Il Gom dovrà sorvegliare anche detenuti islamici di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 agosto 2017 Nuove funzioni per il Gruppo Operativo Mobile della Polizia penitenziaria, oltre al 41 bis e alle traduzioni. I Gom (Gruppo operativo mobile) si occuperanno anche di sorvegliare i detenuti accusati di terrorismo islamico. Nel bollettino ufficiale n. 15 del 15 agosto 2017 sono stati pubblicati quattro decreti firmati dal ministro della Giustizia Andrea Orlando che riordinano e riorganizzano alcune articolazioni del Corpo di polizia penitenziaria. Uno dei decreti riguarda il riordino del Gom dove sono aggiunte nuove funzioni. Non solo il 41 bis e le traduzioni quindi, ma dovranno provvedere - come recita il terzo comma del nuovo decreto - "alla vigilanza e osservazione di detenuti per reati di terrorismo, anche internazionale, specificamente individuati dalla Direzione generale dei detenuti e del trattamento, anche se ristretti in regimi diversi da quello previsto dall’articolo 41bis, comma 2, della legge". I corpi speciali della polizia dovranno avere una formazione specifica per la gestione delle nuove esigenze che nascono dalla presenza dei detenuti filo jihadisti. A breve entreranno in azione proprio nel carcere sardo di massima sicurezza "Giovanni Bachiddu" di Bancali. Si tratta di un carcere di nuova edificazione, nato per ovviare alle problematiche strutturali e di sovraffollamento della vecchia struttura di San Sebastiano, risalente alla seconda metà dell’ottocento e considerata una delle peggiori carceri d’Italia. È uno degli istituti dove è presente una sezione di AS2 con detenuti imputati con accuse di far parte di organizzazioni terroristiche internazionali. La sezione è nata nel 2015 a partire dalle indagini che hanno portato all’arresto di 7 uomini di nazionalità pakistana, residenti a Olbia, accusati di far parte della rete di Al Queada e, tra le altre cose, di aver organizzato un attentato in Pakistan. La competenza del processo è del tribunale di Sassari, e le udienze si svolgono all’interno del carcere in un’aula predisposta ad hoc. A partire da questa prima presenza, sono stati trasferiti a Bancali altri detenuti con accuse di terrorismo internazionale di matrice islamica: ora sono 25, mentre a Nuoro ce ne sono 7. Una sezione che, tra l’altro, come denunciato dall’associazione Antigone dopo una loro visita, presenta diverse criticità. Una è la debole preparazione professionale nella materia specifica e le difficoltà di gestione che derivano dalle necessità organizzative della sezione AS, in un carcere che già lamentava i problemi nella gestione della sezione 41bis (sempre più detenuti vengono trasferiti lì, perché il luogo è insulare) con un organico effettivo sottodimensionato. Tra il personale, ad esempio, non c’è nessuno che capisca l’arabo o che abbia conoscenze sufficienti delle culture islamiche e al momento della visita effettuata sempre da Antigone, non esistevano percorsi di formazione rivolti allo staff. Secondo quanto denunciato dall’associazione, le attività di prevenzione del fenomeno della cosiddetta radicalizzazione si limitano all’osservazione di specifiche fenomenologie di cambianti nei comportamenti (frasi crescere la barba, intensificare la preghiera etc.). Inoltre, non è presente nell’istituto un’attività di mediazione culturale, e neanche un’attività di assistenza spirituale, ovvero la presenza di Imam accreditamenti, anche nelle sezioni comuni, dove l’attività di preghiera è autogestita dagli stessi detenuti. Infine, non sono previsti specifici programmi o interventi mirati. Nel frattempo i Gom dovranno, appunto, occuparsi anche della sorveglianza dei detenuti islamici ristretti nella sezione speciale. Il gruppo operativo mobile è stato istituito nel 1997 e definito normativamente con decreto a firma dell’allora ministro della Giustizia Oliviero Diliberto il 14.02.1999. Il Gom è chiamato a vigilare sul buon funzionamento del regime detentivo speciale di cui all’art. 41 bis dell’Ordinamento penitenziario ed opera alle dirette dipendenze del Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap). Ha sede a Roma e dispone di 12 Reparti Operativi periferici costituiti all’interno degli istituti penitenziari. Il personale complessivamente impiegato è di circa 700 unità distinto in ufficiali del disciolto Corpo degli Agenti di Custodia, funzionari direttivi, ispettori, sovrintendenti, agenti del Corpo di Polizia Penitenziaria e personale amministrativo contabile. Il recente decreto, come già detto, ridefinisce i compiti del Gom. Oltre al 41 bis e, ultimo aggiornamento, il controllo dei detenuti condannati per terrorismo, provvede alla vigilanza e osservazione dei detenuti che collaborano con la giustizia individuati dalla Direzione generale dei detenuti e del trattamento in quanto ritenuti di maggiore esposizione a rischio; alle traduzioni e ai piantonamenti di detenuti e internati ritenuti dalla Direzione generale dei detenuti e del trattamento ad elevato indice di pericolosità, anche in ragione della loro posizione processuale. Il nuovo compito dei Gom servirà anche per consentire di destinare l’organico della polizia penitenziaria alla gestione degli altri reclusi. Finalmente le toghe discutono di Piero Sansonetti Il Dubbio, 30 agosto 2017 Eppur si muove. Dopo anni di letargo finalmente la magistratura sembra scuotersi. Inizia a discutere, a interrogarsi su se stessa. La dottoressa Mariarosa Guglielmi, che è la segretaria di Md (corrente di sinistra delle toghe) in una intervista molto interessante che abbiamo pubblicato ieri sul "Dubbio" ha posto alcune questioni cruciali, che fanno traballare tutte le certezze giustizialiste - è lei che usa questo termine, non è una mia forzatura - intorno alle quali si è sviluppata nell’ultimo quarto di secolo la cultura maggioritaria nella magistratura italiana. Naturalmente nella magistratura italiana sono sempre esistite le voci critiche, i dissensi, le personalità legate a una idea forte di Stato di diritto. Però, se dobbiamo ricostruire la storia recente dell’Italia, non possiamo nascondere il peso che hanno avuto i pensieri e gli atteggiamenti "autoritari" che hanno dominato tra le toghe. E hanno dominato dilagando trasversalmente: da sinistra a destra. La cultura del sospetto, che nell’ultimo anno tante volte è stata illustrata, senza ipocrisie e veli, da un magistrato di destra come Piercamillo Davigo, ha fatto breccia e si è insediata tra quelle che - proprio per questa ragione - Berlusconi chiamava le toghe rosse. Un pezzo molto grande di magistratura si è convinta che il suo compito non fosse più quello di giudicare e di perseguire i delitti, ma quello di fare pulizia nella società e di rigenerala moralmente. L’idea laica (ma sacra) dello Stato di diritto è stata sostituita dall’idea terribile dello Stato etico, e la magistratura ha immaginato se stessa come fondamenta e garanzia dello Stato etico e della sua eticità. E così una idea autoritaria presente nella destra si è perfettamente fusa con una idea profetica e quasi missionaria della sinistra, e nella convinzione che riducendo lo stato di diritto e dando spazio e fiato al giustizialismo (all’ideologia del giustizialismo come ideologia della giustizia, anzi, del Giusto) si sarebbero colpiti i potenti, sarebbe stato ingabbiato il potere e si sarebbe rigenerata la società: una nuova società governata non più dalla democrazia ma dall’onestà. Bene, tutto questo finalmente è in discussione. La dottoressa Guglielmi molto onestamente ha criticato gli errori di valutazione di questi decenni ed ha indicato la strada per riprendere il percorso: l’idea della giurisdizione come luogo del diritto - del diritto esercitato e garantito da magistrati e avvocati - e non più come campo di battaglie politiche. Adesso la discussione è aperta. E - per fortuna - è molto complicata. Oggi, sul nostro giornale, interviene il dottor Mauro Gallina, che è un personaggio molto popolare (è un giudice che appartiene alla corrente di Magistratura Indipendente, cioè all’ala conservatrice, ed è stato il più votato a Milano nelle ultime elezioni del consiglio dell’Anm). Il dottor Gallina critica aspramente Annarosaria Gugliemi, accusandola di proporre opinioni e giudizi che discendono da scelte politiche e non giuridiche. A me sembra che già il fatto che la discussione si è finalmente aperta sia un fatto molto positivo. E mi piacerebbe discutere con il dottor Gallina su questo punto: come può non partire da considerazioni di carattere politico un ragionamento che mette in discussione un quarto di secolo di giustizia politica? È impossibile un dibattito puramente accademico, se è vero che il giustizialismo è stato molto più che un "ordine di idee", è stata l’ideologia che ha sconvolto concretamente la politica italiana, ne ha cambiatogli assetti, i poteri, ha modificato la struttura del meccanismo democratico, i rapporti di forza tra sinistra e destra, e si è sostenuta, intenzionalmente, sulla forza di un sostegno popolare, ricevuto, invocato e alimentato con l’indulgenza verso tutti i populismi. Non è da qui che dobbiamo partire? E se partiamo da qui non è possibile mettere insieme le esperienze, le tendenze, le idee di tutte le correnti della magistratura, per provare a invertire il senso di marcia? Io non credo che la spinta al giustizialismo possa scomparire dal corpo della magistratura. Penso però che si possa aprire un nuovo confronto di idee, e anche una battaglia. Sarebbe molto importante che questa non fosse una battaglia fatta dalle correnti, con gli schieramenti già prefigurati. La giustizia giusta non è né di destra né di sinistra, credo, e non può interessare solo a una parte, perché l’anima dell’interesse generale Boom di false denunce contro l’Isis: indagati furbetti dell’allarme terrorismo di Paolo Biondani L’Espresso, 30 agosto 2017 La moglie italiana che vuole sbarazzarsi del marito musulmano; l’aspirante informatore dei servizi; il commerciante magrebino che non vuole pagare i dipendenti. Una serie di segnalazioni infondate danneggia le indagini per evitare le stragi. Terrorista dell’Isis? No, una brava persona di religione musulmana, onesta e diffamata. In questi tempi cupi di vera emergenza terrorismo, le nostre forze di polizia sono investite da un’alluvione di denunce, chiamate, soffiate, richieste di indagini e controlli di ogni tipo. Il fatto è che di fronte alle ondate di attentati che stanno colpendo tutta l’Europa, i nostri magistrati, carabinieri e poliziotti non possono permettersi di sottovalutare nessun indizio: quindi devono indagare anche su una massa crescente di segnalazioni che, alla fine, risultano infondate. Molti falsi allarmi sono alimentati da cittadini in buona fede, preoccupati e impauriti, che cercano solo di aiutare le forze di sicurezza. Ma fra le tante segnalazioni si nasconde anche una schiera di denuncianti in malafede. Inventori di finte piste. E sciacalli dell’emergenza jihadista. Che sfruttano la psicosi del terrorismo per organizzare vendette personali o lucrare su interessi privati. Nelle caserme e nelle procure più impegnate, gli inquirenti cominciano a non poterne più. Per dimostrare che una denuncia è infondata, infatti, bisogna comunque dare il via a un’inchiesta. Quindi: controllare e pedinare i soggetti segnalati, intercettare telefoni e comunicazioni su Internet, ricostruire contatti, viaggi, incontri. E indagare su piste che poi si rivelano false significa distogliere le forze, che non sono infinite, dai pericoli reali. Se i poliziotti sono costretti a inseguire fantasmi, i veri terroristi rischiano di restare sconosciuti e liberi di uccidere. Così, nelle nostre centrali antiterrorismo, iniziano a scattare le contromisure: chi segnala jihadisti inesistenti, nei casi di malafede comprovata, finisce sotto inchiesta. E la falsa denuncia si ritorce come un boomerang contro il denunciante. L’Espresso ha raccolto una collezione di questi casi, scoprendo che esistono variegate categorie di utilizzatori dell’emergenza terrorismo. Una vicenda che gli inquirenti considerano emblematica, anche perché non è isolata, ha per protagonista una cittadina italiana che diversi anni fa ha sposato un immigrato di fede musulmana. La coppia vive in provincia di Milano. Qualche mese fa, all’improvviso, lei denuncia lui: sostiene che è diventato integralista e fa discorsi esagitati sull’Isis. Aggiunge che un giorno, insospettita, ha frugato di nascosto tra le sue carte dove avrebbe trovato foto di uomini armati. Di fronte a una moglie italiana che accusa il marito immigrato di jihadismo, i carabinieri del Ros sono naturalmente obbligati a muoversi. Sicché la vita del musulmano viene passata al setaccio. Ma con zero risultati. Anzi: tutto conferma che è un gran lavoratore, non è integralista, e quando viene intercettato parla dei terroristi come pazzi criminali che distorcono la religione islamica. Inoltre non nasconde nessuna foto segreta di uomini armati. I carabinieri sentono puzza di bruciato e allora allargano l’indagine alla vita di coppia. Scoprendo che l’italiana non sopporta più il marito. Lo detesta. Progetta la separazione, vuole liberarsene. Quindi l’accusa di terrorismo viene cestinata per totale assenza di indizi, mentre negli atti dell’inchiesta resta un unico dubbio, che riguarda proprio la moglie: è solo una visionaria o qualcuno le ha suggerito una falsa denuncia per spillare più soldi al marito (con il cosiddetto addebito per colpa) nella causa di divorzio? Lo stesso interrogativo riguarda un’altra moglie italiana, che ha denunciato il marito tunisino. Invece delle foto, questa volta, il preteso riscontro era un viaggio: partito per la Tunisia, lui sarebbe tornato cambiato, radicalizzato, jihadista insomma. In questo caso l’antiterrorismo ha perso meno tempo: l’accusa è franata in fretta. Due procure lombarde hanno dovuto lavorare per mesi, invece, per smontare una fantomatica cellula dell’Isis con base in Brianza. L’accusa in questo caso arriva da un piccolo imprenditore di origine maghrebina che vive da decenni in Lombardia, dove ha casa e lavoro. Una fonte credibile, in apparenza, che denuncia le presunte confidenze di un gruppo di connazionali: sono almeno cinque, sostengono l’Isis, vogliono reclutare jihadisti, partire per la Siria e unirsi ai tagliagole del Califfato. A Milano parte un’inchiesta approfondita. Che faticosamente ricostruisce la verità dei fatti: quei cinque musulmani non hanno niente a che fare col terrorismo. Sono tutti ex dipendenti o fornitori della ditta del denunciante. Che non li ha pagati e deve loro un sacco di soldi. Di qui l’idea: farli arrestare o espellere tutti. E azzerare i suoi debiti. Escluso il terrorismo, l’inchiesta emigra a Monza, dove ora l’ex denunciante è inquisito per calunnia, il più grave dei reati ipotizzabili in questo caso. Altrettanto dannoso, per gli inquirenti, è stato l’effetto di una segnalazione ben congegnata da un cittadino lombardo di buona cultura, molto esperto di terrorismo, soprannominato "il professore". La sua denuncia manda in tilt l’antiterrorismo nei giorni della visita di Papa Francesco a Milano, quando l’allarme attentati era altissimo. Mentre le forze di polizia sono in piena mobilitazione, "il professore", che vanta conoscenze negli apparati di sicurezza, la spara grossa. Racconta di aver saputo, tramite i suoi canali, che due maghrebine devono arrivare in macchina dalla Val d’Aosta, con altre presunte integraliste, per incontrare uomini arabi che nasconderebbero esplosivi. Una segnalazione precisa: "il professore" fornisce anche la targa. L’auto arriva davvero a Milano con due maghrebine, accompagnate da due connazionali totalmente velate. La pista sembra reale. Nelle caserme è allarme rosso. Degli uomini arabi però non si trova nessuna traccia. E tantomeno di esplosivi. Mentre le maghrebine non hanno alcun aggancio terroristico: sono musulmane normali, portano il velo per pudore, volevano solo vedere Milano. L’inchiesta (condotta dagli stessi inquirenti che in questi mesi hanno arrestato veri jihadisti dell’Isis, intercettati mentre cercavano armi e ordigni per progetti stragisti tra Milano e Brescia) a quel punto si capovolge. "Il professore" viene interrogato da magistrati esperti. Messo alle strette, confessa di essersi inventato tutto. Il movente? Voleva accreditarsi come informatore dei servizi. E magari incassare ricompense. Ora l’unico indagato è lui: rischia una condanna per simulazione di reato. Nessuna accusa è stata invece contestata a un giovane giornalista del Sud Italia che, suo malgrado, ha fatto impazzire Digos e servizi segreti. Nei mesi degli attentati a catena tra Parigi e Bruxelles, su Internet compaiono diversi profili di donne dell’Isis, armate di mitra, con nomi di battaglia che terminano con "Al Italiya": jihadiste italiane, insomma, che parlano francese e rilanciano foto di guerra, messaggi stragisti e discussioni con terroristi della famigerata cellula di Molenbeek. Poliziotti e 007 ci arrivano per vie diverse. E scoprono che dietro le jihadiste virtuali c’è un unico utente. Ma è solo un giornalista, che non ha mai voluto ingannare l’antiterrorismo: al contrario, i suoi profili erano trappole per attirare e smascherare i terroristi ancora ricercati. Solo che invece dei jihadisti hanno abboccato i servizi. Pur creando frustrazione tra gli inquirenti, queste indagini non sono del tutto inutili: se conosciute, possono mostrare ai giovani accecati dalla propaganda jihadista come funziona una giustizia giusta. Nei regimi sanguinari gli inquisitori lavorano per incastrare i sospettati a ogni costo, con torture e false prove. In una democrazia, le inchieste servono anche a salvare gli innocenti. Di qualunque fede. Cyberbullismo. Italia-Germania: leggi a confronto di Lucia Tironi La Repubblica, 30 agosto 2017 Berlino punta su sanzioni pesantissime, Roma sulla prevenzione. Abbiamo chiesto a due esperti della materia di mettere a confronto la legislazione vigente in Germania e in Italia a proposito degli abusi sul web con particolare riferimento al cyberbullismo. Iniziamo dalla Germania, dove la legge entrerà in vigore a ottobre e poi veniamo all’Italia, dove la legge Ferrara è in vigore dal 18 giugno scorso. In Germania - La Rete ha dilatato quasi senza limiti la libertà di espressione degli utenti, ampliando le possibilità di comunicazione, ma anche i rischi di abusi. In Germania i Provider (Youtube, Facebook, Twitter) prima della nuova legge avevano l’obbligo giuridico di rimuovere i contenuti illeciti soltanto quando vi fosse la prova della loro effettiva conoscenza. Tuttavia, l’esperienza ha insegnato che i tempi di rimozione, soprattutto da parte di Facebook e Twitter, erano troppo lenti. Ciò era grave soprattutto per le vittime di cyberbullismo che soffrivano per la permanenza online dei contenuti per troppo tempo, con conseguenze a volte esiziali. Il ministro della Giustizia tedesco, Heiko Maas, ha cercato per qualche anno di raggiungere miglioramenti volontari dell’applicazione dell’obbligo di cancellare contenuti offensivi da parte dei social network, ma senza successo, mentre nel frattempo i cyberbulli sono triplicati. Durante l’ultima sessione prima dell’elezione ha deciso il Parlamento: la pazienza della maggioranza ormai era finita. La legge per il miglioramento dell’applicazione del diritto nei servizi di rete sociale è stata approvata il 30 giugno scorso ed entrerà in vigore ad ottobre. In sintesi impegna i provider ad adottare modelli organizzativi stringenti (cosiddetta compliance). L’inadempimento di questi doveri può essere multato - per le persone giuridiche - con sanzioni fino a 50 milioni di euro. Sono esclusi dall’applicazione di tale norma i contenuti giornalistici e i servizi speciali, tipo giochi online, vendite elettroniche (eBay), i reticolati professionali e i servizi di comunicazione individuale (email, messenger). Inoltre, le nuove norme obbligano soltanto i social network che hanno almeno 2 milioni di utenti registrati in Germania. Tra le nuove prescrizioni compare l’obbligo dei social network di presentare un rapporto semestrale sulle segnalazioni delle vittime dei cyberbulli e sulle fake news diffamatorie o calunniose. L’altro obbligo di compliance è di garantire la cancellazione o il blocco dei contenuti illeciti entro 24 ore dalla segnalazione. Se il caso è più difficile, il termine per adempiere è di 7 giorni. In quest’ultimo caso, il Parlamento e gli esperti ascoltati per la stesura della nuova legge si sono preoccupati della questione molto difficile di chi dovrà decidere se un contenuto sia illecito oppure no. Alla fine il Parlamento ha scelto una soluzione che in Germania già funziona bene nell’ambito della tutela dei minori nei mass media. Nei casi difficili i social network possono demandare la decisione a un’organizzazione riconosciuta di autoregolamentazione. Questa organizzazione deve essere composta da membri indipendenti e competenti e deve essere riconosciuta dall’autorità amministrativa tedesca. La legge non precisa dove dovrà avere sede la società, ma stabilisce che dovrà essere costituita dai Provider e composta da personalità di varia formazione (psicologi, giuristi, ecc…). Attraverso questa novità il legislatore cerca di impedire che i social network decidano da soli cosa sia lecito pubblicare e cosa no. Ogni social network, a prescindere dal numero di utenti, dovrà poi nominare almeno un referente preposto a gestire le segnalazioni degli utenti. La mancata nomina è punita con una sanzione fino a 5milioni di euro. Il Parlamento si è reso conto che tali norme di compliance possono essere oggetto di abusi negli Stati in cui la libertà d’opinione non è un diritto fondamentale o equivalente. Ha perciò tentato un difficile processo di bilanciamento. Purtroppo qualche aspetto della materia lascia alcune perplessità: ad esempio cosa succede quando un contenuto è stato cancellato o bloccato, ma oggettivamente non costituiva reato? Nonostante queste incertezze applicative, il legislatore tedesco ha scelto di agire. La nuova legge sicuramente smuoverà i social network, ma resta incerto se la legge ridurrà i casi di hate speech online. Ridurrà però sicuramente il tempo del permanenza dei contenuti offensivi in rete. Ma Quale sarà però il prezzo da pagare sul fronte della libertà di espressione? Il rischio è che Heiko Maas assomigli di più all’apprendista stregone di Goethe chiamato a cacciare gli spiriti di cui non riusciamo a liberarci. di Dennis Miller, giurista e consigliere ministeriale, lavora nel servizio scientifico del Parlamento della Bassa Sassonia ad Hannover. In Italia - Il d.lgs 70/2003, attuativo della direttiva comunitaria 2000/31/CE, ha cristallizzato anche in Italia la responsabilità civile dei Provider soltanto nei casi in cui viene raggiunta la prova della conoscenza effettiva dei contenuti illeciti da essi stessi veicolati. I giudici italiani, a più riprese, hanno tentato di interpretare "ortopedicamente" queste norme. Da ultimo il Tribunale di Napoli Nord con l’ordinanza del 3 novembre 2016, emanata all’interno del procedimento n. 9799/2016, ha sancito che se un utente invia una diffida o una richiesta di cancellazione di un contenuto al Provider, questi deve attivarsi per impedire l’ulteriore diffusione dei link, senza attendere il provvedimento di un’autorità giudiziaria (giudice ordinario e/o garante per la protezione dei dati personali). La legge 71/2017 ha poi introdotto, con riferimento ai minori nei casi di cyberbullismo, nuovi strumenti per ottenere la rimozione di contenuti illeciti. In Italia non sono però previste sanzioni per i Provider, almeno per ora. Si è preferito optare per una soluzione che punta molto sulla prevenzione e sulla rimozione spontanea da parte dei social network o dei gestori dei siti. La soluzione tedesca è sicuramente più "coraggiosa", ma pone delle perplessità, come evidenziato nell’articolo che precede. Si segnala però anche per alcune idee decisamente innovative. Tra tutte, quella di fronteggiare il "monopolio" decisionale dei social network deferendo la soluzione dei casi più gravi a un’autorità amministrativa di autoregolamentazione. La legge tedesca potrebbe essere l’occasione per studiare dei modelli di condotta internazionali che, anche senza la necessità di introdurre nuove sanzioni, possano convincere finalmente i social network a trovare delle soluzioni condivise nell’ottica di un’autoregolamentazione finalmente positiva e proattiva, sulla falsariga ad esempio di quanto già previsto in Italia per il sistema di autodisciplina pubblicitaria. Non c’è dubbio che le nuove leggi pongono sia l’Italia sia la Germania innanzi a due banchi di prova decisivi. Sarà la prassi dei prossimi anni a stabilire quale soluzione abbia contribuito a ridurre la propaganda di discorsi violenti e di odio on line. Per ora non resta che attendere il ritorno del maestro stregone. Nelle frodi alimentari sequestro probatorio ampio di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 30 agosto 2017 Corte di cassazione - Sentenza 39508/2017. Margini ampi per il sequestro probatorio nelle indagini per contraffazione alimentare. Il provvedimento che "congela" beni o anche documenti contabili e fiscali può prescindere dalla consapevolezza dell’illecito da parte dell’indagato, dovendo solo garantire - il sequestro - la formazione della prova ed eventualmente ampliare il raggio dell’inchiesta. La Terza penale della Corte di cassazione (sentenza 39508/17 depositata ieri) torna sul sequestro probatorio per respingere il ricorso di un imprenditore coinvolto - forse anche solo marginalmente - in un vasto giro di contraffazione di olio extravergine toscano Igp. Stando all’indagine della Guardia di finanza, l’imprenditore tre anni fa avrebbe acquistato partite di olio in realtà di origine greca, "tagliato" con qualche oliva locale solo per riuscire a commercializzarlo come toscano. La Procura, che indagava sul vertice della presunta organizzazione criminale, aveva iscritto nel registro degli indagati 47 persone, molte delle quali - come il ricorrente in Cassazione - semplici acquirenti di piccole partite di prodotto, disponendo il sequestro probatorio di documentazione contabile e fiscale. L’imprenditore aveva cercato di ottenere la restituzione dell’archivio acquisito dalla Gdf davanti al Riesame di Grosseto, che però aveva ribadito il vincolo del Gip. Secondo la lamentazione difensiva, non c’era alcuna evidenza del coinvolgimento (doloso) del sequestrato - pertanto illegittimamente iscritto a indagati - e inoltre il blocco dell’archivio contabile/fiscale era stato finalizzato, stando a questa prospettazione, a ricercare la notitia criminis e non già invece per assicurare al processo le fonti di prova. La Cassazione però ha totalmente disatteso le conclusioni del ricorso, sottolineando che il sequestro probatorio ha una "portata ben più ampia del diverso istituto del sequestro preventivo". Perché il primo sia legittimo, infatti, basta che si collochi dentro una "notizia di reato legittimamente acquisita", quale non è, esemplifica la Corte, una semplice notizia confidenziale, e basta che non si tratti di elementi di fatto così labili da non essere "sussumibili in una specifica ipotesi di reato". E proprio sul reato va misurato il fumus per l’applicazione della misura, e non invece sulla colpevolezza dei singoli indagati, aggiunge la Terza, che sarà esaminata e valutata in sede di merito, e cioè a conclusione del lavoro di investigazione. Nel caso specifico, quindi, la magistratura locale ha correttamente inquadrato la fattispecie e proceduto a sequestrare documenti per "la finalità di verificare l’estensione dell’operazione commerciale fraudolenta". Quanto all’iscrizione a registro dei molti indagati, secondo la Corte non si tratta di un passaggio tecnicamente necessario - "ben potendo essere effettuato il sequestro nei confronti di chiunque sia in possesso" di cose collegabili al reato - ma si giustifica piuttosto con la "funzione di maggior tutela nei confronti del titolare di cose che vengano comunque assoggettate a sequestro probatorio". E sempre in relazione al sequestro, non è neppure necessaria la prova della pertinenza o di corpo del reato, "essendo sufficiente la semplice possibilità, purché non astratta od avulsa dal caso concreto". Beni culturali, esportabilità da provare a pena di sequestro di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 30 agosto 2017 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 29 agosto 2017 n. 39517. È legittimo il "sequestro probatorio" alla dogana di "beni culturali" qualora chi li esporta non sia in grado di dimostrare che sono opera di autore vivente o che la loro esecuzione non risalga ad oltre 50 anni. Soltanto in questi casi infatti l’esportazione non necessita di alcuna autorizzazione. La Corte di cassazione, sentenza 29 agosto 2017 n. 39517, ha così confermato il provvedimento cautelare emesso dal Tribunale della libertà di Imperia, dichiarando inammissibile il ricorso del proprietario che invece lamentava l’assenza del fumus commissi delicti. L’articolo 174 del Codice dei beni culturali, ricorda la sentenza, punisce la condotta di chi trasferisce all’estero cose di interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, bibliografico, documentale o archivistico, senza attestato di libera circolazione - se il trasferimento avviene nei paesi comunitari - o licenza di esportazione - se il trasferimento è previsto verso paesi extracomunitari. La legge opera poi una tripartizione tra beni culturali "assolutamente in esportabili"; beni la cui uscita è sottoposta ad autorizzazione ("cose che presentino interesse culturale, e siano opera di autore non più vivente e la cui esecuzione risalga ad oltre cinquant’anni"); e infine beni liberamente esportabili (tra cui, l’arte contemporanea, cioè le opere di autore vivente o la cui esecuzione non risalga a oltre cinquant’anni). Tuttavia, prosegue la sentenza, per tale ultima categoria di opere "l’interessato ha l’onere di comprovare al competente ufficio di esportazione" i suddetti requisiti. E la mancata osservanza di tale obbligo costituisce "grave indizio del delitto di cui all’articolo 174 del Dlgs n. 42 del 2004" (Uscita o esportazione illecita di beni culturali). Del resto, in difetto di attestato o di licenza, i beni culturali o di interesse culturale "non possono neppure essere presentati alla dogana". Così ricostruito il quadro, la decisione ricorda che per l’adozione del sequestro probatorio "non sono necessari i gravi indizi di colpevolezza ma è sufficiente che esistano elementi tali da far configurare l’esistenza di un reato e la sussistenza di una relazione necessaria fra la cosa oggetto del sequestro ed il reato stesso". E nel caso specifico, la direttrice dell’Ufficio esportazione della Sovrintendenza "presa visione degli oggetti in sequestro (stimati per un valore complessivo tra 800mila e un milione dì euro), li ha valutati, nella loro complessità, come beni che "presentano interesse culturale" e come "opera di autore non più vivente la cui esecuzione risale ad oltre cinquanta anni", pervenendo alla conclusione che, per l’uscita di tali beni dal territorio nazionale, fosse necessario l’attestato di libera circolazione, siccome destinati al trasferimento in un paese comunitario". Né vale l’obiezione dei ricorrenti secondo cui l’obbligo di ottenere l’attestato di libera circolazione riguarda "ciascuna singola cosa nella propria specificità" e non può dunque riferirsi in "una valutazione complessiva". Secondo la Corte, infatti, il Riesame "è chiamato a verificare l’astratta configurabilità del reato ipotizzato, valutando il fumus commissi delicti in relazione alla congruità degli elementi rappresentati, non già nella prospettiva di un giudizio di merito sulla fondatezza dell’accusa, ma con riferimento alla idoneità degli elementi su cui fonda la notizia di reato a rendere utile l’espletamento di ulteriori indagini per acquisire prove certe o ulteriori del fatto". Ed è quanto, conclude la sentenza, ha "correttamente" ritenuto il Tribunale della libertà, sussistendo sia il "fumus criminis" e sia "esigenze probatorie" necessarie proprio per "confermare o escludere la qualità di bene culturale di ogni singola opera in sequestro". Cessione di quote societarie penalmente rilevante se dissimula una cessione di beni immobili di Stefano Massarotto advisoronline.it, 30 agosto 2017 Secondo la Corte di Cassazione la plusvalenza derivante dalla cessione era stata assoggettata a tassazione in misura ridotta, tuttavia non sussistevano i presupposti per beneficiare di tale regime. Con la sentenza n. 38016 del 31 luglio 2017, la Corte di Cassazione ha affermato la rilevanza penale della cessione delle quote di una società agricola, conseguente ad un’operazione di scissione societaria. La Corte ha evidenziato che l’effettiva intenzione delle parti - emergente dal contratto preliminare - era quella di trasferire i beni immobili detenuti dalla società: l’intera operazione posta in essere - scissione societaria e successiva cessione delle quote - era quindi preordinata a far confluire i terreni e i fabbricati oggetto della trattativa in un mero contenitore societario, con l’effetto di mascherare il trasferimento degli immobili sotto la forma di una cessione di quote societarie. La plusvalenza derivante dalla cessione era stata assoggettata a tassazione in misura ridotta (nei limiti del 5%) in applicazione del regime di participation exemption previsto dall’art. 87 del T.U.I.R.; secondo la Corte, tuttavia, non sussistevano i presupposti per beneficiare di tale regime, in quanto difettava il requisito della commercialità essendo il patrimonio societario pressoché interamente costituito da beni immobili. Sono stati quindi ravvisati gli estremi del reato di dichiarazione infedele (art. 4 del D.Lgs. n. 74/2000). Secondo la difesa, la condotta contestata andava inquadrata nell’abuso di diritto, che è stato escluso dall’area della rilevanza penale ad opera del D.Lgs. n. 218/2015. Il rilievo è stato però respinto dalla Corte, in ragione della "presenza di comportamenti simulatori preordinati alla immutatio veri del contenuto della dichiarazione reddituale"; di conseguenza, l’istituto dell’abuso del diritto non può essere applicato "quando i fatti integrino gli elementi costitutivi del delitto di dichiarazione infedele per la comprovata esistenza di una falsità ideologica che interessa, nella parte che connota il fatto evasivo, il contenuto della dichiarazione, inficiandone la veridicità per avere come obiettivo principale l’occultamento totale o parziale della base imponibile". Reati tributari commessi dall’imprenditore e confisca per equivalente Il Sole 24 Ore, 30 agosto 2017 Reati tributari (Dlgs. n. 74/2000) - Sequestro preventivo finalizzato alla confisca - Curatore fallimentare - Terzietà - Carenza di legittimazione ad agire. La legittimazione del curatore a proporre impugnazione avverso il provvedimento di sequestro preventivo funzionale alla confisca dei beni della società fallita - già univocamente esclusa dalle Sezioni Unite sul rilievo della posizione di terzietà del curatore rispetto al provvedimento di sequestro, in quanto privo della titolarità dei beni che ne costituiscono l’oggetto e della mancanza di un rapporto di rappresentanza dei creditori, i quali sono privi fino alla conclusione della procedura concorsuale di alcun diritto sui beni acquisiti alla massa fallimentare - deve essere a fortiori ribadita allorquando la dichiarazione di fallimento della società i cui beni siano stati colpiti dal provvedimento di sequestro sia successiva a quest’ultimo. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 7 giugno 2017 n. 28090. Fallimento e procedure concorsuali - Omesso versamento di ritenute (art. 10-bis Dlgs. n. 74/2000) - Sequestro preventivo - Confisca per equivalente - Presupposti - Rapporti tra fallimento e art. 19 Dlgs. n. 231/2001. Dal carattere obbligatorio e sanzionatorio della confisca, diretta o anche per equivalente, del profitto dei reati tributari prevista dall’art. 12-bis, comma 1, Dlgs. n. 74/2000, consegue che il sequestro preventivo a essa funzionale prevale sui diritti incidenti, per effetto della pendenza di una procedura concorsuale, sul patrimonio del soggetto sottoposto alla cautela reale. Da ciò l’irrilevanza delle questioni relative al periculum in mora data la natura obbligatoria/sanzionatoria della confisca a cui il provvedimento di sequestro è preordinato. In materia di riesame delle misure cautelari reali, essendo il ricorso per cassazione ammesso soltanto per violazione di legge escludendosi ogni censura attinente ai vizi di motivazione (art. 325 c.p.p.), salvo il caso in cui la motivazione sia assolutamente mancante, è legittima la confisca di beni che abbiano costituito profitto di reato, in materia di reati tributari identificandosi tale profitto con qualsivoglia vantaggio patrimoniale direttamente conseguito alla consumazione del reato, dunque, anche un risparmio di spesa come quello derivante dal mancato pagamento del tributo, interessi, sanzioni dovuti (art. 10-bis Dlgs. n. 74/2000), il profitto consistendo proprio nel risparmio di spesa derivante dall’omesso pagamento a cui il debitore avrebbe potuto adempiere attingendo a qualunque risorsa finanziaria del suo patrimonio, somme di denaro pacificamente sequestrabili in forma diretta, con l’eccezione dei cespiti indisponibili per vincolo formale di destinazione. Legittimo anche il sequestro per equivalente sui beni del legale rappresentante dell’ente senza previamente verificare se fosse possibile l’ablazione diretta dei beni della società costituenti profitto del reato tributario. Non esclude la configurabilità del reato di omesso versamento delle imposte neppure l’ammissione alla procedura di concordato preventivo seppure antecedente alla scadenza del termine previsto per il versamento dell’imposta. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 7 giugno 2017 n. 28077. Reati tributari (artt. 2-10 Dlgs. n. 74/2000) - Sequestro preventivo - Confisca per equivalente - Principio di adeguatezza e proporzionalità - Accordo di rateizzazione del debito tributario (art. 6 Dlgs. n. 218/1997) - Riduzione in misura equivalente. Il principio di adeguatezza e proporzionalità deve essere osservato anche in materia di misure cautelari reali, pertanto, nel caso della sottoposizione a sequestro di un bene di valore di gran lunga superiore rispetto al profitto confiscabile stimato, anche se con vincolo "formalmente" limitato fino alla concorrenza di tale profitto, detto principio è da ritenersi violato e il tribunale per il riesame può essere chiamato a verificare se il valore dei beni sottoposti a sequestro preventivo, finalizzato alla confisca per equivalente, sia congruo in rapporto all’importo del credito tributario, per evitare che il provvedimento ablativo si riveli eccessivo nei confronti del destinatario. In tema di reati tributari, il sequestro preventivo al fine di confisca per equivalente, in caso si perfezioni l’accordo tra il contribuente e il Fisco per la rateizzazione del debito, non può essere mantenuto sull’intero ammontare del profitto ma deve essere ridotto in proporzione ai ratei versati per effetto dell’accordo. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 7 giugno 2017 n. 28076. Reati tributari (Dlgs. n. 74/2000) - Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti - Profitto del reato tributario - Confisca - Profitto del reato dichiarativo - Sanzione. Il profitto dei reati tributari è peculiarmente caratterizzato dal risparmio economico derivante dalla sottrazione degli importi evasi alla loro destinazione fiscale a seguito del mancato pagamento d’imposta, non risolvendosi in un accrescimento del patrimonio del soggetto attivo. All’interno del profitto del reato tributario, confiscabile anche nella forma per equivalente, vanno ricondotte anche le sanzioni dovute a seguito dell’accertamento del debito. Con riferimento, invece, ai reati dichiarativi (art. 2 Dlgs. n. 74/2000) caratterizzati dall’evasione di imposta, la sanzione, lungi dal potere rientrare nel concetto di profitto del reato è, esattamente al contrario, il costo del reato stesso. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 7 giugno 2017 n. 28047. Reati tributari - Omesso versamento delle ritenute dovute e certificate - Transazione fiscale (art. 182-ter legge fall. Rd n. 267/1942) - Omologazione - Anteriorità rispetto alla scadenza del termine di versamento. Nel caso di transazione fiscale concordata ex art. 182-ter legge fall. e omologata prima della scadenza del termine per il versamento dell’imposta, quindi della consumazione del reato, non è configurabile il delitto di omesso versamento delle ritenute d’imposta dovute e certificate (art. 10-bis Dlgs. n. 74/2000). L’inadempimento futuro ed eventuale della transazione ne comporta la revoca, ma non implica la "reviviscenza" del reato. Al contrario, la transazione fiscale omologata successivamente alla scadenza del termine per il versamento dell’imposta non estingue il reato ormai già consumato e ciò anche se la proposta sia stata fatta in epoca antecedente. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 13 febbraio 2017 n. 6591. Fallimento e procedure concorsuali - Omesso versamento di ritenute - Curatore fallimentare - Confisca per equivalente - Dichiarazione di fallimento - Legittimità. Mentre i beni non confiscati entrano a far parte dell’attivo fallimentare ex art. 2740 c.c.,anche le somme dovute dal debitore insolvente non effettivamente versate possono essere oggetto di confisca, non essendo il curatore fallimentare legittimato all’impugnazione del provvedimento di sequestro preventivo, anche per equivalente, pronunciato precedentemente alla dichiarazione di fallimento della società, essendo egli privo di diritti sui beni del fallito, sia iure proprio che in qualità di rappresentante dei creditori del fallito, a loro volta, privi di alcun diritto restitutorio sui beni prima della conclusione della procedura. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 7 ottobre 2016 n. 42469. Sardegna: i Radicali "manca da troppo il Garante dei diritti dei detenuti" sassarinews.it, 30 agosto 2017 Visita nelle case circondariali di Tempio Pausania e di Sassari per la Carovana per la Giustizia: "2 milioni di euro annui totali per raggiungere tutti gli scopi della legge, ma nessuno li ha mai visti", hanno dichiarato i rappresentanti del Partito Radicale. Sono centotrenta le sottoscrizioni alla proposta di legge di iniziativa popolare per la separazione delle carriere dei magistrati raccolte dalla delegazione del Partito Radicale in visita ieri (lunedì) al carcere sardo di Sassari. Invece, cento tre quelle raccolte nel carcere di Tempio Pausania, dove centosettanta detenuti hanno anche aderito ad agosto al Grande Satyagraha promosso dal Partito Radicale. Si tratta di un’iniziativa non violenta che consiste nel digiuno, nello sciopero della spesa e nel rifiuto del carrello, finalizzata nel richiedere al più presto l’attuazione della riforma dell’ordinamento penitenziario che andrebbe ad intervenire su diversità criticità: sovraffollamento in rapida ascesa che, come ha sottolineato la radicale Rita Bernardini, "in alcune carcere raggiunge punte del 200percento; maggiore possibilità di accesso alle pene alternative, più rapporti tra detenuti e familiari, più lavoro e studio in carcere, più cure". Con la delegazione radicale, era presente anche il presidente dell’Unione delle Camere penali di Tempio Pausania, avvocato Domenico Putzolu, che ha dichiarato "la giornata è stata molto fruttuosa, perché abbiamo raccolte le firme dei detenuti, che sono il punto di arrivo della vicenda processuale, sono coloro che, anche loro malgrado, vanno a valutare e talvolta a patire quelle che possono essere le disfunzioni del nostro sistema processuale. Abbiamo riscontrato grandissimo interesse per la nostra iniziativa e abbiamo raccolto un numero considerevole di adesioni alla proposta di legge. Come Camere penali, siamo grati al Partito Radicale, sempre vicino alle nostre iniziative". Matteo Angioli, membro della Presidenza del Partito Radicale, ha proseguito: "Oltre la metà dei detenuti ha firmato per la separazione delle carriere dei magistrati. Per quello che abbiamo potuto vedere è un carcere in buone condizioni, anche dal punto di vista igienico e dell’organizzazione. È importante questa sinergia che prosegue, dopo la Calabria e la Sicilia, con le Camere penali. Il supporto che il nostro partito ha dato alle Camere penali si spera diventi presto un nostro lavoro comune". L’altro membro della Presidenza, Irene Testa, ha invece messo in evidenza come "in Sardegna manchi da anni il garante dei detenuti. Si tratta di una questione evidentemente emblematica, sulla quale da anni le istituzioni regionali della Sardegna latitano. La legge regionale del 7 febbraio 2011, n.7, che ne prevede l’istituzione insieme ad un sistema integrato di interventi a favore dei soggetti sottoposti a provvedimenti dell’autorità giudiziaria non ha trovato mai applicazione dal 2011. Non si sa per qual motivo, ne se si preveda di darne attuazione in un futuro prossimo o remoto. Eppure erano stati previsti anche 2milioni di euro annui totali per raggiungere tutti gli scopi della legge, ma nessuno li ha mai visti". Ha concluso Giuseppe Pirinu, consigliere comunale di Tempio Pausania: "la nostra Amministrazione comunale aveva già organizzato all’interno del carcere un consiglio comunale aperto ai detenuti come uditori. Negli anni, si sono succedute direttrici che non hanno criminalizzato i reclusi ma hanno intrapreso la via del recupero. Il numero alto di firme raccolte sulla Pdl per la separazione delle carriere (oltre 62mila ad oggi) conferma il grande interesse che c’è su questo tema della giustizia". Sardegna: la Carovana della Giustizia ad Alghero "un carcere modello" buongiornoalghero.it, 30 agosto 2017 Seconda giornata del tour sardo della Carovana per la Giustizia, oltre 250 firme tra il carcere di Alghero e Oristano. La Carovana del Partito Radicale oggi in piazza Roma ad Oristano e domani i dirigenti e militanti del Partito Radicale faranno tappa nel sud della Sardegna: prima nella casa di reclusione Is Arenas ad Arbus, e poi nel carcere di Cagliari. Su questo fronte Partito Radicale e Unione Camere Penali stanno sempre più rafforzando la loro sinergia per la riforma della giustizia. All’esterno del carcere di Alghero, ai microfon di Radio Radicale, Marco Palmieri, presidente della Camera Penale di Sassari ha dichiarato "Il comandante della casa circondariale di Alghero ci ha riferito non solo i numeri dei detenuti, ma soprattutto la qualità della struttura algherese. Probabilmente a molti non addetti ai lavori non è nota. Nel carcere di Alghero c’è una struttura residenziale aperta, e cioè ha una qualità di organizzazione e di rieducazione del detenuto che credo sia un fiore all’occhiello rispetto ad altre strutture penitenziarie Italiane. È un qualcosa che è nato proprio dalla progettualità, della quale anche il comandante si è fatto carico, a partire dalla fine del 2013, e la specificità e questa struttura rettangolare con bracci che da la possibilità ai detenuti di circolare e di incontrarsi. Una struttura che ha una capacità di rieducazione di risocializzazione che pare stia dando dei frutti importanti Con soddisfazione, il che è una rarità credo, anche da parte degli agenti polizia penitenziaria; con un numero anche ridotto di agenti polizia penitenziaria si riesce a reggere benissimo una struttura così dinamica. Quindi credo che sia un elemento di grande riflessione non solo da parte dell’avvocatura penalistica, perché noi su questa cosa ci abbiamo sempre riflettuto e continuiamo a riflettere, e cioè sul fatto che se vogliamo dare delle possibilità anche a chi ha sbagliato bisogna necessariamente aprire all’esterno e risocializzare che è un termine bellissimo, abusato, ma che di fatto poi deve avere la sua realizzazione". Nella delegazione del pomeriggio anche l’avvocato Francesco Pilloni, Camera Penale Oristano "un evento di caratura eccezionale perché circa il 90% dei detenuti ha sottoscritto la proposta di legge di iniziativa popolare per la separazione delle carriere. È motivo di orgoglio per la Camera Penale di Oristano, ma questo vale credo anche a livello nazionale perché la partecipazione da parte dei detenuti del carcere italiani sta registrando un’affluenza record. Come dicevo oltre il 90% dei detenuti hanno sottoscritto una proposta di legge, questo è un dato estremamente significativo; da un lato perché ci riporta la problematica direttamente dai luoghi in cui certamente l’esperienza anche giudiziaria è di livello personale estremamente sentita, vorremmo e auspichiamo una presenza così massiccia anche a livello dell’elettorato per poter promuovere e portare finalmente in porto una iniziativa che ormai da troppi deve arrivare sulle tavole del dibattito politico senza alcun risultato". C’è un obiettivo ancora più importante per il Partito Radicale raggiungere 3000 iscritti altrimenti il 31 dicembre tutto sarà destinato a finire. Per questo dai microfoni di Radio Radicale Sergio D’Elia, Rita Bernardini, Laura Arconti, Diego Sabatinelli e tanti altri dirigenti e militanti hanno lanciato la campagna #Quota3001: fili diretti, collegamenti con la Sardegna, e approfondimenti sulle iniziative in corso per raccogliere iscrizioni al partito di Marco Pannella. Roma: "Il giudice lento? Ha dato precedenza ai detenuti" di Giulio De Santis Corriere della Sera, 30 agosto 2017 Il presidente del Tribunale difende il collega che ha depositato 7 pagine in 16 mesi: "L’ottava sezione penale è l’unica competente nei reati contro la pubblica amministrazione. Si tratta di magistrati oberati di lavoro. Le udienze spesso finiscono di sera". "La precedenza nel deposito delle sentenze è riservata ovviamente ai processi con detenuti e con condannati. L’ottava sezione penale è l’unica competente nei reati contro la pubblica amministrazione. Si tratta di giudici oberati di lavoro. Le udienze spesso finiscono in orari serali". Nella sua stanza al terzo piano dell’edificio A della cittadella giudiziaria di Piazzale Clodio, il presidente del Tribunale Francesco Monastero difende senza incertezza l’operato del giudice dell’ottava sezione estensore delle sette pagine di motivazioni di una sentenza di assoluzione scritte in sedici mesi tra il 1 aprile del 2016 e il 26 luglio di quest’anno. Monastero, pur riconoscendo l’inopportunità del tempo impiegato nella consegna del testo, fa un ragionamento più ampio per spiegare il contesto in cui operano i magistrati: "A prescindere dalla specifica motivazione del ritardo, stupisce l’enfatizzazione di un fatto che, seppure non fisiologico, trova ragione nella particolare difficoltà di una sezione che tratta in via esclusiva tutti i processi contro la pubblica amministrazione nel Tribunale di Roma". Il curriculum dell’attuale presidente, nominato dal Csm nel settembre del 2016, racconta la storia di un togato, profondo conoscitore della realtà capitolina dove svolse le funzioni di giudice fino al 1999. Tutt’altro che un marziano nell’ambiente romano, Monastero è in possesso anche dei segreti del mestiere di come si svolge il ruolo di presidente, avendo diretto per anni il Tribunale di Velletri prima di ritornare a Roma. Da quando si è insediato lo scorso novembre, Monastero ha avuto poi modo di vedere da vicino come operano i colleghi. Un osservatorio privilegiato che gli ha fatto maturare enorme stima verso ogni singolo componente della sezione: "La professionalità dei colleghi dell’ottava è di altissima qualità come per altro richiesto dalla materia dei fatti tratti". Parole al miele che includono anche il giudice estensore delle sette pagine, seppure mai nominato in modo "ufficiale". Monastero poi coglie l’occasione per sottolineare le difficoltà oggettive che vivono all’ottava sezione, dove "i giudici sono particolarmente oberati di lavoro sia sotto il profilo quantitativo che soprattutto qualitativo com’è facilmente riscontrabile dalla semplice lettura dei fatti di cronaca". E il carico di processi influisce sullo smaltimento delle istruttorie: "Le udienze finiscono sempre in orari serali". Infine il presidente sottolinea che esistono delle priorità e rimarca quanto detto: "La precedenza nel deposito è riservata ai processi con detenuti e con condannati" Terni: nel "repartino" dell’ospedale agenti e detenuti in condizioni disumane umbria24.it, 30 agosto 2017 La denuncia del Sappe che accusa la direzione del carcere e del nosocomio di rimpalli di responsabilità sull’intervento. "Gli agenti della penitenziaria continuano a lavorare in condizioni disumane all’interno del Repartino detentivo dell’ospedale di Terni". Torna a denunciare le temperature bollenti degli spazi del Santa Maria, la segreteria provinciale del Sappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria che in una nota evidenzia come, "oltre a dover fare i conti con risse e atti di autolesionismo, gli agenti - scrive Romina Raggi - sono costretti a prestare servizio nel reparto detentivo dell’ospedale dotato di vetri blindati e con areazione ridotta ed esposta nelle ore più calde al sole rovente. Queste condizioni provocano sofferenza ai poliziotti della penitenziaria che ai detenuti ricoverati, ma nonostante le ripetute segnalazioni formalmente presentate nel corso degli anni, nessuno ha mai provveduto alla semplice installazione di climatizzatori, attraverso il classico rimbalzo di responsabilità tra la direzione del carcere di Sabbione e quella sanitaria dell’ospedale di Terni". Da qui la richiesta "urgente di risolvere eventuali divergenze e competenze e di provvedere all’installazione degli impianti idonei". "Le condizioni di lavoro dei colleghi - afferma nella nota inviata al segretario nazionale Fabrizio Bonino e da questo inoltrata ai provveditorati regionali di Toscana, Umbria e al carcere di Terni - sono a dir poco disumane. Il reparto detentivo dell’ospedale Santa Maria di Terni, destinato al ricovero ospedaliero dei detenuti, è dotato di vetri blindati, con areazione ridotta dalla semplice presenza di vasistas ed esposto nelle ore più calde al sole rovente, con sofferenza sia del personale di polizia, sia dei detenuti ricoverati". "Intervenire" Un problema che il Sappe di Terni ha "più volte segnalato nel corso degli anni, ma nessuno è stato in grado di provvedere alla semplice installazione di climatizzatori, con un rimbalzo di responsabilità tra la direzione della casa circondariale e direzione sanitaria. E poi si parla di salubrità dei luoghi di lavoro. Si chiede con urgenza - è la conclusione della missiva - di risolvere eventuali divergenze di competenze e di provvedere all’installazione dei climatizzatori: siamo persone, non animali". Rovigo: esperienze lavorative in carcere e percorsi di recupero, l’idea della Cgil Il Gazzettino, 30 agosto 2017 A farvi le scarpe potrebbe pensarci chi è in carcere. L’ipotesi di offrire una proposta lavorativa all’interno della Casa circondariale di Rovigo nel settore calzaturiero torna ad affacciarsi, con una ditta artigiana locale che sarebbe interessata a coinvolgere i detenuti. A lanciare la proposta è la Cgil, che per giovedì ha indetto una conferenza stampa alla quale sono state invitate a partecipare le associazioni di volontariato operanti in carcere, i rappresentanti politici locali, l’Unione camere penali, il garante dei detenuti e la ditta in questione. "L’istituto polesano - spiega Gianpietro Pegoraro, coordinatore regionale della Fp-Cgil Penitenziari - seppure di nuova costruzione, presenta problemi strutturali più volte denunciati anche da questa organizzazione sindacale, carenze di personale e carenze in ambito trattamentale, oltre a mancanza di progetti e prospettive di lavoro in carcere secondo il modello di altri istituti anche veneti come Padova e Venezia femminile". Tuttavia, lo spunto in questo caso non è quello di sottolineare cosa non va ma, anzi, di proporre, rimarca lo stesso Pegoraro, "una diversa idea organizzativa dell’amministrazione penitenziaria che attraverso fatti concreti e progetti mirati, nuove risorse anche umane, investa sul nuovo istituto polesano affinché il carcere diventi luogo reale di trattamento e di rispetto dei diritti di tutti coloro che vivono il carcere, sia che ne siano detenuti, che ci lavorino o che offrano attività di volontariato". Aosta: incontro in Regione sulla situazione del carcere di Brissogne aostaoggi.it, 30 agosto 2017 Si è svolto ieri a Palazzo regionale un incontro sulla situazione della casa circondariale di Brissogne dopo gli allarmi degli ultimi giorni dei sindacati sulle condizioni di lavoro della polizia penitenziaria e del garante dei detenuti sulla mancanza di stabilità nella gestione della struttura. Presenti al vertice il direttore dell’istituto penitenziario Assuntina Di Rienzo, il garante Formento Dojot ed i rappresentanti del provveditorato dell’amministrazione penitenziaria Piemonte - Liguria - Valle d’Aosta, oltre al presidente della Regione Pierluigi Marquis. "È stato un primo proficuo incontro. Abbiamo infatti avuto modo di ricordare l’impegno profuso dalla Regione nell’ambito della collaborazione e del sostegno alla Casa circondariale - riferisce il presidente della Regione. Siamo convinti che l’azione sinergica della Regione e del Ministero della Giustizia consentirà di dare le risposte che gli operatori e i detenuti aspettano da tempo". Marquis ha confermato la volontà di "lavorare per una rapida e positiva soluzione di quanto emerso nel corso dell’incontro. Ho invitato le strutture competenti - spiega inoltre - a procedere congiuntamente per il rinnovo del Protocollo d’Intesa di prossima scadenza". Marquis: "con ministero troveremo soluzione" Il Presidente della Regione Pierluigi Marquis ha incontrato i vertici della Casa circondariale di Brissogne. All’incontro con il direttore dell’Istituto penitenziario, Assuntina Di Rienzo, erano presenti anche i rappresentanti del Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria Piemonte-Liguria-Valle d’Aosta e il Garante dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Enrico Formento Dojot, per analizzare la situazione generale del carcere dopo la rissa tra detenuti e il ferimento di una guardia penitenziaria, lunedì 28, che aveva fatto riemergere i disagi nella casa circondariale, priva da tempo dei vertici. "È stato un primo proficuo incontro - dichiara il presidente Marquis, siamo convinti che l’azione sinergica della Regione e del Ministero della Giustizia consentirà di dare le risposte che gli operatori e i detenuti aspettano da tempo. Ho quindi confermato la volontà, mia personale e del Governo regionale, di lavorare per una rapida e positiva soluzione di quanto emerso nel corso dell’incontro e ho invitato le strutture competenti a procedere congiuntamente per il rinnovo del Protocollo d’Intesa di prossima scadenza". Milano: carcere di Bollate, dove i detenuti comunicano con un click di Luca Mattiucci Corriere della Sera, 30 agosto 2017 Dieci giorni, è questo il tempo medio che impiega una lettera per essere recapitata da un istituto penitenziario alla famiglia di un detenuto. Per ricevere una risposta ci vogliono altri dieci giorni. Insomma, poco meno di un mese. Se poi il detenuto in questione è straniero i tempi si allungano a dismisura. E in Italia di detenuti stranieri ve ne sono circa 20mila. Per tutti, italiani e non, quei pezzi di carta rappresentano spesso l’unico legame con il mondo esterno. Ma come aggirare la tempistica? Semplice, si è detta la cooperativa sociale "Zerografica" che nel carcere di Bollate ha dato vita al servizio "ZeroMail". Un servizio di invio e ricezione delle e-mail che permette ai detenuti di inviare e ricevere messaggi, ma anche foto e disegni in tempo reale o quasi: il detenuto scrive il messaggio che desidera inviare su un foglio che verrà ritirato in giornata dai due addetti della cooperativa, saranno poi loro a scansionarlo ed inviarlo ai suoi familiari. Allo stesso modo la mail in arrivo da un familiare viene stampata, chiusa in busta e consegnata al detenuto. Il tutto per avere comunque un controllo sulle comunicazioni in entrata e in uscita, ma con tempi decisamente ragionevoli e anche con costi di gran lunga inferiori rispetto agli invii tradizionali. Per ciascun detenuto l’abbonamento base è di 12 euro per 30 e-mail, ovvero 0,40 cent ad invio contro l’1,50 euro per una spedizione postale media. Finora al servizio si sono iscritti oltre 60 detenuti e sono partite diverse centinaia di mail: da semplici missive di auguri fino a richieste e consulenze degli avvocati. La sperimentazione, avviata anche il altre carceri italiane, pare dia i suoi frutti. Su tutto quello di rendere l’istituto di pena più umano e meno lontano. Voghera: corsi salvavita anche in carcere, l’idea è dell’Istituto Maserati vogheranews.it, 30 agosto 2017 Da una collaborazione tra Casa Circondariale di Voghera, Pavia nel Cuore ed Istituto Maserati, alcuni mesi fa è nato il progetto per la formazione dei detenuti alle manovre salvavita. Il ciclo di corsi Blsd destinato ai detenuti della Casa Circondariale di Voghera, iscritti ai percorsi di istruzione secondaria, si sono appena conclusi, con la soddisfazione di tutti gli attori. Il progetto era stato proposto dall’Istituto "Maserati-Baratta" (56 gli studenti interessato) ed è stato realizzato da Pavia nel Cuore, associazione che opera per la diffusione massiccia tra la popolazione delle manovre salvavita in caso di arresto cardiaco e ostruzione delle vie aeree da corpo estraneo. "Sia l’Istituto Maserati, sia il "Baratta" sono "cardio-protetti" - spiega il Dirigente Scolastico, Filippo Dezza - Da alcuni anni, infatti, abbiamo aderito alle attività proposte da Pavia nel Cuore alle scuole e, oltre all’installazione di defibrillatori in entrambe le sedi, studenti e docenti vengono sensibilizzati e formati per poter intervenire in caso di arresto cardiaco. Questa proficua collaborazione ci ha spinti a estendere anche agli studenti della Casa Circondariale il progetto, che ha potuto essere realizzato grazie alla disponibilità della direzione della struttura e di Pavia nel Cuore". Tra le molte attività tese a favorire il reinserimento nella società al termine del periodo detentivo, durante i mesi scorsi sono stati quindi inseriti anche i corsi Blsd (rianimazione cardiopolmonare con defibrillazione). "Abbiamo accolto la proposta con grande interesse, consapevoli dell’importanza di un intervento tempestivo in caso di arresto cardiaco e di quanto possa far bene all’animo di una persona ristretta rendersi utile - commenta la Direttrice della Casa Circondariale di Voghera, Mariantonietta Tucci - Sebbene la nostra struttura sia dotata di un defibrillatore e il personale sanitario sia presente 24 ore su 24, saper riconoscere un arresto cardiaco ed effettuare correttamente le manovre è fondamentale per salvare vite umane. Per questo, insieme a Pavia nel Cuore, abbiamo programmato anche un ciclo di corsi per gli Agenti di Polizia Penitenziaria". Venezia: ergastolano al call center, la città divisa su Occhipinti di Mitia Chiarin La Nuova Venezia, 30 agosto 2017 L’avvocato sul killer della Uno bianca: "Riabilitazione con il vaglio del Tribunale di sorveglianza". Cgil: "Il suo è un recupero ma capiamo i parenti delle vittime". "Se prevalesse la corretta conoscenza dei fatti e l’equilibrio dei commenti, i cittadini italiani potrebbero dormire sonni più tranquilli: la legge Gozzini non è fatta per proteggere i "lupi" e per metterli nelle condizioni di replicare i loro delitti, e la Magistratura di Sorveglianza, come è giusto che sia, decide se accordare o no i benefici da essa previsti caso per caso, con grande rigore e senso di responsabilità". Queste parole le ha scritte nel 2006 Marino Occhipinti per "Ristretti orizzonti", la rivista dei detenuti del carcere di Padova, parlando delle polemiche sui permessi per il serial killer Donato Bilancia. Ora nel mirino delle polemiche per il suo lavoro all’ospedale dell’Angelo di Mestre, in regime di semilibertà dal 2012, c’è proprio Occhipinti che da una quindicina d’anni lavora alla cooperativa Giotto. La Giotto ha vinto l’appalto per la gestione del Centro unico prenotazioni dell’ospedale ma la capofila dell’appalto è la "Cento orizzonti". Occhipinti, ex poliziotto condannato all’ergastolo per gli omicidi della banda della "Uno bianca" che seminò sangue e orrore tra Emilia e Marche, coordina un gruppo di lavoratori del call center telefonico. La maggior parte sono disabili. La vicenda è stata sollevata da una protesta ufficiale di Luigi Corò del comitato "Marco Polo" che ha criticato la scelta di far lavorare un detenuto in un posto "ambito da tantissimi giovani rispettosi delle leggi". E la vicenda, come sempre, divide. L’avvocato Andrea Franco prende posizione su Facebook: "Occhipinti ha svolto tale mansione in precedenza con ottimi risultati ed il suo percorso riabilitativo non può in alcun modo essere messo in discussione visto che ha ottenuto il vaglio del Tribunale di sorveglianza noto per la sua severità. Mi chiedo quale dovrebbe essere un lavoro adatto per chi sia stato condannato ma abbia requisiti e capacità per poter svolgere tali mansioni. Una notizia per il signor Luigi Corò: i lavori forzati non si usano più". In ospedale, dove ieri mattina Occhipinti non è stato visto, i più tacciono. L’Usl 3 Serenissima ha chiarito che dentro l’Ati che gestisce il Cup "il signor Occhipinti non ha ruolo di referente". Monica Zambon della Filcams Cgil interpreta lo stato d’animo dei colleghi di lavoro: "Con Occhipinti c’era stato un confronto sindacale per alcuni rimproveri a colleghi, poi chiariti subito, senza vertenze. Solo recentemente è emersa la sua storia personale. Ho parlato con i delegati del Cup: si parla di un loro collega, un uomo che ha in corso un percorso di riabilitazione, ma tutti sanno che ci sono di mezzo anche famiglie con profonde ferite ancora aperte. Non spetta a noi giudicare ma ai giudici". Giampaolo Lavezzo, storica voce del mondo delle coop sociali, avverte: "Le coop sociali di tipo B che gestiscono servizi pubblici devono avere il 30% di lavoratori svantaggiati e tra questi ci sono i condannati ammessi alle misure alternative alla detenzione. Pubblicarne i nomi vanifica lo sforzo collettivo, dato che i contributi sociali sono a carico dello Stato". Torino: protesta Osapp contro la mensa del carcere delle Vallette torinotoday.it, 30 agosto 2017 Dopo la protesta di fine giugno 2017 focalizzata sul carcere di Ivrea torna a farsi sentire l’Osapp, sindacato di polizia penitenziaria, riguardo le pietanze servite nel penitenziario di Torino. Il segretario provinciale Giuseppe Setaro ha scritto due lettere al direttore Domenico Minervini in cui lamenta varie carenze nei pasti che gli agenti sono chiamati a consumare quotidianamente e chiede un riscontro urgente affinché il problema si risolto. Tra i problemi segnalati spiccano un’anguria servita già marcia e anche le posate in plastica che sono ritenute di scarsa qualità, in quanto si spezzano troppo spesso. "Negli ultimi tempi - si legge in un passaggio - il menù viene evidentemente compilato senza le competenze nutrizionistiche adeguate visto che, in alcune giornate, riporta come antipasti "salumi" e come piatto "caldo" "salsiccia e wurstel " in spregio alla temperatura stagionale ed in barba alla dieta mediterranea tanto dibattuta ma così poco conosciuta... pare; la frutta sempre più spesso è di bassa qualità e in alcuni casi, chiaramente e senza ombra di dubbio, avariata tra cui l’anguria che era chiaramente in cattivo stato di conservazione. Se il marcio si vede in fotografia possiamo solo immaginare quali gradevoli odori e particolari sapori abbiano sentito i colleghi in mensa". Il sindacato, "viste le troppe lacune e mancanze della gestione della mensa", invita il direttore "a voler interessare la commissione d’ispezione per i necessari controlli ed in via precauzionale disporne la chiusura immediata con conseguente rilascio del buono pasto agli aventi diritto". Gli agenti informano inoltre "di aver già intrapreso l’iter delle autorizzazioni per una protesta ad oltranza davanti all’istituto per ottenere una gestione più degna della mensa per il personale, a cui, ad oggi, non solo non viene garantita una alimentazione sana e varia, ma viene umiliato vedendosi proporre cibo marcio". Ferrara: attori-detenuti in scena con "L’irresistibile ascesa degli Ubu" estense.com, 30 agosto 2017 Spettacolo in carcere sui lati oscuri del potere nell’ambito del Festival di Internazionale. Attori-detenuti in scena al carcere ferrarese per rappresentare "L’irresistibile ascesa degli Ubu". Questo il titolo dello spettacolo che verrà presentato venerdì 29 settembre, alle 20.30, presso la casa circondariale di Ferrara nell’ambito del festival di Internazionale che anche quest’anno torna a incontrare il carcere e il talento artistico ivi celato. La compagnia dei detenuti-attori del teatro dell’istituto penitenziario, per la regia di Horacio Czertok e Davide Della Chiara, porteranno sul palco la prima puntata dell’epopea di padre Ubu, un personaggio a cavallo tra il Macbeth di Shakespeare e l’Arturo Ui di Brecht. Il testo scritto da Alfred Jarry alla fine del diciannovesimo secolo è una metafora caustica che narra i lati oscuri del potere, le sue logiche perverse. Con il gusto irriverente di certa satira popolare a tinte grottesche Jarry dà la possibilità di guardare con ironia gli Ubu che ci circondano e un po’ quello che si annida dentro ognuno di noi. Per assistere allo spettacolo è obbligatorio prenotarsi perché i posti sono limitati e ai partecipanti verrà data comunicazione della condotta da tenere. I biglietti verranno venduti presso il botteghino del Teatro Nucleo in via Ricostruzione 40 a Pontelagoscuro. Il progetto rientra nel teatro della casa circondariale di Ferrara, fondato nel 2005 dal Teatro Nucleo, con il patrocinio del Comune di Ferrara - Asp, che ha proseguito con continuità fino alla presente stagione. Molti detenuti hanno partecipato ad una formazione nella quale il teatro compie una funzione educativa dove l’aspetto artistico è strettamente legato allo sviluppo di quelle che vengono denominate competenze sociali, necessarie per un riuscito reinserimento nella società. Senza tralasciare però l’aspetto forse più sorprendente, ovvero l’emergere di veri e propri talenti, capaci de dare al teatro tanto - o forse molto di più- di quanto hanno ricevuto. Teatro carcere. Arrivano gli Ubu: evasioni patafisiche, patascuola e varieté di A. B. giustizia.it, 30 agosto 2017 La patafisica è la scienza che studia le regole delle eccezioni, dimostra la coincidenza degli opposti e trova soluzioni immaginarie a problemi decisivi, come il calcolo della superficie di Dio. Questo secondo il suo inventore, Ubu padre, sovrano di magnifica stupidità e codardia, creato dallo scrittore e drammaturgo Alfred Jarry alla fine del XIX secolo per raccontare con toni grotteschi e corrosivi i lati oscuri del potere. Dalla patafisica "scienza" prende il nome la corrente artistica considerata antesignana del surrealismo e che dalla sua nascita non ha mai smesso di influenzare con nonsense e paradossi la creatività di scrittori, drammaturghi, comici e musicisti (vi si sono ispirati, fra i tanti, Satie e Capossela, Fo e Bergonzoni). Tuttora la patafisica vanta istituzioni improbabili, una gerarchia, un calendario perpetuo ed oggi anche una Patascuola. A fondarla è stato Paolo Billi - dal 1998 direttore artistico di laboratori presso l’istituto minorile della Pratello prima ed ora anche alla casa circondariale di Bologna - per formare chi vuole lavorare sulla drammaturgia in carcere perché, precisa; " non bastano né la volontà, né la pratica" e l’esigenza di formazione è sollecitata dall’aumento di richieste di giovani che vogliono fare teatro con i detenuti. I corsi si terranno da novembre 2017 a luglio 2018 presso il Teatro del Pratello, al n.°53 dell’ omonima via bolognese, e si articolano in tre moduli: propedeutica, fondamenti e tirocinio. La scuola non è riservata agli addetti ai lavori, ma aperta a studenti, insegnanti, educatori. Oltre alle materie artistiche, l’offerta formativa; comprende vittimologia, giustizia riparativa e approfondimenti vari sui temi del reato e della privazione della libertà. Si è scelto di chiamarla Patascuola, chiariscono gli organizzatori, perché affiancherà il progetto triennale "Le Patafisiche" avviato dal Coordinamento Teatro Carcere Emilia Romagna che vede tutte le realtà che vi aderiscono (sette istituti penitenziari per adulti e i servizi di giustizia minorile) impegnate ad arricchire di nuove gesta l’epopea Ubu e a reinterpretare; lo stile funambolico e farsesco di Jarry. Dopo "Punch Ubu e il Passator cortese" messo in scena a Parma dalla Compagnia dei Ritiranti, e dopo Mere Ubu varieté realizzato dalla compagnia della Pratello al femminile della Dozza, appuntamento nel cortile dei Servizi di Giustizia minorile il 31 agosto e il 1 settembre con Evasioni patafisiche, installazione con repliche ogni 30 minuti dalle ore 21, interpretata da adulti e minori in esecuzione penale esterna per la regia di Paolo Billi. A seguire, il 29 settembre, nell’ambito del Festival internazionale a Ferrara, "Irresistibile ascesa degli Ubu" (produzione Teatro Nucleo) mentre a gennaio alla Dozza arriva "Mere Ubu, impresaria di teatro in carcere", in cui Billi, per onestà intellettuale - visto che gli Ubu ci circondano ma sono anche un po’dentro di noi - prende in giro il suo stesso teatro e il voyeurismo del pubblico di teatro carcere. Nel 2016, solo negli istituti penitenziari per adulti, sono stati attivati 233 laboratori teatrali che hanno coinvolto 4120 detenuti uomini e 409 donne (Dati Dipartimento amministrazione penitenziaria). Premio "Edipo Re" 2017 a StopOpg: dedicato al tema dell’inclusione stopopg.it, 30 agosto 2017 La consegna a Venezia il 4 settembre sulla storica barca di Pasolini. Il Premio "Edipo Re", dedicato al tema dell’inclusione in ogni settore dell’espressività umana, delle arti, mestieri e scienze, è organizzato da "Impresa a Rete" in collaborazione con l’Università degli Studi di Padova. Quest’anno coloro che, attraverso le loro opere ispirate alla libertà, all’universalismo e all’inclusione dell’umanità di tutti, riceveranno il premio Edipo re sono: Dacia Maraini, Bernardo Bertolucci, Vasco Rossi, Massimo Bottura, Pippo Delbono, Valentina Pedicini, Pia Covre e Carla Corso, Emilio Isgrò, Carlo Messina, Angelo Vescovi, Gregoire Ahongbonon, Fondazione con il Sud e Rete Stop OPG. "Nel nome del popolo italiano", quattro docu-film per quattro "eroi borghesi" di Silvana Mazzocchi La Repubblica, 30 agosto 2017 In onda su RaiUno dal 4 al 7 settembre le storie di Vittorio Occorsio, Piersanti Mattarella, Marco Biagi e Natale De Grazia. Dirette da quattro registi diversi, tra racconto e giornalismo. Quattro storie, quattro "eroi borghesi" per raccontare l’Italia attraverso decenni diversi. Quattro docufilm che, con il comune titolo "Nel nome del popolo italiano" andranno in onda su Rai Uno in seconda serata dal 4 al 7 settembre, dedicati a quattro uomini dello Stato e diretti da registi diversi: Gianfranco Pannone per Vittorio Occorsio, Maurizio Sciarra per Piersanti Mattarella, Gianfranco Giagni per Marco Biagi e Wilma Labate per Natale De Grazia. Quattro uomini che hanno pagato con la vita il loro impegno e sacrificio in difesa dell’integrità e della democrazia, messi in scena con una struttura innovativa in cui la narrazione cinematografica s’intreccia con le testimonianze e con i materiali d’archivio; con le memorie private e con le suggestioni d’epoca. Trattano tematiche importanti per il nostro Paese i docufilm: La Giustizia, La Mafia, Il Lavoro e L’Ambiente e sullo sfondo c’è l’Italia, dagli anni Settanta all’inizio del nuovo millennio, un Paese ferito dal terrorismo, dalla mafia e dalla criminalità organizzata, ma anche ricco di idee, energie, coraggio. A fare da filo conduttore delle storie, tutte declinate tra giornalismo e racconto, sono quattro attori che non interpretano il personaggio e che svolgono invece la funzione del narratore: Gianmarco Tognazzi (Vittorio Occorsio), Dario Aita (Piersanti Mattarella), Massimo Poggio (Marco Biagi) e Lorenzo Richelmy (Natale De Grazia). I docufilm sono prodotti da Anele con Rai Cinema e Rai Com. Il progetto realizzato per "non dimenticare" è rivolto soprattutto ai giovani: per permettere anche a loro, sottolinea la produttrice Gloria Giorgianni "di orientarsi e comprendere meglio quanto accade nel presente". Gianfranco Giagni ha diretto il docufilm su Marco Biagi, ucciso dalle Brigate rosse il 19 marzo 2002, in onda il 6 settembre possimo. Trattare in modo insolito un tema cruciale e sempre più attuale come quello del Lavoro, è stata la sua sfida. Giagni, che cosa hanno in comune le quattro storie di "Nel nome del popolo italiano" dal punto di vista narrativo? "L’idea è quella di parlare di grandi temi come la Mafia, la Giustizia ed il neofascismo, l’Ambiente e, nel mio caso, il Lavoro in modo diverso dal solito. In ognuno dei quattro documentari un attore porta per mano lo spettatore alla scoperta delle personalità che si sono volute raccontate, ognuno, naturalmente, con la propria sensibilità. A farci conoscere i protagonisti di queste storie tragiche sono soprattutto i figli ed i nipoti che raccontano qual è stato il loro rapporto con il proprio nonno o il proprio padre. Lo spettatore in questo modo avrà una visione privata spesso sorprendente di questi uomini il cui ruolo pubblico, comunque, viene anche raccontato da altri testimoni. Io ho fatto una scelta un po’ diversa, ho preferito raccontare il Marco Biagi privato attraverso filmati familiari che mi ha concesso sua moglie Marina, ho lasciato che fossero quelle immagini sbiadite in super8 a parlare. Inoltre per me, parlando di un tema delicato e difficile come quello del Lavoro, è stato fondamentale trovare l’attore giusto. Per questo Massimo Poggio che, prima di essere attore è stato operaio metalmeccanico, mi è sembrato il mediatore ideale. Lui sapeva cosa vuol dire lavorare in fabbrica e come si sono modificate negli anni le tematiche del lavoro che affrontava Biagi". Chi era Marco Biagi? Chi era l’uomo che, nel campo del Lavoro, ha saputo quasi prevedere il futuro? E chi era il Biagi privato? "Le testimonianze che abbiamo raccolto raccontano di una figura molto complessa, dalle molte sfaccettature, capace di mettere insieme la praticità anglosassone con quella emiliana ma anche di un’attenzione al sociale che non sempre gli è stata riconosciuta, anche dopo la sua morte, non soltanto dai suoi avversari politici, e che derivava dalla sua formazione cattolico-socialista. Biagi aveva capito con vent’anni di anticipo lo stravolgimento del mercato del lavoro nel quale ci troviamo, aveva previsto quel precariato del tutto nuovo di oggi, quali sarebbero state le difficoltà dei giovani nel trovare un lavoro qualificato, la rivoluzione industriale dovuta all’avvento dei robot in sostituzione dei lavoratori, la necessità di una continua formazione. Da uomo pratico, cercava delle soluzioni concrete, magari azzardate, secondo me anche discutibili, che riteneva indispensabili per modificare il mercato del lavoro. Biagi non era una primadonna e quelle pochissime immagini pubbliche che abbiamo di lui lo fanno apparire come un uomo molto più duro, arcigno di quanto ci è stato raccontato. La sua dimensione umana si rivela nei filmini familiari: un uomo allegro, vitale, pieno di amici che, in una frase straziante, dice con orgoglio guardando l’obiettivo che lo inquadra: "Ho 35 anni, una bella famiglia, una cattedra universitaria, un grande futuro davanti". Un futuro che non arriverà mai". Con quale linguaggio ha scelto di raccontare Marco Biagi ai giovani? "Di Marco Biagi sapevo poco. Sapevo che era un giuslavorista e, naturalmente, che era stato assassinato dalle Br. Un uomo indifeso, a cui lo Stato aveva tolto la scorta, ucciso sottocasa mentre tornava a casa dal lavoro: niente di più. Probabilmente i giovani ignorano chi sia Biagi, e spero che il mio documentario possa incuriosire qualcuno di loro, dopo tutto parliamo di lavoro precario, di call center, di nuovi tipologie di lavoro, ma ho girato senza pensare ad un pubblico particolare. Con la telecamera ho pedinato un attore che vuole ricostruire la figura di Marco Biagi, arriva in treno alla Stazione di Bologna, affitta una bicicletta con la quale si muove nei luoghi che il professore frequentava, incontra persone, raccoglie testimonianze, anche contraddittorie, tra gli studenti di oggi e i suoi ex studenti, politici, sindacalisti, amici cercando di mettere insieme i tasselli necessari. Potrei dire che un altro protagonista del documentario è la bicicletta. Non soltanto perché Biagi è stato assassinato dalle Br mentre tornava a casa in bicicletta e ogni anno nell’anniversario della sua morte un corteo di biciclette attraversa il centro della città, ma anche perché la bicicletta è uno dei simboli di Bologna. Così come un’altra bicicletta è rimasta nella memoria di molti: quella appoggiata sotto i portici di Via Valdonica dal suo proprietario, colpito a morte il 19 Marzo 2002". Reddito di inclusione. Dobbiamo "depoliticizzare" la lotta contro la povertà di Dario Di Vico Corriere della Sera, 30 agosto 2017 Con un annuncio rilanciato ieri - e ripetuto forse per la decima volta -il governo ha fatto sapere che c’è finalmente "il via libera definitivo" all’istituzione del reddito di inclusione, la prima misura contro la povertà mai decisa in Italia. L’effetto-eco è dovuto in gran parte all’estrema farraginosità del processo decisionale che obbliga i provvedimenti a usare quella che viene chiamata "la navetta", un lungo andirivieni dei testi legislativi tra palazzo Chigi e i ministeri competenti prima di arrivare a concedere semaforo verde. Ma non è questa la sede per una riflessione sulla esasperante lentezza della nostra democrazia quanto sul rapporto tra povertà, politica e società. Premesso che lo stanziamento previsto per il Rei (1,8 miliardi) è largamente insufficiente e va preso unicamente come una sorta di acconto, è giusto però sottolineare come la lotta alla povertà non sia da demandare in toto alla politica. In Italia spesso nel pur ricco dibattito sulle disuguaglianze avanza qua e là una tendenza strumentale, usare il disagio sociale come occasione di posizionamento politico, molte volte "contro" qualcuno più che "per" una determinata misura o strategia di sicura efficacia. Per spezzare questo circolo vizioso, che alimenta solo le piccole e grandi risse di cui abbonda la lotta politica made in Italy, è giusto chiamare alla mobilitazione contro la povertà tutta la società, in prima persona come si usa dire. E allora quale migliore occasione abbiamo della prima Giornata mondiale dei Poveri indetta da Papa Francesco per il prossimo 19 novembre? Perché non utilizzare quest’appuntamento di grande impatto simbolico per unire credenti e non credenti nell’azione di promozione sociale e di lotta all’esclusione? "Tendere la mano ai poveri, ai deboli, a coloro ai quale viene troppo spesso calpestata la dignità", recita il messaggio del Pontefice. Tradotto nel lessico dei laici potremmo dire che quella giornata può essere spesa nel segno della solidarietà con i forgotten men, gli invisibili che popolano la società e le nostre città. Ma attenzione, se volessimo davvero dar seguito a un’idea di incontro vero e non retorico, bisognerebbe anche operare una discontinuità con il nostro modo tradizionale ed élitario di intendere la solidarietà. Per dirla nuda e cruda non si tratta di fare del 19 novembre una giornata di dibattiti più o meno eruditi e di interminabili tavole rotonde condotte magari sul filo di raffinate citazioni di Anthony Atkinsons o Angus Deaton. Dovremmo invece costruire una giornata di "esperienze" ovvero di immedesimazioni e di contatto con il reale (e non con l’idea del reale che ci siamo costruiti). In questo modo potremmo cogliere un doppio risultato, da una parte contribuire a depoliticizzare la lotta contro la povertà riconducendola alle sue vere esigenze e dall’altra rendere protagoniste della necessaria ricucitura tra società e periferie le persone in carne e ossa Informazione. Crisi dimenticate e razzismo mediatico di Vincenzo Vita Il Manifesto, 30 agosto 2017 La sociologia dei media, a cominciare dal frequentatissimo manuale "Teorie della comunicazione di massa" di Mauro Wolf (1985), cita la vecchia "legge di McLurg", dal nome di colui che inventò lo schema delle classificazioni dominanti: un europeo equivale a 28 cinesi, 2 minatori gallesi a 100 pakistani. Può darsi che l’annotazione sia stata scritta con English humour, ma purtroppo ci racconta la verità, e in difetto. Ad esempio, senza ovviamente volere sottovalutare l’uragano del Texas e le sue vittime, il tempo dedicato dai media occidentali a Houston è di gran lunga superiore a quello concesso alle 2000 persone morte per il colera in Yemen o ai 1000 deceduti per frane e inondazioni in Sierra Leone, o al valore assegnato ai disastri del conflitto rimosso dell’Afghanistan, o all’aggiornamento sulla Siria. Per saperne qualcosa è indispensabile guardare la rete televisiva araba "all-news" Al Jazeera, che - non per caso - corre il rischio di essere chiusa. Gli esempi potrebbero essere numerosi. Si tratta, infatti, di una sorta di regola generale che ha oggi, dopo la fine dell’alibi del "muro" e dell’equilibrio del terrore, un sapore di vero e proprio "razzismo mediatico". Non è in causa il racconto del terremoto di Ischia o dell’anniversario della tragedia di un anno fa. Se mai, si nota una tendenza all’omologazione, con un peso soverchiante delle voci ufficiali. O con l’attenzione persino morbosa alle vicende umane più coinvolgenti, utilizzate per trattare gli eventi come una fiction, e non occasione di approfondimento non elusivo su cause e responsabilità dei crolli. Sbilanciamento e omissioni segnano l’approccio mainstream alle crisi internazionali, piene di figli di dei minori. Il 10mo Rapporto (2014) sulle "Crisi umanitarie dimenticate dai media", curato da Medici senza frontiere e dall’Osservatorio di Pavia sui media è eloquente. Si dice che "diventa marginale lo spazio dedicato ad alcuni tipi di crisi umanitarie, quelle che non sembrano soddisfare i cosiddetti requisiti di notiziabilità". Alla parabola discendente della visibilità si uniscono altri fenomeni: la polarizzazione sulla base della vicinanza geografica o geopolitica, l’illuminazione privilegiata del fenomeno terroristico (media event e non motivo di un’informazione analitica "di tenuta"), la prevalenza degli "effetti" a scapito dei problemi di fondo, la gerarchia spietata nel rango di importanza. Articolo21 e la "Carta di Roma", associazioni impegnate nell’illuminazione delle periferie del mondo, danno un contributo alla conoscenza preziosissimo. Padre Alex Zanotelli ha lanciato un forte appello sull’Africa, rilanciato da Possibile in una conferenza stampa alla camera dei deputati. Ed è augurabile che il prossimo contratto di servizio tra lo Stato e la Rai se ne occupi, dando un indirizzo sprovincializzante al servizio pubblico, che si affida ora prevalentemente a Rai news. Ma il capitolo che la "terza guerra mondiale diffusa" di cui parla Papa Francesco e la stringente attualità dei migranti hanno aperto tocca ormai un nodo di fondo. Ciò che lo studioso nordamericano David Altheide chiama la "paura della paura". Oltre allo squilibrio informativo, infatti, è in atto una strategia tesa a creare un ben preciso clima di opinione. In cui la paura dei "diversi", l’enfasi sull’immanenza delle tragedie legittimano violenza e xenofobia. È il terreno adatto per la crescita smisurata della cultura di destra, che in genere precede il suo apparire sotto le dirette sembianze della politica. Migranti. La giusta mediazione sulle politiche umanitarie di Paolo Franchi Corriere della Sera, 30 agosto 2017 Il cambiamento di linea non sarebbe stato immaginabile se non ci fosse stato un mutamento politico e culturale ancora più profondo nel Paese e nel Pd. Qualche settimana fa, in un consesso amicale di signore e signori che generalmente si arrabbiano al solo sentir nominare Silvio Berlusconi, qualcuno ha chiesto a chi scrive una previsione sul dopo elezioni: davvero siamo condannati all’ingovernabilità? Beh, ho buttato là un po’ sul serio e molto sul faceto, non è detto. Magari, numeri permettendo, si potrebbe anche arrivare a un governo guidato da Marco Minniti, e sorretto dal Pd e dal centrodestra. La risposta è stata un coro di "magari", "fosse vero", "speriamo". Sorprendente? Non troppo. Questo modesto episodio mi è tornato alla mente leggendo l’editoriale di Paolo Mieli ("I migranti e la svolta ignorata") sul Corriere del 24 agosto. Sì, ha perfettamente ragione Mieli, sugli sbarchi, e non solo, una svolta Minniti la ha impressa davvero, contribuendo in misura determinante all’accordo raggiunto lunedì a Parigi con Germania, Francia e Spagna, di cui Franco Venturini (Corriere, 29 agosto) ha evidenziato gli aspetti positivi e le zone d’ombra. Ma, per restare all’Italia, un simile radicale cambiamento di linea non sarebbe stato neanche immaginabile se contemporaneamente non ci fosse stato un mutamento politico e culturale ancora più profondo nel Paese e in primo luogo, visto che il centrodestra (non solo Matteo Salvini) si è sempre espresso per politiche restrittive, e i Cinque Stelle non sono da meno, nel Pd. Addio rivendicazioni orgogliose e un po’ retoriche, in faccia all’Europa, delle nostra politica e della nostra (presunta) indole umanitaria, addio apologie dell’accoglienza, addio italiani brava gente. Tutte queste, ha compendiato bene Il Foglio, convinto sostenitore della nuova linea del Pd, sono espressioni di un "estremismo umanitario" che bisogna lasciarsi subito alle spalle: la vera dialettica è tra chi vuole e chi non vuole governare l’immigrazione, tra chi si adopera per disincentivare le partenze e le anime belle che, di fatto, le incentiverebbero. Magari avanzando qualche interrogativo di troppo sul trattamento che attende i migranti fermati dalla Guardia costiera libica nei campi di accoglienza (o di detenzione, o peggio ancora) approntati all’uopo e qualche dubbio sulle possibilità di garantire in loco il rispetto dei diritti umani. O criticando il trattamento riservato a Roma ai rifugiati eritrei accampati in piazza Indipendenza, come se non rientrasse nell’ordine delle cose sgomberare uomini, donne, vecchi, bambini già sgomberati, piuttosto che individuare degli spazi in cui accoglierli. O chiedendosi come abbia fatto la prefetta di Roma a definire tutto questo "un’operazione di cleaning". Ha scritto su Minima et Moralia Christian Raimo che una Roma "in cui alle sei di mattina i poliziotti fanno le cariche e buttano gli idranti contro i rifugiati, comprese donne incinte e bambini" non è più la sua città. Messa così, suona un po’ forte. Ma questa Roma è anche la nostra Roma, questa Italia incapace di provarsi a tenere insieme l’esigenza, ineludibile, di sicurezza e la domanda, purtroppo molto più facilmente archiviabile, di rispetto dei diritti e di solidarietà (si tratti dei migranti, o più semplicemente dei poveri) è anche la nostra Italia. È qui che non bisogna mollare. Sarebbe ingiusto mettere in conto al ministro degli Interni gli entusiasmi pelosi che la sua svolta ha suscitato tra chi pensa (è un eufemismo) che il pugno di ferro sia il modo migliore per venire a capo di una tragedia epocale. Ma sarebbe sbagliato anche non fermarsi a riflettere su ciò che ha sostenuto sull’Espresso, a proposito del casus belli delle Ong, il filosofo Roberto Esposito: "Nessuno Stato reggerebbe senza un sistema giuridico destinato a distinguere i comportamenti legittimi da quelli illegittimi, e sanzionare questi ultimi anche con la forza. Ma … questa legge, difesa e imposta anche con la forza, non coincide con qualcosa di più alto, cui gli uomini hanno dato il nome di Giustizia". Il cammino umano (da giovani avremmo detto: il progresso) muove, provando e riprovando, avanzando e arretrando, senza negare l’una, senza rimuovere l’altra, nei loro interstizi; e si blocca quando ci si illude che esistano soluzioni "tecniche" in grado da sole di far fronte al riverberarsi delle tragedie dell’umanità sulla nostra vita quotidiana. La politica democratica ha un senso se è capace di decidere, certo, ma anche di mediare (non è una parolaccia) e di cercare risposte (sempre, di necessità, provvisorie) avventurandosi, con tutti i rischi del caso, proprio in questi interstizi. Non ne ha se pensa di cavarsela facendosi megafono della domanda d’ordine purchessia che inevitabilmente sale dalla (cosiddetta) società civile, purtroppo non solo dalle sue componenti culturalmente più sprovvedute, nel timore che siano altri a cavalcarla. Se avessimo ragionato così una quarantina di anni fa, quando Giorgio Almirante la reclamava a gran voce, e la maggioranza degli italiani gli dava ragione, oggi ci sarebbe in Italia la pena di morte. Per (nostra) fortuna e (suo) merito la politica di allora si guardò bene dal farlo. Vorremmo sperare che tra quarant’anni figli e nipoti potranno dire la stessa cosa. Ma è lecito dubitare che il ministro degli Interni abbia ragione quando rivela a Eugenio Scalfari che secondo lui la paura può e deve diventare un elemento positivo, trasformandosi in energia. Forse sarà retorico, certo è minoritario, ma continuiamo a sentire più vicino il "No tinc por", io non ho paura, con cui Barcellona risponde al terrorismo. Migranti. "Dobbiamo riformare Dublino perché gli sbarchi non finiranno" di Carlo Lania Il Manifesto, 30 agosto 2017 Intervista al viceministro degli Esteri Giro: "Unhcr e Oim nei campi profughi in Niger". "Il vertice di Parigi ha avuto almeno tre risultati positivi", dice il viceministro degli Esteri Mario Giro. "Il primo è la fine della rivalità franco italiana, non voluta dall’Italia, sulla Libia. Questo perché la presenza a Parigi di Serraj riconosciuto come il premier del governo con cui bisogna negoziare, naturalmente insieme a tutte le altre parti, rafforza il processo Onu. Il secondo è l’inizio della fine del trattato di Dublino. Dopo l’Italia, che lo chiede da tempo, o la Germania, che lo chiede da un po’ meno tempo, ora anche la Francia ha ammesso che bisogna cambiarlo. Il terzo è il coinvolgimento dei Paesi africani. Non dobbiamo limitarci a guardare alla crisi soltanto con l’ossessione migratoria, quindi da nord, ma vedere anche cosa significano questi spostamenti di popolazioni e questi traffici per i Paesi del sud. E per loro sono una questione di sopravvivenza perché i traffici minano le basi stesse della loro esistenza. Se crollano avremo una seconda, una terza Libia e non ne abbiamo bisogno". A Parigi i leader europei hanno dimostrato di apprezzare la politica adottata dall’Italia con la Libia. Di fatto però stiamo bloccando i migranti in Africa. Bisogna distinguere tra Africa e Libia, perché un conto è provare a trattenerli in Africa con programmi di investimento come quelli che gli italiani hanno proposto e con l’aiuto pubblico allo sviluppo. Altro discorso è trattenerli in Libia dove io stesso mi sono permesso di ricordare che i centri di detenzione sono un inferno. Dobbiamo aiutare i libici a ricomporsi come Stato, ma dobbiamo anche aiutarli a diventare uno Stato più democratico. Noi insistiamo perché sia permesso a Unhcr e Oim di entrare immediatamente nei centri di detenzione e prenderne i controllo trasformandoli in campi dove sia possibile fare richiesta di protezione umanitaria. I campi di accoglienza di cui parla però non esistono ancora e i migranti fermati dalla Guardia costiera libica continuano a essere richiusi nei centri di detenzione. In Niger già ci sono campi profughi e l’Europa si prepara ad aprirne altri anche in Ciad. Che garanzie ci sono che non finisca come in Libia? In Ciad non credo che ce ne sarà bisogno, il flusso è ancora piccolo. Per il resto operiamo proprio perché non finiscano come i centri libici. Vorremmo tutti i programmi di rimpatrio assistito, come l’Oim sta facendo già da tempo. Bisogna però che siano accompagnati da una vera politica di sviluppo. A Ferragosto il ministro Minniti si è detto assillato dal pensiero che i migranti vengono riportati in Libia. È giusto. Era quello che dicevo io a inizio agosto. Condivido questo assillo, al punto che stiamo lavorando perché l’Unhcr e l’Oim abbiano presto la capacità di avere libero accesso a queste persone. Sia la cancelliera Merkel che il residente Macron concordano sulla necessità di riformare Dublino. Però finora tutte le proposte all’esame continuano a penalizzare i paesi di primo arrivo come Italia e Grecia. Non c’è il rischio che alla fine non si faccia niente? Non possiamo evitare di immaginare un sistema di richiesta di asilo o di protezione umanitaria in Europa. Però il negoziato non è ancora iniziato, quindi non diamo la cosa già per morta. È un lavoro complicato, sappiamo che molti Paesi non vorrebbero toccare il testo, ma già affermare il principio che invece si può toccare è un primo passo. Il rischio di cui lei parla purtroppo c’è, ma noi dobbiamo negoziare bene. È possibile che le modifiche alla fine riguardino solo la possibilità di esaminare le richieste di asilo in Africa invece che in Europa? Anche, ma non solo, perché tanta gente continuerà ad arrivare in Europa, ad esempio via terra. Non dobbiamo credere che dalla parte Est dell’Europa e dallo stesso corridoio balcanico in questo momento non arrivi nessuno. Arrivano molte meno persone di quante ne approdano nel Mediterraneo centrale, ma adesso con la diminuzione degli arrivi vedrete che i numeri equivarranno. C’è sempre un flusso. L’Europa però continua a dimostrare non non volere i migranti La prova è che a settembre finisce i programma di ricollocamenti dalla Grecia e dall’Italia e il risultato è un fallimento a causa dell’ostruzionismo di molti Paesi. Il programma di ricollocamento è stato un fallimento ed è il motivo per cui bisogna rivedere Dublino. Per il resto l’Europa sta uscendo dalla crisi e presto avrà bisogno di nuove forze. Servono canali legali, quote, decreto flussi. Droghe. Canapa e Cassazione. Ora la grazia? di Fabio Valcanover Il Manifesto, 30 agosto 2017 La discussione relativa alla legalizzazione della cannabis è stata sostanzialmente accantonata in Parlamento, molte regioni e province autonome si attardano a riconoscere la mutuabilità della somministrazione di preparati a base di cannabis terapeutica e quelle che la riconoscono la limitano ad un catalogo molto ristretto di indicazioni terapeutiche, intanto c’è chi si appella direttamente al Presidente della Repubblica per vedere rispettati i propri diritti. Questo è il caso di un uomo sessantenne di Trento, condannato a cinque mesi e dieci giorni di reclusione per aver coltivato tre piante di canapa. La sua storia, personale e giudiziaria, è presto detta. L’uomo, con una superata storia di tossicodipendenza alle spalle, affetto da più patologie (tra cui: sieropositività, diabete mellito insulino, epatite cronica da HCV evoluta in cirrosi epatica con ipertensione portale e varici esofagee) che lo costringono ad assumere un cocktail di farmaci salvavita dei quali non riesce a tollerare gli effetti collaterali, nel 2013 scopriva i benefici della cannabis. A fronte dell’attivazione del Progetto Pilota indetto con Decreto del Ministero della Salute del 9.11.2015, solo il 31 maggio 2016 la Giunta Provinciale della Provincia Autonoma di Trento adottava la deliberazione n. 937 per regolare l’erogazione a carico del Servizio Sanitario Provinciale di preparazioni galeniche magistrali a base di cannabis. All’uomo, visitato dal dott. Scaioli dell’Istituto Besta di Milano ed anche dal dott. Raggi, dirigente medico della struttura provinciale, è stato prescritto un preparato a base di cannabis, il Bediol. In precedenza, in assenza di una normativa che assicurasse l’accesso gratuito al preparato, per potersi curare con le proprietà della cannabis l’uomo decideva di coltivare alcune piante per soddisfare il proprio fabbisogno: la pensione non gli permetteva di affrontare le spese per acquistare regolarmente la sostanza. In questo contesto, l’uomo veniva imputato per la violazione delle norme del Testo Unico sugli Stupefacenti, a causa della coltivazione di poche piante di canapa. In prima istanza, il Gup del Tribunale di Trento assolveva l’uomo "perché il fatto non costituisce reato" osservando come "…le piante sono solo tre; e come si è visto gli effetti della loro assunzione avevano natura e finalità terapeutica, e non stupefacente in senso proprio", disattendendo le conclusioni del Pubblico Ministero che riteneva come nella condotta non si fosse realizzata "alcuna esimente (…); neppure quella dello stato di necessità, dato che l’imputato poteva procurarsi la ‘erbà sul mercato, senza necessità di produrla egli stesso". La sentenza veniva quindi appellata dal pm che non condivideva l’esito assolutorio poiché "… pare del tutto incomprensibile, quantomeno al pm appellante, l’indicazione per cui gli effetti dell’assunzione delle tre piante avevano ‘natura e finalità terapeutica, e non stupefacente in senso proprio". La Corte di Appello di Trento riformava la sentenza di primo grado condannando l’uomo per la coltivazione. La Corte di Cassazione metteva fine all’iter giudiziario, rigettando il ricorso dell’interessato nell’udienza del 28 aprile scorso. Intanto l’uomo, che dovrebbe curarsi con la cannabis per l’inefficacia delle terapie convenzionali, affronta nuove difficoltà: reperire il Bediol prescritto dai medici è assai difficile per assenza di scorte come è già stato denunciato anche in questa rubrica pubblicata il 5 luglio. Per trovare una risposta equa rispetto a una palese ingiustizia verso una persona con bisogni di salute, l’uomo si è rivolto al Presidente della Repubblica per chiedere la grazia, con istanza inviata il 7 luglio 2017 al Quirinale. Stati Uniti. Record negativo di esecuzioni, quando gli avvocati ti salvano la vita di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 30 agosto 2017 Dalle 300 uccisioni del 1990 alle trenta dello scorso anno. Decisiva la scelta di Stati come la Virginia che hanno istituito dei bureau legali per garantire una difesa di qualità. Fino alla prima metà negli anni 2000 la contea di Wake, North Carolina, era soprannominata "la patria del castigo" per via dell’elevatissimo numero di imputati rinchiusi nel braccio della morte. Poi qualcosa è cambiato, drasticamente. Nell’ultimo decennio le procure di Wake hanno chiesto per otto volte la pena capitale e per otto volte una giuria popolare ha rifiutato di confermare la sentenza. Una prassi consolidata (l’ultima esecuzione risale al 2007), che ormai sta scoraggiando anche i giudici più vendicativi: "A un certo punto bisogna fermarsi e riflettere: credo che la nostra comunità ci stia mandando da tempo un messaggio molto chiaro", ha ammesso il procuratore Lorrin Freeman. Quel che accade in North Carolina mette a fuoco una tendenza che appare ineluttabile in tutto il territorio americano: lo scorso anno con "appena" trenta esecuzioni (in 27 contee) si è infatti registrato il record negativo di omicidi di Stato da quando, nel 1973, la pena di morte fu reintrodotta negli Usa. Il picco assoluto di esecuzioni è avvenuto tra il 1990 e il 1995 con oltre 300 detenuti uccisi dal boia in oltre 200 contee. Sono solo 19 su 55 gli Stati che hanno abolito la pena capitale, ma ormai è sempre più raro leggere sui giornali di detenuti stroncati dall’iniezione letale. Anche nel famigerato Texas (550 condanne in 40 anni) le giurie sono sempre più reticenti nel confermare le sentenze è più della metà dei condannati beneficia ormai della commutazione della pena nel carcere a vita. Da cosa è causato questo progressivo abbandono del castigo di Stato da parte delle corti d’oltreoceano? La significativa riduzione del tasso di omicidi negli ultimi 15 anni (con l’eccezione dell’area metropolitana di Chicago) spiega solo in parte la tendenza. L’elemento di svolta in realtà sta nelle risorse destinate alla difesa: gli Stati che dispongono di un proprio Bureau legale per rappresentare gli imputati di omicidio volontario registrano infatti un numero di esecuzioni fino a dieci volte inferiore rispetto agli Stati che nominano gli avvocati d’ufficio. Mezzi finanziari importanti, possibilità di fare ricorso a esperti e periti di qualità (in particolare nei casi di disturbi mentali o disabilità), professionisti motivati, insomma le garanzie di cui dovrebbe disporre ogni cittadino accusato dallo Stato, si rivelano così elementi decisivi in questa moratoria informale della pena di morte negli Stati Uniti. Specie per gli strati più poveri della popolazione, neri, ispanici e proletari hillibilly. In media un processo in cui la difesa è affidata a un legale d’ufficio dura tre giorni con le deposizioni dei soli testimoni dell’accusa e dei parenti delle vittime e con la certezza pressoché totale di una sentenza fatale. Di fatto la negazione radicale del diritto alla difesa. L’emblema di questa rivoluzione è la Virginia, dopo Texas e Oklahoma lo Stato storicamente più giustizialista dell’Unione; da quando nel 2006 è stato istituito un Centro regionale per destinare fondi alla difesa, la giostra della morte ha iniziato a girare molto, ma molto meno veloce. Tra i casi che hanno portato alla svolta c’è quello di Edward Bell, condannato negli anni 90 e poi giustiziato nel 2009: il suo avvocato non aveva provato a contattare nessun testimone, non aveva presentato alcun ricorso dichiarando candidamente ai media di non essersi preparato perché "tanto non sarebbe servito a nulla". Anche se la vita di Bell è terminata comunque con l’iniezione letale la sciatteria con cui è stato rappresentato in tribunale ha suscitato polemiche che hanno messo in causa tutto il sistema della difesa degli imputati per omicidio, spingendo le autorità a correre ai ripari. E la differenza si è vista subito. John "Jose" Rogers fu il primo imputato a poter usufruire dell’assistenza del Centro regionale: reo confesso di omicidio e condannato a morte nel 2006, il suo caso è stato seguito da cinque avvocati - investigatori di alto livello, alcuni specialisti in "mitigazione", una tecnica per umanizzare il loro cliente di fronte alla giuria. Scavando nel passato di Rogers si è venuto a sapere che per tutta l’infanzia era stato picchiato e torturato dal padre, un alcolizzato sadico più volte denunciato per episodi di violenza domestica nei confronti della moglie e dei due figli. Nel corso dell’udienza decisiva i legali presentano o 24 testimonianze (contro le sole cinque dei procuratori) tra cui quella toccante del fratello di Rogers che descrive alla giuria gli abusi subiti per anni da John "Rose", mentre il direttore del carcere in cui è rinchiuso ne parla come di un detenuto modello, mite e collaborativo. Alla fine a Rogers viene risparmiata la vita e la pena viene convertita in ergastolo. Come scrive il celebre avvocato e giurista Stephen Bright, professore di diritto a Yale e paladino dell’abolizionismo: "La pena di morte non è riservata a coloro che commettono i crimini più peggiori, ma a coloro che hanno la disgrazia di essere assegnati ai peggiori avvocati". Nel 2015, l’ultimo giudice della Corte Suprema l’ultraconservatore Antonin Scalia scriveva che sarebbe "antidemocratico" abolire dall’alto la pena capitale, perché è una decisione che spetta solo al popolo americano. Per citare le parole del procuratore di Wake Lorrin Freeman, il popolo americano da anni sta mandando un messaggio molto chiaro ai suoi governanti e ai suoi giudici. Stati Uniti. Trump contro Obama: di nuovo armi da guerra alle forze di polizia locali di Riccardo Noury Corriere della Sera, 30 agosto 2017 L’intenzione del presidente statunitense Trump, annunciata dell’Attorney general Jeff Session, di annullare un decreto del 2015 di Barack Obama che limitava le forniture di armi pesanti alle forze di polizia locali, rischia di dar luogo a una nuova fase di militarizzazione della gestione dell’ordine pubblico. Mesi dopo i tragici fatti di tre anni fa a Ferguson, Missouri, Obama aveva firmato un decreto per limitare la fornitura alle forze di polizia locali di veicoli blindati, lanciagranate, armi a grande calibro e altri armamenti pesanti. L’obiettivo doveva essere quello di evitare che ogni manifestazione si trasformasse in un campo di battaglia. L’annuncio dell’amministrazione Trump va esattamente nella direzione opposta e, nell’attuale periodo di tensioni sociali e politiche, rischia di alimentare ulteriori scontri e risposte estremamente dure da parte di forze di polizia armate fino ai denti. Forze di polizia che, come emerso da una ricerca effettuata da Amnesty International dopo i fatti di Ferguson, in nessuno dei 50 stati degli Usa rispettavano gli standard internazionali sull’uso legittimo della forza e l’uso delle armi da fuoco. Israele. Corte Suprema: no a detenzione illimitata per gli immigrati swissinfo.ch, 30 agosto 2017 La Corte Suprema israeliana ha stabilito che il governo può mandare i richiedenti asilo africani in nazioni dello stesso continente, ma non può detenere illimitatamente chi si rifiuta di andare in quei paesi: il tempo massimo sarà d’ora in poi di 2 mesi. La decisione ha sollevato l’opposizione del premier Benyamin Netanyahu che, insieme ad altri ministri, ha annunciato di voler promuovere una legge per aggirare la scelta della Corte Suprema. I giudici da un lato hanno accolto la tesi del governo che i paesi destinatari (Ruanda e Uganda, ma nella sentenza non sono mai nominati) dell’invio degli immigrati sudanesi ed eritrei sono "sicuri" e che lì il trattamento loro riservato è "soddisfacente", dall’altro hanno rigettato le norme attuali che chi rifiutava la destinazione era detenuto fino al cambio di idea nella prigione di Saharonim nel Negev.