Due suicidi in un solo giorno: uno a Pisa e l’altro a Torino di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 31 agosto 2017 La rivolta nel carcere toscano sedata grazie anche all’intervento del Capo del Dap Santi Consolo. La grave situazione dell’istituto pisano era stata monitorata e denunciata già lo scorso anno in un esposto alla Procura da parte di Rita Bernardini. Due suicidi nel giro di poche ore e clamorose proteste da parte dei detenuti. Uno è avvenuto nel carcere di Don Bosco di Pisa all’una di notte di ieri. Si tratta di un giovane tunisino che si è impiccato. Subito dopo una quarantina di detenuti hanno inscenato una protesta nelle ore notturne occupando il corridoio di accesso ai passeggi lanciando pietre verso il pavimento attraverso le finestre. Il capo del Dap Santi Consolo, informato nella notte dei fatti, è rientrato dalle ferie ed è giunto a Pisa alle 11. La situazione appariva critica, nel piazzale esterno sostavano ancora carabinieri e polizia pronti ad intervenire; all’interno la situazione era sotto il controllo della polizia penitenziaria. Nonostante la difficoltà, raggiunto il passeggio, Consolo è riuscito a dialogare con i detenuti per riportare la calma e ha invitato una loro rappresentanza di cinque persone all’esterno della zona occupata. Al termine del colloquio, durante il quale hanno manifestato il dolore per la morte del loro compagno, tutti i detenuti coinvolti nei disordini hanno fatto rientro nelle sezioni detentive. L’altro suicidio, questa volta al carcere di Torino, è avvenuto nella mattinata di ieri. Si tratta di un 37enne di origini sinti che si è impiccato legandosi con un lenzuolo alle grate del bagno della cella dove era ristretto. Altre due morti che allungano l’inarrestabile lista dei decessi che avvengono nelle nostre patrie galere. Ufficialmente parliamo di 36 suicidi avvenuti all’interno dei penitenziari, ma se aggiungiamo anche il suicidio avvenuto in esecuzione penale esterna, quello nella Rems e il decesso in ospedale dopo un tentato suicidio, arriviamo a 39 dall’inizio dell’anno. Al di là della questione numerica, resta il dato oggettivo che si tratta di una vera e propria emergenza che i piani di prevenzione messi in campo dal ministro della Giustizia non riescono a contenere. Una speranza è da ritrovare nell’attuazione della riforma dell’ordinamento penitenziario. Però c’è il serio rischio che ciò non vada in porto perché servono i decreti attuativi. A redigerli ci stanno pensando le tre commissioni istituite dal guardasigilli e che dovranno presentare le bozze a fine anno. Dopodiché, una volta approvati dal Consiglio dei ministri, le commissioni giustizia del Senato e della Camera dovranno dare un parere ai decreti per poi passare ad una eventuale approvazione definitiva da parte del consiglio. L’iter quindi si prospetterà lungo e ciò avverrà in piena campagna elettorale e nella situazione in cui ci saranno altre priorità come la legge elettorale e quella di bilancio. "Il 31 dicembre prossimo - denuncia Rita Bernardini, membro della presidenza del Partito Radicale - cade in una "finestra" temporale pericolosissima per il varo di una normativa così importante. Lo stesso ministro, quando nel luglio scorso finii in ospedale per un prolungato sciopero della fame, disse che i decreti sarebbero stati emanati entro agosto essendo i testi già pronti perché frutto del lavoro degli Stati Generali dell’esecuzione penale". Proprio per questo il Partito Radicale ha lanciato dal 16 agosto una mobilitazione nonviolenta per la riforma dell’ordinamento penitenziario, un grande Satyagraha che ha già raccolto l’adesione di quasi 7000 detenuti. Azioni non violente che riescono a contenere, almeno per ora, una situazione pronta ad esplodere. L’ultimo tentativo di rivolta avvenuto nel carcere di Don Bosco è anche generato dalle condizioni insostenibili dell’istituto penitenziario. Parliamo di una struttura decadente (a marzo è crollato anche il soffitto di un locale del carcere) con luoghi di detenzione fatiscenti. Eppure la grave situazione del carcere era stata monitorata e denunciata già lo scorso anno in un esposto alla Procura di Pisa da parte di Rita Bernardini. Esposto, almeno finora, rimasto inevaso. Allarme carceri, una rivolta e due suicidi nel giro di ventiquattro ore di Giuseppe Novelli ilfogliettone.it, 31 agosto 2017 L’appello dei sindacati. Il capo del Dap: meno detenuti, più agenti. Una protesta e due suicidi nel giro di ventiquattro ore. È sempre allarme carceri. Una situazione annosa quella italiana, ma per la quale ancora non si intravedono segnali di svolta. La rivolta è scattata nel carcere Don Bosco di Pisa. Due ore di protesta dei detenuti scoppiata dopo il ritrovamento del corpo di un 21enne tunisino, che si è ucciso in cella, impiccandosi. Necessario l’intervento della polizia in tenuta anti sommossa all’interno della struttura. A protestare per lo più detenuti di origine magrebina, che lamentano le condizioni "invivibili" del carcere. "La rivolta dei detenuti del carcere di Pisa segna un punto di non ritorno per istituzioni, governo in primo luogo e politica", ha commentato il segretario del Spp, Aldo Di Giacomo. "Si tratta -ha aggiunto - di una vera e propria guerra contro tutto e tutti". Un altro detenuto si è tolto la vita nel carcere di Torino, portando a due, quindi, con quello di Pisa, il numero di detenuti suicidi in meno di 24 ore. A Torino, il suicida è un croato di 37 anni e si è ucciso stringendosi un rudimentale cappio al collo. Mentre a Pisa è un tunisino di 22 anni il detenuto ad essersi ucciso. Su Pisa, in particolare, il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria denuncia che "il poliziotto penitenziario era di servizio in tre diverse Sezioni detentive contemporaneamente, vista la carenza di personale che da tempo il Sappe denuncia ma che non è mai stata risolta in sede ministeriale. E sono comunque inaccettabili le violenze poste in essere dagli altri detenuti del carcere pisano dopo la notizia del suicidio del ristretto". Le cifre - Con i casi odierni salgono, come ricorda lo stesso sindacato, sono quasi 40 dall’inizio dell’anno i suicidi di detenuti nelle carceri italiane. Dunque, due detenuti suicidi in meno di 24 ore portano drammaticamente d’attualità il tema della invivibilità delle carceri italiane. Dura la presa di posizione del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria. "Non ci si ostini a vedere le carceri con l’occhio deformato dalle preconcette impostazioni ideologiche, che vogliono rappresentare una situazione di normalità che non c’è affatto", dice il segretario Donato Capece. A questo punto, il Sappe torna a chiedere l’intervento del ministro della Giustizia, Andrea Orlando, per affrontare la questione penitenziaria: "Da quando sono stati introdotti nelle carceri vigilanza dinamica e regime penitenziario aperto, sono decuplicati eventi gli eventi critici in carcere - denuncia il sindacato -. Se è vero che il 95% dei detenuti sta fuori dalle celle tra le 8 e le 10 ore al giorno, è altrettanto vero che non tutti sono impegnati in attività lavorative e che anzi trascorrono il giorno a non far nulla", prosegue. Il sindacato snocciola una serie di numeri: nei primi sei mesi del 2017, 22 suicidi; 567 tentati suicidi; 4.310 atti di autolesionismo; 3.562 colluttazioni; 541 ferimenti. Per il Sappe, "le carceri sono più sicure assumendo gli Agenti di Polizia Penitenziaria che mancano, ben 8mila in meno rispetto all’organico previsto, finanziando gli interventi per potenziare i livelli di sicurezza delle carceri". Capo del Dap - Il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Santi Consolo si è recato nel carcere di Pisa, dove nella notte si sono verificati disordini. La rivolta dei detenuti è scattata dopo la notizia del suicidio di un detenuto tunisino di 28 anni, che era in attesa di primo giudizio. Il capo del Dap ha parlato con i detenuti, e ha poi dato nuove direttive per diminuire la presenza dei detenuti stranieri e aumentare gli agenti. Santi Consolo, infatti, informato nella notte dei fatti - ha reso noto il Dap - è rientrato dalle ferie ed è arrivato a Pisa alle ore 11.00. "La situazione - sottolinea il Dap - appariva critica, nel piazzale esterno sostavano ancora carabinieri e polizia pronti ad intervenire; all’interno la situazione era sotto il controllo della polizia penitenziaria. Circa 40 detenuti occupavano il corridoio di accesso ai passeggi lanciando pietre divelte dal pavimento attraverso le finestre, rendendo così difficile l’accesso all’area occupata". Raggiunto il passeggio, il capo del Dap "ha parlamentato con i detenuti per riportare la calma e ha invitato una loro rappresentanza di cinque persone all’esterno della zona occupata" e "al termine del colloquio, durante il quale hanno manifestato il dolore per la morte del loro compagno, tutti i detenuti coinvolti nei disordini hanno fatto rientro nelle sezioni detentive". Il capo del Dap, che nella visita è stato accompagnato dal provveditore regionale Martone, ha incontrato il direttore, il comandante e il personale di polizia penitenziaria in servizio, con i quali "ha concordato gli interventi e le progettualità per migliorare le condizioni detentive e di lavoro del personale"; quindi "ha impartito direttive alle direzioni generali e al provveditorato regionale per deflazionare le presenze di detenuti stranieri che a Pisa sono circa il 70% e per implementare, per quanto possibile, l’organico della polizia penitenziaria dell’istituto". Infine, "si è complimentato con il personale di polizia penitenziaria che, seppure presente in numero esiguo, è stato in grado di fronteggiare la situazione con alto profilo professionale, coraggio e buon senso, impedendo che degenerasse". Carovana per la Giustizia. Visite alle carceri di Tempio Pausania e di Sassari di Lucio Ghezzo piazzagallura.org, 31 agosto 2017 "2 milioni di euro annui totali per raggiungere tutti gli scopi della legge, ma nessuno li ha mai visti". Sono 130 le sottoscrizioni alla proposta di legge di iniziativa popolare per la separazione delle carriere dei magistrati raccolte dalla delegazione del Partito Radicale in visita oggi al carcere sardo di Sassari. Invece 103 quelle raccolte nel carcere di Tempio Pausania, dove 170 detenuti hanno anche aderito ad agosto al Grande Satyagraha promosso dal Partito Radicale. Si tratta di una iniziativa nonviolenta che consiste nel digiuno, nello sciopero della spesa e nel rifiuto del carrello, finalizzata nel richiedere al più presto l’attuazione della riforma dell’ordinamento penitenziario che andrebbe ad intervenire su diversità criticità: sovraffollamento in rapida ascesa che, come ha sottolineato la radicale Rita Bernardini, "in alcune carcere raggiunge punte del 200%; maggiore possibilità di accesso alle pene alternative, più rapporti tra detenuti e familiari, più lavoro e studio in carcere, più cure". Con la delegazione radicale era presente anche il Presidente dell’Unione delle Camere Penali di Tempio Pausania, avvocato Domenico Putzolu, che ha dichiarato "la giornata è stata molto fruttuosa perché abbiamo raccolte le firme dei detenuti, che sono il punto di arrivo della vicenda processuale, sono coloro che, anche loro malgrado, vanno a valutare e talvolta a patire quelle che possono essere le disfunzioni del nostro sistema processuale. Abbiamo riscontrato grandissimo interesse per la nostra iniziativa e abbiamo raccolto un numero considerevole di adesioni alla proposta di legge. Come Camere Penali siamo grati al Partito Radicale, sempre vicino alle nostre iniziative". Matteo Angioli, membro della Presidenza del Partito Radicale, ha proseguito: "Oltre la metà dei detenuti ha firmato per la separazione delle carriere dei magistrati. Per quello che abbiamo potuto vedere è un carcere in buone condizioni, anche dal punto di vista igienico e dell’organizzazione. È importante questa sinergia che prosegue, dopo la Calabria e la Sicilia, con le Camere Penali. Il supporto che il nostro Partito ha dato alle Camere Penali si spera diventi presto un nostro lavoro comune". L’altro membro della Presidenza, Irene Testa, ha invece messo in evidenza come "In Sardegna manchi da anni il Garante dei Detenuti. Si tratta di una questione evidentemente emblematica sulla quale da anni le istituzioni regionali della Sardegna latitano. La legge regionale del 7 febbraio 2011, n. 7, che ne prevede l’istituzione insieme ad un sistema integrato di interventi a favore dei soggetti sottoposti a provvedimenti dell’autorità giudiziaria non ha trovato mai applicazione dal 2011. Non si sa per qual motivo, né se si preveda di darne attuazione in un futuro prossimo o remoto. Eppure erano stati previsti anche 2 milioni di euro annui totali per raggiungere tutti gli scopi della legge, ma nessuno li ha mai visti". Ha concluso Giuseppe Pirinu, consigliere comunale di Tempio Pausania: "la nostra amministrazione comunale aveva già organizzato all’interno del carcere un consiglio comunale aperto ai detenuti come uditori. Negli anni si sono succedute direttrici che non hanno criminalizzato i reclusi ma hanno intrapreso la via del recupero. Il numero alto di firme raccolte sulla pdl per la separazione delle carriere - oltre 62.000 ad oggi - conferma il grande interesse che c’è su questo tema della giustizia Carovana per la Giustizia. Risultato straordinario a Oristano e Alghero radicalparty.org, 31 agosto 2017 Seconda giornata del tour sardo della Carovana per la Giustizia, oltre 250 firme tra il carcere di Alghero e Oristano. Stasera in piazza con la Camera Penale di Oristano. Stasera la Carovana del Partito Radicale sarà in piazza Roma ad Oristano e domani i dirigenti e militanti del Partito Radicale faranno tappa nel sud della Sardegna: prima nella casa di reclusione Is Arenas ad Arbus, e poi nel carcere di Cagliari. Su questo fronte Partito Radicale e Unione Camere Penali stanno sempre più rafforzando la loro sinergia per la riforma della giustizia. All’esterno del carcere di Alghero, ai microfoni di Radio Radicale, Marco Palmieri, presidente della Camera Penale di Sassari ha dichiarato "Il comandante della casa circondariale di Alghero ci ha riferito non solo i numeri dei detenuti, ma soprattutto la qualità della struttura algherese. Probabilmente a molti non addetti ai lavori non è nota. Nel carcere di Alghero c’è una struttura residenziale aperta, e cioè ha una qualità di organizzazione e di rieducazione del detenuto che credo sia un fiore all’occhiello rispetto ad altre strutture penitenziarie Italiane. È un qualcosa che è nato proprio dalla progettualità, della quale anche il comandante si è fatto carico, a partire dalla fine del 2013, e la specificità e questa struttura rettangolare con bracci che da la possibilità ai detenuti di circolare e di incontrarsi. Una struttura che ha una capacità di rieducazione di risocializzazione che pare stia dando dei frutti importanti. Con soddisfazione, il che è una rarità credo, anche da parte degli agenti polizia penitenziaria; con un numero anche ridotto di agenti polizia penitenziaria si riesce a reggere benissimo una struttura così dinamica. Quindi credo che sia un elemento di grande riflessione non solo da parte dell’avvocatura penalistica, perché noi su questa cosa ci abbiamo sempre riflettuto e continuiamo a riflettere, e cioè sul fatto che se vogliamo dare delle possibilità anche a chi ha sbagliato bisogna necessariamente aprire all’esterno e risocializzare che è un termine bellissimo, abusato, ma che di fatto poi deve avere la sua realizzazione". Nella delegazione del pomeriggio anche l’avvocato Francesco Pilloni, Camera Penale Oristano "un evento di caratura eccezionale perché circa il 90% dei detenuti ha sottoscritto la proposta di legge di iniziativa popolare per la separazione delle carriere. È motivo di orgoglio per la Camera Penale di Oristano, ma questo vale credo anche a livello nazionale perché la partecipazione da parte dei detenuti del carcere italiani sta registrando un’affluenza record. Come dicevo oltre il 90% dei detenuti hanno sottoscritto una proposta di legge, questo è un dato estremamente significativo; da un lato perché ci riporta la problematica direttamente dai luoghi in cui certamente l’esperienza anche giudiziaria è di livello personale estremamente sentita, vorremmo e auspichiamo una presenza così massiccia anche a livello dell’elettorato per poter promuovere e portare finalmente in porto una iniziativa che ormai da troppi deve arrivare sulle tavole del dibattito politico senza alcun risultato". C’è un obiettivo ancora più importante per il Partito Radicale, raggiungere 3000 iscritti altrimenti il 31 dicembre tutto sarà destinato a finire. Per questo dai microfoni di Radio Radicale Sergio D’Elia, Rita Bernardini, Laura Arconti, Diego Sabatinelli e tanti altri dirigenti e militanti hanno lanciato la campagna #Quota3001: fili diretti, collegamenti con la Sardegna, e approfondimenti sulle iniziative in corso per raccogliere iscrizioni al partito di Marco Pannella. I fatti di Reggio Emilia e il giudice terzo di Francesco Petrelli* Il Manifesto, 31 agosto 2017 Il fatto che il giudice emiliano che giorni fa ha applicato misure cautelari diverse dal carcere a un giovane pakistano incensurato, confesso di un atto di violenza sessuale su di un minore invalido, sia stato sottoposto a un pubblico linciaggio, rende necessario riflettere sul tramonto della cultura delle regole e sulla pericolosa deriva darwiniana che sta investendo, nel nostro Paese, il diritto, il processo e l’intero mondo della giustizia. L’idea che cioè vince il più forte o, meglio, chi grida più forte. Senza entrare nel merito della vicenda, occorre infatti ricordare che quelle norme che rendono più rigorosa la valutazione delle esigenze cautelari e fanno della custodia in carcere una extrema ratio, sono state introdotte dal Parlamento poco più di due anni fa. Il giudice, nell’applicare quelle regole, ha evidentemente ritenuto che, in considerazione di tutti i parametri solitamente utilizzati in questi casi (l’incensuratezza, l’età, la condotta successiva al reato, la confessione), le tre diverse misure cautelari applicate fossero sufficienti a operare uno stringente controllo sull’indagato e a scongiurare ogni pericolo per la collettività e per la vittima del reato. Sul punto un Tribunale della libertà, investito dal pm dissenziente della questione, dirà se questa valutazione sia stata compiuta in maniera corretta. Si potrebbe, dunque, ricondurre questa vicenda giudiziaria alle ordinarie e fisiologiche cadenze del processo penale, se non fosse che attorno al caso si sia scatenata l’ostilità di una intera collettività, e non si fosse creata una adesione trasversale di tutte le forze politiche, di destra e di sinistra, con conseguente coro di minacce, di insulti, di richieste di interventi da parte del Csm e del Ministro. Giustamente si è ricordato il valore della indipendenza e dell’autonomia della magistratura. Se fosse, infatti, così semplice determinare le condizioni per un trasferimento per "incompatibilità ambientale", da qualcuno subito evocato, quell’idea darwiniana finirebbe per fagocitare anche l’organizzazione della giustizia, e con il selezionare in questo modo solo giudici graditi a questa o a quella Procura e a ondivaghi movimenti d’opinione, perché privi di quell’indispensabile requisito della terzietà che dovrebbe costituirne invece la fonte di legittimazione costituzionale. Non vi è dubbio che esistano nel Paese tensioni particolari e che quello della sicurezza è un problema che non può essere sottovalutato e che, infine, la circostanza che il giovane indagato fosse un richiedente asilo ha contribuito alla esposizione mediatica del caso. Occorre tuttavia evitare che il processo divenga ostaggio di questi conflitti, sottraendolo a pericolose generalizzazioni. Utilizzare queste delicate vicende come facile veicolo di consenso politico significa favorire una pericolosa delegittimazione dei giudici e della giustizia, far regredire lo strumento processuale da equilibrato dispositivo di garanzia a improprio collettore di pulsioni collettive, di risentimenti e di ostilità. Ricordare invece all’opinione pubblica che l’85% degli autori di questi reati sono stati a loro volta vittime di abusi, e come tali comunque degni di rispetto e di tutela come ogni altra vittima di reato, e che oltre il 70 % dei delitti di pedofilia vengono compiuti in ambito familiare, potrebbe essere utile a impostare la discussione in termini più consapevoli e più maturi. Così come potrebbe essere utile ricordare che il giudice deve inevitabilmente operare le sue scelte discrezionali applicando le norme al singolo caso concreto e che, in caso di errore, il processo possiede comunque al suo interno meccanismi di controllo. Così fornendo strumenti razionali e non emotivi di lettura della complessa realtà dei fenomeni criminosi e del processo che se ne occupa, e magari offrendo anche qualche strumento di rassicurazione a una opinione pubblica spesso più frastornata che forcaiola. *Segretario dell’Unione camere penali Migranti economici, nessuna protezione in assenza di rischi specifici di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 ore, 31 agosto 2017 Corte d’Appello di Milano - Sezione 2 - Sentenza 22 marzo 2017 n. 1211. Nessuna "misura di protezione" può essere accordata ai "migranti economici" a meno che non provino il rischio concreto di subire persecuzioni se rimandati nel paese di origine. E l’impossibilità di onorare i debiti fatti per pagarsi le spese del viaggio non è all’uopo sufficiente. Per queste ragioni la Corte d’Appello di Milano, sentenza 22 marzo 2017 n. 1211, ha respinto la domanda di riconoscimento dello "status di rifugiato", ma anche la richiesta di "protezione internazionale" e quella per "motivi umanitari, presentata da un emigrato del Bangladesh, aggiungendo che, siccome viveva lontano da Racca, neppure correva il rischio di perdere la vita in un attentato. L’extracomunitario, "di etnia bangla e di religione musulmana", nel marzo 2015, durante l’audizione in Commissione aveva dichiarato di aver lasciato il Paese d’origine il 23 maggio 2014 per raggiungere la Libia dove aveva lavorato come muratore per circa un anno prima di arrivare in Italia. Spiegando di essere emigrato "per aiutare economicamente la propria famiglia" in quanto il padre, contadino, a seguito di un incidente in moto era diventato "totalmente disabile e non poteva più mantenere la moglie e gli altri figli". Inoltre, per finanziare il viaggio era stato costretto a vendere alcuni terreni di proprietà e "aveva dovuto indebitarsi con alcuni conoscenti". Per cui lamentava che, in caso di rientro, "non avrebbe più potuto restituire il denaro ai creditori che ormai si presentavano a casa per chiedere insistentemente il rimborso". Per il giudice di primo grado il motivo di carattere economico che avrebbe spinto il richiedente ad emigrare era "del tutto inidoneo ad integrare gli estremi di una situazione persecutoria diretta e personale - così come previsto dalla normativa in materia di protezione internazionale - riconducibile alla previsione dell’art. 1 della Convenzione di Ginevra". Un giudizio condiviso dalla Corte territoriale secondo cui non vi sono "elementi, concreti ed attuali, dai quali poter desumere il fondato timore che l’appellante, rientrando in patria, potrebbe essere vittima di persecuzioni o danni gravi alla persona". L’articolo 2 del Dlgs 251/2007, infatti, riconosce lo status di rifugiato al "cittadino straniero il quale, per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica, si trova fuori dal territorio del paese di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di tale Paese". Invece, prosegue la decisione, "i motivi di matrice esclusivamente economica, sebbene verosimili anche se generici, non si configurano in alcun modo come espressione di violazioni gravi dei diritti fondamentali della persona". Quanto, poi, alla richiesta di protezione internazionale sussidiaria, l’articolo 2, del Dlgs. 251/2007, alla lettera g) del comma 1, identifica lo straniero che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato, "ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese di origine, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno quale il pericolo di essere condannati a morte o di esecuzione della pena di morte, di essere sottoposti a tortura o ad altra forma di trattamento inumano o degradante, oppure di subire una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale". "Orbene - argomenta il Collegio, quanto alle prime due ipotesi di danno, si esclude con assoluta certezza che rientrando in Bangladesh, potrebbe correre rischi siffatti per non aver rimborsato i creditori". Mentre con riguardo l’ultima fattispecie "benché dopo l’attacco terroristico del 1° luglio 2016 a Dacca, la possibilità di nuovi attentati non possa essere esclusa e ciò anche in considerazione della presenza nel Paese di formazioni di ispirazione jihadista, l’eventualità di ulteriori atti ostili interesserebbe zone diverse da quella da cui proviene l’appellante per la quale, peraltro, non esistono segnalazioni di non - refoulement da parte dell’UNHCR". Da ultimo, è stata bocciata anche la domanda di "protezione per motivi umanitari", in quanto "misura di natura residuale concepibile previa valutazione di fattori che potrebbero esporre il soggetto a rischi o difficoltà apprezzabili che, però, non sono in alcun modo riscontrabili nella fattispecie". Non vi è infatti nella documentazione presentata nulla che attesti "elementi di significativa fragilità o vulnerabilità" del richiedente, né tantomeno una particolare integrazione, culturale o professionale, nel paese ospitante. Fatture false, dolo con frode consapevole di Laura Ambrosi Il Sole 24 Ore, 31 agosto 2017 Corte di cassazione, sentenza 30 agosto 2017, n. 39541. Il dolo per la configurazione del delitto di dichiarazione fraudolenta mediante fatture soggettivamente inesistenti è la consapevolezza del contribuente di partecipare a una frode. A fornire questo chiarimento è la Corte di cassazione, terza sezione penale, con la sentenza 39541 depositata ieri. Il legale rappresentante di una società era stato condannato, dalla Corte di appello, alla pena di un anno e otto mesi di reclusione per il reato di utilizzo di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti. L’imputato avverso la decisione proponeva ricorso in Cassazione lamentando un’errata interpretazione della norma, poiché essendo il costo integralmente deducibile, doveva escludersi qualunque evasione. La Suprema corte, confermando la decisione del giudice territoriale, ha fornito alcuni chiarimenti sul punto. Innanzitutto, i giudici di legittimità hanno ricordato che il Dl 16/2012 aveva disciplinato il trattamento fiscale dei "costi da reato" ovvero dei proventi derivanti da attività illecite. La falsità soggettiva è riferita a fatture emesse da soggetti che non hanno effettuato la prestazione, per le quali è prevista, ai fini squisitamente fiscali, l’indetraibilità dell’Iva (poiché il versamento dell’imposta a un soggetto non operativo o diverso da quello effettivo,consente l’evasione del tributo) e la deducibilità integrale del costo (atteso che l’impresa ha concretamente sostenuto l’esborso economico indicato nella fattura soggettivamente inesistente, con la conseguenza che non si concretizza alcuna evasione). La deducibilità è comunque subordinata all’inerenza del costo sostenuto rispetto all’attività di impresa. Per le operazioni oggettivamente inesistenti, invece, è prevista la totale irrilevanza ai fini tributari e quindi l’indetraibilità dell’Iva e l’indeducibilità del costo. La Cassazione ha però precisato che ai fini penali la norma tributaria non ha alcun riflesso: non esiste, infatti, nel Dlgs 74/2000 alcuna differenza tra l’utilizzo di fatture soggettivamente ovvero oggettivamente inesistenti. Si tratta, così di norme funzionali per l’accertamento tributario e senza senso per il procedimento penale. La Suprema Corte ha rilevato che il dolo nelle operazioni soggettivamente inesistenti consiste nella consapevolezza da parte del contribuente di partecipare ad un sistema di frode fiscale. Nella sentenza è così affermato che ai fini penali, tale consapevolezza, comporta l’indeducibilità di qualsiasi componente negativo riconducibile a fatti qualificabili come reato "per violazione del principio di inerenza". Una riflessione sugli ex brigatisti detenuti da più di trentacinque anni di Giulio Petrilli Ristretti Orizzonti 31 agosto 2017 La riflessione da fare sugli ultimi ex brigatisti ancora detenuti, della stagione degli anni settanta, che sono all'incirca una trentina, molti dei quali da più di trentacinque anni in carcere, è quella che è un po' anacronistico che siano ancora detenuti! Quell'esperienza è finita completamente da tanti anni e tutti sono usciti, ma rimangono in carcere solo loro. Oltretutto non hanno l'ergastolo ostativo che gli impedirebbe la possibilità di uscire, basterebbe invece che facessero una semplice richiesta per accedere alle misure alternative, ma non lo fanno, non chiedono nulla. Deve far riflettere questo. Al di là dei reati commessi sono rimasti gli ultimi ad essere ancora detenuti dopo quasi quaranta anni, per una scelta che al fondo è ideologica. In un periodo nel quale le ideologie non esistono più, tutto è stato distrutto in tal senso, loro perseverano a difendere l'idealità della loro scelta. Al fondo seguitano a rimanere in carcere per affermare semplicemente che non erano assassini ma stavano dentro una cultura ideologica che ha attraversato il novecento.Potrebbero uscire scrivendo semplicemente una lettera, ma non lo fanno. Comunque al di là delle valutazioni, in ogni caso sono persone che si trovano nei carceri di massima sicurezza da più di trentacinque anni. Sta a noi fuori, alle soggettività attente, a quello che rimane dei centri sociali, dei movimenti, fare in modo che possano uscire. Perchè dopo quasi quaranta anni di carcere qualsiasi pena è stata espiata. Al di là della varie soluzioni che lo Stato ha adottato in relazione al fenomeno della lotta armata, prima con la legge sui pentiti, poi con la legge sulla dissociazione, poi con la legge Gozzini (chiaramente completamente diverse una dall'altra e con giudizi diversi uno dall'altro) sono state tutte leggi ad personam, che non hanno viaggiato per una soluzione politica di quegli anni. Lo Stato si è sempre rifiutato di applicare apertamente una soluzione politica. La liberazione degli ultimi detenuti degli anni settanta delle br si muoverebbe in quella direzione. Costruiamoci una mobilitazione. Pisa: detenuto suicida a 21 anni; nel carcere la rivolta, appiccate anche delle fiamme di Laura Montanari La Repubblica, 31 agosto 2017 La protesta durata tre ore nella notte. I sindacati denunciano: "Situazione insostenibile". Si è ucciso a ventuno anni, dentro una cella in cui era stato messo da solo, dopo un litigio con un altro detenuto magrebino come lui, avvenuto poche ore prima. S.K. si è messo al collo il lenzuolo trasformandolo in un cappio e legandolo assieme a un asciugamano. La notizia del suicidio del ragazzo nella notte tra martedì e mercoledì ha provocato una rivolta nel carcere Don Bosco di Pisa. Una quarantina di detenuti hanno cominciato a lanciare oggetti dalle celle: fornellini a gas, pezzi di arredo, alcuni hanno dato fuoco alle lenzuola e ai cuscini, allagando gli ambienti. La polizia penitenziaria ha faticato non poco a contenere la protesta durata ore e cominciata all’1,45 della notte. La rivolta. I detenuti si sono asserragliati a uno dei piani dell’istituto occupandolo fino a che a metà mattina sul posto è arrivato il capo del Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Santi Consolo. Ci sono stati momenti di tensione. I detenuti di questo carcere già denunciato dal garante toscano Franco Corleone come un "istituto vecchio, fatiscente che dovrebbe essere chiuso", hanno lanciato pietre levate dal pavimento e altri oggetti impendendo il passaggio. Poi in una delegazione di cinque persone si è incontrata con Consolo e con il provveditore toscano Martone e i detenuti si sono convinti a tornare nelle celle. Il capo del Dap ha chiesto di diminuire le presenze dei detenuti stranieri nel carcere pisano arrivate al 70%. "Ci sono spesso risse fra persone di etnie diverse" racconta un agente. "Si ripetono le aggressioni" aggiunge un altro. Oggi sono stati subito disposti una quindicina di trasferimenti. Ma la situazione delle carceri in Toscana resta difficile: a Sollicciano, il grande carcere di Firenze il sindacato Uil-Pa denuncia l’aggressione di un detenuto a tre agenti (due feriti a un braccio). A Pisa adesso la situazione sembra tornata tranquilla. Consolo si è complimentato con il personale di Polizia penitenziaria che, seppure presente in numero esiguo, è stato in grado di fronteggiare la situazione con alto profilo professionale, coraggio e buon senso, impedendo che degenerasse. I sindacati. Ma infuriano le proteste dei sindacati di polizia: "La rivolta dei detenuti del carcere di Pisa segna un punto di non ritorno per istituzioni, governo in primo luogo e politica" così dice il segretario generale del Sindacato polizia penitenziaria Spp Aldo Di Giacomo. "Quando per contenere la guerra scatenata dai detenuti, perché di questo si tratta, una vera e propria guerra contro tutto e tutti, è costretta ad intervenire nell’istituto penitenziario polizia in tenuta anti sommossa esautorando il personale di polizia penitenziaria. È difficile persino trovare le parole per commentare. La situazione, per responsabilità della politica, è ormai diventata ingestibile e il personale di polizia penitenziaria - conclude il sindacalista - è abbandonato al suo destino". Secondo un altro sindacato, "tra le motivazioni della sommossa" ci sarebbe "la chiusura delle celle e la abolizione della cosiddetta vigilanza dinamica che era stata disposta a seguito di una precedente rissa avvenuta nell’Istituto lo scorso 30 giugno". La vigilanza dinamica è il regime che consente di mantenere aperte le celle per diverse ore al giorno. Racconta la sorella di un detenuto a Pisa: "A volte non hanno neanche i piatti dove mangiare". E il garante toscano Corleone aggiunge: "La cucina è fatiscente come molte celle, nella sezione femminile i bagni non sono nemmeno chiusi". La storia di K. In mezzo a tutto questo, la storia di K. e dei suoi ventuno anni finiti appesi alla corda di un lenzuolo. K. era al Don Bosco da due mesi scarsi, era finito lì per aver violato l’ordine del questore di allontanarsi da Pisa. Aveva un precedente per lesioni: aveva partecipato a una rissa in centro, in una zona frequentata da spacciatori. Nei due mesi in cui è stato detenuto, K. non ha ricevuto nemmeno una visita. A metà agosto per lui è arrivata soltanto una telefonata dall’estero. Doveva essere molto solo. Non ha lasciato biglietti, non ha lasciato messaggi. Ma restano molti dubbi da chiarire: un litigio da poco, una testata che ha ferito con altro detenuto può aver innescato il suicidio? Allarme carceri. Altri segnali, nelle stesse ore, sono giunti ad indicare che la situazione di disagio non è limitata al solo vecchio carcere pisano: anche a Torino un detenuto, un 37enne croato, si è suicidato impiccandosi in cella. Una morte che porta a quasi 40 i casi di suicidio in questo scorcio di 2017. Un altro detenuto è morto, sebbene per arresto cardiocircolatorio, nel carcere napoletano di Poggioreale, quasi a ricordare la forte incidenza di patologie negli istituti penitenziari. E nel carcere fiorentino di Sollicciano alcuni detenuti si sono scagliati contro gli agenti di polizia penitenziaria, armati di un coltello rudimentale e di bastoni. Pisa: Santi Consolo (Dap) dopo la rivolta "diminuire i detenuti e più agenti" Askanews, 31 agosto 2017 Il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Santi Consolo si è recato nel carcere di Pisa, dove nella notte si sono verificati disordini. La rivolta dei detenuti è scattata dopo la notizia del suicidio di un detenuto tunisino di 28 anni, che era in attesa di primo giudizio. Il capo del Dap ha parlato con i detenuti, e ha poi dato nuove direttive per diminuire la presenza dei detenuti stranieri e aumentare gli agenti. Santi Consolo, infatti, informato nella notte dei fatti - ha reso noto il Dap - è rientrato dalle ferie ed è arrivato a Pisa alle ore 11.00. "La situazione - sottolinea il Dap - appariva critica, nel piazzale esterno sostavano ancora carabinieri e polizia pronti ad intervenire; all’interno la situazione era sotto il controllo della polizia penitenziaria. Circa 40 detenuti occupavano il corridoio di accesso ai passeggi lanciando pietre divelte dal pavimento attraverso le finestre, rendendo così difficile l’accesso all’area occupata". Raggiunto il passeggio, il capo del Dap "ha parlamentato con i detenuti per riportare la calma e ha invitato una loro rappresentanza di cinque persone all’esterno della zona occupata" e "al termine del colloquio, durante il quale hanno manifestato il dolore per la morte del loro compagno, tutti i detenuti coinvolti nei disordini hanno fatto rientro nelle sezioni detentive". Il Capo del Dap, che nella visita è stato accompagnato dal provveditore regionale Martone, ha incontrato il direttore, il comandante e il personale di polizia penitenziaria in servizio, con i quali ha concordato gli interventi e le progettualità per migliorare le condizioni detentive e di lavoro del personale. Ha quindi impartito direttive alle direzioni generali e al provveditorato regionale per deflazionare le presenze di detenuti stranieri che a Pisa sono circa il 70% e per implementare, per quanto possibile, l’organico della polizia penitenziaria dell’istituto. Il Capo del Dap si è complimentato con il personale di polizia penitenziaria che, seppure presente in numero esiguo, è stato in grado di fronteggiare la situazione con alto profilo professionale, coraggio e buon senso, impedendo che degenerasse. Torino: detenuto di 27 anni si impicca nel carcere Lorusso e Cotugno di Federico Genta La Stampa, 31 agosto 2017 È il 39esimo caso del 2017 negli istituti italiani. Il sindacato: "Colpa delle carenze d’organico". È successo questa mattina, mercoledì 30, alle 10,30, nel Padiglione C del carcere Lorusso e Cotugno di Torino. Un detenuto di origine sinti, 27 anni, si è tolto la vita impiccandosi con un lenzuolo legate alle grate del bagno. Quando gli agenti di Polizia penitenziaria hanno raggiunto la sua cella, per lui non c’era più nulla da fare. A denunciare l’episodio è l’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria) per voce del segretario generale, Leo Beneduci. Si tratta del trentanovesimo episodio, nelle carceri italiane, dall’inizio dell’anno. E la colpa, almeno secondo il sindacato, è legato anche alle carenze di organico negli stessi istituti. "Soltanto a Torino mancano all’appello almeno 200 unità: il 20% del totale - spiega Beneduci. Pretendere - conclude Beneduci - come il Ministro Orlando o il Capo dell’Amministrazione Penitenziaria Consolo che con sempre meno unità e con una età media procapite nel personale di oltre 46anni, gli appartenenti alla Polizia Penitenziaria continuino a svolgere le accresciute incombenze legate all’attuale sistema penitenziario, appare almeno da incoscienti". Napoli: 53enne muore in cella nel carcere di Poggioreale di Giuseppe Letizia Cronache di Napoli, 31 agosto 2017 L’allarme dei compagni nel padiglione Milano ieri mattina: inutili i soccorsi dei medici del 118. Il 53enne abitava ad Ariano. I sanitari: il decesso è avvenuto per cause naturali. L’uomo è stato soccorso ieri mattina nella cella 27 al primo piano del padiglione Milano nel carcere di Poggioreale. Ma i sanitari non hanno potuto fare nulla per salvargli la vita. "Alba tragica nella Casa circondariale - racconta Emilio Fattorello, segretario del Sappe Campania - verso le 6 è stato rinvenuto il corpo senza vita del 53enne di Ariano. È deceduto per cause naturali a seguito di un arresto cardiocircolatorio, il detenuto, con posizione giuridica di definitivo con fine pena 2019 per tentata estorsione in concorso ed altro aveva fatto ingresso nell’istituto il 28 giugno 2017, per revoca semilibertà ed era nella cella con altre selle persone", Fattorello Spiega che Luigi Ceparano è stato aiutato dai suoi compagni e ì soccorsi sono scattati subito. "Ci troviamo dunque a commentare l’ennesimo tragico evento critico all’interno di un penitenziario della regione Campania - continua il segretario del sindacato autonomo della polizia penitenziaria - in un’estate di fuoco. Poggioreale, che ospita circa 2.100 detenuti, vive in maniera drammatica un sovraffollamento della popolazione detenuta di 700 unità, che ha ripercussioni negative sul personale della polizia penitenziaria che opera con ben 300 unità in meno nei diversi ruoli previsti dalla pianta organica". Fattorello precisa che "non e ‘è dubbio sul decesso per cause naturali del 53enne. C’erano i compagni di cella in quel momento con l’uomo. Ma serve fare una attenta riflessione sulle attuali condizioni nell’istituto". E dichiara: "Il Sappe della Campania entra in stato di agitazione ed annuncia eclatanti azioni di protesta contro l’amministrazione penitenziaria nel prossimo mese di settembre per lo sfacelo e l’abbandono totale negli istituti e servizi penitenziari, che saranno oggetto di comunicati e conferenze stampa per il recupero della dignità professionale di una forza dell’ordine dello Stato quale è la polizia penitenziaria". Da Roma il segretario generale del Sappe, Donato Capece, fa sentire la sua voce "La situazione nelle carceri resta allarmante: altro che emergenza superata. Dal punto di vista sanitario è semplicemente terrificante: secondo recenti studi di settore è stato accertato che almeno una patologia è presente nel 60-80% dei detenuti. Questo significa che almeno due detenuti su tre sono malati. Tra le malattie più frequenti, proprio quelle infettive, che interessano il 48% dei presenti. A seguire i disturbi psichiatrici (32%), le malattie osteoarticolari (17%), quelle cardiovascolari (16%), problemi metabolici (11%) e dermatologici (10%). Altro che dichiarazioni tranquillizzanti, altro che situazione tornata alla normalità. I problemi del carcere sono reali, come reale è il dato che gli eventi critici nei penitenziari sono in aumento da quando vi sono vigilanza dinamica e regime aperto per i detenuti". Il presidente dell’associazione degli ex detenuti organizzati napoletani. Pietro Ioia, la pensa allo stesso modo: "L’intero sistema sanitario è da rivedere. I tempi sono lunghi per le visite mediche. La scorsa settimana abbiamo visitato il padiglione Milano: è in pessime condizioni, tra mura umide, bagno otturati e celle affollate, il direttore del carcere ha fatto tanto, ma qui ci sono problemi cronici. L ‘istituto andrebbe chiuso". Napoli: detenuto malmenato all’ospedale Cardarelli, in corso indagini della Procura Cronache di Napoli, 31 agosto 2017 La Procura sta esaminando in queste ore la denuncia presentata da un detenuto nel carcere di Poggioreale, che sostiene di essere stato malmenato da agenti della Penitenziaria nel padiglione Palermo dell’ospedale Cardarelli. Gli inquirenti hanno ricevuto anche la controdenuncia della Penitenziaria. I magistrati stanno confrontando le due versioni raccolte e sono alla ricerca di ulteriori elementi per le indagini. Il recluso ha presentato la denuncia alla polizia giudiziaria nel carcere di Poggioreale. Vincenzo Campanile sostiene di essere stato picchiato da quattro poliziotti della penitenziaria. Il quarantenne abita vicino piazza Mercato. È difeso dagli avvocati Mauro Zollo del foro di Napoli e Raffaele Boccagna del foro di Santa Maria Capua Vetere. che stanno seguendo la vicenda. Campanile nella missiva spiega che è ristretto nel carcere di Poggioreale dal 28 aprile di quest’anno. Il 29 luglio alle 18 e 30 viene trasportato d’urgenza all’ospedale Loreto Mare per un sospetto ictus. Dopo una tac gli viene riscontrata una cisti al cervello. Ricoverato fino al 31 luglio e poi trasferito al Cardarelli, nel reparto detentivo Palermo. Sempre secondo il racconto del 40enne, qui sarebbe stato malmenato. Dopo il pestaggio il detenuto e stato visitato ed è stata redatta una cartella clinica. Campanile spiega che ha subito firmato, per lasciare l’ospedale. Fin qui arriva la sua ricostruzione: quella descritta nell’esposto. Il sindacato della Polizia penitenziaria fa quadrato: "Abbiamo presentato una contro denuncia - esordisce Emilio Fattorello, il segretario nazionale del Sappe della Campania - le cose non sono proprio andante così. Tanto che noi non disponiamo di quattro agenti, che lavorano contemporaneamente nel padiglione Palermo al Cardarelli". E ancora: "Siamo molto sereni. Anche perché siamo sempre stati dalla parte dei detenuti". Trento: "nel carcere di Spini di Gardolo troppi detenuti, l’accordo va riscritto" di Marika Damaggio Corriere del Trentino, 31 agosto 2017 Il direttore Pappalardo: "Dovevano essere 240, sono 320". L’accordo del 2008 è sorpassato e va riscritto. A lanciare l’allarme è il direttore della casa circondariale di Spini di Gardolo, dove secondo quel documento avrebbero dovuto essere rinchiuse al massimo 240 persone mentre oggi sono già 320. L’ultima condanna di Strasburgo risale al gennaio del 2013. Con biasimo formale, i giudici della Corte europea hanno invitato l’Italia a porre rimedio "immediatamente" al sovraffollamento carcerario. Da allora qualcosa è cambiato. Si è così passati dai 68.000 detenuti del 2010 - anno in cui fu dichiarato lo stato di emergenza nazionale per il sovraffollamento penitenziario - ai 52.000 del 2015. Problema risolto? No. A denunciare il ritorno del problema è l’associazione Antigone, nell’ultimo rapporto presentato poche settimane fa alla Camera. Le strutture sono sature: la percentuale di presenze rispetto alla capienza è pari al 113,2% e in alcuni casi non sono garantiti i tre metri quadrati a detenuto. Solo quattro regioni non hanno raggiunto tali livelli: la Sardegna (con l’86,1%), il Trentino Alto Adige (87,7%), le Marche (93,2%) e, seppur di poco, la Sicilia (98,9%). Ma il bicchiere è mezzo pieno. Se i volumi della casa circondariale di Trento consentono un rapporto accettabile, il direttore Valerio Pappalardo critica lo sforamento dei numeri stabiliti nell’accordo del 2008 (ossia 240 detenuti, che oggi sono 320). "Rispetto a quei parametri siamo in sovrannumero - rimarca. Che senso ha mantenere un accordo antico, se poi non viene rispettato?". Di qui l’esortazione: "Va aggiornato il protocollo". Il numero dei detenuti presenti nelle singole strutture penitenziarie del Paese è solo una delle criticità da risolvere. Resta tuttavia un parametro quantitativo per comprendere la qualità del sistema. Con 442 detenuti fra Trento e Bolzano al 30 aprile scorso, rispetto a una capacità di 504 persone, la nostra regione è la meno problematica. Meglio di noi, come visto, solo la Sardegna. "Ma abbiamo il solito dilemma - premette Pappalardo - l’accordo tra l’allora presidente della Provincia (Lorenzo Dellai, ndr) e il Guardasigilli (Angelino Alfano, ndr) esplicitava un tetto massimo di 240 posti, ora quel parametro dell’accordo antico è sforato: siamo fuori perché siamo a 320". A livello centrale, infatti, la stima dei volumi ha via via aggiornato la capacità potenziale, senza modificare il perimetro del protocollo che, nella lettura ministeriale, sottodimensionava la capienza reale. "Rispetto alle tarature dipartimentali siamo chiaramente nei limiti, ma resta una strana antinomia tra le premesse originarie e lo schema di tollerabilità detentiva attuale", rimarca Pappalardo. "Per questo, lo ripeto in tutti i modi, mi chiedo che senso abbia la vigenza di un accordo che si ha difficoltà a rispettare, perché lasciare in piedi un’intesa come simulacro tombale? Meglio rimettersi nuovamente attorno a un tavolo rivedere quello schema". Al di là di tale incongruenza formale, il rapporto sostanziale con gli spazi "resta ottimale". "Con le metrature siamo messi benissimo", rassicura il direttore. I crucci del carcere di Spini, come noto, sono ben altri: la polizia penitenziaria è carente. "Dovremmo disporre di 238 unità, ma siamo a 130 - sottolinea Pappalardo. Ora aspettiamo trepidamente le nuove assegnazioni all’esito dei corsi di formazione di nuovi agenti". La mancanza di personale, del resto, si traduce in una serie di difficoltà quotidiane. Ma non è l’unica mancanza. Con il 70% circa di detenuti stranieri, Pappalardo indica "il bisogno di mediatori culturali". Figure specializzate, congiunzioni necessarie "per comprendere esigenze e abitudini, fare da ponte con le nostre disposizioni e ridurre i contrasti interni". Rimini: denuncia del Codacons "nel carcere due tentativi di suicidio in meno di un’ora" La Presse, 31 agosto 2017 "Di fronte agli ultimi due tentativi di suicidio all’interno di una prigione italiana non si può che aprire un confronto sul sistema penitenziario italiano: sistema che, a prescindere dall’impegno di agenti e operatori, decisamente non funziona". Lo si legge in una nota del Codacons dopo l’ultimo episodio avvenuto a Rimini. L’associazione, che nel 2013 si era rivolto al Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti di Strasburgo proprio per questo motivo, "denuncia - si legge in una nota - che la condizione dei detenuti è ancora inaccettabile. Mentre continua la crescita dei detenuti, in alcune carceri si torna a scendere sotto lo spazio minimo previsto di tre metri quadri per persona. Senza dire che mancano le docce, gli educatori, i servizi sanitari". "Mancano poi le misure alternative: basta pensare che un detenuto su quattro deve scontare una pena residua inferiore ai tre anni e dunque potrebbero accedere a una misura alternativa, se non ci fossero paletti normativi e ostruzioni varie. Soprattutto, manca il lavoro: il principale strumento per evitare che, una volta usciti di prigione, i detenuti tornino a delinquere. Il triste bilancio dei detenuti che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno (35) non è l’unico dato che conta: bisogna pensare che a ogni morte per suicidio corrispondono diversi tentativi vanificati", si legge ancora nella nota. "Questo scenario drammatico rappresenta alla perfezione la condizione delle nostre carceri: in questo modo non si scommette sul recupero e il reinserimento ma si contribuisce a creare la criminalità, come dimostrato dal tasso di recidiva", prosegue il Codacons. "Il nostro sistema penitenziario ha delle difficoltà a evitare che i detenuti, una volta rilasciati, tornino a delinquere - dichiara il presidente Carlo Rienzi. Da un sistema vetusto e solo punitivo è ora di passare a un nuovo carcere, fondato su diritti fondamentali e reinserimento sociale autentico. Anche perché - conclude - ne guadagniamo tutti: la nostra incapacità di abbassare il tasso di recidiva ci costa tra i tre e i quattro miliardi l’anno, oltre a produrre insicurezza sociale". Parma: carcere di via Burla, rivolta dei detenuti per le celle aperte di Mattia Bottazzi parmareport.it, 31 agosto 2017 Ennesimo episodio di tensione all’interno della struttura. I detenuti hanno protestato nel pomeriggio di domenica, la situazione è tornata alla normalità dopo qualche ora. Suicidi, risse e proteste, oltre alla mancanza di agenti. Questa è l’estate difficilissima che sta vivendo il carcere di via Burla, alle prese con episodi e problemi di diversa natura che sono all’ordine del giorno. L’ultimo si è verificato domenica pomeriggio, quando alcuni detenuti del lato B della Media Sicurezza, dopo l’ora d’aria si sono rifiutati di tornare nelle proprie cella inscenando una vera e propria rivolta. Alla base della protesta ci sarebbe stata l’insufficiente razione di cibo distribuita ogni giorno, ma il vero motivo della disputa sarebbe un altro, cioè la richiesta di ottenere il regime delle celle aperte, uno spazio cioè più ampio per potersi muovere e con più ore. Ne sono nati momenti di alta tensione proprio tra i detenuti e gli agenti di Polizia Penitenziaria, che sono comunque rientrati già nel tardo pomeriggio. L’episodio descritto si va ad aggiungere ad una rissa, avvenuta sempre tra carcerati della Media Sicurezza per la distribuzione di psicofarmaci, in cui un magrebino aveva aggredito con un coltello costruito proprio da lui i suoi compagni di cella. Oltre ai suicidi e nei tentativi di suicidio, che negli ultimi tre mesi sono stati due. Parma: il Garante dei detenuti "più problemi con il nuovo padiglione" di Michele Ceparano Gazzetta di Parma, 31 agosto 2017 Non è la prima volta che lancia l’allarme Roberto Cavalieri, Garante dei diritti dei detenuti del Comune di Parma. Gli ultimi fatti accaduti all’interno della Media sicurezza del carcere di via Burla lo vedono in prima linea a ribadire quanto detto anche in altre occasione e a provare a suggerire alcune soluzioni per scongiurare quello che è un effetto-polveriera. "Il carcere di Parma - spiega il garante - è formato da quattro sezioni diverse e che sono governate da regole differenti". In tutto a Parma i detenuti sono circa seicento. Il 20 per cento si trova tra l’Alta sicurezza 1 (detenuti appartenenti alla criminalità organizzata di tipo mafioso) e il 41 bis, il 30 per cento nell’Alta sicurezza 3 (i detenuti che hanno rivestito, ad esempio, posti di vertice nelle organizzazioni dedite al traffico di stupefacenti) e il cinquanta per cento (detenuti cosiddetti comuni, 200 su 300 stranieri) nella Media sicurezza, E fra gli stranieri va aggiunto che la metà ha problemi di documenti e permessi di soggiorno. A Parma non ci sono invece detenuti As2, cioè quelli carcerati per terrorismo. "La caratteristica dell’Alta sicurezza - spiega Cavalieri - è che molti detenuti sono anziani e malati. Duecento, inoltre, sono stati assegnati a Parma perché in via Burla esiste un centro diagnostico-terapeutico, cioè un piccolo ospedale. Che però ha solo venti posti. I restanti 180 vengono mandati nelle sezioni, ma non è quello il luogo in cui dovrebbero stare". La Media sicurezza, dove sono accaduti gli ultimi episodi, è un nervo scoperto. "I problemi - puntualizza - sono sovraffollamento, differenze etniche e religiose e il trasferimento in carcere di dinamiche di conflitto tra etnie, che può scaturire anche dal controllo di certe zone delle città per quanto riguarda lo spaccio di droga". La Media sicurezza è, a sua volta, divisa in due lati: A e B. Nel secondo i reclusi sono più problematici. "Nel lato A - aggiunge - la sorveglianza è più dinamica, in questo settore ci sono ad esempio quelli che lavorano. Nel B invece vengono applicate molte più restrizioni". L’insufficienza degli agenti è un problema antico ma che ora si presenta in maniera ancora più drammatica. "Parma dovrebbe avere circa cento agenti in più - dichiara; un numero di tutto rispetto". A gennaio in via Burla "debutterà" il nuovo padiglione, una struttura "progettata male anche dal punto di vista architettonico" e che "porterà nel Comune duecento detenuti in più, ma senza modificare l’organico di agenti ed educatori". Ma che detenuti verranno qui a Parma, città che ha "vinto" la concorrenza di Bologna per la costruzione del padiglione? "Siamo a settembre e l’amministrazione penitenziaria non lo ha ancora chiarito - conclude Cavalieri -. Però la nostra città, e specialmente il Comune, ma anche la Regione, dovrebbero farsi e fare delle domande. Ho il sospetto che saranno detenuti della Media sicurezza, che arriveranno da altre carceri. Parma sarà utilizzata per alleviare la situazione di altre realtà. E i nostri problemi aumenteranno". Firenze: a Sollicciano forte tensione tra i detenuti, feriti due agenti ilsitodifirenze.it, 31 agosto 2017 Dopo le proteste nel carcere di Pisa giungono notizie di "fortissime tensioni e di violenze anche dalla Casa Circondariale di Firenze "Sollicciano". Lo rende noto il segretario generale della Uil-Pa Polizia Penitenziaria, Angelo Urso. "A Sollicciano - afferma Urso - nel pomeriggio di oggi alcuni detenuti, armati di coltello rudimentale, bastone e bombolette del gas (quelle in uso con i fornelli) si sono scagliati contro la Polizia penitenziaria procurando ferite da taglio a due agenti e alcune contusioni ad un terzo. I tre sono stati portati al pronto soccorso". Leo Beneduci, segretario generale di Osapp, l’Organizzazione sindacale autonoma di polizia penitenziaria, racconta di "quattro agenti aggrediti" con un coltello rudimentale", definendo l’episodio "gravissimo" purtroppo "l’ennesimo di una lunga serie, dimostra l’estrema criticità in cui versano gli istituti italiani ed in particolare quelli toscani", ed il sindacato "ribadisce con forza la necessità dell’istituzione di una commissione parlamentare ad hoc e l’immediato intervento del ministro Orlando". Dopo la sommossa nel carcere di Pisa avvenuta a seguito del suicidio di un detenuto, il Partito Radicale torna a chiedere al Ministro della Giustizia Andrea Orlando "l’immediata approvazione del nuovo Ordinamento Penitenziario attraverso l’esercizio della delega conferita al Governo dal Parlamento con la legge n. 103 del 23 giugno scorso". Cosenza: visita dei Radicali Italiani alla Casa di Reclusione di Rossano sibarinet.it, 31 agosto 2017 Prossimamente, anche presso la Casa di Reclusione di Rossano, arriverà il Gruppo Operativo Mobile (Gom) del Corpo di Polizia Penitenziaria, per gestire il Reparto As2 ove sono ristretti 21 detenuti tra imputati e condannati per reati afferenti al terrorismo internazionale di matrice islamica. Lo rivela Emilio Enzo Quintieri, capo della Delegazione dei Radicali Italiani che nella giornata di ieri, insieme all’esponente radicale Valentina Anna Moretti, ha effettuato una visita presso il Carcere di Rossano, autorizzato dai vertici del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia. Il Gom, che una volta si occupava esclusivamente della custodia, del controllo e delle traduzioni dei detenuti ad altissimo indice di pericolosità, ovvero sottoposti al regime detentivo speciale di cui all’Art. 41 bis O.P., nonché di taluni collaboratori di Giustizia, prosegue l’esponente radicale, a seguito del nuovo riordino e riorganizzazione, voluto dal Ministro della Giustizia On. Andrea Orlando, si dovrà occupare anche di svolgere vigilanza ed osservazione di detenuti per reati di terrorismo, anche internazionale, specificatamente individuati dalla Direzione Generale dei Detenuti e del Trattamento, anche se ristretti in regimi diversi da quello previsto dall’Art. 41 bis, comma 2, della Legge Penitenziaria. Negli ultimi mesi a Rossano, in virtù dei trasferimenti fatti in alcuni Istituti Penitenziari della Sardegna, le presenze nel Reparto As2 si erano notevolmente ridotte; 8/9 erano i detenuti ivi ristretti, mentre oggi ve ne sono 21 come i primi tempi. Già durante la visita che feci a maggio, dice il radicale Quintieri, riscontrai la presenza di 13 detenuti per terrorismo internazionale, di cui 1 allocato (anche attualmente) nel Reparto di Isolamento, perché sottoposto al regime di sorveglianza particolare prevista dall’Art. 14 bis O.P. Complessivamente, nella Casa di Reclusione di Rossano che è un Istituto Penitenziario classificato di terzo livello, sono presenti 224 detenuti, 60 dei quali stranieri, con le seguenti posizioni giuridiche: 12 giudicabili, 1 appellante, 6 ricorrenti e 204 definitivi di cui 28 ergastolani. La maggior parte della popolazione ivi ristretta (138 su 224) appartiene al Circuito dell’Alta Sicurezza (As2 e As3). Il resto (86) sono detenuti comuni. Credo che l’Istituto di Rossano, gestito dal Direttore Giuseppe Carrà in cui, peraltro, non c’è il Comandante di Reparto della Polizia Penitenziaria appartenente al ruolo dei Commissari ed il resto del personale è carente specie con riferimento a quello del ruolo dei Sovrintendenti e degli Ispettori, in relazione alla tipologia particolare dei detenuti ospitati ed in considerazione del fatto che prossimamente sarà attiva una ulteriore Sezione di Alta Sicurezza (As3) di 50 posti (in fase di collaudo), nella ex degenza sanitaria, debba essere necessariamente "promosso" come secondo livello, adottando tutti i consequenziali provvedimenti, poiché allo stato è classificato come istituto di terzo livello. Inoltre, continua Quintieri, vi è l’assoluta necessità che al più presto l’Istituto sia guidato da un Comandante di Reparto appartenente al ruolo dei Commissari anziché a quello degli Ispettori. Sempre con riferimento alla problematica del terrorismo, dopo gli attentati avvenuti a Barcellona in Spagna ed a Turku in Finlandia, previa convocazione straordinaria da parte del Ministro dell’Interno On. Marco Minniti, si è riunito il Comitato Analisi Strategica Antiterrorismo (Casa) a cui ha partecipato anche l’Amministrazione Penitenziaria insieme a tutti i vertici delle Forze di Polizia dello Stato. Durante la riunione, conclude l’esponente dei Radicali Italiani Emilio Enzo Quintieri, tra le altre cose, è stato disposto che il personale delle Forze dell’Ordine tra cui la Polizia Penitenziaria, porti sempre con se l’arma di ordinanza, anche fuori dall’orario di servizio, nonché di potenziare l’attività di prevenzione e di controllo, effettuando con ogni possibile attenzione i servizi istituzionali, specialmente quelli di vigilanza armata. Verona: carcerati col diploma "studiare è stata la nostra evasione" di Enrico Presazzi Corriere di Verona, 31 agosto 2017 Consegnato il diploma dell’Istituto alberghiero ai primi 5 carcerati di Verona. Antonio stringe tra le mani il suo diploma e si lascia andare alla poesia. "Non vedo le sbarre, il muro di cinta, per me è come la siepe di Leopardi: ora so che dietro quella barriera c’è la vita che mi attende". Un futuro all’insegna del riscatto per lui e gli altri quattro compagni di scuola che ieri mattina hanno ricevuto il diploma di maturità. Una cerimonia tutta particolare perché questi studenti che a giugno hanno superato l’esame della commissione dell’istituto alberghiero Berti del Chievo, non sono i soliti alunni. Antonio e amici, infatti, la maturità l’hanno affrontata in carcere. I primi cinque diplomati del corso avviato quattro anni fa su iniziativa del preside Antonio Benetti (che proprio oggi andrà in pensione) e del professor Paolo Massagrande. Lezioni teoriche e pratiche nello stabile che fino a pochi anni fa ospitava le detenute. "Si tratta del primo corso di scuola secondaria superiore avviato nella casa circondariale di Verona - spiega la dottoressa Laura Donà, ispettrice del Ministero dell’Istruzione -, nel resto del Veneto esperienze simili esistono solo a Padova e alla Giudecca, il carcere femminile veneziano". Occasione che i detenuti hanno colto al volo. "Riceviamo circa il triplo di domande rispetto ai posti a disposizione" puntualizza il preside Benetti. E oltre ai cinque freschi diplomati (ieri mancava solo Antonino Giordano), sono altri 36 gli studenti che seguono i corsi dell’Istituto Berti a Montorio. "Non è stato un percorso semplice - ricorda Adriano Patosi, albanese orgoglioso del suo 79 conquistato con una tesina sul turismo -. La cosa che fa più piacere? Ricevere i complimenti dei commensali". Per Abdellatif Daoud, marocchino di 47 anni, la scuola è stata un’esperienza indimenticabile: "Sono qui da quattro anni e tre mesi: prima ho preso la licenza media e poi questo diploma". Il passato e gli errori commessi sono un lontano ricordo, qui oggi si guarda solo al futuro. "Quando uscirò spero di trovare un lavoro" sogna Abdellatif. Desiderio condiviso anche dal "secchione" della classe: l’ecuadoregno Hector Jimenez uscito con un prestigioso 86. "Facevo l’autista in un’azienda di catering - racconta con il sorriso -. Io chef? Quando esco sono pronto a partire anche come lavapiatti pur di avere un impiego. I pregiudizi purtroppo rischiano di accompagnarci sempre, ma grazie a queste opportunità possiamo superarli". La direttrice della casa circondariale Maria Grazia Bregoli approva mentre Antonio La Rocca, il "poeta" del gruppetto versa il vino nei calici degli ospiti (dal procuratore Angela Barbaglio all’assessore Stefano Bertacco, oltre al magistrato di sorveglianza Isabella Cesari e al garante dei detenuti Margherita Forestan). "Sono l’unico detenuto di Montorio ad aver ottenuto il permesso di indossare la cravatta - rivela nella sua tenuta da maître sfoggiata per l’occasione. A Napoli avevo già frequentato l’alberghiero specializzandomi in sala e bar, qui ho avuto l’opportunità di concludere gli studi in cucina. I professori sono stati dei fratelli, il nostro faro". Un trait d’union con il mondo "di fuori" come conferma anche Vincenzo, uno dei futuri diplomandi: "Grazie alla scuola e alle varie attività, si riesce a tenere occupata la mente. Io frequento qualsiasi corso: se hai la possibilità di scegliere come impiegare il tuo tempo, alla fine ti senti un po’ più libero". Parma: "Festa d’estate" per le famiglie dei detenuti comune.parma.it, 31 agosto 2017 Festa d’estate per le famiglie dei detenuti con la presenza dell’assessore al welfare, Laura Rossi, e del vicesindaco, Marco Bosi, nell’ambito del progetto: "Laboratorio Gioco". Si sono chiusi oggi i tre giorni di festa che hanno visto protagoniste le famiglie dei detenuti del penitenziario di Parma. Anche quest’anno l’associazione Per Ricominciare e i suoi volontari hanno permesso l’incontro all’interno del carcere di via Burla tra i detenuti e i loro familiari. Per un giorno i detenuti hanno potuto trascorre qualche ora con i loro bambini al di fuori della saletta riservata agli incontri in un clima più disteso soprattutto per i più piccoli che, grazie a momenti ricreativi organizzati dai volontari, hanno vissuto appieno il clima di festa insieme anche ai loro papà. Il rinfresco è stato preparato dai detenuti che durante l’anno hanno frequentato il corso di cucina e hanno potuto realizzare con l’aiuto dei volontari piatti tipici dei loro paesi d’origine. Le famiglie coinvolte sono state circa 60. Il Comune di Parma sostiene da anni il progetto "Laboratorio Gioco" che si inserisce, così come i Laboratori Famiglia, nella strategia dell’amministrazione a supporto delle politiche familiari anche per le famiglie dei carcerati. Il Comune di Parma, sostenendo quindi la logica delle pari opportunità, nella consapevolezza che la promozione della famiglia debba essere sempre perseguita anche quando la stessa debba essere aiutata nei momenti di dolorosa separazione (il carcere), ha ritenuto di attivare nel 2010 il progetto sperimentale denominato Laboratorio Gioco che, partendo dalla tutela del minore, si è dimostrato negli anni, capace di contribuire in maniera significativa a migliorare le relazioni all’interno delle famiglie che hanno un componente sottoposto a regime di detenzione. Sono circa 5.500 gli accessi che il progetto riesce a garantire all’anno. Cos’è il Laboratorio Gioco - Per le sue peculiarità - luogo e famiglie coinvolte - questo progetto è stato possibile solo a fronte della stretta collaborazione e sinergia tra il Comune di Parma, gli Istituti Penitenziari di Parma (Ministero di Grazia e Giustizia), e l’Associazione Volontari Penitenziari "Per Ricominciare", che operano da anni all’interno dell’Istituto, con l’intento di continuare a sviluppare un percorso di conoscenza, esperienza, crescita, scoperta, del valore dell’amicizia, della solidarietà, dell’accoglienza, attraverso l’ascolto, la narrazione e il gioco. Grazie al singolare e costante contributo dell’Associazione Assistenti Volontari Penitenziari "Per Ricominciare" si garantiscono durante tutto l’anno momenti di intrattenimento e socializzazione attraverso appunto il gioco, mettendo a disposizione delle famiglie che si sono presentate in visita presso l’Istituto con il loro figli, spazi attrezzati e la consulenza di educatori professionali, di psicologi, e con l’apporto importante anche di giovani volontari e di stagisti che svolgono in questa struttura un periodo di tirocinio. Le attività vengono svolte all’interno degli Istituti Penitenziari di Parma, sia al chiuso che all’aperto, negli spazi e nelle aree cortilizie individuati e messi a disposizione dalla Direzione degli Istituti Penitenziari di Parma. Dopo un momento di benvenuto da parte degli operatori ai genitori, i bambini sono accolti e possono trattenersi negli spazi del Laboratorio Gioco, resi il più possibile allegri e accoglienti, prima e dopo l’incontro con il parente detenuto. In questo modo viene alleggerita soprattutto per i più piccoli la tensione di trovarsi all’interno della struttura carceraria. Mentre le madri infatti sono a colloquio con i detenuti (si tratta di un carcere maschile), i bambini vengono affidati al laboratorio, pur restando liberi di recarsi dai genitori ogni volta che vogliono. Lo spazio del Laboratorio Gioco non è, nell’ordinario, aperto ai detenuti. Nel laboratorio vengono svolte attività ricreative di vario tipo che, generalmente, ruotano ogni mese intorno ad un filo conduttore diverso. Ogni bambino è incoraggiato a socializzare, ad esprimersi e viene aiutato a sviluppare la propria creatività con lavoretti con materiale esclusivamente di riciclo. I bambini e i preadolescenti condividono momenti ludici, leggono storie, partecipano a laboratori creativi e socializzano. Nello specifico, le attività di intrattenimento e ludiche previste sono differenziate in rapporto alle fasce d’età dei bambini: per la fascia 3-6 anni l’utilizzo di giochi (quali materassi, pastelli, giocattoli, puzzle, ecc.); per la fascia 7-14 anni giochi di relazione. Le attività si avvalgono della presenza di educatori professionali, dell’apporto di giovani volontari e della preziosa collaborazione della Polizia Penitenziaria. La buona relazione costruita e maturata nel tempo con gli Agenti di Polizia Penitenziaria che collaborano con gli operatori, ha innescato un circolo virtuoso nella gestione dello spazio, incrementando in modo significativo le possibilità di accesso dei bambini al Laboratorio. Non sono mancati in questi anni occasioni ormai consolidate quali la Festa del Papà, la Festa del Natale e la Festa d’Estate, quali momenti di attività coordinata e proficua in cui i bambini, felici, fanno la spola fra il tavolino dove chiacchierano mamma e papà, il tavolo allestito con dolci e stuzzichini e l’angolo dove i volontari hanno preparato giochi e colori, in un’atmosfera che assume quasi il sapore della normalità. Agli occhi di chi sensibilmente osserva, appaiono semplici famiglie che si ritrovano e finalmente si possono riabbracciare in un ambiente in cui le sbarre alle finestre, opportunamente nascoste con fogli di carta colorata e addobbata a tema, sembrano non esserci! Nuoro: la colonia penale di Mamone apre le porte ai turisti easyviaggio.com, 31 agosto 2017 Lo scorso venerdì si é svolta la prima giornata dedicata alla scoperta della realtà carceraria di Mamone, in Sardegna, con tanto di turisti (italiani e stranieri) e pranzo con i prodotti contivati e lavorati dentro la realtà carceraria. Questa particolare giornata si é svolta a Mamone, in una delle 3 colonie penali sarde che aderiscono al progetto del Ministero della Giustizia che punta a una maggiore osmosi tra le carceri e la società, con progetti che collegano alla valorizzazione dell’ambiente custodito nelle aree delimitate, alla formazione professionale dei detenuti. A far parte di questo progetto sono le colonie d Mamone, Isili e Is Arenas, (3 delle 4 colonie penali ancora presenti in Italia) e in ognuna di essa si svolgono attività differenti, a seconda delle peculiarità del luogo. A Mamone, ad esempio, dal lavoro quotidiano dei detenuti si ricavano: latticini, carne bovina e ovina, olio, ortaggi e miele. Tali prodotti sono utilizzati anche per i pasti dei reclusi e del personale di polizia. Il territorio sul quale si estende l’azienda é infatti molto vasto, quasi 27 ettari, tutti coltivabili grazie alle numerose opere di bonifica attuate nel corso degli anni. Il carcere di Mamone é molto antico. Venne aperto nel 1890 e da allora é sempre rimasto in funzione, nonostante si trovi una zona davvero isolata della Sardegna e spesso, in inverno diventa quasi irraggiungibile a causa della neve (l’altopiano é a circa 1000 mt slm). Proprio per questo motivo, il ministero della Giustizia ha individuato questo luogo come sede ideale per il progetto di valorizzazione territoriale e turistica della zona: ecco spiegato il motivo per cui venerdì un gruppo di turisti italiani e stranieri, si sono presentati ai cancelli di Mamone, pronti per una visita turistica. All’interno del perimetro della prigione c’é infatti tutto un mondo da scoprire: l’antica cantina dei primi del "900, gli orti e i laboratori dove si lavora il latte e si producono formaggi. Una volta finita la visita, gli ospiti hanno potuto gustare un ottimo pranzo a base di arrosti e verdure coltivate in loco, accompagnato dai tipici formaggi sardi. Alcuni dei detenuti hanno partecipato attivamente alla giornata, servendo gli ospiti durante il pranzo. Il risultato é stato molto soddisfacente per i visitatori, che di certo non si aspettavano di una realtà così articolata, all’interno di un carcere. Anche se c’é molta strada da fare, questa iniziativa, che si ripeterà altre 14 volte permetterà a sempre più persone di conoscere questo volto nuovo del carcere, dimostrando ai detenuti che una vita al di fuori dell’illegalità é possibile. Bologna: "evasioni patafisiche" al carcere minorile del Pratello di Piero Di Domenico Corriere di Bologna, 31 agosto 2017 Da domani un "baraccone" nel cortile in cui il pubblico "spia" le performance: È il nuovo allestimento diretto da Billi che lamenta: "Incertezza di fondi dal Comune". E il teatro nell’istituto non c’è ancora. Non un palcoscenico ma un baraccone da fiera, formato da sei stanze. Come cellette di clausura, i cui abitanti si trasformano in "onironauti", "velocipedastri" e "faldistorionauti". È la scenografia in cui si troveranno immersi gli spettatori che domani e venerdì andranno a curiosare, "potendo soddisfare la propria vena voyeuristica", dice il regista Paolo Billi, in uno dem cortili del Centro giustizia Minorile, con ingresso al numero 34 di via del Pratello. Fessure, spioncini e fori permetteranno al pubblico, usando cuffie per l’ambiente sonoro, di sbirciare le Evasioni patafisiche approntate da Billi con i ragazzi della Compagnia del Pratello e le attrici di Botteghe Molière. L’azione teatrale durerà una ventina di minuti e verrà riproposta 4 volte a sera, ogni mezzora dalle 21 alle 22.30 per gruppetti di 30 spettatori, con ingresso a 5 euro. Uno spettacolo frutto di laboratori ispirato alla "patafisica", la scienza delle invenzioni immaginarie elaborata da Alfred Jarry. A quest’ultimo è dedicato il progetto "Le patafisiche", che vede impegnati sei registi, sino all’anno prossimo, in sette carceri dell’Emilia-Romagna. A Bologna, dopo Mère Ubu Varieté portato in giugno al carcere della Dozza, ora tocca a queste bizzarre evasioni, sviluppate dagli stessi ragazzi lungo tre direttrici: il rimanere imprigionati in una evasione, l’evasione da uno stato di abbandono e "la catena della bicicletta che è l’unica catena che rende liberi". La bici, presente in scena, era infatti assai cara a Jarry, che le dedicò anche dei versi. Un mezzo, sottolinea il regista Paolo Billi, "per consentire ai miei ragazzacci delle evasioni nonsens". Il ritorno del Teatro del Pratello dentro l’ex convento del ‘400 viene visto da Billi come un importante passo, "soprattutto visti i tempi". Vi mancava da 3 anni, dopo l’ultimo spettacolo del 2001 nel teatro vero e proprio poi chiuso, come peraltro l’ex chiesa che era stata usata in sostituzione sino al 2014. Mancano i fondi per poter procedere a una ristrutturazione. Billi lamenta anche come i finanziamenti del Comune siano scemati, "dai 12.000 della giunta Cofferati agli 8.000 con Ronchi". Ma oggi, se possibile, l’incertezza è ancora maggiore. Nell’elenco di chi sostiene le attività del Teatro del Pratello con i minori, Billi cita infatti i 20.000 euro della Regione, i 30.000 della Fondazione del Monte, i 5.000 della Fondazione Carisbo, i 14.000 del Ministero della Giustizia. Oltre, per le attività estive, ai 2.000 di Unipol Banca e ai contributi di negozianti e locali di via del Pratello. "È una strana bizzarria ma manca il Comune. Abbiamo partecipato al bando sui progetti culturali continuativi che si è chiuso in aprile e siamo rientrati fra i 20 convenzionabili. Ma a oggi non abbiamo nessuna informazione su convenzione si farà o su eventuali contributi. Come posso programmare un’attività annuale ritrovandomi a settembre senza nessuna indicazione al riguardo?". Forse solo chiedendo aiuto ancora alla patafisica, visto che il 6 gennaio 2018 all’Arena del Sole Bili porterà una nuova ironica produzione, Mère Ubu impresaria di teatro carcere. "Negli anni - conclude - avevamo lavorato perché il pubblico venisse a vedere gli spettacoli e non per curiosità verso i nostri ragazzacci. C’eravamo riusciti, la percezione era mutata. Ma poi siamo tornati indietro ed è un lavoro che bisogna ricominciare da capo". Pordenone: alla Festa del Libro un focus speciale sul tema del carcere ildiscorso.it, 31 agosto 2017 Pordenonelegge 2017 apre un focus speciale sul tema carcere: un versante di impegno che non è nuovo, alla festa del Libro. Negli anni precedenti si era consolidata la consuetudine della visita ai detenuti della Casa Circondariale di Pordenone da parte di alcuni autori ospiti della Festa del Libro: un appuntamento onorato, fra gli altri, nella passate edizioni da Natalino Balasso, Edoardo Albinati, Marcello Fois, Alessandro Bergonzoni. Quest’anno sarà la volta di don Antonio Mazzi, che a Pordenonelegge presenta il nuovo libro "Dio perdona con una carezza. Il dizionario di papa Francesco" (Cairo Publishing), venerdì 15 settembre alle 17 nello spazio BCC. Il giorno stesso don Mazzi farà visita ai detenuti di Pordenone, grazie al progetto delle Attività Socio-Culturali a favore della popolazione detenuta nella Casa Circondariale di Pordenone, a cura del Css Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia con il sostegno del Servizio Sociale Dei Comuni - Uti Del Noncello - Comune Di Pordenone in collaborazione con il dipartimento dell’amministrazione Penitenziaria - Direzione Casa Circondariale di Pordenone. Grazie ai laboratori attivati nel tempo, i detenuti sembrano essere in grande confidenza con i libri: nel corso del 2016, infatti, presso la Casa Circondariale di Pordenone sono stati promossi veri e propri laboratori artistici e di legatoria, realizzati all’interno della stessa struttura carceraria grazie all’impegno congiunto del Comune di Pordenone, del Servizio Sociale dei Comuni Uti del Noncello e di Ial Fvg. Durante la Festa del Libro 2017 i libri d’arte e le opere così realizzate, rappresentative anche del contesto in cui sono state create, potranno essere sfogliate dai visitatori che, se lo desiderano, percorreranno anche il grande Labirinto dipinto all’interno della prima cinta muraria, accompagnati dalla musica di Massimo De Mattia. La mostra "Sono stato io, il mio labirinto" diventerà così un vero e proprio happening artistico, un’esperienza fisica, emotiva ed esistenziale di lettura che esemplifica il coraggio di ripensare il Labirinto, come metafora della vita di ciascuno (e non solo del detenuto), meditando sul proprio passato per scrivere un nuovo futuro. Appuntamento per il pubblico giovedì 14 settembre dalle ore 16.00 alle 18.00, con ingresso libero fino a esaurimento posti (numero limitato). Completa questo focus sul tema carcere, a Pordenonelegge 2017, l’anteprima del libro di Pino Roveredo, scrittore affermato ma anche Garante dei detenuti Fvg: il suo "Ferro batte ferro. Il carcere è un’istituzione illegale" (Bottega Errante) sarà presentato venerdì 15 settembre, alle 11 nel Palazzo della Provincia. Dialogherà con lui Silvia Della Branca, direttore del carcere di Tolmezzo. Si dice "garante per le persone private della libertà personale": s’intende chi entra nelle carceri per capire, parlando con i detenuti, cosa si può fare per migliorarne le condizioni. E non è uno di quei compiti da svolgersi al riparo di una scrivania e dietro lo schermo di un pc. E nemmeno un ruolo per cui è sufficiente il pelo sullo stomaco. Ecco perché, quando si pensa alla scelta di affidare questo incarico a Pino Roveredo, operatore sociale e scrittore, accanto all’aggettivo "coraggiosa" bisogna necessariamente anche mettere l’aggettivo "giusta". Il suo è un libro fatto di storie, umanità, poesia e rabbia, di libertà negate e di sogni. Un’analisi lucida sulla condizione delle carceri, sul mondo invisibile e nascosto di un’istituzione totale, sulle relazioni umane tra i carcerati, sulla privazione del tempo e dello spazio. Con la sua straordinaria prosa, Roveredo si pone ancora una volta dalla parte degli ultimi, di coloro che sono rinchiusi in una cella e che non hanno possibilità di riscattare una vita di salite. Viaggio tra gli invisibili dell’ex Villaggio olimpico di Torino di Federico Genta La Stampa, 31 agosto 2017 Una rampa per entrare: negli scantinati fornelli alimentati da bombole del gas e lettini. I vicini: "Si sente il rumore dei martelli". Niente blitz della polizia, c’è un piano alternativo. I colpi di martello si sentono fino dagli ultimi piani dei condomini che sorgono alle spalle delle palazzine occupate. Una sega circolare affonda nel metallo, attorno un gruppo di ragazzi stringe i tubi che devono essere tagliati. E il lavoro degli invisibili, al lavoro nei sotterranei delle vecchie palazzine olimpiche di Torino, da quattro anni occupate e trasformate in ricovero dei rifugiati del Nord Africa. Non c’è luce negli scantinati, eccetto quella che filtra tra le grate dei cortili esterni. Accanto ai laboratori improvvisati ci sono i veri e propri alloggi. Materassi e scaffali separati da pannelli di legno e cartone. Non mancano le cucine, con i fornelli collegati alle bombole del gas. Altro materiale è ammassato nei corridoi, assieme a una ragnatela di fili e transenne usati per stendere e stipare scarpe e vestiti. La pancia sotterranea di quelle che un tempo erano state le palazzine olimpiche di Torino si estende ben oltre il complesso degli appartamenti occupati. Una città in miniatura, popolata da chi nel corso degli anni non ha fatto in tempo a trovare una sistemazione, abusiva ma almeno alla luce del sole. Da quella che è l’unica rampa d’accesso e d’uscita dei seminterrati - e questo è l’aspetto più pericoloso - escono in poche ore decine di biciclette sistemate alla meno peggio. Vengono ammassate accanto a una pila di vecchi pneumatici. Perché tutto si recupera e tutto si rivende tra le mura della più grande occupazione di Torino. La guerra dei numeri - Quante persone vivono e lavorano in quel labirinto di scantinati e rimesse alte più di due metri, costruite per riparare anche i pulmini degli atleti, è un rebus difficile da risolvere. A marzo, una relazione consegnata al prefetto di Torino parlava di almeno duecento presenze. A giugno il censimento volontario, che ha raccolto i nomi e i cognomi dei soggetti che si sono dichiarati disponibili al trasferimento, ha fatto scendere questa cifra fino a quota 50. Un mese dopo, però, è stato lo stesso comitato olimpico nazionale a segnalare al Comune la sua preoccupazione per quel che stava accadendo nei sotterranei. Lettera che l’assessore alla Sicurezza di Torino, Roberto Finardi, ha subito girato alla questura. Fino alle ultime segnalazioni che parlano di una crescita esponenziale delle presenze, anche fino a 400. È, in ogni caso, un’emergenza nell’emergenza. Che la squadra di lavoro incaricata da Prefettura, Comune, Città Metropolitana, Compagnia di San Paolo e Diocesi, ha inserito tra le priorità da risolvere nel più breve tempo possibile. Il ricollocamento - Abbandonata presto l’idea di un allontanamento forzato, il piano di ricollocamento ha ormai le prime scadenze certe. I fondi ci sono: 600 mila euro dal Comune, un milione e 800 mila dalla Compagnia di San Paolo. Anche parte degli spazi sono stati individuati. Più che di alloggi, si parla di posti letto. Ottanta li ha messi a disposizione la Diocesi. Venti il Municipio, che tra due settimane lancerà un bando per trovarne altri cinquanta. L’obiettivo è quello di sistemare le prime 150 persone entro la fine dell’anno. Precedenza alle famiglie. Ma questa è soltanto una parte dei 750 profughi censiti a giugno. E l’impegno, confermato ieri dalla stessa Compagnia di San Paolo, è quello di cancellare il villaggio abusivo cresciuto nei sotterranei del Moi. L’occupazione - Il complesso del Lingotto era nato per ospitare gli atleti delle olimpiadi invernali 2006. I palazzi dovevano poi essere riconvertiti a uso residenziale, ma per sette anni nulla si è mosso. Fino al 30 marzo 2013, quando i rifugiati dell’Emergenza Nord Africa si sono sistemati nella palazzine. I numeri sono cresciuti in fretta, fino a ben oltre le mille persone. Quasi tutti gli occupanti, ancora oggi, sono regolari. Ecco perché il Comune, per agevolare il rinnovo dei permessi di soggiorno per motivi umanitari, ha istituito per tutti l’indirizzo di "via della Casa Comunale 3". La convivenza con il quartiere non è mai stata semplice, ma difficoltà oggettive di ordine pubblico non erano mai emerse fino allo scorso inverno. Dopo una rissa scoppiata in un bar storico della tifoseria del Torino, a novembre un gruppo di ultrà ha lanciato bombe carta davanti all’ingresso dei palazzi occupati. Ecco come è scoppiata la rivolta. Cassonetti rovesciati in strada, residenti minacciati con i bastoni. I profughi si erano sentiti traditi perché ritenevano di non essere stati difesi dalle forze dell’ordine, che già da tempo presidiava l’accesso all’ex complesso olimpico. Così, da allora, ai militari dell’esercito vengono affiancate, notte e giorno, pattuglie di polizia e carabinieri. E dopo anni di silenzio, si era iniziato a parlare di sgombero. Torturate e abusate, l’orrore delle donne rinchiuse nelle carceri siriane di Marta Serafini Corriere della Sera, 31 agosto 2017 In occasione del giorno per le vittime delle sparizioni forzate, sono state rese pubbliche le testimonianze delle detenute della prigione di Adra, costrette a guardare mentre i loro figli venivano violentati. Non sono solo gli uomini a sparire nelle carceri di Assad. Stuprate, picchiate, costrette a vivere in celle di due metri per due, lasciate per giorni interi senza cibo. Sono le donne siriane, inghiottite dal regime di Assad e sparite nelle carceri siriane senza lasciare traccia. Tra loro Othman, infermiera di Deir ez Zor, incarcerata perché curava i feriti e poi una volta liberata costretta a lasciare suo figlio in un orfanotrofio perché non era più in grado di occuparsi di lui a causa dei traumi delle violenze. O Zahira (il nome è di fantasia), violentata da un gruppo di soldati di Assad perché sospettata di essere la moglie di un oppositore. E, ancora, Amina, arrestata mentre era incinta e sottoposta alle torture con scariche elettriche o costretta a guardare mentre torturavano il suo altro figlio. Le loro testimonianze sono state raccolte, in occasione dell’International Day of the Victims of Enforced Disappearance, con il sostegno di Amnesty International e di Lawyers and Doctors for Human Rights, in una mostra in cartellone a Manchester per l’8 settembre e con una campagna web sotto l’hashtag #SavemeinSyria. Come sottolinea Amnesty International, all’inizio il regime arrestava per lo più attiviste o operatrici umanitarie. Poi sono entrate nel mirino anche le donne meno impegnate, per lo più compagne dei miliziani dell’opposizione, spesso usate come moneta negli scambi di prigionieri. Alcune di queste donne sono sopravvissute e una volta uscite di prigione (per lo più le detenute vengono rinchiuse nel carcere di Adra, vicino a Damaco) sono fuggite all’estero, dove ora cercano attraverso le loro testimonianze di portare all’attenzione dell’opinione pubblica le terribili violazioni dei diritti umani commesse in Siria. Particolarmente vulnerabili, come si evince da queste violenze, le prigioniere subiscono, se possibile, ancora più abusi degli uomini. Alle violenze e alle tecniche di tortura riportare da Amnesty International a proposito degli uomini detenuti nel carcere di Sednaya - dal tappeto volante come viene chiamata una tecnica particolarmente cruenta usata nelle carceri siriane alla sedia tedesca che spezza la spina dorsale - per le donne si aggiunge ogni forma di abuso sessuale, dallo stupro di gruppo alle torture psicologiche. In questo quadro la commissione indipendente d’inchiesta Onu sulla Siria ha raccolto prove a sufficienza per condannare il presidente siriano Bashar al-Assad per crimini di guerra. Tuttavia nulla sembra muoversi. Ed è per questo che Carla Dal Ponte, ex procuratrice generale del Tribunale penale internazionale dell’Aja per l’ex Jugoslavia e per il genocidio in Ruanda - ha rassegnato a metà agosto le dimissioni dalla commissione d’inchiesta sulla Siria, in polemica contro la mancanza di progressi. "Per sei anni la commissione ha indagato: adesso un procuratore dovrebbe continuare il nostro lavoro e portare i criminali di guerra davanti a un tribunale speciale, ma questo è esattamente quello che la Russia sta bloccando con il suo veto nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite", ha detto Del Ponte. Eppure nulla ancora si è mosso. Libia. La vita d’inferno dei rifugiati e migranti detenuti a Tripoli La Repubblica, 31 agosto 2017 Il lavoro delle équipe di Medici Senza Frontiere che nel corso del primo quadrimestre del 2017 hanno continuato a fornire assistenza medica di base e salvavita alle persone tenute in ostaggio nelle carceri. Anche dal Paese con il quale il Governo italiano ha imbastito accordi per il contenimento dei flussi migratori provenienti dall’Africa subsahariana - considerati al momento l’unica strada percorribile - Medici Senza Frontiere (Msf) hanno garantito più di 4.000 visite mediche in sette diversi centri di detenzione sotto il controllo dell’Autorità per la Lotta all’Immigrazione Clandestina (Directorate for Combating Illegal Migration - Dcim). Circa 1.300 detenuti al mese sono stati curati attraverso cliniche mobili per patologie come malattie della pelle, diarrea, infezioni del tratto respiratorio e del tratto urinario. Queste malattie prevenibili, come la malnutrizione, sono la diretta conseguenza delle condizioni inumane di detenzione. Le condizioni nei centri non corrispondono a nessuno standard nazionale, regionale o internazionale. Malnutrizione degli adulti. Il cibo distribuito nei centri di detenzione è spesso insufficiente, sia in quantità che in qualità. Nei primi tre mesi del 2017, vi sono state interruzioni nella distribuzione di cibo in due centri di detenzione e i detenuti sono rimasti per giorni senza cibo. Come risultato, le donne e gli uomini di Medici Senza Frontiere curando adulti che soffrono di malnutrizione. A gennaio erano 13 i pazienti affetti da malnutrizione acuta in cura nel programma di nutrizione terapeutica di MSF, a febbraio 19 e a marzo 20. Senza un sistema legale, detenzioni arbitrarie. Il numero dei detenuti in ciascun centro cambia in modo significativo. Senza un sistema legale vigente in Libia, le persone sono detenute arbitrariamente e resta poco chiaro il funzionamento del sistema di detenzione. Le persone compaiono da un giorno all’altro dopo essere state intercettate in mare dalla Guardia Costiera libica, arrestate in strada, radunate in blitz notturni, o portate in carcere da singole persone. I detenuti vengono improvvisamente rilasciati durante la notte o trasferiti in altro luogo imprecisato. Rinchiudere un ampio numero di persone in spazi piccoli causa dolori muscoloscheletrici e la trasmissione di malattie e infezioni, come scabbia e varicella. Il numero di malattie da infezioni respiratorie è molto influenzato anche dalla scarsa ventilazione. Nonostante le condizioni di sovraffollamento siano leggermente migliorate, nel corso dei primi tre mesi dell’anno, sono state riscontrate celle sovraffollate. Supporto alla salute mentale. La detenzione ha un impatto diretto sulla salute mentale dei detenuti che non hanno un’immediata prospettiva di migliorare la loro situazione, e spesso nessuna idea del perché o per quanto saranno detenuti. Un ampio numero di detenuti soffre di ipervigilanza, una condizione nella quale le persone sono ossessionate dal controllo dell’ambiente circostante, per timore di possibili pericoli, e si spaventano facilmente. Molti detenuti hanno pensieri suicidi, difficoltà a dormire, mostrano sintomi da disordini da stress post traumatico e soffrono di attacchi di panico, depressione e ansia. Msf svolge attività psicosociali nei centri di detenzione e realizza sedute individuali. Durante questo periodo i team hanno fornito anche cure psichiatriche a 17 persone. Ferite dovute alla violenza. Si stanno trattando ferite legate alle violenze incluse cicatrici visibili, contusioni e lacerazioni. A gennaio sono state trattate per questo tipo di ferite 5 persone, a febbraio 8 e a marzo 3. Nel caso di un’emergenza medica, si tenta di trasferire i pazienti negli ospedali di Tripoli. Durante i primi 4 mesi dell’anno, sono state trasferite più di 53 persone che avevano bisogno urgente di cure mediche specialistiche. Ogni trasferimento è molto complicato da gestire e la sua organizzazione porta via molto tempo; inoltre, molti ospedali non vogliono ricoverare i detenuti. Accesso ad acqua potabile e a servizi igienici. L’accesso ad acqua potabile sufficiente e l’accesso a latrine e docce è vitale per contrastare le malattie come le infezioni della pelle e le infestazioni come i pidocchi, la scabbia e le pulci. In molti centri detentivi visitati da MSF, la disponibilità quotidiana d’acqua adesso incontra (o supera) la quantità minima per bere e lavarsi. Abbiamo installato cisterne, tubature e rubinetti in diversi centri, allo scopo di migliorare la qualità dell’acqua e l’accesso all’acqua corrente. Ispezioniamo e facciamo regolare manutenzione di questi sistemi. Nonostante questi miglioramenti, le frequenti interruzioni della corrente elettrica e l’assenza di acqua che si verificano a Tripoli si traducono in una difficoltà dei centri detentivi a garantire la fornitura dell’acqua durante i periodi di disponibilità limitata. Inoltre, le possibilità di trasportare l’acqua con i camion sono limitate. L’accesso 24 ore su 24 ai bagni senza impedimenti non è garantito in tutti i centri. Abbiamo fatto diversi sforzi per migliorare le condizioni di igiene all’interno dei centri e forniamo a tutti i detenuti kit per l’igiene personale e prodotti per la pulizia dei locali. Tuttavia, i detenuti non sempre hanno accesso privo di ostacoli ai materiali distribuiti e osserviamo che qualche volta gli oggetti sono confiscati. Limitazioni all’azione medica. Le cure mediche che Msf garantisce avvengono all’interno di un ambiente altamente militarizzato. La quotidianità dei pazienti è esasperatamente controllata. Allo staff di Msf non sempre è data piena libertà di effettuare triage medico o decidere quali pazienti visitare. Non è garantita la privacy necessaria per le consultazioni mediche. In alcuni centri detentivi, gli agenti assegnano ai medici di Msf un’area ad hoc per fare le consultazioni mediche in privato, ma in altri ciò non avviene. Una scelta difficile. "È una scelta difficile per noi lavorare in un ambiente dove le persone sono tenute in condizioni che ledono la loro dignità - riferiscono i medici e gli infermieri di Msf - tuttavia, la nostra speranza è che, con la presenza e la fornitura di cure mediche, possiamo migliorare le condizioni di detenzione e alleviare parte delle sofferenze patite dai detenuti. Continuiamo a opporci alla detenzione arbitraria di migranti, rifugiati e richiedenti asilo in Libia". Turchia. Le purghe di Erdogan affollano le carceri, 22mila detenuti dormono per terra asianews.it, 31 agosto 2017 Per la prima volta il totale della popolazione carceraria supera quota 224mila. Ad oggi le galere turche possono ospitare un massimo di circa 200mila detenuti. Il governo libera i detenuti comuni per richiudere i presunti "golpisti". I fondi stanziati per le carceri superano il budget di molti ministeri. Entro la fine del 2017 pronte 76 nuove prigioni. A causa del sovraffollamento delle carceri, almeno 22mila detenuti rinchiusi nelle prigioni della Turchia, molti dei quali in seguito al fallito golpe del luglio 2015, sono costretti a dormire per terra (il 9% circa del totale). Secondo quanto riferisce il sito web di informazione artigercek.com dall’ultimo bilancio emerge che, per la prima volta nella storia del Paese, il totale della popolazione carceraria ha superato quota 224mila. Nei giorni scorsi il ministero turco della Giustizia ha riferito che, di 381 prigioni sparse per il Paese, 139 sono state costruite negli ultimi 10 anni; di queste, almeno 38 sono sorte nell’ultimo anno per ospitare le vittime delle purghe di Erdogan. Ankara intende ampliare la capacità delle carcere di almeno 11mila unità entro fine 2017, finalizzando la costruzione di 76 nuove prigioni. Altri 113 sono in fase iniziale, cui se ne aggiungono altre 18 al momento solo sulla carta. Secondo il rapporto, al momento le prigioni del Paese possono ospitare sino a 202mila persone; tuttavia, in seguito alla caccia agli oppositori e ai (presunti) golpisti lanciata dalle autorità turche, le persone oggi in galera sono oltre 224mila. Di queste, 22mila dormono ogni notte sul pavimento. In una inchiesta pubblicata dal quotidiano Cumhuriyet emerge che i fondi stanziati per le prigioni sono di gran lunga maggiori rispetto al budget a disposizione di diversi ministeri. Il costo annuale per il mantenimento di centinaia di migliaia di detenuti è aumentato in modo vertiginoso, toccando quota 6,4 miliardi di lire turche (poco meno di 1,9 miliardi di dollari). Da qui la scelta del governo di concedere la libertà vigilata a 3mila persone incriminate per crimini minori (che non riguardano terrorismo, reati sessuali o coinvolgimento nel golpe); altri 10mila verranno trasferiti da prigioni chiuse a carceri aperte. Solo in questo mese di agosto le autorità turche hanno rilasciato 38mila detenuti per lasciare spazio a nuovi cittadini arrestati per coinvolgimento nel colpo di Stato. Ad un anno dal fallito golpe in Turchia, che nella notte fra il 14 e il 15 luglio 2016 ha visto vacillare, per alcune ore, il dominio del presidente Recep Tayyip Erdogan, prosegue la campagna di repressione lanciata dalle autorità contro presunti complici o sostenitori. Secondo l’ultimo bilancio ufficiale fornito dal ministero turco degli Interni, in poco più di un anno sono state arrestate 58.138 persone, oltre 124mila poste in stato di fermo per un periodo di tempo variabile e 170mila circa sono state oggetto di indagine. Oltre 130mila persone hanno perso il lavoro. Giornalisti, intellettuali, professori, militari, funzionari pubblici o giudici; e ancora medici, sportivi, imprenditori e semplici cittadini, la repressione governativa post fallito golpe non ha risparmiato nessun ambito della società turca. Fra le accuse, il più delle volte pretestuose, l’affiliazione a gruppi "terroristi" curdi o l’appartenenza al movimento che fa capo al predicatore islamico Fethullah Gülen, in esilio in Pennsylvania (Stati Uniti). Secondo Erdogan e i vertici di governo, egli sarebbe la mente del colpo di Stato in Turchia in cui sono morte 270 persone, migliaia i feriti. Il leader islamico, un tempo alleato del presidente, ha sempre negato con forza ogni responsabilità e ha invocato una inchiesta internazionale per fare piena luce sul golpe e le forze che lo hanno ispirato. Intanto, nei mesi scorsi il leader turco - che ha definito il colpo di Stato "un dono di Dio" - ha promosso (e vinto con margine risicato e accuse di brogli) un referendum sul presidenzialismo che ne ha ampliato. Ora, egli è di fatto il padre padrone della nazione. Birmania. La persecuzione dei Rohingya, 18mila sono fuggiti in Bangladesh di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 31 agosto 2017 Sono più di 18.500 i Rohingya fuggiti dalla Birmania e rifugiatisi in Bangladesh dopo i combattimenti tra l’esercito e i miliziani. Nel dare la notizia l’Organizzazione internazionale per i migranti ha anche aggiunto che altri 6.000 rifugiati si trovano lungo la "linea zero" alla frontiera in attesa di lasciare il Paese. La fuga della minoranza musulmana, perseguitata che dallo Stato birmano del Rakhine, era iniziata il 25 agosto quando miliziani dei Rohingya hanno attaccato alcuni posti di polizia: 110 persone sono morte, tra cui 11 funzionari dello Stato. Ora le autorità bengalesi hanno rafforzato i controlli per impedire altri arrivi sia via terra che attraverso il fiume Naf che scorre lungo un tratto di confine. Già martedì 29 agosto varie ong e organizzazioni per i diritti umani, tra cui l’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), avevano dato l’allarme. Il portavoce Unhcr Joseph Tripura aveva riferito di ben 3mila esuli in tre giorni. Oggi invece l’Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, fa salire a oltre sei volte tanto la stima, che si riferisce agli ultimi sette giorni. Non solo: nella serata di martedì Human Rights Watch (Hrw) ha diffuso un comunicato in cui afferma di aver catturato delle immagini satellitari che proverebbero gli attacchi armati nei villaggi dei Rohingya, nello Stato settentrionale di Rakhine. Le foto mostrerebbero oltre una decina di vasti incendi in varie zone della regione. Sono questi attacchi ad aver spinto migliaia di persone a lasciare le proprie case, diventate troppo insicure. La minoranza dei Rohingya, circa 400.000 persone in un Paese a maggioranza buddista, vive in condizioni molto dure perché la Birmania gli nega la cittadinanza e i più elementari diritti. È dal 2012 che lo Stato del Rakhine è percorso da violenze religiose e dall’ottobre scorso, dopo anni di proteste per lo più pacifiche, i miliziani dell’Esercito della solidarietà Arakan Rohingya (Arsa) hanno iniziato a sferrare attacchi contro i militari, con la risposta dell’esercito il cui giro di vite ha spinto 87.000 profughi verso il Bangladesh. A scendere in campo in difesa dei Rohingya è stato il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, che ha telefonato al segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, per chiedere che faccia pressione sul governo birmano perché "ponga fine alla crisi umanitaria" della minoranza. Stati Uniti. Arriva il difensore d’ufficio per gli animali vittime di maltrattamenti di Daniela Mastromattei Libero, 31 agosto 2017 Finalmente una bella notizia per i nostri amici scodinzolanti: arriva l’avvocato d’ufficio per tutelare cani e gatti vittime di maltrattamenti. Un primo passo verso il riconoscimento degli animali come soggetti, portatori di diritti. Purtroppo abbiamo ancora un’impostazione del nostro codice penale sullo stampo del diritto romano che distingue tra persone e cose, e considera gli animali come cose. Per fortuna, chi li ama davvero li accoglie in famiglia come figli. Ma la mamma dei cretini è sempre incinta: c’è chi continua a trattarli come mobili dell’arredamento di casa, da rinnovare a ogni cambio di stagione; chi li incatena, li bastona e li uccide come in un film dell’ orrore. Ecco perché è una bella notizia quella che arriva dal tribunale del Connecticut, dove è appena entrata in vigore una nuova legge, la prima del suo genere in America. D’ora in poi quando verranno discussi casi di crudeltà, abbandono o incuria - accade frequentemente - i giudici potranno nominare un avvocato (o uno studente di legge) in difesa dei diritti dei cuccioli vittime di abusi. Questa legge al momento valida solo nello Stato del Connecticut, potrebbe essere usata come modello in altre giurisdizioni degli Stati Uniti e presa come esempio da seguire dai nostri politici. In Italia da qualche anno esistono alcuni "sportelli giuridici", messi a disposizione dalle associazioni animaliste, ai quali ci si rivolge per dirimere beghe e controversie con proprietari di locali pubblici che vietano l’ingresso In alto, alcuni animali seduti sugli scranni di un’aula in un tribunale. Al lato, un’immagine storica che ritrae un asino portato a giudizio innanzi ad una corte. Una nuova legge permetterà ai giudici negli Stati Uniti di nominare un avvocato d’ufficio per quei cuccioli che hanno subito maltrattamenti agli amici a quattro zampe o con vicini di casa particolarmente intolleranti al micio che gironzola negli spazi condominiali o al cane che ha il "brutto vizio" di abbaiare quando resta solo in casa. Torniamo in Connecticut: "È un provvedimento che fa da apripista - ha esultato David Rosengard, dell’Animal Legal Defense Fund, l’organizzazione che ha spinto per l’approvazione della nuova legge da parte del Parlamento -. Per ottenere giustizia in aula serve una terza voce". Una decisione arrivata dopo la triste storia di Desmond, un cane che è stato selvaggiamente picchiato, privato del cibo, poi strangolato e abbandonato dal suo padrone. Davvero una brutta storia che fa indignare. Chi commette atti così brutali andrebbe rinchiuso e dimenticato, invece l’uomo, si fa per dire, è stato inserito in un programma "accelerato" di riabilitazione scatenando così le proteste degli attivisti. "L’esercito di Desmond", costituito principalmente da volontari, continua a lavorare mettendo in contatto gli avvocati con gli animali in difficoltà per offrire loro "una voce umana" e un lieto fine in un sistema dove molti dei crimini restano impuniti o affrontati con provvedimenti troppo indulgenti. Secondo i dati sui crimini, su più di 3.500 casi di abusi sugli animali registrati nella decade che è finita nel 2015, il 47% non è stato perseguito, un altro 33% è stato destituito, e solo il 18% si è concluso con verdetti di colpevolezza. Anche il nostro Movimento Animalista guidato da Michela Brambilla sta lavorando perché vengano inasprite le pene per chi maltratta gli animali. Tra le sette proposte presentate in Parlamento dall’ex ministro, due prevedono che nei casi più gravi chi li tratta male o li uccide, vada in carcere.