Prevenzione dei suicidi in carcere: cose da fare subito Ristretti Orizzonti, 3 agosto 2017 Lettera aperta al ministro della Giustizia Andrea Orlando. Gentile ministro Orlando, abbiamo letto la notizia che il 2 agosto Lei incontrerà i massimi dirigenti del Dap per affrontare il tema dei suicidi in carcere, che in questi giorni stanno pericolosamente aumentando. Vogliamo allora ricordarle quello che Lei senz’altro sa, ma che richiede un impegno molto maggiore da parte dell’Amministrazione penitenziaria: che per le persone detenute mantenere contatti più stretti con i propri cari, quando si sta male e si sente il bisogno del calore della famiglia, così come quando a star male è un famigliare, potrebbe davvero costituire la più profonda forma di umanizzazione delle carceri e la più concreta modalità di prevenzione dei suicidi. C’è, in proposito, una serie di proposte che potrebbero essere attuate subito, con una semplice circolare del DAP, senza neppure cambiare la legge: - dove è in funzione il sistema della scheda telefonica (che andrebbe esteso a tutte le carceri, perché consente un’enorme riduzione della burocrazia rispetto alle tradizionali richieste scritte del detenuto per effettuare la telefonata) invitare i Direttori a concedere a TUTTI i detenuti delle telefonate aggiuntive, come succede a Padova (otto telefonate al mese) (stupisce in proposito che nell’ambito della prevenzione dei suicidi non si pensi prima di ogni altra soluzione a rafforzare in tutti i modi consentiti già dalla attuale legge i rapporti delle persone detenute con le famiglie); - consentire a tutti, anche ai detenuti di Alta Sicurezza, le telefonate ai cellulari, equiparandoli ai telefoni fissi, di cui ormai quasi nessuno dispone più; - dare la possibilità di aggiungere alle sei ore di colloqui previste ogni mese alcuni colloqui "lunghi" nel corso dell’anno per pranzare con i propri cari; - migliorare i locali adibiti ai colloqui, e in particolare all’attesa dei colloqui, anche venendo incontro alle esigenze che possono avere i famigliari anziani e i bambini piccoli, oggi costretti spesso a restare ore in attesa senza un riparo dal freddo o dal caldo di questa estate torrida; attivare le aree verdi per i colloqui, dove esistono spazi esterni utilizzabili; - autorizzare tutti i colloqui con le "terze persone", che permettono alle persone detenute di curare le relazioni anche in vista di un futuro reinserimento; - autorizzare colloqui via Internet per i detenuti (anche quelli dell’Alta Sicurezza, che spesso hanno le famiglie lontane) che non possono fare regolarmente i colloqui visivi, utilizzando Skype, come già avviene in qualche carcere; - promuovere l’attivazione del servizio di spedizione di lettere via posta elettronica (MaiDire Mail), autorizzando anche i detenuti dell’Alta Sicurezza che non abbiano la censura sulla posta. Comunicare con i famigliari in tempi rapidi è infatti un altro modo per disinnescare ansie, paure, depressione; - rendere più chiare le regole che riguardano il rapporto dei famigliari con la persona detenuta, uniformando per esempio le liste di quello che è consentito spedire o consegnare a colloquio, che dovrebbero essere più ampie possibile, aumentare il peso consentito per i pacchi da spedire alle persone detenute; - destinare, come già avviene in Inghilterra, un fondo al sostegno alle famiglie indigenti, pagando loro le spese per un determinato numero di colloqui all’anno (in Inghilterra sono 26), attingendo magari alla Cassa delle Ammende, una delle finalità della quale era proprio il sostegno alle famiglie. Serve poi una maggiore trasparenza sui trasferimenti, che dovrebbero essere ridotti al minimo e rispettare i principi della vicinanza alle famiglie e della possibilità di costruire reali percorsi di risocializzazione sul territorio. Spesso invece il trasferimento viene usato in maniera punitiva, o per "motivi di sicurezza", senza tener conto della disperazione e del senso di impotenza che suscita nella persona detenuta e nella sua famiglia. Ricordiamo in proposito un fatto lontano, ma significativo nella vita del nostro Paese: quando ci fu un boom dei suicidi di giovani militari nell’estate del 1986, l’allora ministro della Difesa Spadolini e le autorità militari predisposero un piano di contromisure, fra cui un aumento di fondi per l’ammodernamento delle caserme, ma soprattutto l’avvicinamento dei militari alle regioni di provenienza ("La naja diventerà meno pesante, i soldati si avvicinano a casa", scriveva Repubblica il 22 ottobre 1987). Un’altra piaga della vita detentiva è l’isolamento: il DAP dia allora l’indicazione di ricorrere il meno possibile a questa misura, che mette fortemente a rischio le persone, le indebolisce, le fa sentire abbandonate. Per prevenire i suicidi è importante anche garantire una qualità della vita detentiva dignitosa, che significa: - nell’immediato rendere più sopportabile il caldo incentivando l’impiego di frigoriferi e ventilatori nelle camere detentive, come consente una recente circolare del DAP; - consentire la visione di tutti i canali televisivi senza limitazioni inutili e frustranti; - consentire l’uso nelle stanze di pernottamento dei personal computer, che permettono di impegnare le tante ore vuote della detenzione; - promuovere in tutti gli istituti l’ampliamento degli orari delle attività, evitare che il periodo estivo significhi giornate vuote in cui le angosce personali si dilatano in modo insopportabile; - sviluppare al massimo la capacità di ascolto delle persone detenute, anche là dove il personale è insufficiente; - facilitare l’ingesso dei volontari ed ampliare gli orari della loro permanenza negli Istituti, come chiede con forza la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia. Due sono le Regole penitenziarie europee a cui si fa riferimento quando si parla della vita detentiva: Regola 3. Le restrizioni imposte alle persone private della libertà devono essere ridotte allo stretto necessario e devono essere proporzionali agli obiettivi legittimi per i quali sono state imposte. Regola 5. La vita in carcere deve essere il più vicino possibile agli aspetti positivi della vita nella società libera. Se è fondamentale allora ridurre allo stretto necessario le restrizioni e far assomigliare la vita detentiva alla vita libera, bisogna "tendere come un elastico" l’Ordinamento penitenziario, ovviamente senza violare le regole, senza imporre all’amministrazione rilevanti costi aggiuntivi, senza mettere minimamente a rischio la sicurezza, ma usando ogni risorsa disponibile per raggiungere obiettivi significativi rispetto a quanto ci chiedono le regole europee. Orlando: predisposto piano per la prevenzione dei suicidi nelle carceri agora24.it, 3 agosto 2017 Sarà pubblicato stasera sulla Gazzetta Ufficiale il "Piano Nazionale per la prevenzione delle condotte suicidarie nel sistema penitenziario per adulti" che è stato definitivamente approvato dalla conferenza Stato-Regioni e dal Ministero della giustizia. Oggi si è svolto in via Arenula l’incontro convocato dal Ministro Orlando con i vertici dell’ Amministrazione penitenziaria e del Dipartimento giustizia minorile e di comunità, per un aggiornamento del piano a seguito della direttiva del Guardasigilli diramata lo scorso anno. Nell’incontro si è deciso di avviare e concludere in tempi rapidi il primo monitoraggio sull’attuazione della direttiva, a partire dagli istituti dove si sono verificati i suicidi; allo stesso tempo si monitorerà l’applicazione di quelle circolari dipartimentali, il cui pieno rispetto può essere elemento di riduzione del rischio e si verificherà la concreta attuazione degli interventi diretti al complessivo miglioramento delle condizioni detentive e a intercettare prima possibile le condizioni di fragilità e di disagio psichico. Punti principali del Piano Nazionale sono gli strumenti di rilevazione del rischio, il presidio delle situazioni potenzialmente critiche, i protocolli operativi per la gestione dei casi a rischio e per affrontare le urgenze. All’incontro col Ministro Orlando hanno partecipato: Elisabetta Cesqui, capo di Gabinetto del Ministro; Matteo Bianchi, capo della segreteria del Ministro; Roberto Calogero Piscitello, direttore generale della sezione dei detenuti e del trattamento del Dap; Francesco Cascini, Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità; Vincenzo Starita, Direttore generale del personale, delle risorse e per l’attuazione dei provvedimenti del giudice minorile. A chi piace questa giustizia? di Giunta dell’Unione Camere Penali camerepenali.it, 3 agosto 2017 Da quando il Governo ha deciso di porre la fiducia sul Ddl penale, impedendo che si sviluppasse il necessario dibattito su di una riforma della giustizia che interessa tutti i cittadini e su norme di primaria importanza per i diritti degli imputati, abbiamo avuto conferma che ancora una volta il tema della giustizia era tornato ad essere ostaggio della politica, ed abbiamo compreso come l’asprezza della contesa avesse imposto una ulteriore degenerazione. In materia di riforme del sistema penale non si era infatti mai registrato nulla del genere. Non si era mai assistito ad una chiusura dell’orizzonte della discussione che coinvolgesse entrambi i rami del parlamento, blindando una legge che davvero modificava in più parti il volto del processo penale. Ma neppure è possibile fermarsi a constatare i tratti negativi della novità. Nella legge ci sono ben otto deleghe, il che significa che a fronte di un dibattito mancato alla Camera, dopo le modifiche del Senato, sarà lo stesso Governo a riempire di contenuti i decreti, senza che vi sia stato il necessario contributo del Parlamento. Il dato non è solo di natura formale perché i contenuti delle deleghe sono notoriamente rilevanti in quanto vanno ad incidere su gangli nodali del processo e delle garanzie. Tra le otto deleghe vi è, ad esempio, quella sulle intercettazioni che si occupa tra l’altro anche delle comunicazioni tra difensore e assistito. Un tema nevralgico con implicazioni rilevantissime che incide sulla tenuta di diritti costituzionali inviolabili. In merito, grazie all’interlocuzione con il ministero (e all’epoca in particolare con l’allora vice-Ministro Costa) l’Unione, attraverso la proposizione di un proprio emendamento, ha fatto si che, nell’ambito della delega, il punto relativo alla regolamentazione dei colloqui tra assistito e difensore venisse trattato in modo specifico, e non rientrasse genericamente, come previsto in origine, nei casi di persone "occasionalmente" coinvolte nelle captazioni. Una collocazione che evidentemente segnalava la scarsa attenzione e la modesta sensibilità del mondo della politica per il valore costituzionale della funzione difensiva e per il rilievo che essa pretende nell’intero contesto dei rapporti civili. La storia degli ultimi anni ha insegnato che la scorretta interpretazione dell’articolo 103 del codice di procedura penale, che presidia la riservatezza dei colloqui tra assistito e difensore, ha spesso consentito illegittime incursioni nel rapporto tra avvocato e assistito, pregiudicando lo spazio di libertà e la sacralità della funzione difensiva. Nessuno si è strappato le vesti e neppure si è in verità preoccupato per le continue violazioni del pur male interpretato articolo 103, salvo accorgersi del problema quando la questione riguardava qualche esponente politico di rilievo di questo o di quello schieramento, pronto ad insorgere non per una consapevole adesione ai principi costituzionali di uno stato liberale, ma solo per essere stati vittime, essi stessi, di una invasione ritenuta illegittima della propria sfera personale di inviolabili diritti. Nel 2008 l’Unione pubblicò un primo studio relativo ai casi più eclatanti di violazione dell’art. 103 che erano stati oggetto di segnalazione. Da allora è stato un susseguirsi di violazioni, culminate con il caso Consip, e con le ulteriori recenti interferenze verificatesi nel sacro e inviolabile rapporto tra difensore e assistito. Nella gran parte dei casi l’intervento invasivo della magistratura tende ad assumere anche un valore paternalistico-pedagogico, perché si vorrebbe insegnare agli avvocati come dovrebbero comportarsi con i propri assistiti, e questo anche nel caso in cui i difensori abbiano rispettato, non solo le norme del codice penale, ma anche le regole del codice deontologico. Questa invasione di campo rivela evidentemente anche un’insofferenza di fondo nei confronti della funzione difensiva quando questa non venga esercitata così come il pubblico ministero (e talvolta il giudice) avrebbe "desiderato". Di qui il ripetersi di assai improbabili accuse per infedele patrocinio, formulate sostituendosi alle decisioni di un difensore, non solo ritenuto professionalmente inidoneo, ma anche pronto, in una indebita visione che sovrappone il difensore dell’indagato al complice del reo, a violare la legge. La tensione politica, e l’attenzione mediatica, su un tema così rilevante, dovrebbero essere totali se si ha davvero a cuore il contenuto dei principi costituzionali e se si comprende come il legislatore non avesse affatto inteso, attraverso l’art. 103, attribuire all’avvocatura un’immunità o un privilegio di categoria, ma accordare alla "funzione difensiva" quel rilievo che, nell’interesse di tutti, la nostra carta fondamentale le assegna. Non solo è triste sapere che vengono indebitamente intercettati e perquisiti avvocati che hanno operato correttamente, ma è preoccupante osservare l’acquiescenza dei più ed il totale disinteresse dei media, quasi che l’argomento dovesse essere relegato alle questioni di minima importanza, al più incidenti sulle vicende di una specifica categoria professionale. Eppure dovrebbe essere chiaro a tutti - perché del tutto logico e giuridicamente condiviso - che nessuno dovrebbe mai poter conoscere il contenuto dei colloqui riservati che riguardano, non solo la vita e gli aspetti più intimi di una persona sotto indagine, ma anche quelle che sono le strategie difensive, volte alla legittima tutela dei diritti di libertà di ogni cittadino. Quando ad essere compressa è la sfera delle tutele processuali, non vengono infatti intaccate solo le garanzie di una singola categoria, ma vengono messi a repentaglio i presupposti stessi della nostra civiltà giuridica ed i principi democratico-liberali che regolano i rapporti fra le libertà del singolo e l’autorità dello stato. Così che c’è da chiedersi tutti: "a chi piace questa giustizia?" Per la prescrizione tempi più lunghi ma i problemi restano di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 3 agosto 2017 Ne è un po’ la bandiera. E tuttavia corre il rischio di esserlo solo di facciata. Della necessità di un intervento sulla prescrizione si discute da anni e ancora di più sono le ipotesi di intervento discusse. Quella messa in campo e da oggi operativa con la legge di riforma potrebbe essere considerata una sorta di placebo a fronte di una situazione certo grave. E della gravità ci sono i numeri a testimoniare con una stima 2016 di 135.511 prescrizioni a fronte delle 126.865 del 2015. Certo molte meno delle oltre 200.000 del 2004, ma troppe per un’amministrazione della giustizia che in ogni procedimento prescritto ammette una sconfitta, di fatto e di diritto. A volere tacere della perdita di credibilità anche in sede internazionale. Ora, la risposta data da oggi appare in parte timida in parte inefficace. O forse, meglio, inefficace perché troppo timida. Si è scelto, in nome di una forse sana professione di realismo politico, puntando a portare comunque a casa un provvedimento significativo e non circoscrivibile alla sola prescrizione quanto a delicatezza di temi affrontati, di approvare una soluzione di medio cabotaggio. Non si è voluto cioè elevare, più o meno drasticamente, i termini, mettendo mano alla (da molti) esecrata legge ex Cirielli; a venire modificata è piuttosto la disciplina della sospensione, stabilendo, in caso di verdetto di condanna, un blocco dei termini di un anno e 6 mesi nel successivo grado di giudizio. Termini che verrebbero poi ricalcolati anche retroattivamente in caso di successiva assoluzione. Meglio che niente si dirà. Però strade se non più coraggiose almeno più efficaci sarebbero state possibili. Dall’Anm erano arrivate indicazioni diverse. Come quella di bloccare definitivamente le lancette nel momento dell’esercizio dell’azione penale. Il che avrebbe autorizzato la magistratura e processi infiniti, come lamentato invece dalle Camere penali. Forse. Pero avere agito sulla sola sospensione, oltretutto con un meccanismo che valorizza la sentenza di condanna già emessa, potrebbe alla fine confliggere con la realtà empirica. I dati cioè, di fonte ministeriale oltretutto, attestano almeno due cose. La prima: che la stragrande maggioranza delle prescrizioni avviene nella fase delle indagini preliminari, quando si è cioè ancora ben distanti da qualsiasi pronuncia di colpevolezza (o di innocenza). Tanto da avere fatto sostenere che la prescrizione è il vero "calmieratore" dell’obbligatorietà dell’azione penale. E questo è il primo indizio di possibile inefficacia. Il secondo arriva da altri dati, quelli che attestano come le prescrizioni sono tutt’altro che diffuse uniformemente sul territorio nazionale. Sono invece concentrate in alcuni uffici giudiziari, a possibile riprova che (forse) l’emergenza sarebbe stata affrontabile in termini più organizzativi che normativi. Infine, non in ordine di importanza però, la prospettiva europea, dove se è vero che la riformaci ha permesso di uscire dagli scomodi panni, in sede Ocse, di osservati speciali, per i il rischio prescrizione sul fronte della corruzione, tuttavia pochi giorni fa la Corte Ue ha messo sul tavolo, in sede di contrasto alle frodi Iva, l’opportunità di una diversa e più severa disciplina proprio della sospensione. Reati contro la Pa, da oggi parte la stretta di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 3 agosto 2017 Dalla prescrizione (che si allunga) alla giustizia riparativa (che consente di estinguere i reati). Dalle nuove e più gravi sanzioni per alcuni reati di "microcriminalità" alla revisione delle impugnazioni, passando per l’irrigidimento sul rispetto dei termini per le indagini preliminari. Da oggi è in vigore un nutrito pacchetto di modifiche che investe tutto il settore penale, sia sostanziale sia procedurale. Non solo, però. Un’altra tranche di interventi è affidata al consueto sistema delle deleghe, peraltro già in (parziale) fase di esecuzione. La riforma accoglie in parte le conclusioni di commissioni ministeriali, come quella guidata dall’attuale presidente della Corte di cassazione Giovanni Canzio, e prova comunque ad affrontare temi che agitano da tempo il dibattito sulla giustizia penale. È il caso della stretta sui reati, almeno i principali, contro la pubblica amministrazione. Con uno spicchio della manovra sulla prescrizione ora il Pm avrà a disposizione più tempo per perseguire le principali forme di corruzione, l’induzione indebita e la truffa ai danni dello Stato. Come pure, per questa categoria di reati, viene espressamente istituita una corsia preferenziale nella formazione dei ruoli, accelerandone quindi la definizione. E, sempre sul piano del diritto penale sostanziale, da oggi sono previsti aumenti di pena per il voto di scambio, per il furto in abitazione e con strappo, per la rapina e l’estorsione. Si applica poi anche ai processi in corso oggi la nuova causa di estinzione del reato per effetto delle condotte riparatorie: in buona sostanza, nei soli casi di procedibilità a querela con remissione, il giudice dichiara estinto il reato, dopo avere sentito parti e persona offesa, quando l’imputaato ha riparato il danno provocato. A riprova della finalità di riduzione dei carichi di lavoro degli uffici giudiziari, il termine ordinario per la presentazione della richiesta è quello della dichiarazione di apertura del dibattimento. Tuttavia, la domanda può essere avanzata nella prima udienza utile a partire da oggi, con la determinazione di una finestra di tempo non superiore a 60 giorni per la realizzazione delle misure riparatorie. Molto ampio il perimetro di applicazione della causa di estinzione; dopo le polemiche delle settimane scorse però il ministro Andrea Orlando ha assicurato che vi verrà comunque escluso lo stalking. Sul versante delle procedure il mosaico è ancora più composito. Una delle misure più contestate soprattutto dagli avvocati, quella che aumenta le possibilità di utilizzo della partecipazione a distanza, sarà operativa solo tra un anno, Viene messa in campo, infatti, una pluralità di misure. È il caso dell’intervento della procura generale in caso di mancato rispetto del termine per la conclusione delle indagini preliminari: scatterà cioè l’avocazione in tutti i casi in cui il pm non eserciterà l’azione penale o chiederà l’archiviazione entro tre mesi dalla scadenza del tempo a disposizione per lo svolgimento delle indagini preliminari. Ritorna poi l’istituto del concordato in appello, con la possibilità d’intesa tra Pm e imputato sull’accoglimento di alcuni dei motivi d’impugnazione con rinuncia agli altri e l’indicazione, in caso di rideterminazione della pena, della nuova sanzione da infliggere. Spazio poi alla limitazione dell’impugnazione delle pronunce in regime di patteggiamento e alla riforma del giudizio abbreviato. Quanto alle deleghe, il ministero della Giustizia ha messo per ora in campo tre commissioni per dare attuazione alla revisione dell’ordinamento penitenziario e delle misure di sicurezza, mentre resta ancora in lista d’attesa la formalizzazione dei nomi che dovranno procedere a dare attuazione alla delega sui limiti alla diffusone delle intercettazioni. Giustizia minorile, salta riforma (e non bisogna rammaricarsi) di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 3 agosto 2017 Potrebbe sembrare un controsenso rallegrarsi per qualcosa che il governo non fa, di regola bisognerebbe giudicarne le azioni, ma la decisione di non dare seguito, almeno per ora, a un disegno di legge di riforma della giustizia minorile che avrebbe modificato profondamente e in peggio una delle poche cose che tutto sommato funziona nel disastrato panorama della giustizia italiana è anch’essa un’azione, positiva. Per ora si parla di stralcio della riforma, ma la speranza è che sia il primo passo verso l’abbandono di un’iniziativa che, fatto raro, aveva avuto il merito di coalizzare magistrati togati e onorari, avvocati, assistenti sociali, operatori delle comunità e parte del mondo politico contro un progetto che prevedeva l’abolizione dei Tribunali per i minorenni con la creazione di sezioni specializzate in quelli ordinari e la chiusura delle Procure che si occupano di minori con l’istituzione di specifici dipartimenti nelle Procure ordinarie. Le conseguenze avrebbero potuto essere preoccupanti, a partire dalla perdita di una competenza professionale, di una cultura del trattamento minorile che sono prese ad esempio nei paesi più evoluti per i risultati positivi che sono stati in grado di ottenere in termini di riduzione della recidiva, ad esempio. Questa potrebbe essere l’occasione per rimodulare la giustizia minorile attribuendole ulteriori competenze e, se si trova la forza politica per farlo, ridisegnare la geografia dei tribunali. Cyber-criminalità, nessuno è al sicuro di Marco Morello Panorama, 3 agosto 2017 Hacker che catturano informazioni per rivenderle. Attacchi mirati ai computer di privati e aziende per ottenere un riscatto. Ormai le intrusioni digitali sono all’ordine del giorno, l’ultima a Unicredit. E per salvarsi serve un fronte comune. Un attacco perenne, asfissiante, aggressivo. Un assedio costante a scuole, atenei, ospedali, istituzioni, imprese. Nessuno è immune, qualsiasi ente pubblico o privato connesso a internet è un possibile bersaglio per i cyber criminali, che cercano di entrare nei computer altrui per catturare informazioni preziose rivendibili sul mercato nero virtuale. Com’è successo a Unicredit, oggetto di un maxi attacco di hacker che hanno rubato alla banca milanese i dati dei prestiti personali di 400 mila clienti. Dati che possono diventare anche armi di ricatto contro i loro legittimi proprietari, minacciandoli di cancellarli per sempre se non pagano un "riscatto". Non è una novità, ma a crescere è l’intensità, a moltiplicarsi la frequenza: secondo il rapporto Clusit 2017 realizzato dall’Associazione italiana per la sicurezza informatica, in 12 mesi alcune tipologie d’intrusione hanno fatto registrare incrementi vicini al 1.200 per cento. A pagina 5 del rapporto, senza nessun giro di parole, si legge: "Stiamo vivendo dentro uno scenario da incubo". Un incubo quantificabile: considerando un campione di 25 società tricolore, si scopre che da gennaio a giugno 2017 hanno subito quasi 3,4 milioni di tentativi di login fallito. Uno tsunami di combinazioni sbagliate di username e password digitate da chi provava a introdursi in account altrui. Oltre 400 mila i casi di phishing, cioè mail ingannatrici che rimandavano a siti contraffatti utili solo a fare razzia di dati; 162 mila le scansioni dall’esterno delle infrastrutture aziendali a caccia di falle, di vulnerabilità da sfruttare a proprio vantaggio. Non c’è tregua: ogni ingenuità è punita. Ecco, in sintesi, le conclusioni di una ricerca esclusiva che Panorama è in grado di anticipare. A condurla è stata Yarix, cyber division di Var Group, tra le principali realtà italiane nel settore Ict. Eccellenza di Montebelluna, nel trevigiano, con sede anche a Tel Aviv, Yarix ha più di 15 anni d’esperienza e gestisce un Soc, un Security operation center, un centro operativo 24 ore su 24 allenato a sorvegliare su tali minacce. "A bloccare campagne dalle conseguenze altrimenti disastrose, a evitare che le imprese finiscano paralizzate senza riuscire a ripartire. Difendersi è ormai una priorità, un valore imprescindibile" sottolinea il ceo di Yarix Mirko Gatto in un incontro organizzato a Roma assieme ad Allea, agenzia di consulenza strategica di comunicazione e relazioni pubbliche e istituzionali. L’idea, ambiziosa quanto centrata, è creare un "think tank" per la cybersecurity, un pensatoio, un tavolo comune per ragionare di questi temi con i protagonisti del mondo dell’università, dell’industria, delle realtà internazionali attive su scala locale. "Divulgando il più possibile quanto sia elevato il livello del rischio per aumentare il grado di consapevolezza generale ed evidenziando la necessità indifferibile della prevenzione" ragiona Alessandro Beulcke, presidente di Allea. Ne va della tenuta del made in Italy, della sua unicità. Yarix ha calcolato che il 38 per cento delle informazioni sensibili rubate proviene dal settore della moda, roccaforte della creatività, dello stile, della redditività tricolore. Ben più colpita delle banche (22 per cento), vittime di solito privilegiate perché custodi di valore immediatamente misurabile e monetizzabile, della galassia dei motori (18 per cento), del cibo (12 per cento), della farmaceutica (10 per cento). Il complesso della proprietà intellettuale che ci distingue nel mercato globale poggia dunque su un terreno friabile. Esporla a chi vuole appropriarsene è un lusso impensabile, anche perché gli scudi classici zoppicano, le sanzioni non disincentivano: "Il crimine informatico lavora con i tempi istantanei della rete. La giustizia tradizionale è lenta, cartacea" fa notare Francesco Teodonno, security unit leader di Ibm. "Non si arriva lontano" aggiunge "senza una cultura della protezione". Cultura che invoca uniformità, rinforzi a tutti livelli, non solo a quelli apicali: "Le aziende internazionali" rileva Fabio Lorenzo, director cyber security di PwC Advisory, "premiano con un bonus i top manager che sanno tutelare dagli attacchi le loro società. Inizia a succedere anche in Italia. Ma l’anello debole della catena continua a rimanere l’elemento umano". Quello che, per esempio, scivola su un caso clamoroso, un test d’ingenuità condotto da un colosso americano non svelabile (per ovvi motivi di credibilità) tra i suoi dipendenti. A tutti loro è stato inviato un messaggio di posta dall’oggetto imperativo: "Non aprire la mail. Contiene un virus". Più del 60 per cento l’ha visualizzata comunque, oltre il 50 per cento ha cliccato sull’allegato malevolo o supposto tale. Un disastro. A descriverlo è Alessandro Monforte, regional sales manager cybersecurity cloud di Cisco Italia. "L’elemento psicologico, il ruolo delle persone" dice "ha un peso specifico. È il rischio numero uno". Da qui si ripropone l’obbligo di un’infrastruttura impermeabile. O, scenario più verosimile, in grado di tamponare con rattoppi tempestivi qualsiasi falla. All’incontro era presente anche Cristiano Tito, health and public service security portfolio lead per i mercati Italia, Europa centrale e Grecia di Accenture. La società di consulenza ha condotto uno studio su 2 mila dirigenti in 15 Paesi: il 70 per cento di loro si è detto certo che la lotta al crimine informatico sia un pilastro radicato nella cultura aziendale. Magari, dopo una rapida verifica dell’atteggiamento dei propri dipendenti, quella robusta maggioranza potrebbe correggere al ribasso tanto ottimismo. E fin qui ci si è limitati alle minacce consuete, conosciute. Le prossime si agganciano al boom dell’industria 4.0, che secondo il Politecnico di Milano già nel 2016 valeva 1,7 miliardi di euro lungo lo Stivale: nuovi oggetti dentro la rete, dalle grandi macchine nelle fabbriche ai piccoli sensori negli uffici. Circa 20 miliardi di oggetti connessi entro il 2020: sterminate opportunità d’intrusione, un’inedita golosa frontiera per i banditi di bit. "La società digitale in cui siamo immersi" nota Marco Mayer, docente di conflict & peace building all’Università Luiss di Roma, "si presenta come una realtà ricca di nuove opportunità, ma certamente molto fragile e vulnerabile, in cui si moltiplicano i rischi per la sicurezza individuale e collettiva". Lo Stato avrebbe il compito di mantenere l’integrità di questa sicurezza, ma fa i conti con i suoi limiti: in Gazzetta ufficiale, a fine maggio è stato pubblicato il Piano nazionale per la protezione cibernetica, che ordina e sistematizza gli interventi, ma la legge di Stabilità 2016 ha stanziato 150 milioni di euro per realizzarli. "In Gran Bretagna" ricorda Gatto "hanno investito un miliardo di euro. Noi vogliamo andare in guerra con la baionetta". Da qui ritorna l’esigenza dell’educazione, a livello aziendale, certo, ma ancora prima: "Mancano le risorse e le menti per rafforzare a dovere il nostro Paese. Alla Sapienza opera il più grande centro nazionale su questa tematica e abbiamo pochi studenti l’anno" osserva Roberto Baldoni, direttore del Centro di ricerca in cyber intelligence and information security all’Università di Roma La Sapienza e direttore del Cini, il laboratorio nazionale di cybersecurity. Eppure, l’incentivo logico che potrebbe spingere ad ampliare in maniera spontanea questa base è piuttosto evidente: la domanda di talenti è maggiore dell’offerta. I settori pubblico e privato hanno sempre più bisogno di cervelli preparati alla difesa perché il crimine informatico si sta consolidando. L’unico effetto collaterale tollerabile della sua avanzata dovrebbe coincidere con una sforbiciata alla disoccupazione giovanile. Strage di Bologna, i familiari lasciano da solo il ministro di Giovanni Stinco Il Manifesto, 3 agosto 2017 L’Anniversario. Alla commemorazione in Comune la protesta dell’associazione contro Galletti. Poi in piazza il presidente Bolognesi attacca: ci prendono per i fondelli. Ci ha provato il ministro dell’ambiente Gianluca Galletti a giocare la carta della bolognesità e a dire che lui i familiari delle vittime del 2 agosto li conosce quasi uno a uno. Non è bastato. Ieri a Bologna la protesta contro il governo è stata plateale, e ha visto Galletti parlare a una sala del consiglio comunale mezza vuota. "Questa è la giornata del ricordo, non delle polemiche, questo deve essere il momento di unirci", ha detto il ministro a una platea fatta quasi solo di rappresentanti delle istituzioni. Perché i familiari e i parenti delle vittime della bomba del 2 agosto 1980 se ne erano già andati, annunciandolo poco prima e sfilandogli lentamente davanti. "Siamo stati traditi da chi doveva stare al nostro fianco - ha poi tuonato in piazza il presidente dell’associazione, il deputato Pd Paolo Bolognesi - Gli impegni presi non sono stati mantenuti. Coloro che ricoprono incarichi di governo non sono stati all’altezza del loro ruolo". Dopo di lui il sindaco Merola: "Al nostro governo dico che non è onorevole prendere un impegno e non mantenerlo, è peggio che non prenderlo. Oggi non possiamo permetterci che le autorità abbiano torto troppo a lungo, è pericoloso per la nostra libertà e indebolisce la credibilità delle nostre istituzioni". Dichiarazioni che raccontano della ferita che si è aperta ieri a Bologna dopo anni di promesse non mantenute da parte del governo. Non più solo la strage di 37 anni fa, quando una bomba neofascista fece 85 morti e più di 200 feriti. Per quel massacro sono stati condannati in tre (i terroristi neri Fioravanti, Mambro e Ciavardini), mentre per un quarto (Gilberto Cavallini) è stato chiesto il rinvio a giudizio. A pesare è però la decisione della procura di chiedere l’archiviazione per l’inchiesta sui mandanti. Poi c’è la questione delle legge del 2004 che garantirebbe indennizzi e pensioni ai colpiti dalla strage, e che non è stata mai pienamente applicata nonostante le tante rassicurazioni. Infine c’è la direttiva Renzi sulla desecretazione, firmata nel 2014 per garantire "trasparenza e apertura" e mettere così a disposizione del pubblico gli atti relativi alle stragi, da Ustica, all’Italicus, alla Stazione di Bologna. Le cose sono andate diversamente. L’associazione dei parenti delle vittime della strage di Ustica (morirono in 81) ha scritto a Renzi ricordando che, dalla firma della direttiva, sono spariti interi archivi e nessuno sta muovendo un dito. Bolognesi ha invece raccontato uno dei tanti incontri a Roma tra le associazioni e i funzionari che dovrebbero garantire l’applicazione della desecretazione. "Abbiamo chiesto l’elenco degli appartamenti ai Nuclei di difesa dello Stato, la cosiddetta "Gladio Nera". Ci hanno risposto che c’erano problemi con la privacy". Un racconto grottesco, e infatti lo stesso Bolognesi ha parlato di "presa per i fondelli". Ieri però in piazza le sue parole sono state pesanti. Ha criticato la procura che vuole archiviare l’inchiesta sui mandanti senza, a suo dire, avere indagato a sufficienza, ha picchiato duro sul governo che non fa quel che promette, ha detto che l’Italia non sarà un paese libero finché sarà "occultata la storia eversiva del paese, archiviata, censurato o chiusa nei cassetti degli apparati". "I familiari delle vittime - ha ricordato - non si accontentano delle sentenze sugli esecutori". In piazza si è parlato della P2, dei depistaggi e dei funzionari dello Stato "che non hanno mai parlato". "Diremo ai pm dove indagare, c’è molto da capire prima di archiviare", ha concluso Bolognesi. "La protesta contro il governo è una lacerazione che fa male - ha commentato il presidente della Regione Emilia-Romagna Stefano Bonaccini - da subito lavoreremo per ricucire lo strappo". Hanno dato solidarietà ai familiari i presidenti di Senato e Camera, il Presidente della Repubblica Mattarella e anche Jean-Claude Juncker a nome della Commissione europea. A prendere posizione anche il M5s, che sul blog di Grillo ha ricordato gli autori delle promesse mancante: Delrio, Poletti, e infine il sottosegretario De Vincenti. "Il ministro Galletti è andato a Bologna a nome di un governo di mentitori ed ipocriti", hanno scritto Luigi Di Maio e Massimo Bugani. Napoli: i dannati di agosto a Poggioreale di Aldo Masullo Il Mattino, 3 agosto 2017 Quando a luglio comincio a sentire sul collo il fiato del sole estivo, io non posso fare a meno di pensare alle persone rinchiuse nelle patrie galere. Nel mondo dei liberi, mentre la temperatura sale, i più progettano le fughe verso i refrigeri marini o le mitezze montane, e man mano lasciano lavoro, affari, città. Nelle carceri invece il disagio fisico e morale fatalmente cresce fino a diventare insopportabile. Le sofferenze dei corpi inaspriscono, e l’impossibilità di sottrarvisi esaspera la pena. Molto più che la privazione della libertà, giustificata (purtroppo non sempre!) dalla trasgressione compiuta, ferisce come un’onta gratuita la privazione dell’intimità. In carceri sovraffollate, spesso con i letti a castello e magari la latrina in bella vista, ogni uomo è esposto alla vista degli altri, espropriato del proprio corpo a favore di occhi estranei, indiscreti, a volte sadici. Il caldo estivo acuisce la vergogna della promiscuità. È questo il tempo in cui, sotto il cruccio dell’impotenza a difendersi, rinforzata dal collettivo malessere, ben potrebbe nelle carceri serpeggiare la tentazione della rivolta. Perciò qualche giorno fa si è letto con particolare interesse un comunicato Ansa, in cui il direttore del carcere di Poggioreale lancia sobriamente l’allarme sulla condizione dei detenuti che in questo momento ne sono gli ospiti coatti, ben 2.100 su 1.500 posti disponibili, essendo due reparti in ristrutturazione. La stagione estiva con i suoi eccessi climatici rende ancor più difficile la vita dei reclusi, soprattutto quando in un’unica stanza, dotata di un solo bagno, sono costretti in 4 o 5, il che non può non alimentare sia pur "piccole tensioni". Tuttavia il direttore rassicura: "Io dialogo, anche in gruppi, con tutti e non ci sono state proteste". Così ancora una paradossale contraddizione agita le cronache di questo nostro bizzarro Paese. A Roma, dinanzi alla sede solenne della massima istituzione rappresentativa della sovranità popolare una piccola folla di cittadini liberi e facinorosi lancia invettive e minacce contro i deputati, che hanno votato una legge sui vaccini, bene o male un adempimento doveroso dello Stato a tutela della salute pubblica. A Napoli invece i detenuti di un grosso e vecchio carcere, pur afflitti dai tormenti della loro situazione, discutono pacatamente con chi ha l’ingrato compito di custodirli, e mostrano un’intelligenza del diritto che oggi non pochi cittadini liberi vanno perdendo, o forse non hanno mai avuto. Poco civili i cittadini liberi, civilissimi i reclusi! Non si può non chiedersi come e perché nell’Italia pubblicizzata dalla retorica della "grande bellezza", espressione sinonima di ordinata armonia, possano prodursi così vistose disarmonie sociali, situazioni a parti rovesciate, rudi smentite della comune ragionevolezza. Come si spieghi la prima parte del paradosso, la frequente mancanza di senso civile in persone libere, è il problema di tutta la nostra storia, riacuito negli ultimi decenni. Ma la seconda parte del paradosso, l’atteggiamento dei carcerati, assai civile nonostante le sofferenze imposte dai gravi difetti del sistema, interroga la coscienza di noi tutti e ci costringe a riconoscere un sorprendente cambiamento. Oggi le carceri sono abitate sempre meno da moltitudini di sventurati, riottosi e arrabbiati, ognuno chiuso nel ruminio della propria disgrazia, e sempre più invece da un popolo di cittadini, che discutono le ragioni della loro pena e, confrontando il proprio debito con il comune bisogno di giustizia, non inveiscono contro la severità dello Stato ma, criticandone ragionatamente le inadempienze, reclamano i propri diritti. Nelle carceri è entrato il "dialogo"! Oggi in nessun altro luogo del mondo, io credo, come nelle carceri italiane, si sviluppa e si mette alla prova la coscienza popolare che lo Stato o è stato di diritto, oppure non ha alcuna legittimazione. L’atteggiamento della collettività dei detenuti, segnalato dal direttore del carcere napoletano, non è isolato né casuale. Esso è il punto di arrivo di un processo di formazione che Marco Pannella inaugurò e che un pugno di ?radicali? continua a promuovere e alimentare, prima fra tutti Rita Bernardini. È di questi giorni la partenza da Napoli della seconda "carovana della giustizia" che, dopo la prima in Calabria, compirà il giro della Sicilia, sostenuta come sempre dagli avvocati delle Camere penali. Vari sono i suoi obiettivi di politica della giustizia. Di essi il primo e fondamentale è ancora e sempre, come nell’instancabile, puntiglioso impegno di visitare le carceri, il trarre i detenuti fuori dal cono d’ombra della loro separatezza dalla vita collettiva. La detenzione è una vita congelata, un tempo sospeso. Come potrà un individuo, appena restituito alla libertà, rientrare attivamente nella vita sociale, se per un lungo, a volte lunghissimo periodo ha perduto il passo della dinamica civile, non ha più lavorato, né pubblicamente discusso sui problemi emergenti, né ha potuto percepire il nascere delle nuove sensibilità, e addirittura dai suoi concittadini è percepito come un estraneo da evitare e da escludere? Il punto è tutto qui. Se detenzione e partecipazione non si saldano in un circuito continuo, allora il principio della doverosa "rieducazione del condannato", tanto declamato nella sua perentoria formula costituzionale quanto finora assai poco praticato, non può che restare lettera morta. Quando il direttore del carcere napoletano oggi dice con malcelato ma giusto orgoglio che, pur tra le penose difficoltà in atto, "non ci sono proteste" dei detenuti" ed egli stesso "dialoga" con loro, si attesta che uno spirito nuovo comincia ad animare il mondo carcerario. Siamo appena all’inizio, ma non si può disconoscere che a suscitare questo difficile inizio, dopo la lontana stagione della riforma Gozzini, è stata l’azione radicale: essa ha avviato le folle di detenuti, umiliate dalla forzata passività, a trasformarsi in un affatto inedito soggetto attivo della vita civile. Con ciò si è anche incoraggiata la maturazione di una nuova coscienza istituzionale, che va dallo stile della direzione ministeriale all’atteggiamento professionale dell’intera gerarchia della custodia, alla recentissima riforma legislativa, per la cui tempestiva normazione applicativa Rita Bernardini è di nuovo sul piede di guerra e la "carovana per la giustizia" intende con forza rilanciare l’appello. Il diritto nelle carceri è oggettivamente tra le cocenti questioni che invocano il pieno compimento dello Stato di diritto. Firenze: a Sollicciano con il caldo di questi giorni la situazione è diventata invivibile di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 agosto 2017 La denuncia dell’associazione Radicale "Andrea Tamburi". Se la situazione dei penitenziari rimane calda durante il resto dell’anno, con l’innalzarsi delle temperature si è fatta rovente. In maniera particolare al carcere di Sollicciano e - con una conferenza stampa ieri di fronte ai cancelli - a denunciare l’emergenza caldo che attanaglia il carcere fiorentino sono il cappellano del carcere, don Vincenzo Russo, assieme a Massimo Lensi ed Emanuele Baciocchi dell’associazione per l’iniziativa radicale "Andrea Tamburi". I radicali denunciano che il caldo torrido di questi giorni è egualitario, colpisce tutti all’interno della struttura penitenziaria: i detenuti, gli agenti del corpo di Polizia Penitenziaria e gli operatori. Assieme al cappellano del carcere, hanno sottolineato "come ogni anno questa emergenza si ripeta, anche perché le misure preventive che dovrebbero essere organizzate per tempo vengono messe in atto solo parzialmente. Le circolari del Dap (ieri sono state pubblicate sul Il Dubbio, ndr) individuano alcune misure preventive come quella di prevedere una diversa modulazione degli orari dei passeggi e assicurare e implementare la funzionalità dei punti idrici a getto e/ o dei nebulizzatori nei cortili di passeggio. Le stesse circolari invitano la direzione ad assicurare l’apertura dei blindi durante le ore notturne, e a riformulare i menù giornalieri prevedendo la disponibilità degli alimenti consigliati nella stagione estiva. Misure certamente non sufficienti a garantire la vivibilità delle celle, ma che andrebbero comunque attuate pienamente". Don Vincenzo Russo, durante la conferenza stampa, ha ricordato come sia difficile in queste condizioni intraprendere significativi percorsi rieducativi per i detenuti e lavorare con la dovuta serenità. "Va dato atto alla direzione del carcere fiorentino di far tutto il possibile per attenuare i disagi - spiega il cappellano, ma senza l’aiuto delle istituzioni cittadine e del Provveditorato per l’amministrazione penitenziaria, i tentativi messi in atto sono destinati a sciogliersi sotto il sole torrido di queste ore" Pesaro: allarme caldo al carcere di villa Fastiggi ilfoglia.it, 3 agosto 2017 Il Garante dei diritti: "Criticità accentuate". Allarme caldo in carcere a Villa Fastiggi. Il garante dei diritti scrive al Ministero della Giustizia e parla di "criticità" soprattutto per i pazienti con problemi di tipo psichiatrico, ma anche per le donne. Andrea Nobili, Garante dei diritti, aveva già chiuso la prima fase della prevista azione di monitoraggio, mettendo in calendario per il mese di settembre ulteriori incontri. Dopo Montacuto è stata la volta di Villa Fastiggi a Pesaro, dove sono state riscontrate ancora serie criticità per quanto riguarda le alte temperature. L’ondata di caldo ha accentuato le criticità. Chiesti nuovi interventi ed un monitoraggio costante. È stata rilevata la necessità di manutenzione in diversi settori della struttura. "Le condizioni meteorologiche degli ultimi giorni, con un’ondata di caldo al di sopra della norma, hanno amplificato diverse criticità già segnalate all’interno degli istituti penitenziari, tanto da rendere necessario effettuare, con carattere d’urgenza, nuovi e più specifici sopralluoghi - ha spiegato Nobili, al termine della visita. È una situazione che non va in alcun modo sottovalutata e che necessita di interventi concreti, attraverso un’azione più ampia e condivisa dalle istituzioni preposte. Nella sezione femminile del carcere di Villa Fastiggi abbiamo incontrato anche due donne, una in stato interessante e l’altra con un bambino di quattro mesi che stanno vivendo momenti impegnativi proprio per le alte temperature, così come alcuni detenuti con patologie cardiovascolari, ma anche i detenuti con problematiche di tipo psichiatrico, che sono circa una cinquantina". Dopo aver fatto pervenire un’informativa al Dap presso il Ministero della Giustizia, Nobili ha ritenuto indispensabile rendere partecipe di quanto sta avvenendo anche l’area sanitaria penitenziaria, perché vengano attivate più stringenti misure d’intervento, anche attraverso un monitoraggio quotidiano. Il Garante ha fatto presente che l’istituto penitenziario pesarese necessita, al più presto, di manutenzione in diversi settori e torna a ribadire che, nonostante gli stessi istituti non siano caratterizzati da problematiche di grave entità come quelli di altre regioni, il territorio delle Marche "non può essere marginalizzato nell’ambito delle scelte da compiere. Vanno individuati percorsi adeguati per migliorare le condizioni di vita dei detenuti e di chi opera nel carcere". Reggio Emilia: suicidio in carcere, venerdì la visita del Garante dei detenuti Gazzetta di Reggio, 3 agosto 2017 Incontrerà detenuti e direzione della Pulce. Polemica dei sindacati con il ministro Orlando. Il Garante regionale dell’Emilia Romagna per le persone private della libertà personale, Marcello Marighelli, venerdì visiterà l’istituto penitenziario di Reggio Emilia dove incontrerà la direzione e i detenuti. La visita del Garante avviene subito dopo il suicidio di un detenuto tunisino lo scorso 25 luglio. "Troppi suicidi - dichiara Marighelli - dei 32 registrati nelle carceri italiane dall’inizio dell’anno, sei si sono verificati negli istituti della nostra regione. Il fenomeno è particolarmente preoccupante perché si verifica in un momento difficile per la mancanza di personale nelle carceri. Gli educatori sono ormai pochissimi, gli agenti sono sotto organico. Soprattutto i direttori, essenziali figure di governo ed equilibrio negli istituti spesso si devono occupare contemporaneamente di più sedi". Marighelli si unisce al comunicato del Garante nazionale Mauro Palma, che in una nota diffusa lunedì chiede interventi urgenti volti a migliorare il sistema di prevenzione messo a punto dal Ministero della giustizia. Una richiesta partita ieri anche dall’Unione sindacati di polizia penitenziaria (Uspp), che proprio sull’emergenza suicidi in carcere ha chiesto al ministro Orlando di convocare un tavolo strategico. "Una lodevole iniziativa quella del ministro di convocare una riunione con il vertice del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e del Dipartimento della Giustizia Minorile e di Comunità per fare il punto sul piano di prevenzione dei suicidi in carcere, peccato che non ha fatto altrettanto con le organizzazioni sindacali di Polizia Penitenziaria, che hanno unitariamente dichiarato l’interruzione delle relazioni sindacali in attesa di un segnale di attenzione, in particolare rispetto al fenomeno delle aggressioni che è la nuova emergenza delle carceri, dovuta al modello gestionale voluto dall’Europa". Parole di di Giuseppe Moretti, presidente Uspp, a commento dell’incontro oggi tra il Guardasigilli e i Capi Dipartimento del sistema penitenziario. "Nessun dubbio - prosegue Moretti - sulla necessità di monitorare il fenomeno e intervenire a tutela della salvaguardia della vita dei detenuti, ma non bisogna trascurare che questa è una condizione che si realizza anche attraverso la messa in condizione di operare agli agenti di Polizia Penitenziaria, con prontezza ed efficienza. Personale al quale, già per ciò che fa da sempre, andrebbe assegnata una medaglia al valor civile per aver scongiurato miriadi di tentativi di suicidio e atti di autolesionismo che mettono a repentaglio della vita delle persone detenute". Per il presidente Uspp "è irrinviabile l’istituzione di un tavolo strategico in cui tutte le componenti che ruotano intorno al mondo penitenziario, comprese quelle sindacali, si siedano per elaborare un piano straordinario che ridia credibilità al sistema carcere". Di qui l’attesa della convocazione di un incontro con il Ministro Orlando, lanciando anche la campagna #salviamolapoliziapenitenziaria. Airola (Bn): selfie su Facebbok dei baby detenuti, revocato l’incarico al direttore di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 agosto 2017 Il ministro orlando interviene dopo la diffusione delle immagini nell’istituto minorile di Airola. È stato incaricato in via temporanea urgente Gianluca Guida, già direttore dell’istituto minorile di Nisida, che ha dunque assunto l’interim presso l’istituto beneventano. La vicenda dei selfie al carcere minorile di Airola non poteva non produrre effetti. E, infatti, non sono passate neanche 24 ore che il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha revocato l’incarico all’attuale direttore del carcere minorile di Airola, in provincia di Benevento. Si legge infatti in una nota del ministero che il guardasigilli "ha manifestato la sua preoccupazione e sollecitato il competente dipartimento a intervenire". Il dipartimento della giustizia minorile e di comunità ha quindi provveduto a revocare l’incarico all’attuale direttore facente funzioni della struttura e in sostituzione di quest’ultimo è stato incaricato in via temporanea urgente Gianluca Guida, già direttore dell’Istituto minorile di Nisida, che ha dunque assunto l’interim presso l’istituto beneventano. Il carcere minorile è stato teatro di uno scandalo denunciato dal Sappe, il sindacato autonomo della polizia penitenziaria. In pratica i detenuti minorenni, alcuni di loro dei baby boss, hanno scattato foto e selfie pubblicate anche su Facebook attraverso la creazione di un gruppo chiamato "Airola livee". Una pagina che serviva ai ragazzi per comunicare con parenti e amici fuori dalle sbarre. Tra complimenti e apprezzamenti, anche da parte di ragazze, spiccano frasi in dialetto del tipo: "Sei la mia vita". O ancora: "Amore di mamma, ti amo". Nei post, tra le decine di emoticon di baci, abbracci e ok, si notano anche teste di poliziotto con pistole alla tempia. Per fare ciò, utilizzavano i telefoni cellulari che li tenevano nascosti anche nei gabinetti perché erano impermeabili. Poi la sera li tiravano su e li accendevano. Da quel momento, fino all’alba inviavano messaggi ai loro amici, alle mogli e agli affiliati collegandosi ad internet con schede telefoniche anonime, non intestate a nessuno ma attive. Quattro i cellulari sequestrati dagli agenti durante le perquisizioni che sono durate ore. I ragazzi avevano occultato molto bene i telefonini e una delle schede era stata nascosta in bocca da uno dei ragazzi denunciati. Già a settembre del 2016, lo stesso carcere era stato teatro di una rivolta da parte dei giovani adulti. Il ministro Andrea Orlando, a margine di una conferenza stampa, aveva osservato che effettivamente qualcosa non aveva funzionato. Il motivo della rivolta però non era dovuto dalla richiesta di un migliore trattamento, anche perché il carcere minorile era ritenuto un fiore all’occhiello per via delle sue importanti attività trattamentali. Biella: un carcere "modello" dai cancelli guasti di Andrea Formagnana La Stampa, 3 agosto 2017 I sindacati autonomi dalla polizia penitenziaria Sappe, Osapp, Sinappe, Uspp e Cosp sono scesi in strada ieri mattina e hanno manifestato con un sit-in dalle 10.30 alle 13 contro la gestione dal carcere di Biella. Gli agenti chiedono l’immediato avvicendamento della direttrice Antonella Giordano e del comandante del reparto commissario Mirko Trinchero, entrambi al centro di una situazione giudicata "esplosiva". Pur non avendo aderito alla manifestazione, anche Uilpa, Fns-Cisl, Cnpp e Cgil-Fp hanno dichiarato l’indisponibilità a trattare con gli attuali vertici. "Manifesteremo a oltranza fino a che non avverrà il cambio della dirigenza" dichiara Gerardo Romano vice segretario generale di Osapp. La protesta non dovrebbe durare a lungo però. La direttrice Giordano ha infatti già ampiamente superato i 10 anni di mandato, non rinnovabile, alla direzione della casa circondariale e aspetta di venire assegnata a un nuovo incarico. I rappresentati sindacali dopo essersi confrontati la scorsa settimana con il nuovo provveditore regionale Liberato Guerriero lo attendono alla prova dei fatti per settembre quando dovrebbe essere ridiscussa l’organizzazione interna alla struttura. Oggi il carcere di Biella ha una popolazione di 420 detenuti per 160 agenti di polizia penitenziaria e dieci ufficiali. "La pianta organica dovrebbe essere di 238 agenti di cui 40 ufficiali" lamenta Giovanni Bellomo delegato del Cosp. Uno dei problemi che lamentano con maggior forza i baschi azzurri è proprio quello dell’assenza degli ufficiali di collegamento e dell’assenza di direttive da parte della direttrice. A rendere più complicata la convivenza all’interno del carcere il dover gestire cinque categorie di detenuti ai quali dovrebbe essere riservato uno specifico trattamento. Ai detenuti comuni, ai sex offenders, ai reclusi che devono scontare pene sino ai 30 anni, e a quelli a custodia attenuata si sono recentemente aggiunti gli internati della casa lavoro. "Questi sono destinatari di una misura di sicurezza e a loro deve essere assicurato un regime specifico che gli permetta di lavorare. Al momento siamo inadeguati per rispondere a queste esigenze" spiega Francesco Soldani di Osapp. Il tutto è poi reso più difficile - spiegano gli agenti - da quando è stato attuata la direttiva che prevede la custodia dinamica. I detenuti possono liberamente muoversi nei loro reparti liberamente per l’intera giornata rendendo molto più difficile il compito di custodia. "I cancelli del nuovo padiglione sono guasti da diversi mesi e in attesa che vengano riparati i detenuti sono liberi di spostarsi da un piano all’altro" denuncia un altro agente. "Su una popolazione carceraria fatta dal 65 % di stranieri si inserisce anche il rischio di una predominanza e di scontri etnici" così Andrea Grifoni. Biella: Radicali e Sinistra Italiana oggi alla Casa circondariale associazioneaglietta.it, 3 agosto 2017 Oggi Marco Grimaldi, capogruppo in Consiglio regionale di SEL-SI e segretario regionale di SI, Igor Boni e Silvja Manzi, direzione nazionale di Radicali italiani, hanno effettuato la loro ottava visita dell’anno a una struttura carceraria piemontese, recandosi presso la Casa Circondariale di Biella. La delegazione si è intrattenuta a lungo parlando con la direttrice Antonella Giordano e con la Garante comunale dei diritti delle persone private della libertà personale, Sonia Caronni, nonché con gli agenti penitenziari e molti detenuti. L’istituto nel 2013 ha inaugurato un nuovo padiglione senza però aver ricevuto alcun adeguamento dell’organico, e se nel 2013 la popolazione detenuta era di 280 persone ora è di circa 410, con alcuni circuiti saturi. La situazione si è complicata da quando, a inizio anno, ci sono stati molti trasferimenti, in particolare dal resto del Piemonte, Liguria e Lombardia. Così nel nuovo padiglione sono stati aperti tutti e quattro i piani e, addirittura, al quarto piano in ogni cella è stato inserito un quarto letto. Gli agenti non solo non sono aumentati, ma 20 sono distaccati. Inoltre ci sono solo quattro educatori (più uno part time), le ore di presenza di esperti (fondamentali per gli internati) insufficienti e altrettanto insufficienti le ore assicurate dall’Asl per il Sert. La popolazione straniera detenuta, di numerose nazionalità, è addirittura di due terzi (molto superiore alla media sia nazionale, sia regionale), purtroppo non sono presenti mediatori culturali. "Nel nuovo padiglione si sperimenta da tempo la vigilanza dinamica, un’innovazione che però con la difficoltà di integrazione dovuta agli sfollamenti diventa impossibile da sostenere - dichiarano i membri della delegazione - Precedentemente, i detenuti del vecchio padiglione, una volta conosciuti, venivano trasferiti nel nuovo, con la vigilanza dinamica. Ora, con i continui sfollamenti, chi arriva è assegnato direttamente al nuovo padiglione, senza che il personale abbia la conoscenza necessaria dei diversi casi. I detenuti sfollati sono quasi tutti stranieri e si trovano sradicati, lontani dalle famiglie, magari con procedure di richiesta asilo o espulsione in atto, spesso sottoposti a terapie e psicoterapie. Un caso emblematico di disagio: gli ultimi sfollati sono arrivati da Padova senza i propri vestiti e non sono riusciti a riaverli indietro. C’è poi, in questo carcere, una situazione unica ed estremamente critica - prosegue la delegazione - quella degli internati, che provengono dalle Rems ma, molto spesso, da case lavoro e altre forme di detenzione non carceraria, avendo già scontato periodi di reclusione. Qui a Biella sono inseriti in un progetto del Comune per la raccolta differenziata e vengono pagati. Tuttavia, per legge, le case lavoro sono all’esterno, mentre qui queste persone si trovano dentro un carcere e chiedono giustamente la ridefinizione della collocazione cui hanno diritto". Perugia: detenuti svolgeranno lavori socialmente utili per il Comune di Città della Pieve quotidianodellumbria.it, 3 agosto 2017 Nei giorni scorsi è stata sottoscritta una convenzione tra l’Istituto penitenziario di Perugia "Capanne" e l’amministrazione comunale di Città della Pieve in base alla quale i detenuti svolgeranno lavori socialmente utili, per conto del Comune. Questa collaborazione coinvolgerà i detenuti ammessi al "lavoro all’esterno", ai sensi dell’art. 21, comma 4 ter della legge 354/75, per attività sul territorio comunale non retribuita e in favore della collettività. "Il Comune di Città della Pieve ha dimostrato da tempo di credere fortemente nella cosa pubblica intesa come bene comune - spiega il sindaco Fausto Scricciolo - lo portiamo avanti come un credo civico che ci ha visto collaborare con i ragazzi del Ceis, così come con i giovani richiedenti asilo ospitati da Arci e tantissimi privati cittadini che nel capoluogo come nelle frazioni si sono spesi in molteplici attività a scopo sociale. Città della Pieve ha una tradizione fortissima di volontariato e accoglienza. Oggi con questo atto sentiamo di aver rafforzato la nostra identità". "Siamo particolarmente grati nei confronti dell’Amministrazione pievese - dichiara la direttrice del carcere perugino Di Mario - per essersi resa disponibile ad attuare una previsione di legge che è, al tempo stesso, opportunità di reinserimento sociale per il cittadino detenuto e condizione che contribuisce a perseguire gli obiettivi di sicurezza sociale. I progetti di pubblica utilità sono, quindi, parte dell’impegno che l’Amministrazione penitenziaria tutta propone alle componenti sociali perché si utilizzino al meglio le risorse." I detenuti verranno impiegati in prestazioni volte al miglioramento della qualità della vita, alla protezione dei diritti della persona, alla tutela e valorizzazione dell’ambiente. In particolare: prestazioni di tutela e cura del patrimonio culturale con particolare riferimento al trasferimento degli archivi e sistemazione magazzini comunali, cura e manutenzione del verde, azioni coordinate di tutela del patrimonio ambientale, recupero e pulizia del patrimonio comunale (giardini, alberi, sentieri ed itinerari culturali), manutenzione e decoro delle strade pubbliche e dei muri della città ivi compresi immobili privati, in particolare lavori di rimozione di graffiti e scritte e in altre prestazioni di lavoro di pubblica utilità pertinenti la specifica professionalità del detenuto. Verranno impiegati non più di 4 detenuti per un massimo di n° 20 ore settimanali pro-capite. Il Comune di Città della Pieve predisporrà, previo accordo con la Direzione del N.C.P. di Perugia "Capanne", il programma di lavoro con cadenza mensile, indicando tipologia ed orari di lavoro, luogo di svolgimento della prestazione lavorativa, il funzionario responsabile per l’impiego proposto, luogo ed orario per l’eventuale fruizione del pasto, numero di ore previste per l’eventuale formazione/affiancamento che potrà rendersi necessario per l’utilizzo di strumentazioni particolari. Torino: dai dolci alle birre, ecco le golose evasioni dalle italiche carceri di Leo Rieser La Stampa, 3 agosto 2017 Cresce con impeto Freedhome a Torino, nello store gestito da Gian Luca Boggia, presidente della cooperativa Extraliberi. Aperto a ottobre 2016 è un progetto che promuove il valore del lavoro in carcere e, nel locale di proprietà del Comune, raccoglie prodotti di oltre 30 case circondariali di tutta Italia. Le imprese che operano negli istituti di pena hanno nomi evocativi e ironici. Dal carcere di Verbania arrivano i dolci della Banda Biscotti (assaggiate i baci di dama), dalla Sicilia arrivano i derivati della mandorla di Dolci Evasioni come pure i prodotti di agricoltura biologica dei Frutti degli Iblei. Poi pasta senza glutine da Sondrio, taralli dal carcere di Trani, torcetti e tegole da Brissogne, caffè e birre piemontesi di Pausa Cafè. L’ultima novità è il pecorino Turbino (il Galeghiotto) che proviene dal carcere sardo di Isili. Inoltre utili complementi (portabottiglie, tovagliette) e produzioni artigianali di abbigliamento e bijoux. Parafrasando il nome della birra prodotta da Semi(di)Libertà a Rebibbia, Vale la Pena venire a dare un’occhiata. Freedhome, via Milano 2, Torino, 011/4409448, www.myfreedhome.it, aperto dalle 10.30 alle 14.30 e dalle 15 alle 19, chiuso domenica e lunedì mattina. Roma: Atletico Diritti, dai campi di periferia al Camp Nou per l’inclusione dei rifugiati overthedoors.it, 3 agosto 2017 Inizia ufficialmente la quarta stagione dell’Atletico Diritti, la squadra di calcio cui Antigone e Progetto Diritti hanno dato vita nel giugno del 2014. Ieri abbiamo presentato la richiesta di iscrizione al campionato di Terza Categoria del Lazio. Un anno in cui speriamo di poter avere in campo con noi anche i tanti ragazzi rifugiati che, fino alla passata stagione sportiva, potevano solo allenarsi senza partecipare alle partite ufficiali a causa dei regolamenti della Federazione. Un tema questo che ci sta particolarmente a cuore, essendo quello dell’inclusione e della lotta al razzismo attraverso lo sport una delle ragioni fondanti dell’Atletico Diritti. Nell’ottobre dello scorso anno abbiamo presentato un dossier sulle discriminazioni del calcio dove raccontavamo gli ostacoli burocratici e formali che venivano posti ai cittadini stranieri. Abbiamo inoltre aderito a "We Want To Play". Nell’ambito di questa campagna promossa da numerose realtà calcistiche popolari italiane abbiamo scritto nei giorni scorsi agli organi competenti affinché venga modificato il regolamento Noif (Norme Organizzative Interne della Figc) al comma 1.1. (punti B e C) dell’art. 40. Quello dell’inclusione dei rifugiati tuttavia non è un tema che attraversa solo i campi di periferia. Lo scorso mese di giugno siamo stati invitati dall’F.C. Barcellona al Camp Nou dove il club catalano, insieme all’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (l’Unhcr) ha lanciato la campagna #Signandpass sull’inclusione dei rifugiati. Nel piccolo della nostra società abbiamo aderito. L’appello che rivolgiamo è che lo facciano anche squadre ben più blasonate della nostra, a partire da tutte quelle impegnate nel campionato di Serie A. Anche quest’anno Atletico Diritti sarà composta da studenti dell’Università di Roma Tre e delle altre università romane, da migranti e da detenuti ed ex detenuti. Migranti. Giro di vite sul lavoro umanitario di Raffaele K. Salinari Il Manifesto, 3 agosto 2017 È da un ventennio almeno che si assiste a forme di pressione sulle organizzazioni non governative da parte di diversi livelli istituzionali - europei, nazionali e internazionali - affinché il Diritto internazionale dei diritti umani venga ricondotto all’interno delle compatibilità politiche di stati e governi. Sono cominciati i controlli straordinari sulle Ong che non hanno firmato il codice imposto dal Ministero degli interni. Ieri a Lampedusa la nave dell’organizzazione umanitaria tedesca Jurged Rettet, è stata fermata nel porto e sono stati identificati due cittadini siriani. Si concretizza così il giro di vite annunciato; ma che conseguenza avrà questa scelta politica, dove porterà nel lungo periodo, a chi realmente giova? Bisogna inquadrare il codice di comportamento all’interno di una deriva che parte da lontano. È da un ventennio almeno che si assiste a forme di pressione sulle organizzazioni non governative da parte di diversi livelli istituzionali - europei, nazionali e internazionali - affinché il Diritto internazionale dei diritti umani venga ricondotto all’interno delle compatibilità politiche che stati e governi intendono di volta in volta perseguire per la gestione degli aiuti umanitari. È dalla "guerra umanitaria" del Kosovo, infatti, che comincia questa tendenza che ha come obiettivo quello di far perdere progressivamente alle Ong le loro caratteristiche di base quali l’indipendenza e la neutralità, valori fondativi in coerenza anche con le Convenzioni internazionali che regolano queste attività. Chi non ricorda la progressiva sostituzione delle organizzazioni civili con i militari durante la campagna afgana seguita all’11 settembre o la scorta dei carabinieri alla Croce rossa italiana berlusconalizzata in Iraq? La progressiva manomissione dell’indipendenza e della neutralità del lavoro umanitario, ha dunque come scopo superiore quello di derubricare il valore universale delle Convenzioni Onu, e dunque di tutti gli accordi multilaterali, a partire dalla disarticolazione del suo anello più debole ed esposto mediaticamente: l’aiuto umanitario appunto. Non a caso oggi molte Ong non ritengono praticabili certi luoghi proprio perché la commistione civile militare azzera la percezione di neutralità e indipendenza che una volta permetteva loro di accedere ad ogni situazione ed aiutare ogni popolazione senza alcun problema di sicurezza. Dunque per calcoli estremamente miopi, quali in un mondo fortemente interconnesso e letteralmente surriscaldato in tutti i sensi, sono quelli che si fanno a livello nazionale, milioni di persone oggi non possono ricevere l’auto cui avrebbero diritto, e lo sanno. Nello specifico delle questioni migratorie, oltre alla chiara violazione di norme internazionali che (ma per quanto?) ancora reggono, come la legge del mare, proviamo a pensare a cosa potrebbe accadere se nei prossimi giorni una nave carica di persone salvate in mare non potesse attraccare in uno dei nostri porti. Basterebbero le immagini di questa ingiustizia trasmesse in giro per il mondo ad aizzare il fanatismo antieuropeo e antioccidentale che già si nutre abbondantemente delle promesse mancate e di un modello di sviluppo sempre più diseguale. E allora, si crea più insicurezza per lo spazio nazionale ed europeo respingendoli in mare e impedendo alle Ong di salvare le vite migranti, o accogliendoli come esseri umani? E ancora, un Continente che invecchia, come potrà evolvere se non sciogliendo e ricoagulando al suo interno altre culture, altri punti di vista, altre voci narranti? Se si prova ad alzare lo sguardo dalle questioni domestiche di corto periodo, quelle stesse che attendono che l’estate passi per non parlare più né dei fuochi né dell’acqua che manca, ebbene ci si accorge che farsi dettare l’agenda politica dalle destre xenofobe fa il paio con il pasticciaccio brutto di Fincantieri o del disfacimento europeo sui ricollocamenti a opera dei Paesi del gruppo di Visegrad. Invitiamo, dunque, i nostri governanti ad alzare lo sguardo e cercare di vedere, non con i loro occhi ma con quelli di chi verrà, il futuro di un mondo sempre più tondo che loro pensano sia ancora una tavola piatta. Migranti. La prima nave italiana è già in Libia. L’Oim: "No ai respingimenti" di Carlo Lania Il Manifesto, 3 agosto 2017 La prima nave militare italiana si trova già nel porto di Tripoli. Si tratta del pattugliatore Comandante Borsini in servizio con la missione "Mare sicuro" che ieri, subito dopo il via libera del parlamento alla missione, ha ricevuto dallo Stato maggiore della Difesa l’ordine di dirigersi in acque libiche. A bordo ufficiali della squadra navale e del Comando operativo del vertice interforze che dovranno coordinarsi con i colleghi libici per decidere quali e quanti mezzi distogliere dall’attività di Mare sicuro - che opera non distante dalle acque territoriali libiche - per essere impiegati nella nuova operazione di contrasto all’immigrazione. Secondo le autorità di Tripoli serviranno almeno cinque giorni per mettere a punto tutti i particolari tecnici dell’operazione (oltre alle navi, l’area entro la quale utilizzarle e che tipo di supporto dovranno fornire alla Guardia costiera del Paese). A questo punto l’avventura italiana in Libia è davvero cominciata, con tutto il suo carico di incertezze. Poco prima che la Comandante Borsini puntasse la prua verso il paese nordafricano, erano state Camera e Senato ad autorizzarne il via libera, seppure senza "l’ampio consenso" auspicato dal governo alla vigilia. Mentre Forza Italia si è schierata con la maggioranza, Lega Nord, Sinistra italiana e M5S hanno infatti votato contro e Fratelli d’Italia si è astenuto. Spaccato il Mdp, con alcuni deputati che hanno votato contro, altri che si sono astenuti e, infine, altri ancora che si sono espressi a favore. Al Senato i bersaniani hanno invece votato unanimi a favore. Difficile capire il clima che già a partire da oggi circonderà la missione. Ieri, con una dichiarazione a metà tra l’apprezzamento e le minacce, il colonnello Ayoub Qassem, portavoce della Marina libica che fa capo al Governo di accordo nazionale guidato dal premier Fayez al Serraj, prima ha riconosciuto come il sostegno italiano abbia contribuito "a migliorare i salvataggi", poi ha definito "vaga" la decisione di Roma di intervenire in acque libiche e promesso di "vigilare con attenzione affinché non venga violata la sovranità delle nostre acque territoriali". Parole che in realtà sembrano servire più a smorzare possibili attacchi interni che un avvertimento alle navi della nostra Marina, tanto più se si pensa che richiedere l’intervento italiano è stato proprio Serraj con una lettera inviata il 23 luglio al presidente del consiglio Paolo Gentiloni. A destare le preoccupazioni maggiori, però, è ancora la sorte che spetterà ai migranti fermati in acque libiche, a questo punto anche con il contributo italiano. "Consideriamo inaccettabile soccorrere i migranti in mare per poi riportarli in Libia dove vivranno in condizioni che tutto il mondo conosce", ha detto ieri parlando al Comitato Schengen il direttore dell’Ufficio coordinamento per il Mediterraneo dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, Federico Soda. "Cercheranno di attraversare il mare di nuovo, e quindi, di fatto, intensificheranno la tratta e il traffico". In Libia ci sono circa 30 campi governativi nei quali i migranti sono detenuti. Soda ha spiegato come l’Oim riesca a entrare solo in una ventina di questi dove ha potuto verificare le "condizioni pessime" in cui uomini, donne e bambini sono costretti a vivere. "E in quelli in cui non entriamo si trovano presumibilmente in condizioni peggiori", ha proseguito. Torture, violenze di ogni tipo e sfruttamento sono all’ordine del giorno eppure per le organizzazioni internazionali finora non c’è alcuna certezza che i migranti che verranno ricondotti in Libia non subiranno le stesse sevizie. Duro il giudizio espresso da Amnesty International sul via libera del parlamento alla missione italiana. "Facilitare l’intercettamento e il ritorno in Libia di migranti e rifugiati - ha detto il vicedirettore dell’organizzazione, Gauri Van Gulik - significherà destinarli ai centri di detenzione del paese dove quasi certamente saranno esposti al rischio di subire torture, stupri e anche di essere uccisi. Il voto di oggi - è la conclusione di Van Gulik - potrebbe rendere le autorità italiane complici di questo orrore". Migranti. Le regole di Roma sulle Ong e le vie di fuga "tedesche" di Paolo Valentino Corriere della Sera, 3 agosto 2017 Il sequestro della nave Iuventa, per ordine della Procura di Trapani, è un salto di qualità. Proprietaria del peschereccio è infatti la Jugend Rettet, fondata nel 2015 da giovani della buona società tedesca, una delle 5 Ong che si sono rifiutate di firmare il codice di condotta nel soccorso ai migranti in mare, imposto dall’Italia e approvato dall’Unione Europea. L’accusa è di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, documentata secondo gli inquirenti non solo dai contatti dell’equipaggio della Iuventa con i trafficanti, ma addirittura dalla riconsegna dei gommoni a questi ultimi dopo aver effettuato i trasbordi. Le Ong hanno annunciato battaglia, mobilitando una squadra di avvocati e denunciando la illegalità del codice in nome della legge internazionale, valida in tutte le circostanze. Uno degli aspetti più contestati è l’obbligo di far salire a bordo personale armato per i controlli. Il punto che qui vogliamo sottolineare è che non ci sono scorciatoie o vie di fuga: le regole varate dal governo di Roma perimetrano il solo terreno possibile sul quale le organizzazioni non governative devono muoversi per poter continuare il loro prezioso lavoro umanitario. Si potrà anche verificarne l’applicazione e l’efficacia in corso d’opera, ma soltanto a partire dal suo pieno rispetto da parte delle Ong, tre delle quali fra l’altro hanno già sottoscritto l’impegno a onorarlo. Certo, più in generale, si può discutere se il reato di immigrazione clandestina vada abolito o meno e come sappiamo ci sono posizioni autorevoli in favore della sua eliminazione. Ma fino a quando sarà in forza dentro i confini del nostro Paese, quella è la legge e quella va applicata. Un’ultima notazione sui partner europei, alleati reticenti e morosi sul tema dell’immigrazione e della difesa delle frontiere comuni. Dopo essersi rifiutati di farsi carico di quote e accoglienza nei loro porti, sarebbe bene che sul codice di condotta venissero da loro, anche singolarmente e soprattutto dalle grandi capitali, parole e gesti di forte solidarietà. Per esempio facendolo proprio e imponendone il rispetto da parte delle Ong. Dobbiamo ricordarlo che Jugend Rettet è tedesca? Droghe. "Marijuana legale a cielo aperto", il nuovo mercato della canapa che non sballa di Gianluca Russo Corriere della Sera, 3 agosto 2017 Reportage nelle campagne di Gravina in Puglia: due ettari di terreno coltivati a cannabis. I titolari di Roots: "Il principio attivo stupefacente è sotto i limiti di legge". Gravina in Puglia, appena fuori la città, dopo tornanti in salita su stradine di campagna bruciate dal sole, si arriva al campo di canapa a cielo aperto di proprietà di due giovani imprenditori locali. Oltre due ettari di area coltivata a marijuana "legale" e circa ventimila arbusti mossi dal vento in un terreno scosceso e fangoso a perdita d’occhio. Tutto intorno, nulla sembra illegale. Niente è occultato, non ci sono recinzioni o barriere a delimitare l’area accessibile a tutti. In paese c’è chi storce il naso all’idea dei due giovani coltivatori di canapa, ma non tutti sanno che il terreno in questione, produce solo marijuana legale e che quella "illegale", che può crescere spontaneamente e con il tasso di Thc (principio attivo della cannabis) superiore ai limiti imposti dalla Legge, è subito estirpata e bruciata alla presenza delle forze dell’ordine. C’è chi la criminalizza la canapa e chi invece la utilizza come materia prima di produzione, proprio come Mario Lorusso, titolare dell’azienda agricola "Roots" che ha deciso di puntare su quello che la terra ha di buono da offrirgli. Il clima e la canapa. "Ho sfruttato le terre private di famiglia per aprire la mia azienda - spiega Mario - che al momento produce principalmente canapa e vuole creare nuovi posti di lavoro e opportunità imprenditoriali nel suo territorio e non solo". Tutto il raccolto è controllato grazie alle analisi continue effettuate a campione sulle piante per verificare il livello di Thc che a oggi, in Italia, è fissato al 0,6% e che l’azienda "Roots" tiene sotto il limite imposto. Il prodotto a quanto pare è piaciuto, tanto da obbligare i due soci a sospendere gli ordini online per esaurimento del prodotto. La domanda è sempre in crescita insomma, e uno spiraglio di nuova economia al sapore di marijuana prova a farsi largo sul mercato. Non solo coltivazioni a cielo aperto ma anche in serre, nelle quali i due giovani studiano e sviluppano altre varietà di canapa con nuove tecniche di coltivazione, al fine di aggiudicare ogni genetica a un tipo di coltura differente e di sviluppare al meglio le parti più adatte alla lavorazione della materia prima. Il campo coltivato è del tipo Uso31: seminato a spaglio, non irrigato, non fertilizzato durante la coltura e totalmente spontaneo. "L’Uso31 è una genetica di canapa russa monoica, ha entrambi i sessi sulla stessa pianta e quindi ottima per l’estrazione dei semi" spiega Giuseppe Acquaviva, genetista, fondatore dell’azienda agricola "Hemp Connection" e collaboratore di "Roots", che conosce alla perfezione la materia prima che coltiva e la filiera di produzione della stessa. In fondo si sa, della canapa non si butta via niente. I semi, infatti, possono essere utilizzati per l’estrazione di olio di semi di canapa, per la trasformazione in farina di canapa e per la vendita di semi decorticati per uso alimentare. La raccolta al campo è effettuata a mano, con particolare attenzione nella fase di essiccazione per evitare l’evaporazione dei terpeni, cioè la parte essenziale dell’aroma della pianta. La produzione della canapa non si ferma al puro utilizzo ricreativo ma abbraccia il settore del gusto. Dal pastificio della Murgia, infatti, che ha sposato il progetto di valorizzazione della canapa, escono oltre cinquecento kilogrammi di pasta al giorno: orecchiette di farina di canapa, taralli e pasta fresca di ogni formato. Non solo. Il residuo delle infiorescenze invece, tolti i semi, può essere utilizzato per la produzione di cosmetici come creme idratanti e solari. Gli steli e le foglie possono essere utilizzati o per la biomassa destinata all’edilizia o per l’estrazione di fibre da tessuto, o ancora per produrre nuovi tipi di farina alimentare sempre di canapa. "È l’inizio del tuo innamoramento per questa pianta" si legge sul sito dell’azienda, perché i due imprenditori non puntano soltanto alla produzione massiccia della canapa e basta, ma si concentrano sulla rieducazione dell’opinione pubblica sull’utilizzo di questa pianta demonizzata che esiste da sempre. Germania. Sei italiani ancora in carcere dopo il G20 di Amburgo di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 3 agosto 2017 Detenuti con altre 29 persone da quasi un mese. A sostegno degli arrestati e contro la carcerazione preventiva è partita una campagna di solidarietà in Germania e in Italia. Sei italiani sono agli arresti dal 7-8 luglio ad Amburgo per avere partecipato alle manifestazioni contro il G20 di Amburgo: Fabio Vettorel e Maria Rocco di Feltre, Alessandro Rapisarda e Orazio Sciuto di Catania, Riccardo Lupano e Emiliano Puleo. Gli attivisti sono stati arrestati insieme ad altre 51 persone. Oggi in carcere ne restano 35, 22 tedeschi e 13 stranieri. Cinque arrestati italiani si trovano nel carcere di Billwerder. Il sesto, con un’età inferiore ai 21 anni, è detenuto nel carcere di Hanöfersand. Martin Dolzer (Linke) sostiene che "la maggior parte degli stranieri hanno accuse minori rispetto ai tedeschi che sono stati rilasciati. Persino l’offerta di una cauzione o la residenza in Germania in attesa del processo non hanno favorito il loro rilascio finora". Ad alcuni di loro è stato proibito anche l’accesso alla biblioteca "perché i manifestanti non hanno bisogno di leggere". "È un caso di abuso dei diritti umani e un segnale che lo Stato prova a punire i manifestanti provenienti da altre nazioni, in contrasto con la legge tedesca ed europea - aggiunge Dolzer - In nessun caso sono emersi elementi probatori tali da giustificare il trattenimento in carcere dei nostri connazionali - aggiunge Erasmo Palazzotto (Sinistra Italiana) - Nel caso di Maria Rocco, la ragazza è stata tratta in arresto mentre portava soccorso ad una ragazza ferita con una frattura scomposta alla gamba". A sostegno degli arrestati è partita una campagna di solidarietà. Sono stati organizzati presidi a Roma, Milano, Venezia, Palermo e Catania; una petizione del circolo "Peppino Impastato" di Rifondazione a Partinico ha raccolto oltre 1400 firme; la campagna "Scrivimi" dell’Osservatorio contro la Repressione invita a inviare lettere agli arrestati; Pd, Sel e Movimento 5 Stelle hanno presentato tre interrogazioni parlamentari al governo italiano che non ha risposto. Il prossimo 6 agosto è prevista un’altra manifestazione a Amburgo. "Nel cuore dell’Europa è stato creato uno stato di eccezione - sostiene Eleonora Forenza, eurodeputata dell’Altra Europa - Io stessa sono testimone del comportamento folle della polizia ad Amburgo dato che sono stata arrestata con altre 14 persone perché parlavo italiano e indossavo una felpa nera. E questo nonostante avessi mostrato il tesserino di parlamentare. Il comportamento del governo tedesco, e dell’ambasciata in Italia che si è rifiutata di riceverci è vergognoso, non intendono rendere conto di quanto sta accadendo". Una legge ha inasprito i poteri della polizia tedesca una settimana prima del G20. È stata presentata un’istanza alla Corte Costituzionale per dichiarare illegittima la legge. La sentenza potrebbe arrivare solo tra due o tre settimane, mentre i ragazzi rischiano di restare agli arresti fino a sei mesi. Il giudice ha negato la libertà in cambio di una cauzione di 5 mila euro e i domiciliari in Germania perché ci sarebbe un "pericolo di fuga". "A carico di mio figlio - afferma Pippo Rapisarda, padre di Alessandro, di ritorno da Amburgo - c’è un disturbo della quiete pubblica e tentata lesione. Accuse che non giustificano la carcerazione preventiva. Ho chiesto agli avvocati se la polizia italiana avesse mandato una segnalazione a quella tedesca. Non risulta nulla. Gli stessi tedeschi si sentono oppressi da questo comportamento. Sono molto amareggiato. Il governo italiano non ha ancora risposto alle interrogazioni. Alessandro ha perso il lavoro. A settembre rischia di non potersi iscrivere alla laurea specialistica. Stiamo premendo sull’ambasciata per trasferire con gli altri l’altro catanese che non parla le lingue, ma ad oggi non lo hanno trasferito. Questa situazione mi ricorda le leggi speciali degli anni Settanta in Italia". "Nemici dello stato": come l’Iran perseguita i difensori dei diritti umani di Riccardo Noury Corriere della Sera, 3 agosto 2017 In un rapporto pubblicato questa mattina, Amnesty International ha denunciato che da quando nel 2013 Hassan Rouhani è stato eletto alla presidenza dell’Iran, gli organismi di sicurezza e il potere giudiziario del paese stanno portando avanti una feroce repressione contro i difensori dei diritti umani, demonizzando e imprigionando chi ha il coraggio di stare dalla parte dei diritti. Negli ultimi quattro anni decine di attiviste e attivisti per i diritti umani, spesso etichettati come "agenti stranieri" e "traditori" dai mezzi d’informazione statali, sono stati processati e condannati a seguito di false accuse di reati contro la "sicurezza nazionale". Alcuni di loro sono stati condannati a oltre 10 anni di carcere solo per aver preso contatti con le Nazioni Unite, l’Unione europea od organizzazioni per i diritti umani come Amnesty International. Il rapporto di Amnesty International fornisce un quadro completo della repressione che ha preso di mira difensori dei diritti umani impegnati in campagne fondamentali e descrive 45 storie di attivisti contro la pena di morte, per i diritti delle donne e quelli delle minoranze, avvocati, sindacalisti e persone che chiedono verità, giustizia e riparazione per le esecuzioni extragiudiziali di massa e le sparizioni forzate degli anni Ottanta. Uno dei casi più emblematici, anche perché si trova in gravi condizioni di salute, è quello di Arash Sadeghi, un attivista per i diritti umani che sta scontando una condanna a 19 anni di carcere per "reati" quali aver comunicato con Amnesty International e aver inviato informazioni al Relatore speciale delle Nazioni Unite sull’Iran e a parlamentari europei sulla situazione dei diritti umani nel paese. Nonostante le sue critiche condizioni di salute, le autorità gli negano il trasferimento in un ospedale esterno al carcere per rappresaglia contro uno sciopero della fame che Sadeghi ha portato avanti tra ottobre 2016 e gennaio 2017 per protestare contro la detenzione di sua moglie, Golrokh Ebrahimi Iraee, "colpevole" di aver scritto un racconto sulla lapidazione (nella foto, i due coniugi). La nota difensora dei diritti umani Narges Mohammadi, già direttrice del Centro per i difensori dei diritti umani in Iran, sta scontando una condanna a 16 anni di carcere per il suo lavoro in favore dei diritti umani. Il procedimento giudiziario nei suoi confronti è stato avviato dopo che aveva incontrato, in occasione della Giornata internazionale delle donne del 2014, l’allora responsabile della politica estera europea, Catherine Ashton. Raheleh Rahemipour è stata condannata a un anno di carcere dopo che le Nazioni Unite avevano chiesto alle autorità iraniane informazioni sula sparizione forzata del fratello e della nipote durante gli anni Ottanta. Anche i sindacalisti, come Esmail Abdi e Davoud Razavi, hanno subito intimidazioni e il carcere per aver preso contatti con organismi internazionali, tra cui l’Organizzazione internazionale del lavoro. Non va meglio ai difensori dei diritti delle minoranze. Alireza Farshi, esponente della minoranza azera, è stato condannato a 15 anni di carcere per "reati" tra cui aver scritto all’Unesco per chiedere l’organizzazione di un evento in occasione della Giornata internazionale della lingua madre. Tutti i difensori dei diritti umani le cui storie sono illustrate nel rapporto di Amnesty International sono stati condannati al termine di processi gravemente irregolari celebrati dai tribunali rivoluzionari. Spesso, i processi sono estremamente brevi. Nel marzo 2015 Atena Daemi e Omid Alishenas, due attivisti per l’abolizione della pena di morte, sono stati condannati, rispettivamente, lei a 14 anni e lui a 10 anni di carcere al termine di un processo durato 45 minuti. In appello entrambe le condanne sono state ridotte a sette anni. I processi nei confronti dei difensori dei diritti umani si svolgono generalmente in un clima di paura di cui fanno le spese anche gli avvocati, limitati nelle visite o nella corrispondenza riservata coi loro clienti e ostacolati nell’accesso agli atti giudiziari. Difensori dei diritti umani che hanno osato denunciare le torture e i processi irregolari hanno a loro volta subito intimidazioni, radiazioni e condanne. Il noto avvocato per i diritti umani Abdolfattah Soltani è stato condannato a 13 anni di carcere, nel 2011, a causa del suo coraggioso impegno, anche col Centro per i difensori dei diritti umani. Siria. "Safadi è stato giustiziato": da un Paese senza libertà contribuì alla libertà di Internet di Paolo Gallori La Repubblica, 3 agosto 2017 Ingegnere informatico e attivista di origini palestinesi, aveva legato il suo nome allo sviluppo di Wikipedia, dei Creative Commons, del browser Mozilla. E lavorava a un progetto per il restauro di Palmira. È stato ucciso nel 2015, ma solo oggi la moglie lo ha scoperto. La comunità tecnologica che vorrebbe fare del web un mondo libero piange un suo esponente. Non uno qualsiasi. Bassel Khartabil Safadi, ingegnere informatico e attivista siriano di origini palestinesi, arrestato nel 2012 e considerato disperso dal 2015, è morto. "Giustiziato" proprio nel 2015, alcuni giorni dopo il suo trasferimento dalla prigione di Adra a un luogo ignoto. Dove Safadi è stato torturato dai servizi, poi ucciso. Lo annuncia su Facebook sua moglie, l’avvocatessa siriana Noura Ghazi. Alla notizia, molti appartenenti alla comunità del software libero, compreso il fondatore di Wikipedia Jimmy Wales, hanno espresso il loro cordoglio, esortando a mantenere viva la memoria di Safadi. Il suo nome reta legato a un patrimonio mondiale come l’enciclopedia libera, ma anche allo sviluppo della piattaforma "araba" di Creative Commons, una rivoluzione nel mondo del diritto d’autore e nella condivisione del sapere nell’era di Internet. Per non parlare del browser Mozilla. Safadi aveva messo il suo ingegno e il suo talento al servizio di progetti legati al concetto, tanto complesso, di libertà in Rete. Proprio lui che, nella realtà del mondo materiale, vedeva la libertà schiacciata dalla guerra civile. È allora il sito in lingua inglese dell’emittente del Quatar al-Jazeera a ricordare il contributo di Safadi al New Palmyra Project, lanciato nel 2005 per salvare le antiche rovine, progetto divenuto ancora più importante dopo la furia iconoclasta dell’Isis che durante l’occupazione dei jihadisti della città ne ha distrutto una gran parte. "Era un programmatore e un innovatore tecnologico che credeva nella libertà per il suo Paese e per Internet - si legge sulla pagina Facebook dell’ong The Syria Campaign - credeva nell’open source, ha costruito spazi per le persone per incontrarsi, comunicare e condividere". A Damasco, Safadi aveva messo su un laboratorio per lo sviluppo di software. Le autorità ne erano al corrente. La storia di Safadi aveva incrociato quella dell’avvocatessa Noura Ghazi. Pochi giorni prima della data fissata per il matrimonio, nel marzo del 2012, gli sgherri del dittatore Bashar al-Assad avevano arrestato Bassel. L’ingegnere era finito in una retata dei militari nelle strade della capitale, in pieno fermento anti-regime. Le ragioni del suo arresto non sono mai state rese note. Un amico libanese dell’ingegnere, Dana Trometer, ritiene che Safadi subì in segreto anche un processo. Dopo l’arresto, per qualche mese dell’uomo si era persa ogni traccia. Poi il suo nome era stato individuato nella lista dei detenuti della prigione di Adra. E Bassel e Noura avevano potuto finalmente sposarsi grazie a una rete, giurandosi fedeltà nella cattività del penitenziario. Quando sembrava che Safadi fosse in procinto di essere rilasciato, la nuova sparizione, "trasferito in luogo ignoto". Nell’oblìo, Bassel Khartabil Safadi era stato torchiato dall’intelligence di Assad. E nell’oblìo era stato assassinato dal regime. "Ero sposa della rivoluzione per causa vostra, e per causa vostra sono diventata vedova - il lamento su Facebook di Noura Ghazi - questa è una perdita per la Siria, è una perdita per la Palestina. È la mia perdita". Anna Neistat, direttore della ricerca di Amnesty International: "Bassel Khartabil sarà sempre ricordato come un simbolo di coraggio, che lottò pacificamente e fino alla fine per la libertà. La sua morte è un truce promemoria degli orrori che hanno luogo nelle prigioni siriane ogni giorno. Delle decine di migliaia di persone attualmente detenute nelle prigioni governative che affrontano torture, maltrattamenti, esecuzioni extra-giudiziali. Atti crudeli che senza dubbio rientrano tra i crimini di guerra e contro l’umanità". In uno sconvolgente rapporto pubblicato lo scorso febbraio, Amnesty accusa il regime di Bashar al-Assad di aver ucciso dall’inizio della rivolta popolare, nel 2011, almeno 13mila persone attraverso impiccagioni di massa nella prigione di Saydnaya, a nord di Damasco, che gli stessi detenuti hanno ribattezzato "il mattatoio". Il rapporto copre un periodo che va dal 2011 al 2015, durante il quale sarebbero stati uccisi ogni settimana tra i 20 e i 50 prigionieri. Esecuzioni eseguite dall’esercito e autorizzate dalle più alte cariche siriane, incluso il presidente Bashar al-Assad. Uno sterminio di Stato, su cui anche gli Usa lo scorso maggio hanno acceso i riflettori, aggiungendo ulteriori e macabri dettagli dedotti dall’analisi dell’area sulla base di foto satellitari. All’interno di Saydnaya, i corpi dei detenuti assassinati sarebbero cremati in un padiglione appositamente ristrutturato per cancellare ogni prova. Il regime di Damasco ha negato tutto.