie". L’ora d’aria si fa un po’ prima o un po’ più tardi del solito, quando il sole non è rovente. Ma quando il cielo è stellato e l’aria più leggera la giornata dei detenuti è finita da un pezzo e si sta in cella. Consentiti ma rari i ventilatori. Perché non tutti sanno che si possono tenere e poi occupano spazio e lo spazio quando si è il doppio di quelli che si dovrebbe essere (come accade oggi in Lombardia), è prezioso. "L’estate è sempre un periodo difficile - rileva il responsabile di Antigone - perché la vita che in carcere è fatta di poco d’estate molto di quel poco lo perde: si fermano le attività didattiche, anche i volontari vanno in vacanza. Ed ecco che aumentano atti di autolesionismo e suicidi". Alba (Cn): i numeri scendono, ma è ancora emergenza affollamento di Manuela Anfosso targatocn.it, 4 agosto 2017 Il Garante dei detenuti Alessandro Prandi sul carcere "Montalto" di Alba. "Subito dopo la riapertura, come Garanti abbiamo scritto sia a Prap che al Dap segnalando l’emergenza affollamento. Adesso capiremo se in settimana ci saranno sviluppi in Parlamento. Così vedremo il da farsi". Lo scorso sabato 29 luglio il garante dei detenuti Alessandro Prandi ha fatto visita alla struttura. Il feedback é stato positivo: i lavori di ampliamento della cosiddetta area camminamento, annunciati la scorsa settimana, sono iniziati e proseguono di buon ritmo. Il numero dei detenuti è sceso a 44 e prossimamente potrebbe calare ancora di qualche unità. Un miglioramento, forse, conseguente anche alle scorse puntualizzazioni, tra le altre l’ordine del giorno approvato nell’ultimo consiglio comunale. Qual è il clima dichiarato dalle persone detenute? Sembrano più sollevati, anche alla luce del calo del numero dei ristretti che, comunque, rimane alto. Qual é la situazione ideale a cui tendere? La sezione è strutturata per accogliere 35 persone, a fine 2015 erano 12 le persone detenute. È evidente che, numeri alla mano, il sovraffollamento permane: si è passati da 55 su 35 (157%) a 44 su 35 (126%). Bisogna tenere conto, dati dell’associazione Antigone presentati in Consiglio regionale per cui il sovraffollamento nelle carceri del Piemonte è mediamente del 101%. Con questo dato Alba si sistema dietro a Novara (129%), Ivrea e Verbania (149%). Parliamo del crono programma. Le promesse del ministro Orlando non sono state mantenute, risale a metà maggio la richiesta del question time. Oggi, siamo a fine luglio, non si sa nulla. Anche nell’incontro che il Garante regionale ha avuto la scorsa settimana al Dap non sono emerse novità. Come si intende procedere? Subito dopo la riapertura, come Garanti abbiamo scritto sia a Prap che al Dap segnalando l’emergenza affollamento. Il Consiglio Comunale di Alba ha approvato un Ordine del Giorno che è stato trasmesso all’Amministrazione penitenziaria. Adesso capiremo se in settimana ci saranno sviluppi in Parlamento. Così vedremo il da farsi. Perugia: carcere di Capanne, dopo il grido d’allarme arrivano i "rinforzi" perugiatoday.it, 4 agosto 2017 "Ci sono significative novità per il carcere di Perugia, a partire dal fatto che nelle prossime settimane l’organico del personale di polizia penitenziaria sarà integrato di venticinque unità, anche diminuendo i distacchi". A comunicarlo sono i parlamentari del Pd Valeria Cardinali, Nadia Ginetti e Walter Verini, che nei giorni scorsi, dopo avere incontrato il personale ed i sindacati che avevano messo in atto una protesta di diversi giorni davanti a Capanne, si erano adoperati per sensibilizzare il Ministro della Giustizia, il Dipartimento Affari Penitenziari ed il Provveditorato interregionale. "Questa iniziativa, insieme alla mobilitazione della polizia penitenziaria, aveva prodotto due significativi risultati - aggiungono i parlamentari: un incontro al vertice del Ministero con la Direttrice del Carcere, dott.ssa Di Mario per un focus mirato sulla situazione perugina e una visita a Capanne della Commissione Centrale delle Piante organiche". "Da queste due iniziative - proseguono Cardinali, Ginetti e Verini - è emersa la decisione di integrare di 25 unità l’organico e di tener conto nell’assegnazione dei detenuti di un livello basso di pericolosità, cosa che nell’ultimo periodo non era sempre avvenuta". "Con queste decisioni che il Ministero ha già comunicato a provveditorato e Direzione - concludono i tre parlamentari umbri - la situazione potrà migliorare, anche se Perugia, come Terni e Spoleto, risente dei problemi di sovraffollamento che riguardano gli istituti di pena di tutta Italia. Per questo è importante che trovi ulteriore impulso la linea delle pene alternative e della giustizia riparativa per reati di non grave allarme sociale, che si intensifichino le iniziative per potenziare nelle carceri le esperienze di lavoro, di formazione e di socialità, per far uscire a fine pena delle persone recuperate che così non tornino a delinquere. E tutto questo con un ruolo fondamentale della Polizia Penitenziaria e delle altre figure professionali che operano negli istituti di pena" Napoli: genitori in carcere, otto minori abbandonati, "vivevano come cani randagi" di Vincenzo Ammaliato Leggo, 4 agosto 2017 Gli impiegati degli affari sociali del municipio di Castelvolturno intervenuti sul posto su segnalazione dei carabinieri hanno descritto la situazione come "raccapricciante". Gli otto minori, dai due ai diciassette anni, vivevano senza l’assistenza di alcun adulto al centro di un terreno abbandonato nella località del Villaggio Agricolo, all’interno di una piccola tenda da campeggio. Tutto attorno, un corollario di escrementi, rifiuti vari e topi. "Vivevano come un branco di cani randagi, sopravvivevano grazie alle attenzioni delle persone che abitano nei paraggi, i quali li sfamavano portandogli ogni tanto da mangiare e più spesso da bere", dice Rosalba Scafuro, assessore agli affari sociali del Comune domiziano. Si tratta di otto minori di etnia rom; sette sono fratelli, affidati alla più grande di loro, a sua volta incinta e che convive con l’ottavo minorenne, un suo coetaneo. Fino a qualche settimana fa stavano tutti insieme con i genitori dei sette fratelli in un camper parcheggiato pressappoco nella stessa area. Poi, sia il papà, sia la mamma sono stati arrestati. Poco dopo il camper è stato gravemente danneggiato da un incendio, provocato da una maldestra manovra per accendere un fuoco per cucinare. E da allora i minori hanno trovato rifugio nella tenda, senza la possibilità di lavarsi, senza cambi e senza prospettive. Hanno sopravvissuto a poche decine di metri dalla trafficatissima via Domiziana, con automobilisti di transito sempre tutti troppo distratti per accorgersi della situazione. Adesso i minori sono ospiti nella stessa casa d’accoglienza. Agrigento: la "Carovana della legalità" dei Radicali ha fatto tappa al carcere Petrusa agrigentonotizie.it, 4 agosto 2017 I deputati del partito e una delegazione della camera penale hanno raccolto delle firme per la legge sulla separazione delle carriere. La carovana della legalità del partito radicale ha fatto tappa ad Agrigento con la raccolta di firme alla casa circondariale sulla proposta di legge di iniziativa popolare dell’Unione delle camere penali italiane per la separazione delle carriere dei magistrati. Erano presenti, tra gli altri, i coordinatori del partito radicale, Sergio D’Elia e Rita Bernardini, e una delegazione del direttivo della camera penale "Giuseppe Grillo" di Agrigento composta dagli avvocati Nicolò Grillo, Giovanni Salvaggio e Gianfranco Pilato. "Si tratta di una battaglia di civiltà giuridica - ha commentato l’avvocato Pilato, segretario della camera penale - che l’Unione camere penali si è intestata insieme al Partito Radicale e che sta trovando l’assenso dei detenuti che oggi hanno apposto la loro firma. Già gli altri paesi europei sono dotati di questa legge e l’Italia dovrà al più presto adeguarsi". Radicali in visita al carcere "Petrusa" di Agrigento per una maggiore civiltà giuridica Una delegazione del Partito Radicale con Sergio D’Elia della presidenza del partito e accompagnata dagli avvocati agrigentini del direttivo Camera penale, Gianfranco Pilato e Giovanni Salvaggio, ha fatto visita stamane al carcere "Petrusa" di Agrigento nell’ambito della iniziativa che vede il Partito Radicale impegnato sul referendum "Separazione carriere magistrati". Una raccolta di firme sulla proposta di legge di iniziativa popolare dell’Unione delle camere penali italiane per la separazione delle carriere dei magistrati. "Una esperienza, quella di oggi, soddisfacente - ci ha detto in una improvvisata conferenza stampa l’avv. Salvaggio vice presidente della Camera Penale - domani ci sarà un altro incontro con altri detenuti che firmeranno per portare a compimento questa proposta di legge. Alla separazione delle carriere dei magistrati noi diamo una grande importanza per lo sviluppo del processo e per avere un processo equo". Gli ha fatto eco il segretario Gianfranco Pilato che mette l’accento sulla "battaglia di civiltà giuridica che l’Unione camere penali si è intestata insieme al Partito Radicale e che sta trovando l’assenso dei detenuti che oggi hanno apposto la loro firma. Già gli altri paesi europei sono dotati di questa legge e l’Italia dovrà al più presto adeguarsi. Con le forze politiche amanti della legalità e delle battaglie civili raggiungeremo questo importante traguardo". Altri aspetti dell’iniziativa radicale prevedono la soppressione del 41bis e dell’ergastolo, un argomento che prevede un dibattito sociale e un consenso ad alto livello. L’avv. Pilato lo fa notare sottolineando la necessità di un confronto molto serrato per il futuro prossimo. Ed è qui su questi problemi che probabilmente il Partito Radicale ritrova una maggiore unità interna. La risposta ce la da il rappresentante della presidenza del Partito Sergio D’Elia: "Abbiamo deciso di sostenere questa campagna perché l’Italia sia un paese non governato da uno stato di emergenza ma dallo Stato di Diritto. Quindi principi costituzionali ma anche nazionali e internazionali. La separazione delle carriere è solo un effetto che può aiutarci a tentare di salvare questo nostro paese. L’amministrazione della giustizia è decisiva nella vita politica e civile di un paese, se non c’è una giustizia giusta non si potrà dire che sia un paese civile. In Italia non c’è il giudice terzo con la sua funzione paritaria tra accusa e difesa che possa rendere più credibile il processo. Il nostro tour è giunto alla quinta tappa ma ne avremo fin oltre la metà di agosto. Per rispondere alla sua domanda noi siamo qui anche per salvare il Partito di Marco Pannella che ha speso tutta la sua vita per la giustizia. Questo Partito radicale rischia di scomparire se non raggiungiamo almeno tremila iscritti entro la fine di quest’anno. Il Partito Radicale è quello che esce dal Congresso di Rebibbia in cui la mozione congressuale è stata votata da due terzi dei congressisti. Le imitazioni radicali sono varie nel panorama italiano, di quelli che vogliono presentarsi alle elezioni. Ci sono i radicali elettorali. Invece il Partito Radicale è quello che non si presenta alle elezioni e dove tutti si possono iscrivere perché non è concorrente di altre tessere.. Questo è il Partito Radicale. Diffidare dalle imitazioni". Modena: separazione delle carriere, i detenuti firmano sul futuro dei magistrati La Gazzetta di Modena, 4 agosto 2017 Avvocati in carcere per raccogliere adesioni alla proposta di legge per separare i pm da chi giudica. I Penalisti Modenesi e i componenti dell’Osservatorio Nazionale Carcere dell’Unione delle Camere Penali Italiane, saranno presenti al Carcere di Modena sabato per raccogliere le adesioni dei detenuti. La Camera Penale di Modena "Perroux" aderisce al Comitato per la separazione delle carriere della magistratura, con una serie di iniziative che si protraggono da maggio. Nei mesi scorsi sono stati circa 2.200 i cittadini che hanno sottoscritto la proposta in Provincia di Modena. Nel corso di questo fine settimana gli Avvocati Penalisti saranno presenti nella mattinata di sabato 5 agosto presso la Casa Circondariale di Modena, dove raccoglieranno le adesioni dei detenuti alla proposta di riforma della Costituzione. Chiedere a un carcerato la firma per un referendum che riguarda i giudici e i pm può apparire qualcosa di bizzarro ma in realtà è una prassi ormai consolidata e fondata. "Non siamo gli unici in Italia a entrare in carcere per raccogliere firme - spiega l’avvocato Roberto Ricco della direzione modenese - la raccolta firme è in corso anche nelle carceri di altre città. I detenuti sono persone che, salvo specifici casi di condanna, godono dei diritti civili e quindi possono firmare. Questa iniziativa è nata con L’Osservatorio nazionale per le carcerario dell’Unione camere penali e in passato era già stato un cavallo di battaglia del Partito radicale". Come spiega la Camera Penale modenese, "si tratta di una occasione di assoluta importanza: dopo che tanti cittadini di tutte le estrazioni hanno sottoscritto tale proposta, i Penalisti hanno deciso di accendere i riflettori sulla realtà carceraria, offrendo alle tante persone che stanno espiando la propria pena, la possibilità di partecipare attivamente a questo importante percorso di riforma che vuole vedere finalmente un giudice terzo indispensabile al fine di realizzare un processo equo, una giustizia migliore e un carcere più giusto. Anche i detenuti potranno dunque aderire alla iniziativa, apartitica e condotta a livello nazionale, che ha già raggiunto la soglia minima di 50.000 adesioni in tutta Italia, coinvolgendo i Cittadini in questa importante battaglia di civiltà che servirà a riequilibrare il sistema giudiziario, concedendo a tutte e due le parti del processo penale (l’accusa e la difesa) le stesse opportunità di partenza nel dimostrare le proprie tesi. Lecce: dal carcere al caporalato, torna nelle piazze il Narin Camp Quotidiano di Puglia, 4 agosto 2017 Sistema carcerario, analfabetismo funzionale, ambiente e caporalato, politica internazionale, eutanasia e omo-genitorialità. Sono tutti temi di stretta attualità quelli in programma al "Narin Camp", il progetto formativo promosso dall’Associazione Terra del Fuoco - Mediterranea (che, ogni anno, accompagna gli studenti pugliesi sul Treno della Memoria) che, partito ieri, toccherà fino al 9 agosto ogni giorno una città salentina diversa, dove si terranno incontri tematici aperti al pubblico. Oggi sarà la volta di Lecce, che ospiterà alle 18 al Convitto Palmieri il primo incontro pubblico sul tema "Il sistema carcerario in Italia: percorsi di riabilitazione e condizioni di detenzione". Dopo il saluto istituzionale del sindaco Carlo Salvemini, ci sarà la proiezione del reportage "Io Ci Provo - Quando il teatro entra in carcere" di Imovepuglia.tv con Lara Napoli, poi il dibattito con Paola Leone, ideatrice e regista della Compagnia Io Ci Provo, formata da attori-detenuti, e i rappresentanti dell’Associazione Antigone che si batte per i diritti e le garanzie nel sistema penale. Il Narin Camp è alla sua seconda edizione ed è stato pensato come un momento di formazione e impegno che alleni lo sguardo degli oltre 100 ragazzi, provenienti da tutta Italia, ad una lettura critica dell’attuale contesto politico e sociale. Patrocinata dall’Università e dai Comuni di Lecce, Tricase, Castrignano dè Greci, Andrano e Castrignano del Capo, l’iniziativa è itinerante per consentire ai partecipanti di visitare diverse località del Salento e, nello stesso tempo, per permettere alla cittadinanza locale di sentirsi parte di un progetto che sensibilizzare su argomenti caldi. Domani alla Pro Loco di Santa Maria di Leuca si parlerà di analfabetismo funzionale con Valeria Dell’Anna, responsabile del Sistema Bibliotecario Provinciale di Lecce e Gigi De Luca, direttore del polo biblio-museale della Provincia di Lecce, mentre a seguire ci sarà un incontro con Adelmo Monachese del sito satirico Lercio.it. Domenica, al Castello Baronale di Castrignano dei Greci, per approfondire il tema legato all’ambiente e al caporalato si confronteranno il Comitato Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti di Taranto, il Comitato No Tap, il Comitato No al Carbone, proiettando, alla fine, il documentario "C’è di mezzo il mare" di Arci Lecce diretto da Giuseppe Pezzulla. Privacy. Il caso Paolucci è una lezione di democrazia di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 4 agosto 2017 C’è un elemento straordinario e benvenuto nella vicenda della perquisizione subita da Gianluca Paolucci, giornalista di questo giornale. Si tratta dell’ammissione di un errore materiale commesso dalla Procura della Repubblica nel consegnare tutto un blocco di documenti a un avvocato che aveva legittimamente chiesto copia di alcuni soltanto di essi. Il giornalista li aveva tutti ricevuti credendo che il segreto fosse quindi stato levato e li aveva pubblicati. Dai documenti si ricavavano informazioni di grande interesse pubblico (contatti di un’impresa assicuratrice con deputati per ottenere una legislazione favorevole). Accertato l’errore, il Procuratore della Repubblica l’ha pubblicamente riconosciuto scusandosene e disponendo riparazione. Comportamento inusuale, purtroppo, e da segnalare, perché educato, civile e democratico nel rapporto tra autorità pubblica e cittadino. Ciò detto, la vicenda merita qualche altra considerazione che prescinde dall’errore che ne è all’origine. Nel caso specifico la Procura della Repubblica doveva accertare quali documenti ancora segreti fossero giunti nelle mani del giornalista e impedirne l’ulteriore diffusione. L’interesse non era infatti in quella fase la ricerca della fonte da cui il giornalista aveva ottenuto i documenti. Semmai sarebbe stata la natura dei documenti a orientare successivamente la ricerca della fonte da cui i documenti erano usciti (brogliacci di intercettazioni telefoniche non trascritte e rimaste presso la polizia giudiziaria o invece atti già formalizzati nel fascicolo del magistrato). Se invece si fosse trattato di sequestro di cellulari e computer del giornalista, alla ricerca dell’identità di chi gli aveva fornito documenti e notizie ancora segreti, le perplessità sarebbero serie. Esse hanno riguardato le recenti perquisizioni e sequestri disposti dalla Procura di Napoli nei confronti di un giornalista che aveva pubblicato che un ministro e il comandante generale dei carabinieri erano iscritti nel registro degli indagati, essendo sospettati di aver comunicato agli interessati l’esistenza di un’indagine a loro carico (caso Consip). Anche in quel caso la notizia, ancora coperta da segreto, era di evidente grande interesse pubblico (tanto che il Parlamento ne discusse poi le conseguenze). Nonostante la prima apparenza, quindi, i provvedimenti delle due Procure della Repubblica sono diversi. Ma l’occasione permette di ricordare che la libertà della stampa di informare sui fatti d’interesse per la pubblica opinione è essenziale alle democrazie. Vi sono certo limiti, quando siano in gioco importanti ragioni di segreto. Ma è necessario che notizie utili a formare l’opinione pubblica in una società democratica possano divenir note. Potrebbe avere positivo effetto la previsione dell’accesso dei giornalisti al contenuto delle indagini penali, con riduzione del segreto al minimo e per tempi stretti, compatibili con le esigenze dell’informazione pubblica. Non sembra però questo l’orientamento legislativo. In ogni caso la condizione essenziale del lavoro dei giornalisti è la protezione delle loro fonti, che non è un privilegio del giornalista, ma un dovere professionale. Esso riguarda le fonti lecite come quelle illecite, che violano i loro doveri di riserbo. Esse possono legittimamente essere cercate e punite. Ma se la confidenzialità del rapporto tra la fonte e il giornalista non fosse garantita le fonti si esaurirebbero e con esse la stessa possibilità della stampa di svolgere il suo ruolo. La Corte europea dei diritti umani ha quasi sempre ritenuto sproporzionati perquisizioni e sequestri di materiali (specie informatici) dei giornalisti, che permettono alle autorità pubbliche di conoscere tutta la rete dei rapporti del giornalista. La Corte europea ha ritenuto giustificato l’agire delle autorità in casi in cui la scoperta della fonte del giornalista era indispensabile in indagini per fatti gravissimi (per esempio, terrorismo), mentre perquisizioni e sequestri nei confronti di giornali e giornalisti non sarebbero giustificati per il solo fatto che le notizie pubblicate sono ancora segrete. L’utilità probatoria in un’indagine penale non è l’unica che dev’essere tenuta in conto. Per esempio, in un caso del 2003 (Ernst c. Belgio), in cui alcuni magistrati erano sospettati di violazione del segreto istruttorio, la perquisizione e i sequestri nei confronti di giornali e giornalisti che avevano pubblicato le notizie sono stati ritenuti sproporzionati e così violata la libertà di stampa. Tutti gli organismi europei competenti in materia di democrazia e libertà di stampa si preoccupano del cosiddetto chilling effect, l’effetto di inibizione che si genera su tutta la professione giornalistica e sulle fonti da cui essa raccoglie le notizie. La questione non riguarda quindi questo o quel giornalista, questo o quel giornale, ma la libertà di stampa nel suo complesso. È quindi ragione di sollievo sapere, attraverso la comunicazione del Procuratore Spataro, che si è acquisito legittimamente ciò che costituiva corpo di reato e non si è invece cercato di entrare nella rete di rapporti, contatti e fonti del giornalista. Privacy. Così la Cia spegne telecamere e microfoni che proteggono le nostre case di Stefania Maurizi La Repubblica, 4 agosto 2017 A partire dal 2012, Langley ha messo a punto un software segreto che permette di disabilitare gli apparati di video e audio-sorveglianza che tanti privati cittadini installano nelle proprie abitazioni per proteggersi da ladri e intrusi. A rivelare questo programma è oggi l’organizzazione di Julian Assange in collaborazione esclusiva con Repubblica e con i francesi di Mediapart. Ha un nomignolo simpatico che conquista tutti, proprio come il film di Walt Disney a cui è ispirato: Dumbo, l’elefantino dalle orecchie così grandi che gli permettono di volare. Ma di simpatico e innocente questo programma della Cia ha veramente poco. Anzi, sembra fatto apposta per alimentare le nostre paranoie. Dumbo è un software segreto creato dalla Central Intelligence Agency per disabilitare le telecamere e i microfoni nascosti che tante persone comuni installano nelle proprie case per ragioni di sicurezza, in modo da poter rilevare intrusioni e movimenti sospetti. Perché la Cia punta a neutralizzare i sistemi di video e audio-sorveglianza installati nelle abitazioni private? Per consentire ai loro agenti di intrufolarsi indisturbati e condurre le loro operazioni di intelligence. Fantasmi che, senza lasciare traccia, penetrano anche in quelle case che i proprietari credono protette da tecnologie avanzate. A rivelare Dumbo è oggi Wikileaks in collaborazione esclusiva con Repubblica e con la testata francese Mediapart. Otto file segreti permettono di capire come funziona questa creatura di Langley, contenuta in quell’enorme archivio "Vault 7" di cyber armi della Cia, che l’organizzazione di Julian Assange ha iniziato a pubblicare nel marzo scorso. La documentazione è molto tecnica, ma il concetto è accessibile a tutti. Dumbo è un software creato dall’Agenzia a partire dal 2012 e sviluppato almeno fino a luglio 2015, data a cui risalgono i file più recenti presenti nel database. Prende di mira i computer che controllano le telecamere e i microfoni installati nelle residenze private - non quelle in grandi aziende o nelle strutture governative - e li disabilita, neutralizzando anche la connessione a internet del pc, in modo che non possa inviare alcun dato all’esterno. Non solo: Dumbo notifica agli operativi sul campo quali programmi salvano i file audio e video catturati da telecamere e microfoni, in modo che gli agenti di Langley possano modificare le registrazioni, rendendole inutilizzabili. Riesce a fare questo tipo di operazioni in modo intelligente, per esempio, portando, quando è necessario, il computer al crash, in modo che video e audio-sorveglianza sembrino andate fuori uso per uno dei tanti problemi tecnici in cui incappano milioni di macchine in tutto il mondo. E poiché quando un pc collassa c’è il rischio che salvi alcune o anche tutte le informazioni che aveva in memoria in un file - che può essere analizzato successivamente dal proprietario per capire le ragioni del guasto - Dumbo rileva i dati che verranno preservati, in modo che la Cia possa valutare se vale la pena far crashare il computer o se c’è il rischio che quei materiali salvati lascino emergere l’uso del loro programma segreto. Non è un software perfetto, Dumbo. Ed è chiaro che ha alcune limitazioni: funziona su una chiavetta usb che gli uomini della Cia devono poter inserire fisicamente nel pc preso di mira e che controlla telecamere e microfoni da disabilitare, è destinato ad essere usato solo su macchine con il sistema operativo Windows XP, Vista, Windows 7, ma anche con "versioni più recenti", recitano i documenti, senza peraltro specificare quali. Teme i programmi antivirus, tanto che nei propri file la Cia scrive: "si consiglia all’operatore di considerare la possibilità di disabilitare ogni sistema di sicurezza presente sulla macchina prima di usare Dumbo", ma si avverte di valutare questa scelta caso per caso, considerando che la disabilitazione dell’antivirus, se scoperta successivamente dal proprietario del computer, potrebbe insospettirlo. Nonostante questi limiti, questo software segreto è uno strumento piuttosto intelligente e non installa nulla sul pc dell’obiettivo, quindi una volta che l’operativo della Central intelligence ha inserito la chiavetta usb e ha fatto girare il programma, può sfilarla senza che nella macchina rimangano tracce informatiche, che potrebbero essere rilevate e analizzate da esperti. I documenti pubblicati oggi fanno parte della serie di rivelazioni che ha mandato letteralmente su tutte le furie il capo della Cia, Mike Pompeo, nominato da Donald Trump. Nel marzo scorso, Pompeo si è lanciato in un’invettiva senza precedenti contro Julian Assange. Nonostante quell’attacco al vetriolo, però, esperti del calibro di Bruce Schneier, guru della sicurezza informatica, hanno spiegato al nostro giornale come la pubblicazione di questi file segreti con tutti gli accorgimenti presi da Wikileaks, sia un’operazione sensata e di stampo completamente diverso rispetto a quella fatta dal misterioso gruppo di hacker Shadow Brokers, che avrebbero diffuso dei pericolosi software infetti utilizzabili e, di fatto, utilizzati da cyber-criminali come quelli che hanno messo a segno l’attacco Wannacry. Julian Assange, che a distanza di tre mesi dall’archiviazione dell’inchiesta svedese rimane confinato nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, non ha mai rivelato quanti documenti abbia in mano sulla Central Intelligence Agency e di quale natura siano. Impossibile, dunque, sapere se la Cia abbia perso il controllo solo del suo cyber arsenale o anche di informazioni su operazioni di intelligence estremamente controverse. Migranti. Reato d’altruismo di Luigi Manconi Il Manifesto, 4 agosto 2017 Reato umanitario: come capita non di rado, è stato il quotidiano "dei vescovi" a trovare la definizione più efficace, e moralmente e giuridicamente più intensa, per qualificare la colpevolizzazione delle Ong: e, nel caso specifico, della Jugend Rettet. Il che potrà indurre molti laici, anche solo per questa ragione, a schierarsi dalla parte della magistratura e dello Stato, quasi che gli orientamenti delle chiese e delle organizzazioni umanitarie fossero l’espressione di un profetismo antistatuale e anarcoide. Altri, e io tra questi, vedono invece in quegli stessi orientamenti un’ispirazione, rigorosamente democratica e liberale, che si rifiuta di ricondurre l’agire umano e l’azione sociale nell’ambito esclusivo degli apparati istituzionali, delle loro norme e del loro ordine superiore. È un’idea statolatrica, e tendenzialmente autoritaria, che i democratici e i garantisti non possono condividere. Se gli appartenenti a Jugend Rettet o l’equipaggio della sua nave - ma il pm di Trapani ha parlato solo di "alcuni membri" - hanno commesso reati, vengano processati e, qualora riconosciuti colpevoli, condannati. Ma finora, dai dati conosciuti e dalle stesse dichiarazioni della procura - avrebbero agito "non per denaro" ma per "motivi umanitari" - si tratterebbe solo ed esclusivamente della realizzazione di un "corridoio umanitario". Così ha suggerito Massimo Bordin nella sua rassegna stampa su Radio radicale. E a me sembra proprio che di questo si tratti. Uno di quei rarissimi "corridoi umanitari" che possono consentire ingressi sicuri in un’Italia e in un’Europa, dove tutti gli accessi legali risultano ermeticamente serrati. E, dunque, si può dire che - fatte salve l’indiscussa buona fede della magistratura e la necessità di attenderne le conclusioni - siamo in presenza, sul piano della pubblica opinione e del senso comune, di uno degli effetti della campagna di degradazione del ruolo e delle finalità delle organizzazioni non governative, in corso da mesi. E delle conseguenze di un processo - se possibile ancora più nocivo - di svilimento di alcune categorie fondamentali come quelle di salvataggio, soccorso, aiuto umanitario. Questo è il punto vero, il cuore della controversia in atto e la vera posta in gioco morale e giuridica. E, per ciò stesso, politica. Dunque, e torniamo al punto di partenza, la falsa rappresentazione da cui guardarsi oggi è quella che vedrebbe uno schieramento, definito "estremismo umanitario", utopistico e velleitario (e tanto tanto naif), e, all’opposto, un fronte ispirato dal realismo politico e dalla geo-strategia, tutto concentrato sul calcolo del rapporto costi-benefici. Ma, a ben vedere, quest’ultimo mostra tutta la sua fragilità. Davvero qualcuno può credere che sia realistica e realizzabile l’ipotesi di chiudere i porti? E di attuare un "blocco navale" nel mare Mediterraneo? Cosa c’è di più cupamente distopico dell’immaginare che la missione militare, appena approvata dal Parlamento italiano, possa essere efficace in un quadro segnato da un’instabilità oggi irreparabile, come quella del territorio libico e del suo mare? Se considerato alla luce di questi interrogativi, il reato umanitario di cui si macchierebbero le Ong rappresenta davvero la riproposizione, dopo un secolo e mezzo, di quelle fattispecie penali che precedettero la formazione dello stato di diritto. Reati senza vittime e privi di quella offensività e materialità che sono i requisiti richiesti dal diritto contemporaneo: il vagabondaggio, l’anticlericalismo, il sovversivismo, la propaganda antimonarchica. Di questi comportamenti, il reato di altruismo rappresenta una sorta di forma disinteressata ("non per denaro") e ispirata dalla obbligazione sociale e da quel senso di reciprocità che fonda l’idea contemporanea di comunità e di cittadinanza. Migranti. Cattive parole che aprono la strada al cattivo diritto di Andrea Maestri Il Manifesto, 4 agosto 2017 "Immigrati clandestini" e "soggetti la cui presenza in mare è finalizzata all’immigrazione clandestina": in quattro minuti di conferenza stampa, il Procuratore della Repubblica di Trapani parla dei migranti trasbordati dai barconi sulle navi delle Ong in mare aperto senza mai usare la parola "persone", "esseri umani", "donne e bambini in fuga", "profughi", "richiedenti asilo". Nel linguaggio burocratico sono tutti "soggetti" o "immigrati clandestini" e questo linguaggio disumanizzante e dissacrante (perché ogni essere umano è sakros, cioè unico e inviolabile) apre la strada alla deformazione della pubblica opinione, che di fronte agli "uomini di legge" che additano i "soggetti la cui presenza in mare è finalizzata all’immigrazione clandestina" correrà a chiudere porte, coscienze, cuori e senso critico. Il cattivo uso del linguaggio, troppo sottovalutato, è una parte importante del problema. E per "cattivo" intendo esattamente ed etimologicamente "prigioniero" del proprio pregiudizio, che replicato dai media e rimbalzato di bocca in bocca diventa stereotipato "linguaggio comune". Ma in questo caso il cattivo uso del linguaggio disegna anche la scenografia del cattivo uso del diritto. Se è vero (ed è vero) che il salvataggio di vite umane in mare è un preciso dovere giuridico, se è vero che la stessa fattispecie di reato (articolo 12 Testo Unico Immigrazione) esclude la rilevanza penale di chi abbia agito per salvare qualcuno dal pericolo attuale di un danno grave alla persona (è lo stato di necessità di cui all’articolo 54 del Codice penale), allora dove sta il reato e, soprattutto, chi è il criminale? Colui che trasbordando un gommone carico all’inverosimile di esseri umani evita che si ribalti facendo affogare in mare le persone trasportate? O colui che aspetta che il gommone si spinga oltre, in mare aperto, si ribalti, consegni al mare le vite dei trasportati e solo allora, codice Minniti alla mano, intervenga? E non è forse doveroso dubitare della legittimità di una missione militare dell’Italia che supporta i libici nel respingimento dei migranti, restituendoli ai campi di concentramento dove si perpetrano violenze, torture e stupri e rimettendoli nelle mani dei trafficanti di esseri umani? Contro il principio di non refoulement della Convenzione di Ginevra sulla protezione dei rifugiati (che del resto la Libia non ha ratificato, ma l’Italia invece sì) e contro l’articolo. 10 della nostra Costituzione che garantisce il diritto di asilo? Lo dico con pacatezza e rispetto ma lo dico, perché è un mio preciso dovere etico, giuridico e politico dirlo: l’uso della forza del diritto contro i diritti fondamentali delle persone e l’esercizio dell’azione penale senza conoscenza approfondita e meditata del complesso sistema dei diritti umani e dei processi migratori contro gli operatori, singoli o organizzati, di solidarietà fa il paio con la cattiva politica dei decreti Minniti-Orlando che introducono il diritto diseguale, il diritto su base etnica, l’apartheid giudiziaria. E iniziano a disegnare i contorni di uno stato autoritario". *Avvocato immigrazionista e deputato di Sinistra italiana-Possibile. Migranti. "Criminalizzare la solidarietà è un crimine di lesa umanità" di Francesco Martone Il Manifesto, 4 agosto 2017 Tribunale dei popoli. In preparazione il processo sui diritti dei migranti. Il tema dell’assise: "Chi migra e si rifugia è un soggetto di diritti inalienabili". "Un fattore specifico relativo all’impunità per le violazioni dei diritti umani dei migranti sarà quello della criminalizzazione della solidarietà. Lanciare una bottiglia vuota nel deserto dell’Arizona, e la criminalizzazione di chi lancia una bottiglia piena d’acqua ed essere accusato di "incentivare l’immigrazione illegale". Su questo il Tribunale dovrà concentrare gli sforzi nel connettere le condizioni strutturali che causano lo spostamento forzato di persone, e l’assenza di diritti in tutto questo processo". Le parole, attualissime oggi con la martellante campagna d’attacco alle Ong che salvano vite in mare, sono di Carlos Beristain, giurato del Tribunale Permanente dei Popoli che nelle settimane scorse ha lanciato a Barcellona una sessione sui diritti dei migranti e dei rifugiati. Le prime conclusioni lasciano intravvedere le linee di lavoro dei prossimi mesi del Tribunale. Nelle parole del segretario generale del Tribunale Gianni Tognoni "questo processo vuole diventare uno strumento di presenza attiva nella società una forma di alfabetizzazione culturale, legale e politica, condizione indispensabile per il riconoscimento del popolo migrante e rifugiato come soggetto di diritti inviolabili". Un processo partecipato volto a render visibile ciò che i media mainstream e la politica istituzionale vorrebbero mantenere invisibile, ovvero la soggettività del popolo migrante, inteso come soggetto di diritto. "Le immagini di dolore e la presenza dei rifugiati hanno contribuito a rendere evidente ciò che non si vuole vedere. La dignità delle persone e vittime dev’essere presa in considerazione. Il popolo migrante non potrà essere rappresentato come oggetto di consolazione o solidarietà ma come soggetto del proprio destino" ci dice Beristain. E per restituire loro dignità sarà necessario indagare le cause dell’impunità, "spesso connessa a meccanismi che spogliano queste persone dei loro diritti, ed un meccanismo che finisce per convincerci della nostra impotenza. (…) questo Tribunale prenderà in considerazione casi che permetteranno poi di intraprendere iniziative e sviluppare metodologie di indagine sui casi di violazione dei diritti umani, e processi di recupero della memoria collettiva". Di chi è sparito in mare, i "desaparecidos" e chi è sopravvissuto a tal sorte. Un compito che presuppone il ricorso a categorie nuove, articolando concetti come "necropolitica" o "crimini di pace". Concetto quest’ultimo di basagliana memoria e ripreso di recente in un bel saggio, non ancora pubblicato in Italia, di Maurizio Albahari, professore di Antropologia dell’Università di Notre Dame negli Stati Uniti. Il suo Crimes of Peace, Mediterranean Migrations at the World’s deadliest border si riferisce alle forme di violenza che sono conseguenza di situazioni di ingiustizia strutturale o istituzionale e che non necessariamente possono essere ricondotte a categorie giuridiche esistenti. Ad esempio, le migliaia di persone annegate nel Mediterraneo possono essere considerate vittime di crimini di lesa umanità? Eppoi, come sottolinea Albahari, in nome di chi o per conto di chi si commettono questi crimini di pace? Come qualificarli, se non attraverso un’analisi chiara degli eventi, meccanismi e relazioni che possano poi aiutare nell’identificazione delle responsabilità legali e politiche? Su tutti il tema della sovranità, Nelle parole di Judith Butler in una sua recente "lecture" su Critica, Crisi e Violenza tenuta a Bologna, una sovranità spacchettata, "usata à la carte" per creare una situazione nella quale una sua espressione prende il sopravvento rispetto ad altre, a seconda delle circostanze, senza che esista un principio superiore. Per Butler, non esiste un tribunale che possa risolvere i conflitti nello spazio e nel tempo generati dalle modalità scelte per "governare" i flussi migratori. Se così è allora spetta ai "popoli", convocare questo tribunale. Inizialmente proposta in Italia dal Comitato Giustizia per i Nuovi Desaparecidos e da Carovane Migranti, l’iniziativa - coordinata dalla segreteria generale del Tribunale - conta con il sostegno di decine di organizzazioni convocate dal Transnational Migrant Platform e dal Transnational Institute. Sulla base dell’atto d’accusa si snoderanno nei prossimi mesi, anche in Italia, vari filoni tematici, sulle politiche europee, il sistema delle frontiere e in particolare del Mediterraneo, la dimensione di genere. Un percorso di verità e giustizia necessario ed urgente, in Europa ed in tutto il Mediterraneo. Droghe. Relazione al Parlamento: cannabis la più usata, preoccupano le nuove Dire, 4 agosto 2017 È stata pubblicata nei giorni scorsi (nell’indifferenza generale e con un po’ di ritardo) la Relazione annuale del Dipartimento politiche antidroga. Diminuiscono consumi di cocaina, ma cresce l’allarme per le nuove sostanze psicoattive. Le associazioni: "Totale disinteresse della politica". Pubblicata senza clamori sul sito del Dipartimento politiche antidroga (Dpa) e nel generale disinteresse della politica italiana: il silenzio con cui viene accolta negli ultimi anni in Italia la Relazione al Parlamento sullo stato delle tossicodipendenze sembra essere diventata una prassi. Così, da qualche giorno, la Relazione è comparsa nel suo formato digitale sul portale del Dpa con un po’ di ritardo rispetto a quanto previsto per legge e con alcune novità: viene dedicato più spazio all’analisi del consumo tra gli studenti (relativi al 2016), mentre sono pochi i dati relativi ai consumi relativi alla popolazione in generale (con dati preliminari sul 2017). Scomparsa, invece, la presenza del contributo del privato sociale a cui era stato dedicato uno spazio nell’edizione 2016. Il silenzio sulla relazione, però, non è piaciuto alle associazioni che proprio nei giorni scorsi hanno presentato una diffida al governo in merito al ritardo cronico accumulato dalla Conferenza nazionale sulle droghe, da tenersi ogni tre anni, ma attesa da circa otto. "La relazione annuale al Parlamento sulle droghe è stata pubblicata sul sito il 1 agosto nel totale disinteresse e silenzio della politica - dichiarano Filomena Gallo, segretario dell’Associazione Luca Coscioni e Marco Perduca, coordinatore di legalizziamo.it. "È indispensabile aprire un dibattito pubblico, politico e istituzionale ma il governo invia la relazione al Parlamento quando questo chiude per la pausa estiva e lo fa senza neanche una conferenza stampa per presentarlo". I consumi in Italia. I dati contenuti nella relazione sono piuttosto freschi: si tratta delle elaborazioni preliminari dell’indagine Ipsad-2017, quindi non relative al 2016. Una decisione così giustificata dal Dipartimento: "si è scelto di presentare queste stime nonostante siano riferite al 2017 per avere elementi aggiuntivi a descrivere i mutamenti del fenomeno. È importante tuttavia considerare che essi illustrano delle evidenze assolutamente preliminari e devono essere considerati solo come indicativi di tendenze". Passando ai dati, secondo la Relazione del Dpa, in Italia un adulto su tre (il 33 per cento della popolazione tra 15 e 64 anni) ha provato nel corso della propria vita almeno una sostanza psicoattiva illegale, mentre una persona adulta su dieci lo ha fatto nell’ultimo anno. Un dato che cresce fino al 44 per cento se si parla della popolazione giovanile tra i 15 e i 34 anni. "Tra le sostanze psicoattive illecite la cannabis risulta la sostanza maggiormente utilizzata, sia nella popolazione generale che tra i giovani adulti - si legge nella relazione -. Il dato si presenta in crescita rispetto alle rilevazioni precedenti". Percentuali molto più basse si osservano per il consumo di cocaina (nella popolazione generale il 6,8 per cento nella vita, l’1,9 per cento nell’ultimo anno), ma stavolta nelle ultime indagini sia per la popolazione generale che per quella giovane-adulta, si evidenzia una diminuzione delle percentuali di consumatori di cocaina nell’ultimo anno. Anche per quanto riguarda il consumo di oppiacei si confermano valori percentuali maggiori tra i giovani adulti (2,6 per cento nella vita, 1,3 per cento nell’ultimo anno) rispetto alla popolazione generale (1,9 per cento nella vita, 0,6 per cento nell’ultimo anno). "La diminuzione osservata nel dato preliminare dell’indagine 2017 è in contro tendenza rispetto a quanto rilevato nelle indagini precedenti e quindi da rivalutare in sede di elaborazioni definitive". Dato nuovo rispetto alle edizioni passate della relazione è quello sulla diffusione di nuove sostanze psicoattive. "L’1,4 per cento di popolazione generale ne riferisce un utilizzo nell’ultimo anno - si legge nella relazione -. Tale percentuale sale al 2,5 per cento nella popolazione giovane-adulta. Tra queste sostanze la più utilizzata è la "spice", ovvero cannabis sintetica, con una quota nella popolazione generale nell’ultimo anno pari allo 0,7 per cento. Percentuale che raddoppia tra i giovani adulti. I consumi tra gli studenti. Secondo la relazione, sono circa 800 mila gli studenti che hanno provato delle sostanze illegali almeno una volta nella vita, mentre sono 650 mila quelli che hanno utilizzato almeno una sostanza psicoattiva illegale nel corso del 2016. Circa l’86 per cento di loro ha fatto uso di una sola sostanza, ma il 14 per cento è policonsumatore. Preoccupa anche l’approccio dei giovanissimi verso sostanze sconosciute. "Il 2 per cento degli studenti, quasi 50 mila ragazzi quindi - si legge nel rapporto -, ha riferito di aver assunto una o più volte sostanze senza conoscerne la tipologia; il 42 per cento ha assunto sostanze sconosciute per non più di 2 volte, il 34 per cento ha ripetuto l’esperienza oltre 10 volte". Come negli anni precedenti, la sostanza illegale maggiormente utilizzata è la cannabis, usata da quasi un terzo della popolazione studentesca, cioè circa 800 mila studenti tra i 15 e i 19 anni se prendiamo in considerazione l’uso della sostanza almeno una volta nella vita, mentre sono 90 mila quelli che la usano ogni giorno. Seguono la Spice, la cocaina, stimolanti e allucinogeni, mentre l’eroina è quella meno diffusa, anche se i suoi dati fanno segnare un leggero incremento tra chi riferisce di averla provata almeno una volta nella vita, mentre sono quasi 17 mila gli studenti che fanno uso di eroina 10 o più volte al mese. Per quanto riguarda le nuove sostanza psicoattive, sono circa 86 mila gli studenti che le hanno provate almeno una volta nella vita, il 3,5 per cento di tutti gli studenti italiani. Se a questi si aggiungono gli studenti che hanno fatto uso di cannabinoidi sintetici (Spice) si raggiunge l’11,9% quasi 300 mila studenti a testimonianza del fatto che queste ultime sostanze rappresentano le più diffuse fra le nuove sostanze psicoattive". Almeno 275 mila studenti, infatti, hanno provato almeno una volta nella vita lo Spice, mentre sono 60 mila quelli che hanno usato almeno una volta nella cita i cosiddetti "painkillers", farmaci antidolorifici usati per sballare. Altri 52 mila studenti si stima abbiano usato almeno una volta la Salvia Divinorum, mentre 37 mila la ketamina. I servizi territoriali. In Italia i SerD sono 638, uno ogni 100 mila residenti, mentre sono 917 le strutture socioriabilitative private accreditate. In entrambi i casi, però, si notano forti differenze interregionali per quanto riguarda la distribuzione sul territorio nazionale. Secondo la relazione, nei Servizi pubblici per le dipendenze, nel 2016 sono arrivati 21.458 nuovi soggetti con problematiche legate all’uso di sostanze, mentre nel complesso gli assistiti sono stati poco meno di 143 mila. "La maggior parte dell’utenza è di genere maschile - si legge nella relazione -, in cura per uso primario di eroina, e ha tra i 30 e i 54 anni. Nel corso del tempo si è assistito ad un progressivo invecchiamento della popolazione dei SerD, ma i nuovi utenti sono mediamente più giovani di quelli già in cura (32 anni rispetto a 41 anni)". Aumenta la domanda di trattamento per uso di cocaina, circa uno su tre tra i nuovi utenti, mentre resta stabile la quota di soggetti che chiede aiuto per uso primario di cannabinoidi. Per quanto riguarda i servizi del privato sociale, invece, risultano in trattamento 15.563 persone di cui poco meno del 60 per cento è concentrato in sole quattro regioni. Droghe. In Italia si spendono 14 miliardi l’anno per acquistarle Dire, 4 agosto 2017 Oltre 71 tonnellate di droga sequestrate nel 2016, contro le 154 tonnellate del 2014, ma a diminuire sono i sequestri di hashish e eroina. In crescita quelli per cocaina e marijuana. Aumentate le operazioni antidroga e le persone segnalate. Il bilancio nella Relazione al Parlamento del Dipartimento politiche antidroga. In Italia si spendono circa 14,2 miliardi l’anno per l’acquisto di sostanze stupefacenti di cui circa il 40 per cento viene utilizzato per comprare cocaina e più di un quarto per la cannabis. È quanto riporta la Relazione al Parlamento sullo stato delle tossicodipendenze pubblicata online in questi giorni sul sito del Dipartimento politiche antidroga che fa il punto sui consumi, ma anche sull’andamento delle operazioni antidroga, delle persone segnalate e delle sostanze sequestrate su tutto il territorio italiano. Secondo la relazione, il quantitativo complessivo delle droghe intercettate dalle autorità italiane è in diminuzione rispetto al 2014 quando vennero sequestrate complessivamente 154 tonnellate di droga. Nel 2016 i sequestri sono arrivati a 71,6 tonnellate. La diminuzione, però, è data soprattutto dal crollo dei sequestri di hashish, diminuiti rispetto all’anno precedente di oltre il 60 per cento, e in piccola parte anche dalla diminuzione dei sequestri di eroina (-35 per cento circa). Cocaina e marijuana, invece, fanno registrare nuovi aumenti: per la polvere bianca si parla di un incremento del 16 per cento circa, mentre per la marijuana l’incremento supera il 347 per cento. La cannabis, infatti, nel 2016 rappresenta oltre il 90 per cento della droga sequestrata in Italia, con circa 65,5 tonnellate sequestrate. Tra i sequestri, ci sono anche le droghe sintetiche che nel 2016 hanno registrato un incremento per quanto concerne le presentazioni "in polvere" (+25 per cento). I sequestri più significativi, in questo caso, sono avvenuti a Roma, dove sono state intercettate oltre 6 mila pastiglie di ecstasy, a Lecco (più di 5 mila dosi di Lsd e infine a Bologna, con 17 chili di Dimetilriptamina. Nel 2016, inoltre, le operazioni antidroga sono state 23.734, con un aumento rispetto al 2015 del 23 per cento. Operazioni condotte soprattutto in Lazio, con un totale di 4 mila operazioni, Lombardia (3,6 mila) e Campania (2 mila). Tuttavia, le regioni che hanno visto un incremento degli interventi di polizia sono Toscana, Lazio, Sardegna, Emilia Romagna, Sicilia e Friuli Venezia Giulia. Quasi 33 mila le persone segnalate all’autorità giudiziaria, in aumento rispetto agli anni precedenti, spiega la Relazione. "Quasi due terzi dei denunciati è di genere maschile, di età compresa tra i 20 e i 39 anni. La maggior parte delle denunce è associata ai derivati della cannabis, seguono quelle per cocaina ed eroina (tutte in aumento), mentre quelle per droghe sintetiche (1,2 per cento) sono in diminuzione". Quasi 10 mila, invece, i soggetti condannati per reati di produzione, traffico e detenzione di sostanze stupefacenti e/o associazione finalizzata al traffico di queste (artt.73 e/o 74 Dpr 309/90). Per quanto riguarda la popolazione carceraria, invece, sono oltre il 34 per cento i detenuti per reati di droga (artt.73 e/o 74 Dpr 309/90), diminuiti rispetto al 2014. Diminuiscono anche i nuovi ingressi, di cui la metà è rappresentato da stranieri. Sul totale dei detenuti per reati droga correlati, invece, la presenza degli stranieri scende al 39 per cento. Sugli oltre 21 mila minori in carico ai servizi sociali della Giustizia minorile, quelli per reati droga correlati, inoltre, sono il 18 per cento, quindi poco più di 3,9 mila. Rispetto ai 1.141 ingressi in Istituti Penali, invece, quelli per reati droga correlati sono il 13,7 per cento. I minori collocati in Comunità, infine, sono stati 87. Infine le segnalazioni al Prefetto per detenzione per uso personale di sostanze stupefacenti mostra un leggero incremento rispetto agli anni precedenti, dovuto in parte al trend crescente del numero di segnalati minorenni. L’80 per cento circa delle segnalazioni è per possesso di cannabinoidi, segue la cocaina (12,7 per cento circa), gli oppioidi (5,7 per cento) e altre sostanze illegali. Sette segnalati su dieci hanno meno di 30 anni. Droghe. Associazione Coscioni: i silenzi del governo su un mercato da 14 miliardi Left, 4 agosto 2017 Al primo posto la cannabis, col 9,8%. Poi le cosiddette "nuove sostanze psicoattive" col 1,4%, la cocaina con l’1%, infine spice (dall’inglese "spezia", è una droga sintetica derivata dei cannabinoidi), eroina ed oppiacei. Per un totale di circa 4 milioni di italiani che hanno fatto uso di almeno una di queste droghe durante l’ultimo anno - un italiano su dieci - ed un giro d’affari di circa 14,2 miliardi di euro. Sono i dati presentati al interno della relazione annuale al Parlamento sullo stato delle tossicodipendenze in Italia, curata dal Dipartimento delle politiche antidroga, e resa pubblica il 1 Agosto. "Nel totale disinteresse e silenzio della politica", come denunciano Filomena Gallo, segretario dell’associazione Luca Coscioni, e Marco Perduca, coordinatore di Legalizziamo.it. "Di fronte a questo potenziale economico - proseguono i due portavoce - è indispensabile aprire un dibattito pubblico, politico e istituzionale ma il Governo invia la relazione al Parlamento quando questo chiude per la pausa estiva e lo fa senza neanche una conferenza stampa per presentarlo né, tanto meno, annuncia risposte alla diffida che con Antigone, Forum Droghe, la Lila e la Società della Ragione abbiamo inviato il 31 luglio al Presidente Gentiloni per chiedere la convocazione della Triennale (ma assente dal 2009) Conferenza Nazionale sulle Droghe dove il contenuto della Relazione dovrebbe esser discusso istituzionalmente". "Possibile che i Presidenti Grasso e Boldrini non abbiano nulla da dire rispetto a questa mancanza di rispetto del Parlamento e delle sue prerogative di ‘cane da guardià dell’operato del Governo?" concludono Gallo e Perduca. Continuando a leggere i dati, si nota che la spesa per sostanze è divisa tra cocaina (43%), cannabis (28,2%), eroina (16,2%) e altre sostanze sintetiche (12.7%). L’associazione Luca Coscioni è impegnata nella tutela delle libertà civili dei cittadini su temi come libertà di ricerca scientifica, antiproibizionismo, legalizzazione Cannabis, legalizzazione dell’eutanasia, testamento biologico, eliminazione delle barriere architettoniche, diritti dei disabili, fecondazione assistita e iniziative per eliminazione divieti della legge 40. Libia. Il generale Haftar minaccia di bombardare le navi italiane La Stampa, 4 agosto 2017 Lo riferisce l’emittente televisiva Al Arabiya. La decisione a sorpresa dopo l’intesa raggiunta a Parigi con il premier Fayez al Serraj. Ma per il Governo italiano la notizia è "inattendibile" e "infondata". Il generale Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica, e rivale del premier Fayez al Sarraj, malgrado l’apparente intesa raggiunta in Francia ospiti del presidente Emmanuel Macron, avrebbe ordinato alle sue forze aeree di bombardare qualsiasi nave militare italiana entrata nelle acque territoriali libiche su richiesta di Sarraj. Lo riferisce la rete Al Arabiya, secondo la quale dall’attacco verrebbero escluse solo le navi commerciali. Proprio oggi è giunta nelle acque libiche diretta a Tripoli la nave "Comandante Borsini" dopo aver ricevuto le necessarie autorizzazioni. Si tratta di un pattugliatore d’altura inviato con compito di ricognizione in vista della missione italiana a supporto della Guardia costiera libica nel contrasto al traffico di esseri umani. Il parlamento di Tobruk che fa capo a Karifa Haftar, aveva espresso in giornata forti critiche al governo di Fayez Sarraj, riconosciuto a livello internazionale, per aver concluso l’accordo con gli italiani: la presenza di navi straniere nel mare libico "sarebbe una violazione della sovranità del paese", secondo Tobruk. "Inattendibile" e "infondata". Così fonti governative italiane hanno commentato all’AGI la notizia di minacce all’Italia da parte del generale Khalifa Haftar. Le stesse fonti sottolineano poi che la richiesta di intervento di supporto e accompagnamento militare italiano è venuta dalle autorità libiche riconosciute in ambito internazionale, dall’Onu (per l’appunto il governo di Fayez al-Sarraij), ma l’Italia è presente anche in altra zona di quel Paese, come Misurata, che è sotto il controllo di altra fazione. Lì c’è personale militare sanitario che sta conducendo l’Operazione Ippocrate, con l’allestimento di un ospedale per la cura di libici - civili e militari - feriti. E inoltre sono già decine i libici feriti che da Misurata sono stati trasferiti in Italia negli ospedali militari del Celio, a Roma, e in quello di Milano perché necessitavano di cure più complesse e prolungate. Un motivo in più - si fa rilevare - per ritenere inattendibile la notizia di questo ordine di attacco da parte del generale Haftar. Turchia. Strasburgo: "No al rilascio dei due insegnanti turchi" di Chiara Cruciati Il Manifesto, 4 agosto 2017 La Corte Europea per i diritti umani boccia la richiesta di Semih Ozakca e Nuriye Gulmen, in sciopero della fame da 147 giorni dopo il licenziamento da parte di Ankara. Due dei 150mila dipendenti pubblici purgati da Erdogan. La bocciatura da Strasburgo è arrivata mercoledì: la Corte Europea per i diritti umani ha rigettato la richiesta di rilascio mossa dai due insegnanti turchi, Semih Ozakca e Nuriye Gulmen, in sciopero della fame dal 10 marzo e poi arrestati dalle autorità di Ankara con l’accusa di essere membri del gruppo di estrema sinistra Dhkp-C (considerato organizzazione terrorista). Secondo i giudici, la detenzione non è una minaccia alla vita dei due insegnanti che sopravvivono con acqua, sale e zucchero da quasi 150 giorni. La loro battaglia è cominciata dopo il licenziamento, Ozakca dal suo posto di lavoro in una scuola primaria e Gulmen dall’università. Entrambi accusati - insieme ad altri 150mila dipendenti pubblici sospesi, cacciati o incarcerati - di sostegno al tentato golpe del 15 luglio 2016 o di legami con gruppi terroristici. Vittime delle epurazioni di massa, hanno iniziato a rifiutare il cibo diventando presto un simbolo di quella fetta di società devastata dalle purghe. Al momento sono ricoverati all’ospedale della prigione di massima sicurezza di Sincan, nella capitale. L’ultimo referto medico, del 28 luglio, parla di condizioni di salute gravissime. Ma per la Corte Europea il carcere non c’entra: "La detenzione all’ospedale di Sincan non rappresenta un rischio reale e imminente di danni irreparabili alla loro vita - scrivono i giudici di Strasburgo - Per questo rigettiamo la richiesta di rilascio". I due possono solo essere visitati da medici indipendenti che poi informeranno la corte degli sviluppi. Un punto a favore del presidente Erdogan, almeno sul piano politico, per l’uomo che sta distruggendo la società civile turca e zittendo ogni voce critica, oppositore o presunto tale. Dal punto di vista simbolico, il rigetto dell’istanza di Nuriye e Semih ha un potenziale significativo all’interno, agli occhi di un’opinione pubblica che sa di trovarsi in una fase ancora più difficile dopo la vittoria (di misura e non senza accuse di brogli e impedimenti al voto nelle zone a maggioranza kurda) al referendum sulla riforma costituzionale. La sentenza della Corte Europea giunge mentre alcuni siti indipendenti hanno riportato la notizia dell’ennesima morte dietro le sbarre: un ex capo di polizia, il 52enne Ahmet Tatar, è stato trovato senza vita in carcere, dove era detenuto per presunti legami con l’imam Gülen (considerato la mente del tentato putsch). Si tratta del 29esimo caso di morte di un prigioniero dal 15 luglio 2016. Tra i filippini che combattono l’Isis lungo il fronte orientale del terrore di Marco Maisano La Stampa, 4 agosto 2017 Chiese in fiamme e cecchini: a Marawi, capitale del Califfato in Asia. I jihadisti resistono all’esercito. I civili: i nostri fratelli musulmani ci uccidono. Il mondo festeggia la liberazione di Mosul e attende quella di Raqqa. Pochi però, anzi pochissimi sanno che l’Isis ha tentacoli che raggiungono l’Estremo Oriente, e che anche lì ha una propria capitale: Marawi. Siamo nelle Filippine, meta ogni anno presa d’assalto da turisti di tutto il mondo. Da mesi, però, il Paese si sveglia con un problema che non credeva di dover affrontare, lo Stato islamico. La mattina del 23 maggio, mentre il presidente Duterte è in visita a Mosca, un nutrito gruppo di miliziani appartenente al movimento Maute, il nome dell’Isis nelle Filippine, occupa la città di Marawi, "the islamic city of Marawi", come la chiamano gli abitanti, quasi tutti musulmani. È un centro di 175 mila abitanti, capoluogo della provincia di Linao del Sur nella regione autonoma a maggioranza islamica di Mindanao. I terroristi catturano ostaggi cristiani e uccidono il capo della polizia locale. Lo Stato risponde imponendo la legge marziale, oggi ancora in vigore. Arriviamo a Marawi la mattina presto. Se non fosse per i cartelli stradali, potremmo essere in Iraq sulla strada che conduce da Erbil a Mosul: militari ovunque, check point ogni chilometro, camion e risciò carichi di profughi. "Avete visto uno di questi maledetti?" chiede ridacchiando un militare al check point poco prima di Marawi. Con il mitra punta un cartellone con la scritta "Wanted" e sotto una trentina di volti formato fototessera. "Sono i terroristi che hanno attaccato Marawi. Memorizzateli, se li vedete da qualche parte chiamate questo numero". Tra i ritratti dei terroristi spuntano anche quelli di donne con il Niqab sollevato. A occhio tutti i ricercati sembrano filippini. Proseguendo il viaggio si notano i segni di una città in guerra: case distrutte dai bombardamenti, crateri in mezzo alla strada creati dai colpi di mortaio e auto carbonizzate. I segni dei jihadisti - Nelle abitazioni abbandonate si trova di tutto: album fotografici, vestiti, giocattoli, cibo andato a male, ma anche stivali da soldato e copie del Corano. Tutti oggetti che ricordano chi ci abitava, ma anche chi di recente, come i terroristi, è passato di qui. Sulle pareti, fuori e dentro le abitazioni, si legge "I love Isis" e la dichiarazione di fede dei musulmani "la ilaha illa Allah". Ci muoviamo verso "Capital", il centro logistico della missione militare a Marawi. Qui oltre ai soldati vivono decine di famiglie di profughi. Se ne stanno nei palazzi che fino a qualche settimana fa ospitavano gli uffici del Comune. "Noi abitavamo in centro e la nostra vita scorreva tranquilla", racconta Yousep, un ragazzo di 27 anni che si improvvisa barista, vendendo caffè solubile a pochi centesimi. Ma come è possibile che nessuno si sia accorto che centinaia di civili si stavano armando? "Noi non abbiamo sentito, né visto nulla. È tutto successo all’improvviso. Secondo me i ragazzi di Maute sbagliano, hanno distrutto la nostra città, ma sono comunque fratelli, siamo tutti musulmani". Lo spirito di Yousep, parlando con altri profughi nel campo, è relativamente diffuso: molti considerano i terroristi "compagni che sbagliano". Ma qui a Capital al momento le persone hanno altro a cui pensare: manca acqua, letti e soprattutto si rischia di essere uccisi. "I proiettili arrivano fino a qui. La gente viene colpita mentre va al bagno". Qualche mese fa a perdere la vita è stata anche una giornalista australiana, colpita al collo da un proiettile vacante. Non tutti i civili sono riusciti a lasciare la città in tempo, molti sono stati fatti prigionieri, alcuni di fede cristiana, come il prete Don Suganob. Di loro arrivano poche notizie anche se il portavoce dell’esercito filippino Jo-Ar Herrera, parla di donne diventate "schiave sessuali" e di chiese e cristiani "dati alle fiamme". In prima linea - Otteniamo il permesso di andare lungo la linea del fronte. Prima di partire, alcuni dei soldati si fanno il segno della croce. Il mezzo con cui ci muoviamo è tappezzato di foto della Madonna e crocifissi. "Noi siamo cristiani, loro no, ma fa comunque male combattere contro i propri connazionali" dice Danilo, giovane soldato arrivato da Manila. "Io non sono particolarmente osservante, ma qui…". Ma qui tutto cambia, perché il rumore delle bombe e delle mitragliatrici si fa più distinto, fino a farti sobbalzare ogni istante. Scendiamo dalla jeep e ci muoviamo a piedi. "Da qui in poi è più sicuro muoversi in piccoli gruppi senza fare rumore", ci avvertono. In un silenzio surreale corriamo da un angolo all’altro della strada, stando attenti a fare silenzio. "Se i cecchini ti sentono è facile che ti vedano, ma serve comunque sempre un po’ di fortuna", sussurra un soldato. Continuiamo veloci ancora per un paio di incroci fino a raggiungere la base a pochi metri dal fronte. I soldati nel piazzale stanno sparando colpi di mortaio: "Gliene lanciamo decine ogni giorno, ormai sono rimasti asserragliati oltre il ponte, sono circa in sessanta", dice il comandante. Sessanta non sono tanti, ma sembrano ancora ben armati: a ogni colpo dell’esercito i terroristi rispondono con altrettanta forza. Sul blindato - Vicino a noi c’è uno dei pochi blindati in dotazione ai militari. L’esterno è ricoperto di tavole di legno, a rinforzare la struttura del mezzo, su cui campeggiano grandi scritte con lo spray rosso "Die Isis", "muori Isis". "Non ne abbiamo tanti come questo, quasi sempre ci muoviamo a piedi". Saliamo a bordo per raggiungere il fronte. "Non muovetevi, state fermi e aspettate le nostre indicazioni. Proveremo a superare il ponte", ci dicono. In silenzio ci dirigiamo verso il fiume. Il soldato alla ralla si gira in continuazione e di tanto in tanto spara qualche colpo. Arrivati al ponte il mezzo si ferma. "È pieno di cecchini, non sempre è possibile passare", fa eco l’autista. Davanti a noi c’è la desolazione più completa, a rompere il silenzio ci sono solo i fischi dei proiettili e i colpi di mortaio. "Non è sicuro", ripete l’autista. Il mezzo fa manovra, esita ancora fino a che il rallista, l’unico con una visuale completa, consiglia di tornare indietro. Intanto il sole è sceso, è quasi buio e tornare indietro è troppo pericoloso. Così dormiamo nella base con soldati tra i 18 e i 30 anni, tutti con poca esperienza sul campo di battaglia. I bombardamenti vanno avanti fino a notte fonda e solo una volta interrotti si riesce a prendere sonno per qualche ora. "Tra qualche giorno è finita", sussurra un soldato steso che guarda il soffitto, ma più che una constatazione sembra una preghiera. Maldive, torna il boia? di Riccardo Noury Corriere della Sera, 4 agosto 2017 Per oltre 60 anni, le Maldive hanno indicato la strada nella loro regione evitando il ricorso alla pena di morte. Ora che la maggior parte del mondo vi ha rinunciato, rischiano di passare sul lato sbagliato della storia. Il 1° agosto il ministero degli Affari interni delle Maldive ha nuovamente annunciato, come aveva fatto nel 2014 il presidente Abdulla Yameen, l’imminente ripresa delle esecuzioni con la messa a morte di tre prigionieri che hanno esaurito ogni appello. Sebbene il ministro degli Affari interni abbia collegato l’annuncio a due recenti accoltellamenti mortali, il contesto pare piuttosto essere quello del peggioramento della crisi politica. Una settimana prima l’esercito aveva fatto irruzione nel parlamento per impedire la discussione su una mozione di sfiducia dell’opposizione nei confronti del presidente dell’assemblea. Dei tre prigionieri, Mohammed Nabeel è stato condannato a morte per omicidio nel 2009. Gli altri due, Ahmed Murrath e Hussain Humaam Ahmed, nel 2012 per lo stesso reato. La Corte suprema ha confermato le tre condanne a morte nell’estate 2016. Amnesty International ha forti preoccupazioni che i processi conclusisi con la pena capitale siano stati iniqui e si siano anche basati su "confessioni" estorte con la tortura, che in un caso sono state ritrattate. A seguito delle modifiche introdotte nella legislazione del paese dopo il precedente annuncio del 2014, esaurite le vie legali i condannati a morte per omicidio volontario non possono più chiedere la grazia o la commutazione della pena a una carica esecutiva, come invece previsto dal diritto internazionale. Nei bracci della morte delle Maldive si trovano attualmente 20 prigionieri, almeno cinque dei quali condannati per reati commessi quando erano minorenni. Gambia. Crimini contro l’umanità, ex ministro dell’Interno Sonko resterà in carcere Nova, 4 agosto 2017 L’ex ministro dell’Interno del Gambia, Ousman Sonko, sarà detenuto per altri tre mesi in un carcere svizzero dopo che le autorità giudiziarie di Berna hanno deciso di estendere l’indagine nei suoi confronti sui presunti crimini contro l’umanità. È quanto riferisce l’emittente "Bbc". Sonko è detenuto in carcere dal gennaio scorso dopo che il gruppo legale Ginevra Trial International ha presentato una denuncia penale nei suoi confronti con l’accusa di aver partecipato personalmente a pratiche di tortura durante il regime dell’ex presidente Yahya Jammeh, deposto nel gennaio scorso dopo la sconfitta alle elezioni presidenziali. Sonko, che è stato ministro dell’Interno dal 2006 al 2016, in seguito è prima fuggito in Svezia per poi recarsi in esilio in Svizzera.